Lost Road, Ferrara

Nelle campagne della Vallonia, in Belgio, vicino alle fattorie dove lavoravano i braccianti, intorno al 1700, i contadini dell'epoca preparavano la birra con ogni tipologia di cereale a disposizione in quei territori, non solo l'orzo, anche l'avena e la segale. Quella bevanda, caratterizzata da una modesta gradazione alcolica e da un gusto che non stancasse, doveva servire a dissetare i lavoratori agricoli nel caldo e nel sudore delle loro fatiche: l'acqua, a quel tempo, era meno salubre della birra che, post ebollizione, veniva depurata da batteri e microrganismi. La birra Saison, infatti, nasce in questo modo. Altrove, precisamente in Boemia, nella città di Plzen, in Repubblica Ceca, la birra Pilsener, abbreviata in Pilsner o anche semplicemente Pils, vedeva la propria origine ed il proprio peculiare sapore da un'acqua povera di sali minerali: non c'era alcuna lavorazione per ottenere l'effetto che tutti conosciamo, solo la terra le conferiva queste qualità. Birre chiare e birre scure: le seconde sono state, a dire il vero, in alcuni luoghi, le prime in ordine cronologico, in quanto ancora non si sapeva come cuocere l'orzo a temperature tali che non lo imbrunissero così tanto, consegnando, poi, il suo colore alla bevanda. Allo scendere delle temperature è corrisposto l'ingiallire della birra, le cosiddette bionde. Storie di terre e popoli, di culture? Ne eravate a conoscenza? Noi no, non così dettagliatamente almeno e la ragione per cui, ora, possiamo narrarle ha essenzialmente a che vedere con l'ignoto, le strade che si perdono, che si scelgono nel vuoto, al posto di quella battuta, in cui già ci si orienta perfettamente, portandosi dietro il dubbio, la paura, ma pure il coraggio e l'entusiasmo di quel che si può ancora inventare.

La nostra scoperta è partita da uno spazio difficilmente catalogabile, a Ferrara, in via del Mercato 6: l'osservazione scorge un bancone, dei dischi in vinile, molte lattine appese, un telefono ed una televisione vintage e diverse biciclette appese al soffitto. Si tratta, come aggiungerà Michele Massellani, di uno spazio unico, non di un birrificio, ma di un birraio itinerante, che ha studiato, progettato e costruito autonomamente ogni singolo dettaglio dell'arredamento di quei locali, fino ai tavolini dove ci si siede, appoggiando un boccale di birra, in attesa del primo sorso. "Lost Road" è il nome di questa struttura, anche se, per tutto ciò che c'è dietro quelle due parole in inglese, potrebbe essere il titolo dato a una storia, quella di Michele, in primis, quella di chiunque voglia ispirarvisi, in secundis. Fino a quattro anni fa, Michele Mascellani era lontano da qui. Aveva studiato economia all'università e, successivamente, era stato assunto in banca in qualità di consulente fiscale e normativo: giacca e cravatta, uno stipendio certo e un futuro già delineato. «Per dieci anni, quello era il mio mondo e, almeno all'inizio, credevo potesse esserlo per sempre. Ero un esecutore: mi veniva detto ciò che dovevo fare ed io agivo. Alla lunga, è diventato un peso. Dove avevo lasciato le mie idee? Dove era finita la mia creatività? Quell'incasellamento che, da una parte, era tranquillizzante, dall'altra era una gabbia che mi precludeva la realizzazione della parte più intima di me».

Da quel momento, la prima strada persa: Massellani trascorre vari giorni, vari mesi, in giro per l'Italia, frequentando corsi specializzati per diventare "birraio", al ritorno, in un piccolo impianto a casa prova a mettere in pratica tutte le nozioni apprese, qualche tempo e si licenzia. Perde tutto, raccoglie solamente la buonuscita che gli spetta per legge e, con quei fondi, inizia ad ideare quel locale che vi abbiamo descritto. «La prima reazione di chi si ha accanto, in questi frangenti, tira in ballo la follia di un cambiamento simile, senza alcuna certezza, senza alcun appoggio su cui cadere se non dovesse funzionare. I miei genitori, mia sorella, anche alcuni amici: "Hai studiato per questo, cosa ti salta in mente?". La volontà e l'idea sono difficili da capire per chi non sta vivendo quel che vivi tu, però, chi ti vuole bene può capire la motivazione, la spinta interiore che ti porta ad un salto nel vuoto di questo tipo. Chi ti vuole bene, alla fine, appoggia questa spinta». Qui il discorso si amplia ed esplora il termine cambiamento: spiega Massellani che, in fondo, tutti subiamo il fascino del cambiamento e tutti, almeno una volta, abbiamo pensato di stravolgere la nostra vita e ripartire da capo, in maniera differente. Poi, spesso, ci siamo fermati: «Normale, umano, direi. Gli esseri umani tendono a essere conservatori, anche se non stanno bene nelle loro scarpe. Lost Road è un invito a perdere la strada, ad accettare il rischio di perderla per ritrovarsi».

Sì, da quella "follia" la creatività ha continuato ad espandersi. Dapprima negli assaggi casuali in tutta la sua esperienza, che «permettono una memoria su cui fare affidamento per scegliere come strutturare la tua ricetta, dagli assaggi nella cucina della nonna, da bambini, noi riconosciamo le spezie, i profumi», all'osservazione della birra nel bicchiere, «quanto rimane la schiuma, se la sua grana è fine o pannosa», alle note olfattive, all'assaggio, «lì comprendiamo se ci sono sapori assonanti o dissonanti, coerenti rispetto al profumo», sino al lato tattile, «se lascia la bocca pulita, se restituisce pienezza, se è vellutata o acquosa», il tutto nell'introspezione di un momento di solitudine e silenzio in cui sono coinvolti tutti i cinque sensi: questa è l'arte di un birraio. Prendiamo in mano una lattina ed il suo design, all'improvviso, ci riporta al ciclismo, all'epoca di Coppi e Bartali, più avanti di Merckx, a tante imprese, al ricordo delle maglie storiche: saranno le due bande colorate e lo sfondo bianco, l'eco della maglia Bianchi, ad esempio. Le due bande cambiano colore a seconda della tipologia di birra, nello spazio bianco, invece, una scritta a raccontare come siano i lunghi giri in bicicletta a Ferrara, nella grande pianura e nei luoghi più sperduti, accanto allo scorrere del Po, alle sue acque, a ispirare birre «fresche, equilibrate e pericolosamente facili da bere». Il legame tra le birre di Lost Road e la bicicletta è stretto e ricco di sfaccettature: si nota non solo per la cargo bike di Michele Massellani, il mezzo che usa per le consegne, sempre parcheggiata davanti alla vetrina, vicino alla distesa di tavolini, non solo per la vecchia Cinelli appesa all'interno del locale, ma si definisce bene anche in relazione alla città, a Ferrara, che, da sempre, dedica una particolare cura alla ciclabilità e alle persone che pedalano, oppure in relazione a tutti i ciclisti che, di tanto in tanto, si fermano qui a bere una birra, mentre prendono fiato e leggono un giornale, una rivista. I giri in bici di cui parla l'etichetta sono quelli di Michele che, sin da ragazzino, ha conosciuto la città attraverso i pedali.

«La birra è una sorta di prolungamento, di continuazione di quel che si vive in un giro in bicicletta: un modo, insomma, per conservare quel che si è appena vissuto, parlandone con gli amici, davanti ad una bevanda dissetante e beverina, prima della doccia finale, al rientro a casa, magari. Una bevanda studiata appositamente per non stancare ed essere adatta a quella circostanza: non troppo corposa, non troppo alcolica, ma appagante, come un premio, una ricompensa». Michele Massellani riflette spesso sul fatto che, in Italia, non ci sia una vera e propria cultura della birra, maggiormente sviluppata, semmai, è quella legata al vino: questa mancanza, in realtà, si traduce in diversi aspetti che tutti possiamo osservare e che Massellani ben analizza: «Spesso parliamo di birra bionda o birra rossa, di "bevanda gialla più conosciuta al mondo”, parliamo di alcune caratteristiche, il fatto che sia dissetante o meno, conosciamo, forse, la zona d'origine, nemmeno sempre, ma non finisce lì. Ci sono enormi differenze tra le birre industriali e quelle artigianali, soprattutto una birra è sempre e in particolare modo legata da uno stile, ad un'interpretazione, alla cultura di un popolo, ai suoi costumi, alle sue usanze. A quel punto si apre davvero un mondo».

Accade molte volte: Michele Massellani racconta le proprie birre in eventi pubblici, con molte persone ad ascoltare, prova ad esaudire le loro curiosità. Ad esempio, rispetto alla prima birra da lui prodotta, elaborata sullo stile di quella bevuta a Colonia, in Germania, dopo vari assaggi da bevitore curioso. Al rientro a casa, ha iniziato a provare a ricostruirne il gusto, avvicinandosi sempre più, ad ogni modifica, fino al gusto che voleva sentire, quello giusto, perfetto, desiderato. Ma c'è di più, perché molte domande, molto interesse è proprio per la storia di Michele, per quella vecchia vita sicura abbandonata e per l'incertezza scelta per riprendersi la creatività e la possibilità di realizzare pienamente ogni sua capacità come persona: «Le persone vogliono sapere, si immedesimano e magari trovano il coraggio per intraprendere la loro strada del cambiamento, per avventurarsi su una via sconnessa che potrebbe accompagnarli a quel che davvero vogliono». Qualche volta Massellani si fa prendere dalla timidezza, si sente imbarazzato nel racconto, poi, pensa che è necessario, che a chi è venuto alla degustazione può servire e inizia a narrare, come ha fatto oggi, con noi. In questo spazio non definibile a priori, immerso nel fascino di quel che è necessario esplorare, nel profumo e nel sapore di una birra, nel vento e nella velocità di una bicicletta, per le strade di Ferrara.


L'oro e la maturità: ritratto di Eleonora La Bella

Fuori dalle finestre è già buio, è sera. Eleonora La Bella ha trascorso il mattino a scuola, frequenta il Liceo Classico, il pomeriggio in allenamento, in bicicletta, l'appuntamento era per le diciannove e quindici, giusto qualche minuto prima un messaggio: «Telefona quando vuoi». Scopriamo solo parlando che i suoi libri sono ancora tutti aperti, in camera: studierà dopo le venti, per le verifiche e le interrogazioni del giorno seguente. Le prime parole tornano al tennis, a Jannik Sinner, agli Australian Open, a ciò che ha detto: «Vorrei che tutti potessero avere i miei genitori. Mi hanno sempre lasciato scegliere quello che volevo. Anche quando ero più giovane, ho praticato altri sport. Non mi hanno mai messo pressione. Vorrei che questa libertà fosse possibile per il maggior numero di ragazzi». La Bella ha in mente le sue domeniche d'infanzia, quando vedeva suo padre inforcare la bicicletta, uscire dal cancello e tornare dopo tre, forse quattro, ore. Ci restava male. Papà fa il camionista di mestiere, un lavoro difficile, di fatica e rinunce, e la strada lo porta spesso lontano, a casa torna poche volte a settimana, Eleonora resta con la madre e con il fratello Lorenzo: «Ci sono i sacrifici di mio padre sul suo camion e quelli di mia madre a casa, è lei ad accompagnarmi ad ogni visita, ad aiutarmi a risolvere ogni problema. Io e mio fratello siamo cresciuti così, non ci è mai mancato nulla. Il nostro legame è fatto di una presenza costante, dei suoi messaggi quando sono via, della macchina in cui mi aspetta fuori dalla stazione, al ritorno dalle trasferte e delle volte in cui mi accompagna in palestra, delle sorprese che mi prepara. Ogni tanto mi sorprendo a pensare che mio fratello ci sarà sempre per me e mi sento tranquilla».
Suo fratello c'era anche quel giorno, nel parcheggio vicino a casa, dove un allenatore, amico del padre, aveva disposto i birilli per una gincana. Il primo ciclismo era così, con la porta di casa a pochi passi, dove fare ritorno quando si è stanchi. I treni sono arrivati dopo, da Tufano, la sua città, nel Lazio, zona Anagni verso il nord, sedersi su quel sedile all'alba e vedere le porte del treno riaprirsi a sera, in un'altra stazione.

«Qui da noi è tutto un poco diverso. Ricordo giornate a Piacenza, con il mio team manager, in BFT Burzoni Vo2 Team Pink, Stefano Solari e lui che mi spiegava "come si ragiona al nord", mentre ero intenta a ricercare ovunque quel calore che appartiene alla romanità e non lo vedevo, che mi trovassi in piena città o nella natura del Trentino Alto Adige, che pure mi piaceva, ma a cui mancava sempre qualcosa. Ho capito quest'anno cosa sia davvero il ciclismo: la lontananza dalla famiglia e lo "studio". Sì, ho studiato molto ciò che avevo attorno, a diciotto anni, ho compreso un poco di più com'è il mondo». Un anno importante, il primo da junior: dodicesima al Piccolo Trofeo Binda, decima sulla Montée Jalabert, una delle salite che ha preferito, dopo la Sgurgola, nel frusinate, per andare da nonna e il Col du Vam, all'Europeo, al Tour du Gevaudan, nona al Giro delle Fiandre, sesta al Giro della Lunigiana, seconda sia al Campionato Italiano su strada, «ma quella vittoria la meritava Federica Venturelli più di me», che a cronometro, vincitrice del Mixed Relay, agli Europei, decima nella corsa su strada. Quest'anno, il difficile sarà riuscire a riconfermarsi, il pensiero c'è, lei lo tiene a bada riflettendo sul fatto che, se sarà tranquilla, andrà tutto meglio. «In fondo- dice- in sella puoi solo dare tutto quello che hai e nel 2023 ho acquisito la certezza che, se sei capace di farlo, costi quel che costi, qualcosa accade, in qualcosa migliori». In bicicletta segue molto l'istinto, racconta che sta imparando a gestirlo, perché le energie non sono infinite e lei, con le sue doti da passista scalatrice, scatterebbe sempre, pur di non avere rimpianti. Questo è un aspetto da limare, strettamente legato al fatto che la parola delusione proprio non le piace, ma, se dovesse darle un significato e una forma, la assocerebbe alle volte in cui è rimasta bloccata per pensieri non così importanti, per la parte irrazionale che prevale e impedisce di dare tutto. «A fine gara devo sentire quel sapore di sangue che ti invade la bocca quando non ne hai più e i muscoli in fiamme. Nelle cronometro mi accade, altre volte no. Vuol dire che posso fare di più». Portare il proprio fisico al limite non la spaventa.

2023 UEC Road European Championships - Drenthe - Junior Mixed Team Relay - 21/09/2023 - Andrea Bessega - Andrea Montagner - Luca Giami - Eleonora La Bella - Alice Toniolli - Federica Venturelli (ITA) -Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Quest'anno sarà l'anno della maturità ed al Classico la versione da tradurre sarà quella di greco, lei preferisce il latino, «se impari la grammatica nei primi tre anni, la strada è in discesa», e cita Seneca, il suo autore preferito. Parla di filosofia, spiega che tutti le suggeriscono di iscriversi a Scienze Motorie all'università, ma lei pensa a Psicologia, una materia di cui ha già letto qualcosa e che vorrebbe conoscere meglio. È appassionata delle persone e del rapporto fra esseri umani: «Credo nella gentilezza. Non possiamo mai davvero sapere il momento che vivono le persone che incontriamo, però la gentilezza può cambiare qualcosa. Ne sono certa». Il ciclismo, in fondo, l'ha scelto per la sua capacità di mettere in contatto con gli altri ed il contatto più intenso è quello che si crea in squadra, anche questa è una cosa che ha capito meglio l'anno scorso, in particolare alla cronometro Mixed Relay dell'Europeo, quella in cui l'Italia ha conquistato l'oro davanti a Germania e Francia, dopo un esordio sfortunato in maglia azzurra, in primavera, con una caduta che la costrinse al ritiro alla Omloop van Borsele, in Olanda: «Se la squadra è compatta possiamo davvero fare grandi cose, il punto è ricordarcelo e mantenere questa compattezza». Dai finestrini del treno, in quel ritorno, la vista del paesaggio era oscurata dalla malinconia, dalla nostalgia per il bello vissuto e già trascorso: non sarebbe voluta tornare a casa, dove, in realtà c'era una festa per lei, con il paese ad aspettarla. «Ho i brividi»: dice solo così. Le chiediamo dove tenga la maglia di Campionessa Europea, istintivamente ci indica la sua camera, poi, ci ripensa: «In realtà, non lo so. Potrebbe essere in camera dei miei genitori o di mio fratello, non importa. Finchè è qui in casa, è al sicuro».


Si ispira a Elisa Longo Borghini e a Marta Cavalli, ricorda con piacere e con un sottile orgoglio di aver trascorso del tempo con Barbara Guarischi e con Elena Cecchini e di essersi fatta spiegare da loro come funzioni il professionismo, il mondo in cui spera di arrivare, senza cambiare. Si ispira a Pogacar e van der Poel, ma, ora come ora, vorrebbe assomigliare a Federica Venturelli, solo un anno in più di lei, che, con lei, ha vinto quell'oro. Sogna una tappa al Giro d'Italia, il Giro delle Fiandre e, ancora oggi, si morde le mani perché il nono posto dello scorso anno avrebbe potuto essere qualcosa in più con una migliore gestione della volata. Si sente cresciuta mentalmente e fisicamente, riesce a buttarsi senza timori in molte situazioni che prima la spiazzavano, ci proverà. Ora è tempo di riprendere in mano i libri, domani si interroga.

Ph. Rosa per gentile concessione di Eleonora La Bella

Crazy Sport, Vittorio Veneto

Roberto Catto è sincero, spontaneo, probabilmente i suoi sessant'anni e tutte le esperienze vissute lo aiutano, così ce lo dice subito: «Non conosco una parola di inglese, non sto esagerando. Non ci capisco nulla. Mi pare, però, che "crazy" abbia un bel suono, armonico, delicato e un pizzico strano, fantasioso, veloce come una discesa e aspro come una salita, con dentro il sibilo del vento. L'ho scelto per questo, quando si è trattato di dare un nome, un'identità, a questo luogo e, alla fine, lo rispecchia perfettamente. Forse, con l'età, mi sarebbe piaciuto usare qualche termine dialettale e, magari, avessi dato vita a questa attività solo pochi anni fa, l'avrei chiamata "Sport Matt". Del resto, c'è della follia, buona si intende, in tutto questo». A Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, in via Menarè 164, si respira l'aria delle terre del Prosecco, delle sue colline, dove sfrecciano biciclette da corsa, gravel, mountain bike e dove le persone si fermano a respirare e ad osservare un panorama che è patrimonio dell'Unesco: le Dolomiti sono una cornice di neve in inverno e di frescura in estate, Venezia, le sue gondole, la sua laguna e la sua arte sono ad un passo. Fuori dalle mura tutto questo, dentro le mura tante biciclette, di ogni tipologia e sfumatura, di ogni grandezza e peso, adatte ad ogni disciplina e percorso. Dentro le mura anche una sottile incredulità: «Sono circa cinquant'anni che pedalo. Quante strade stanno in tutto questo tempo? Quanti piccoli pezzi di mondo esplorati? Credo tanti, tantissimi. Infatti la logica, la razionalità pura, dovrebbe portarmi ad avere esaurito quella voglia instancabile di disegnare un tragitto e partire all'avventura: invece no, ancora adesso io aspetto la domenica con lo stesso fervore e mi sveglio con la medesima gioia perché non vedo l'ora di arrivare in un'altra città, in un altro paese, stancarmi, sudare e prendere la via di casa con la convinzione che le strade nuove non finiscono».

Le vie di Gorgo al Monticano non sono così distanti da qui, ed è proprio da quelle parti, in un paese di confine, che è iniziato tutto per Roberto, un ragazzo cresciuto nell'officina di meccanica del padre, dove si occupava di automobili, pur sentendosi da sempre lontano da quel settore, un lavoro che «aveva a casa e, quando bisogna lavorare, ci si adatta e si fa tutto quel che serve, senza troppe storie: sono cresciuto con i miei genitori che mi dicevano così». Agli albori, nel primo negozio, circa 150 metri quadrati, c'erano non più di cinque biciclette e Catto non dormiva la notte, mettendo il piede giù dal letto al mattino con un un'unica affermazione, chiara, in mente: «Sono stufo. Ora vado là e chiudo tutto, non si può continuare così». Questa scena si ripete per più di mille giorni, circa tre anni, fino a che tutti gli ingranaggi del nuovo mestiere sembrano iniziare a girare: non è più solo una passione mista all'intraprendenza di un ragazzo che aveva fatto un salto nel buio, «quella che riempie le giornate, che non ti fa mai chiudere, anche se, a conti fatti, dovresti, perché, nonostante le tante ore, non porti a casa abbastanza denaro e con la sola passione non si mangia», è diventato un lavoro. Sei anni, tondi tondi, in quei locali, fino a che un amico d'infanzia e di biciclette gli chiede se vuole mettersi in società con lui perché c'è un'opportunità da non perdere, per migliorare, per crescere. Stiamo parlando della seconda sede di Crazy Sport, a non più di cento metri da quella attuale, diventata sede circa quattordici anni fa, di trecento metri quadrati, dove, passo passo, sveliamo questa storia. I nostri piedi sono ben piantati a terra, ma la mente segue traiettorie insondabili, disegnate da Roberto che, all'improvviso, dal nulla, ci porta in Mongolia, in un ricordo di sedici anni fa, ancora nitido come il primo giorno.

«Eravamo in uno spiazzo, con mia moglie, stavamo per posizionare la nostra tenda. All'improvviso abbiamo visto arrivare una donna, a cavallo, con il figlio, un bambino, fra le sue braccia. Ci si scambiano aiuti, ognuno fa quello che può, con quello che ha, poi, mi viene in mente di chiedere a quella signora se mi permette di fare una foto-ricordo assieme a lei. Ho cercato di farmi capire, in qualche modo: ha preso ed è andata via, senza darmi la possibilità di aggiungere altro. Sai, sono culture talmente diverse che ho pensato di averla offesa con quella richiesta, di essere stato inopportuno, insomma, fino a che, mezz'ora dopo, è tornata con nuovi abiti, quelli della festa, per concedermi la fotografia che le avevo domandato. Ho i brividi a ripensarci, è stato troppo bello. Senza la bicicletta sarei mai arrivato a scoprire questa forma di accoglienza e disponibilità? Non lo saprò mai, ma credo di no». Se quel viaggio è stato possibile e quella serranda viene alzata tutte le mattine, dopo tanti anni, il merito è certamente di Roberto ma anche di tanti gesti, all'apparenza minuscoli, scontati, che tutto sono tranne che ovvi o piccoli per chi intraprende un nuovo lavoro assumendosi rischi e responsabilità. In tutte le mattine in cui Catto pensava di chiudere c'era, infatti, sua moglie a dirgli che avrebbe dovuto continuare perché le cose sarebbero cambiate e una soluzione l'avrebbero trovata insieme: «Lei vedeva questo entusiasmo bambino a cui non riusciva a dire nient'altro se non un incoraggiamento, uno sprone. La propria passione può far bene anche ad altri, io ne ho quotidianamente le prove». Roberto Catto si riferisce a tutte le volte in cui, per strada, magari ad un semaforo, scorge qualche conoscente in sella, lo guarda e si ricorda delle prime volte in cui lo vedeva passare dal negozio: «Qualcuno non conosceva per nulla la bicicletta: si sedeva attorno alle due botti che abbiamo e che sono il centro, il punto di incontro del negozio, e stava ad ascoltare, talvolta interveniva con poche e semplici domande. Giorno dopo giorno, di settimana in mese e di mese in anno hanno acquistato una bicicletta, hanno provato, si sono divertiti e adesso almeno una parte della loro giornata ha a che fare con le ruote, i pedali ed il vento: fosse per andare al lavoro, a scuola o a fare una gita, appena l'aria si scalda, talvolta anche sotto la pioggia d'autunno. Sprigionare entusiasmo è salutare».

Crazy Sport esiste da ventitré anni, un tempo sufficiente perché molte cose cambino. Alla fine degli anni novanta ed agli inizi del 2000, racconta Catto, che era più facile fare gruppo, trovarsi e partire per una vacanza in bici, magari in venti o più persone, ora sono gli eventi a radunare grandi numeri, forse, spiega, è cresciuta l'attenzione alla bici come mezzo, a livello tecnico e meccanico e si è un poco modificato quel genuino stare insieme nato dal caso, a costo di stare stretti in un piccolo appartamento. La bicicletta, invece, non è cambiata, semmai ha aggiunto specializzazioni e forme di interpretazione: dieci anni fa, ci si chiedeva cos'altro si sarebbe potuto inventare, incrementare, oggi si ha la tentazione di farsi la stessa domanda e la certezza che le novità saranno ancora tante, alcune nemmeno immaginabili. Roberto ha voluto sperimentare tutte le varietà di bicicletta e ciascuna ha contribuito a renderlo quel che è oggi, ad arricchirlo di sensazioni ed emozioni che può raccontare ai più giovani che, entrando, lo salutano semplicemente con un "ciao" e lui ne è felice: «La bicicletta da strada ti porta allo Stelvio, ai tornanti, ad imitare i grandi campioni, il gravel per me è essenzialmente viaggio ed esplorazione, è sempre esistito, in fondo, anche quando non se ne parlava così tanto, forse, come una visione, un'idea di pochi, la mountain bike coniuga tutto questo con l'adrenalina, mentre il downhill è soprattutto adrenalina allo stato puro e la bicicletta elettrica la possibilità di un piatto di pasta, un bicchiere di vino e via, ancora in salita, fino in cima».

Il tempo è passato anche su Roberto Catto, non solo perché sono aumentati i chilometri che ha percorso in bicicletta, ma perché è diverso anche il suo approccio con chi arriva da Crazy Sport: «I primi giorni avrei voluto non essere io il negoziante, ricordo che balbettavo appena arrivava qualcuno, ero sempre preoccupato, non mi sentivo all'altezza. Di fatto, è solo questione di esperienza: oggi so riconoscere la tipologia di cliente che mi trovo davanti, capisco se è una persona appassionata di viaggi, oppure di tecnica e meccanica. Per ognuno è differente il discorso che si può fare e la profondità a cui è possibile arrivare. Le persone sono differenti ed è la bellezza di questo mestiere». Alla fine, tutto ritorna all'essere umano, al fatto che siano proprio gli esseri umani ad essere misura di quel che accade, sin da quando, da giovanissimi, mettono piede in negozio e scelgono il «loro primo vero mezzo, un passo decisivo, perché a quel punto vivranno la strada e se saremo riusciti a mettere in loro il seme del rispetto reciproco e della condivisione sarà tutto più facile».

Già dal martedì, al tavolo del negozio, Roberto progetta la pedalata che farà la domenica successiva: è un rito, un'abitudine per continuare a godersi la bici anche nel tempo libero, per non ingabbiarla, per lasciarla libera come è sempre stata e come deve essere. In mente ha una data, il 10 marzo 2031, quando Crazy Sport compirà trent'anni e lui, pensione o meno, lascerà la gestione del negozio a suo nipote che guardandolo ha preso la sua stessa passione e da tempo collabora, portando una ventata di gioventù e novità. Roberto passerà nel locale tra un giro in bici ed un altro, tra una gita in camper ed un'altra, si fermerà a chiacchierare, vicino alle botti attorno a cui si vede il Giro d'Italia, il Tour de France o le Classiche. Al nipote ha già fatto due raccomandazioni: «Prova tutte le biciclette che puoi, non lasciartene sfuggire alcuna e apri la tua mente il più possibile, come i vasti spazi che si vedono in sella: il futuro arriverà solo così». E più di questo davvero non si può dire, sulla strada delle colline del Prosecco, con le Dolomiti vicine e Venezia non lontana.


Nuovo Codice della strada: alvento ne parla con...

La riforma del Codice della Strada approntata dal governo, approvata alla Camera dei deputati ed in arrivo al Senato della Repubblica, è al centro del commento degli esperti, delle associazioni dedicate e dell'opinione pubblica. Alvento, attraverso questo ciclo di interviste, si propone di passare in rassegna le diverse voci in merito, analizzando il testo ed individuando, criticamente, punti di forza e punti di debolezza, provando, inoltre, ove possibile, a suggerire valide alternative, argomentate basandosi sui dati ufficiali disponibili a riguardo. Il primo professionista con cui ci siamo confrontati è Roberto Peia, dell'associazione "Città delle persone".
L'appunto iniziale di Peia riguarda proprio quei dati che abbiamo citato all'inizio come base necessaria intorno a cui sviluppare riflessioni sensate di qualunque tipo, sul Codice della Strada come su qualunque altra tematica: «Il dramma è che, purtroppo, il cittadino italiano medio sembra incapace di leggere i numeri delle relazioni ufficiali. Provo a snocciolarne alcuni: il 73% degli incidenti con cause gravi, tra cui la mortalità, avviene su strade urbane e le principali cause di decesso sono la velocità, la distrazione, il mancato rispetto della precedenza ed il non rispetto, ad esempio, delle strisce pedonali. Sempre i dati-prosegue Peia- mettono in risalto come, al calare della velocità, calano in maniera brusca le conseguenze dell'incidentalità: un impatto a cinquanta all'ora è completamente differente da uno a settanta o da uno a trenta. Su questo non vi sono e non possono esservi dubbi, sono numeri, sono certezze, è scienza». Tuttavia il Codice della Strada a cui si sta lavorando, purtroppo, segue un'altra direttiva che va in direzione diametralmente opposta.
«Ostacola i comuni nella creazione di zone ZTL, ostacola, allo stesso modo, la riduzione della velocità, limitando l'uso di autovelox e riducendo le multe dovute all'alta velocità e all'accesso abusivo a zone a traffico limitato o ad aree pedonali; mentre, in precedenza, la sanzione era corrispondente ad ogni accesso effettuato, con la riforma sarà multato solo un accesso ogni giorno. Inoltre si delega al governo la possibilità di innalzare i limiti di velocità in alcune zone, accentrando ogni aspetto al ministero». Questa sorta di reticenza nell'intervenire sull'elemento velocità, Roberto Peia la commenta facendo riferimento a decenni di campagne pubblicitarie costruite su un martellamento e condizionamento costante legato al piacere della velocità, ai motori ed ai cavalli, un bombardamento che ha plasmato intere generazioni, puntando alla "pancia" degli utenti della strada, facendo leva sulla rimozione di limiti e regole- così anche chi "trancia" autovelox ha il suo momento di gloria- più che alla loro razionalità e a una corretta cultura e conoscenza. «Non voglio essere frainteso: l'elemento velocità affascina l'essere umano, anche in bicicletta si ricerca la velocità e si prova un sottile piacere nel raggiungerla. Non lo nego. Il punto è che, essendo la strada luogo di condivisione, la velocità rischia di ledere altri utenti e, se un tuo "divertimento" mette a repentaglio la vita di altre persone, hai il dovere di fermarti, di ragionare. Le nostre città, poi, a questo sommano il problema di non essere pensate a misura di persona o di bicicletta».
Diversi sono gli esempi di grandi metropoli che hanno compreso la necessità di cambiare negli ultimi anni: dalla vera e propria rivoluzione in tema attuata a Parigi, a Londra, sino a Valencia dove si è arrivati a deviare il corso di un fiume per seguire questo ragionamento.
Differente è la realtà italiana, ancora arretrata sotto questo punto di vista: «Una ricerca basata sulla Spagna sottolineava l'opportunità, anzi, la necessità di aumentare le "zone 30" in corrispondenza di luoghi che abbiano una realtà architettonica e monumentale importante, al fine di garantire sicurezza e ridurre il traffico. Sappiamo tutti che, se aumentano i ciclisti, si riduce il traffico, che pedalare migliora la salute, riduce le spese sanitarie. Sì, lo sappiamo, ma non lo applichiamo». Il nuovo Codice della Strada agisce bloccando, spesso, la possibilità di nuove corsie ciclabili e di strade ciclabili, interviene sui doppi sensi e impone la targa e l'utilizzo del casco per i ciclisti. «Purtroppo non si trova ascolto, sia a livello di ministero che di comuni, quindi di realtà che dovrebbero essere più vicine ai cittadini. Cito l'esempio della statua che abbiamo dedicato, poco tempo fa, ai "ciclisti urbani pazienti" a Piazza Lugano, a Milano, al fine di omaggiare la resistenza dei ciclisti. La storia inizia cinque anni fa, quando, attraverso il bilancio partecipato del Comune, i cittadini avevano chiesto la realizzazione di una ciclabile su questo tratto di strada, verso il Ponte della Ghisolfa, molto trafficato, dove gli automobilisti raggiungono alte velocità. Il bando è stato vinto, ma, da quel momento, non è stata realizzata alcuna ciclabile e non abbiamo più avuto notizie a riguardo. Alcuni cittadini l'avevano tracciata di notte: rimossa completamente. Si tratta di un vero e proprio muro di gomma, spesso basato su convenienze elettorali». Le automobili, nel frattempo, aumentano le loro dimensioni, tendono, spesso, a rappresentare uno status sociale, allora "avere un SUV fa belli" e, celandosi dietro questa apparenza, si fa spazio la credenza di avere più diritti degli altri utenti della strada. «Il SUV, attraverso la sua dimensione, restituisce la sensazione, errata, di essere maggiormente protetti: non è così. Non solo: il milanese medio, in questo periodo, è molto infastidito dalla problematica delle buche sulla strada, causa di disagio. Bene, le ricerche dimostrano come l'aumentare del peso delle automobili accresce a propria volta la problematica. Forse sarebbe opportuno tenerle in considerazione». Rispetto alla tematica dell'obbligo del casco, la posizione di Peia analizza due versanti: da un lato l'aspetto personale, lui utilizza il casco anche in città ed è convinto della sua assoluta utilità, per quanto concerne la sicurezza personale, dall'altro un'analisi ad ampio raggio. «L'aumento della sicurezza passa per l'aumento della massa critica che pedala ed è testato, purtroppo, che l'obbligo del casco riduce l'utilizzo della bicicletta, assieme ai furti delle bici. Le scuse messe in campo per non utilizzarlo sono assurde e ridicole? Certo, non ho dubbi, ma resta un fatto e con i fatti bisogna fare i conti. In nessun paese il casco è obbligatorio per i ciclisti ed i paesi in cui lo era hanno fatto retromarcia sul tema». La non considerazione dei fatti, talvolta, è legata ad un'errata credenza, protratta nel tempo a cui si continua a dare voce: l'idea che chi utilizza la bici non sia "produttivo", ovvero che con la bicicletta non ci si rechi al lavoro, che sia solamente un mezzo di svago: «Purtroppo è una voce insistente. A prescindere dal fatto che, anche fosse così, sarebbe comunque giusta un'adeguata tutela degli utenti più fragili, la realtà è ben diversa. Molte persone si recano al lavoro in bicicletta e altrettante lavorano attraverso la bicicletta: penso ai rider ed ai bike messenger, penso al bike to work che dovrebbe essere agevolato, invece non viene valorizzato».

Nella riforma del Codice della Strada si parla anche di metro e mezzo per il sorpasso ad un ciclista, ma solo ove la strada lo permetta, "una decisione non migliorativa per l'ampio pubblico di pedalatori", ci sono norme più stringenti per chi usa il cellulare alla guida, "valide per chi ha meno di 21 punti sulla patente", e norme che vanno ad incidere su chi si mette alla guida con un elevato tasso alcolemico oppure avendo fatto uso di sostanze stupefacenti: «Si tratta di misure condivisibili che, però, agiscono sempre dal lato punitivo e non educativo, invece deve essere la cultura la via per cambiare le cose. Spesso ci rechiamo nelle scuole a parlare di sicurezza ed i giovani percepiscono perfettamente l'importanza di ciò che si dice, ascoltano attenti. Sono i genitori, talvolta, a non comprendere: a protestare per delimitatori di velocità o chicane davanti alle scuole per limitare la velocità. Provvedimenti diretti a tutelare i loro stessi figli».
Qui Peia riflette qualche istante, poi porta un esempio personale che lancia una luce diversa sulla tematica: «Ho tre figli: due intorno ai trentacinque anni, uno intorno ai venticinque. Mentre i primi, allo scoccare della maggiore età, hanno subito ricercato la patente e quindi l'auto, il terzo no, il terzo ha aspettato sei anni. Forse non nelle leggi, ma nella mentalità delle persone qualcosa sta davvero cambiando».

Foto in apertura: Tornanti/CC


Un giro in Rwanda: quando la bicicletta apre un mondo

Laddove le biciclette sono il mezzo di trasporto principale, laddove, rinforzate nella parte posteriore, divengono taxi, con i freni a bacchetta tipici degli anni sessanta, oppure caricano a bordo materiali di ogni genere, dalle bottiglie, ai pali di legno, sino alle grondaie, mentre chi pedala continua ad affiancarsi, magari in salita, ai viaggiatori, anche loro sui pedali e, dopo averli fissati per qualche minuto, si congeda con un cenno del volto, simile a un sorriso, a mostrare tutto il piacere dell'incontro, del contatto, laddove accade tutto questo si apre il Rwanda. Il cuore verde dell'Africa, perché ogni casa ha un piccolo orto e l'acqua corre in ogni terreno a nutrire le piante, qualcosa di molto diverso dall'immaginario classico dell'Africa calda e secca: allora ci viene da pensare che Lorenzo, Alberto, Adriano e Mattia, forse, non siano partiti per caso per quella terra, quattro ragazzi che con il progetto Umbriabikepacking e con la tribù di Augh condividono la loro regione, i loro paesi, con solo una tenda, una bicicletta e poco più, e con tutto il senso dell'improvvisazione che ci vuole per un viaggio in bici, pur se si programma e si studiano le carte, le tracce, ma partire vuol comunque dire andare all'avventura, accettare l'imprevisto ed il cambio di programma. I dieci giorni che hanno trascorso in Rwanda nello scorso ottobre sono stati una sintesi perfetta di tutto questo.

Ad iniziare proprio dall'idea e dalla partenza. Di viaggi ne hanno fatti tanti, sono stati in Scozia, ma l'Africa pareva lontana, quasi impossibile, invece, come accade parlando tra amici, basta un suggerimento o una suggestione per mettere in piedi l'irrealizzabile e per farlo con un pizzico di follia. Avevano scoperto Race Around Rwanda attraverso le parole dei componenti di Enough Cycling e il tragitto l'avevano costruito proprio su quella traccia, insieme ad altri stralci di percorso, trovati su internet e accuratamente messi assieme: da Kigali, la capitale, a Kigali, in mezzo tutto il Rwanda. All'inizio c'è Ruhengeri, uno dei primi villaggi incontrati, pieno di entusiasmo, di vita, di persone e bambini che corrono qua e là, felici di vedere, in particolare contenti di incontrare, "musunku", l'uomo dalla pelle bianca, perché si dice porti fortuna il suo incontro: il fiume Nyabarongo è poco distante, per proseguire bisogna attraversarlo e l'unica possibilità sono delle zattere usate dagli abitanti per recarsi da una parte all'altra, spesso per motivi di lavoro. «Nel percorso iniziale- spiega Lorenzo- questo inconveniente non era previsto e probabilmente, se qualcuno mi chiedesse un parere, suggerirei un'altra via, ma anche questa è l'improvvisazione di quando si prende e si parte. A quel punto si rischiava di tornare indietro, di vanificare la prima parte del viaggio, solo quelle zattere hanno permesso la prosecuzione, pur nella difficoltà di farsi capire, di spiegare il proprio bisogno. Quelle zattere sono state parte dell'avventura». Nel Rwanda soprannominato "la terra dei mille colli", per i suoi continui su e giù, simile all'Appennino, in questo, si percorrono ottanta, novanta, talvolta cento chilometri al giorno, spesso intorno ai 2000 metri di altitudine, nei pressi di vulcani, anche intorno ai 2800 metri, spesso ripensando a questi villaggi, soprattutto quando la strada asfaltata, benissimo, tra l'altro, diventa noiosa, la stanchezza inizia a pesare e quella gioia pura è ossigeno. Il fondo stradale più impegnativo è quello del Congo Nile Trail: «Ognuno di noi aveva una bici diversa, si vede raramente in un viaggio di questo tipo, ma anche questo è il nostro modo di interpretare il ciclismo: adattarsi e vivere a pieno l'esperienza, pianificando le tappe al momento, in base a ciò che è possibile fare, alla luce del sole o al buio della notte».

Sorride Lorenzo, mentre ripensa alla Kivu Belt Road, a tutte le persone che si assiepano attorno a qualunque viaggiatore che si fermi per strada: comunicano con un gesto della mano, con uno sguardo, hanno voglia di sentirsi utili, prendono in spalla le biciclette, si offrono di aiutarti a portarle nei tratti più difficili. Poi torna serio, pensieroso: «Ricordo quei bambini che giocavano a pallone per strada, con una palla fatta di foglie di banano, ricordo il bambino che abbiamo medicato dopo una ferita: ci hanno detto che è orfano. Penso a tutti i bambini, di cinque o sei anni che ho visto trasportare del bestiame, in mezzo alle montagne o alla foresta. Mi viene in mente la loro voglia di farcela, di resistere, il loro essere felici con poco e le rincorse alle nostre biciclette in discesa». Il viaggio si svolge nella stagione delle piogge: temperature dai diciotto ai trenta gradi, e piogge molto intense, ma veloci, non più di dieci minuti, forse un quarto d'ora, qualcuno apre la propria falegnameria a Lorenzo, Alberto, Adriano e Mattia, per ripararsi. Qualche giorno dopo visiteranno il villaggio fondato per i bambini orfani del genocidio del 1994: «Ora che quei bambini sono cresciuti, quel luogo si è trasformato in una sorta di università dove si studia agraria, con una decina di camere, per ospitare i visitatori e con la possibilità di pranzare, pagando una quota. Abbiamo visto il museo dedicato al genocidio, compreso qualcosa in più della storia di quel paese».

Storia di un paese che passa anche dalla lingua, dalle poche parole della lingua locale che i ragazzi di Umbriabikepacking imparano e usano, ad esempio, per ringraziare quei componenti dell'esercito che, dopo averli averli bloccati all'ingresso di un parco nazionale, li lasciano ripartire: «Vedessi come hanno sorriso! Una gratitudine così grande per così poco, alla fine». Qualcuno, in viaggio in moto, chiede di provare le loro biciclette, allora le scambiano per qualche istante: c'è chi si diverte a pedalare e chi va incontro al vento sulla moto. Il tutto, spesso, avendo fatto colazione solo con poca frutta, poche banane, che devono bastare fino a sera e regalando qualche barretta ai giovani che si incontrano e, sapendo della ripartenza, chiedono un numero di telefono, per restare in contatto, dicono di cercare lavoro. Lorenzo non ha dubbi: «Le interazioni con le persone lo hanno reso il più bel viaggio della mia vita. Sono certo che l'Africa vada esplorata, vada scoperta, è un mondo che si è aperto: con i miei amici pensiamo già a un nuovo viaggio in Namibia, magari per il prossimo autunno».
Gli stessi amici che sono gli unici con cui è possibile fare certi viaggi, vivere certe esperienze, che sono anche questione di equilibri delicati e rari, che non si trovano con tutti: Lorenzo spiega che bastano poche persone per sentirsi al sicuro, per cavarsela in situazioni difficili, per lui sono sempre stati Alberto, Adriano e Mattia, in Rwanda anche qualche signore incontrato in viaggio che li ha aiutati nelle piccole difficoltà: «Crediamo spesso che il mondo migliore sia quello vicino a casa, per questo i miei genitori, quando partivo, mi mettevano sempre in guardia. In realtà, cose negative possono succedere anche dietro casa e cose belle anche a centinaia chilometri di distanza: il Rwanda me lo ha ricordato e me lo tengo stretto ovunque vada».


Riviera outdoor bikeshop, Finale Ligure

Finalborgo è racchiusa, quasi abbracciata, dalle sue mura di sapore medievale, che la proteggono pure dal mare e dal suo sciabordare inquieto nei giorni di tempesta. I mattoni a vista delle case, disposti secondo una precisa architettura, racchiudono una storia antica, simile a quella scritta in vecchi libri, impolverati, in qualche scaffale, dietro una porta che nessuno apre da troppo tempo. Qui, peraltro, le porte sono tutte piccole, molto piccole, somigliano più ad ingressi di cantine, di scantinati, che non di case o di locali: le persone vi camminano accanto e arrivano fino ad una minuscola piazza, un angolino di pace, dove al centro una fontana continua a zampillare acqua . Lì un anziano signore, appoggiato al bastone della sua vecchiaia, saluta un giovincello, pieno della spavalderia bella della gioventù, nella sua tenuta da corridore: nel mezzo di questa scenografia, quei due stanno così bene assieme, come tutta la storia e questi giorni nuovi. Il nostro mondo, stamani, sarà dietro una di quelle porticine che permette l'accesso in uno spazio circondato da volte in mattoni e colori che segnano la strada, dapprima verso un'officina a vista in cui il bancone è un vecchio tavolo da falegname riadattato e cosparso di attrezzi sporchi, talvolta consumati dal tanto lavoro, sui muri sono appese parti di biciclette ormai a riposo, qualche sospensione, qualche tratto di un manubrio, telai storici, foto particolari e alcuni aggeggi inusuali, parti meccaniche inventate e ricavate da chissà quale attrezzo della vita di ogni giorno. Fino ad arrivare ai tavoli del bar, dove qualcuno si siede a bere una birra e a leggere il giornale, mentre in officina la sua bicicletta viene "curata". Le mensole sono costruite con pezzi di forcella e anche la porta della toilette è suggestiva: si chiude da sola, attraverso un martelletto che fa da contrappeso. La piazza là fuori è Piazza Garibaldi, il locale è Riviera Outdoor Bikeshop e già nel nome ci sono il mare ed il vento, la bicicletta e la Liguria.


Le parole di Luca Bondi, ideatore del luogo, aggiungono dettagli del passato, scene della quotidianità, che, con un poco di attenzione, non fatichiamo a riprodurre nella mente, come si svolgessero davanti ai nostri occhi, come se una macchina da cinepresa, dopo averle catturate e memorizzate, le riproducesse su un grande schermo: «Le mie mani, anche da ragazzino, dovevano sempre essere sporche: svitavo e avvitavo i bulloni, smontavo e rimontavo, rompevo, talvolta, dalle macchinine che i nonni portavano la domenica pomeriggio, alla loro pista, sino alla bicicletta. Ho scoperto così la magia del movimento di una ruota: la catena sui pignoni e un semplice tocco al pedale per innescare uno spostamento. L'esplorazione delle mie mani mi ha, piano piano, svelato ogni segreto di una bicicletta». La creatività è qui oppure, forse, nel fatto che non ci sia un solo metodo per aggiustare una bici e che, volendo, è possibile utilizzare tutto, ma davvero tutto per rimetterla in strada, anzi, a Finale Ligure, per restituirla alla terra e alla polvere del fuoristrada di cui questa città di riviera è l'universo: anche delle tubazioni di metallo, dismesse, prese da un reparto idraulico, oppure della semplice bulloneria che non ha nulla a che vedere con la bicicletta stessa. «Sì, una scuola di inventiva, perché il fuoristrada è il regno della velocità e dell'improvvisazione, non c'è molto tempo per riparare un guasto, il "pronto soccorso meccanico" deve essere celere, così tutto ciò che abbiamo attorno diventa possibile "cerotto", "medicazione". All'inizio di una giornata lavorativa questa possibilità fa la differenza: non sai se riuscirai nel tuo intento, ma sai che per provarci dovrai sfidarti, non ci saranno due giorni uguali, due soluzioni uguali. La noia è lontana».

Luca Bondi è partito dall'Istituto Tecnico Industriale della sua città, a cui si recava sui pedali, ed è passato per l'università di Genova, dove studiava ingegneria meccanica e la bicicletta non la vedeva quasi più per questione di tempo e di impegni affollati nelle ore di una giornata: non si è mai laureato, tuttavia, e, quando è tornato a Finale Ligure, aveva necessità di un lavoro, per mantenersi, per diventare davvero grande. Nelle serate parlava di biciclette e dei viaggi in cui accompagnava i turisti, in una delle prime esperienze lavorative, dopo aver fatto il bagnino, mestiere classico delle estati degli studenti, sulle spiagge: «Avevo conosciuto la bici soprattutto dal punto di vista meccanico, essere accompagnatore mi ha permesso di vedere da un altro lato quel mezzo che tanto mi affascina. La bicicletta porta da un posto all'altro, da un bosco ad una strada, da un sentiero ad un ampio viale e in questo tragitto permette la "contaminazione" con luoghi e con persone. Ho un amico che vive in Australia, ci vedremo ogni sette, otto anni, ma ci scriviamo ogni settimana: l'incontro è stato in quei viaggi in compagnia, in quella condivisione, altrimenti l'Australia non l'avrei nemmeno incrociata tanti sono i chilometri a dividerci. Questa è l'altra faccia del ciclismo». Nel 2002, proprio nel momento in cui la mtb era in continua evoluzione nella zona, tutto ciò confluisce nel locale a cui si accede attraverso la minuscola porta affacciata alla piazza con la fontana: «Io sapevo fare questo, mi riusciva abbastanza bene e mi è venuto naturale pensare che avrei potuto essere utile a qualcuno».

Nel via vai di persone qualcuno porta una vecchia mountain bike, di quelle con cui scorrazzava sui sentieri e gustava il piacere di una curva disegnata particolarmente bene, di una discesa adrenalinica, della polvere che si alza in nuvole illuminate dal sole e si appoggia alle gambe e alle braccia, di un tavolino e dell'acqua ghiacciata dopo la fatica. La richiesta spesso è di restituirle nuova vita, dopo che, magari, è stata per anni chiusa in un garage o in uno scantinato, affinché quel signore, anni dopo, possa utilizzarla per andare a fare la spesa o per passare in edicola a comprare il giornale, il quotidiano: «Non diciamo mai di no, cerchiamo di fare il possibile, anche se spiace vedere alcune biciclette dimenticate, però, guardandoci attorno, nel locale, un modo per permettere ancora qualche pedalata lo troviamo sempre, pure se bizzarro, inconsueto». La differenza, precisa Luca Bondi, è netta: ci sono coloro che usufruiscono del mezzo, gli utilizzatori semplici, e coloro che, invece, provano a conoscerlo. Ai primi non interessa pressoché nulla tanto dell'aspetto meccanico, quanto di ogni altro studio che possa riguardare la bicicletta, l'aspetto "culturale" è messo da una parte: la bici serve loro per spostarsi, magari anche per emozionarsi o vivere sensazioni che ricercano, ma non hanno interesse nell'approfondire o nel conoscere. I secondi, invece, magari si fermano a osservare quel che accade dentro l'officina: restano lì con aria discreta, qualche volta fanno una domanda e così capiscono qualcosa in più della bicicletta, che la utilizzino da molto o che siano ai primi approcci non cambia nulla, in fondo. «Anche il nostro modo di rapportarci cambia: nel primo caso non servono spiegazioni, non sarebbero ascoltate, non sarebbero utili, nel secondo, invece, sono essenziali. Vedi, la bicicletta non resta ferma sui rulli, in una stanza, ma si sposta, viaggia tra luoghi ed è quello che incontra in questo viaggio ad essere la variabile, l'incognita. Quando consigliamo una bici o quando la scegliamo deve essere questa la nostra bussola per orientarci e decidere consapevolmente. Qualcuno lo capisce, qualcuno no: noi dobbiamo continuare a crederci».

L'empatia, in poche parole. Una qualità che, a differenza di altri, non si può mai davvero essere certi di avere acquisito, perché essere empatici significa comprendere quel che la persona cerca, quel che vuole, capire appieno i suoi bisogni, i suoi desideri, le necessità e le paure: «Capita di riuscirci, è vero. Ma dobbiamo essere sinceri e ammettere che alcune volte non riusciamo proprio ad arrivare dall'altra parte, che questo dialogo non si crea e la bicicletta si cerca da un'altra parte. Non è solo una questione di vendita, spiace perché per chi fa questo lavoro il rapporto umano è al centro». Il bar è parte fondante di questo discorso: una decina di anni fa non erano molti i locali a tematica ciclismo che offrivano anche ristorazione, Riviera Outdoor fu uno dei primi a portare questa innovazione e fra queste mura c'è ancora un sottile orgoglio. Ogni tanto, Luca dispone le sue bici su un cavalletto, ne osserva il telaio, ripensa ai cambiamenti che ha apportato, alle migliorie che ha ricercato per i suoi clienti e aspetta che siano altri occhi a vederle, a farsene un'idea, a giudicarle: anche quella è una prova nel suo lavoro, capire se i suoi gusti coincidono con quelli delle persone che vanno a trovarlo, se riesce a mantenere una sintonia. Se accade si sente soddisfatto e ricomincia a pensare e a programmare.

Talvolta il telefono o il computer gli ripropongono delle vecchie fotografie, scattate mentre accompagnava altri ciclisti in viaggio: è un flash e basta per ritornare esattamente in quell'istante e collegarvi una miriade di storie e ricordi che parevano dimenticati invece erano solo in attesa di essere riannodati, perché la bicicletta fa anche questo, costruisce ricordi ed immagini, forse immaginari. Riviera Outdoor continua a costruirli, giorno dopo giorno; da quando era poco più di un'officina, a quando si è ingrandita, ha aggiunto accessori, scarpe, abbigliamento al proprio interno, ha aggiunto capacità e talenti, ha cambiato luogo, un paio di volte, ma non animo, predisposizione. Mentre là fuori, fra i mattoni e le mura, l'aria di mare fa il suo giro, diversi ciclisti, vestiti di tutto punto ed equipaggiati sono già pronti per un nuovo giro. Il signore con il bastone, ora, è comodamente seduto, a leggere il giornale e a guardare il mondo che passa, la primavera che arriva, e quel ragazzino in bici chissà che strade sta percorrendo.


Dieci nomi da seguire alla Paris-Roubaix femmes

Sabato 6 aprile, esattamente il giorno prima rispetto alla prova maschile, si correrà la quarta edizione della Parigi-Roubaix Femmes. Già, un assurdo, se pensate che l'equivalente maschile vedrà disputarsi l'edizione numero 121, ma tant'è, abbiamo già riflettuto spesso sulla questione e certamente torneremo a rifletterci. Quarta edizione, dicevamo, la prima nel 2021, conquistata da Lizzie Deignan su Marianne Vos ed Elisa Longo Borghini, la seconda, datata 2022, in cui a trionfare è stata proprio Elisa Longo Borghini su Lotte Kopecky e Lucinda Brand e la terza, lo scorso anno, con la sorpresa (bellissima sorpresa) Alison Jackson che ha messo nel sacco le favorite con una fuga d'altri tempi a cui, inizialmente, nessuno credeva, precedendo Katia Ragusa e Marthe Truyen.

Partenza da Denain e arrivo a Roubaix, dopo 148,5 chilometri, infarciti di 17 settori di pavé per un totale di 29.2 chilometri. L'elenco è lungo, basta qualche nome per immergersi nell'atmosfera e pregustare l'attesa: Mons- en-Pévèle, Camphin-en-Pévèle e lo storico Carrefour de l'Arbre. Poi battiti a mille e l'ingresso nel velodromo, dove l'entusiasmo della gente fa tremare il mondo.

Abbiamo provato a scegliere dieci nomi, dieci possibili finali, dieci storie dietro al sipario della corsa che come simbolo hanno le pietre. Potrebbero essere molte di più, lo sappiamo, ed è proprio questo il fascino della Roubaix e delle corse del Nord.

Lotte Kopecky

08/04/2023 - Paris-Roubaix femmes - Lotte Kopecky - Foto Thomas Maheux/ASO

Sembra incredibile da dire, conoscendo il palmares del team Sd-Worx e delle sue atlete, ma è vero: la corazzata per eccellenza non ha mai conquistato Roubaix. Il risultato più vicino ad un successo l'ha ottenuto proprio la iridata, nel 2022, arrivando seconda dietro a Longo Borghini. Kopecky arriva dalla prestazione di domenica alla Ronde van Vlaanderen: prestazione che, con il senno di poi, e del quinto posto finale, dobbiamo rivalutare. Probabilmente, anzi, sicuramente, non è stata la miglior giornata per l'atleta belga che ha già accusato qualcosa sul Koppenberg e, successivamente, si è trovata ad inseguire a lungo. Certo, ma, alla fine, quella resistenza ha pagato. Quest'anno ha già conquistato la Strade Bianche e la Nokere Koerse, oltre all'UAE Tour, mentre è giunta seconda al Trofeo Binda e alla Omloop. La squadra è solida, piena di talento, lei, forse, con ancora più voglia di vincere: le avversarie hanno di che preoccuparsi. Il pavè della Roubaix è nella sua mente da molto.

Elisa Balsamo

21/03/2024 - Classic Brugge - De Panne Women 2024 - Elisa Balsamo - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

Se volessimo ridurre la corsa ad un "tutte contro Kopecky", Balsamo sa come si batte Kopecky e l'ha fatto giusto poche settimane al Trofeo Binda. Lidl-Trek non potrà fare affidamento su Lizzie Deignan, che avrebbe provato il bis, dopo il successo nella prima edizione, a causa della caduta riportata domenica alla Ronde, ma la condizione che sta mettendo in mostra la cuneese fa pensare che le frecce nell'arco del team siano ben riposte. Quanto al palmares e alle capacità non serve nemmeno parlarne, dopo un anno complicato è tornata inanellando una serie di risultati di pregevole fattura: dopo le due vittorie all'esordio alla Volta Femenina a la Comunitat Valenciana, il Trofeo Binda e la Brugge-De Panne, prima del secondo posto, per un nulla, da Wiebes, alla Gent-Wevelgem. Ha più volte detto che la sua forza è nella squadra: vedendo le recenti prestazioni di Lidl-Trek, di forza non dovrebbe mancargliene.

Emma Norsgaard

24/03/2024 - Gent Wevelgem Women 2024 - Emma Cecilie Norsgaard Jorgensen - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

La ventiquattrenne danese non è certamente una delle atlete che fa più rumore, ma ha il pregio della costanza. Quando si tratta di fare pronostici per gare di un certo tipo, il suo nome c'è sempre: qualcosa vorrà pur dire. Magari non vince, ma, scorrendo l'ordine d'arrivo, la si trova sempre nelle prime posizioni. Praticamente abbiamo descritto il suo inizio di stagione: tre top ten in Belgio, quindicesima a Le Samyn, ventesima settimana scorsa al Fiandre. Indubbiamente veloce, certamente resistente ma anche fantasiosa: tornate con la mente alla tappa di Blagnac, l'anno scorso al Tour de France Femmes ed alla sua azione nel finale, quella che le consentì di prendersi la vittoria su Charlotte Kool . Sì, la classica atleta che la vittoria va a prendersela, a qualunque costo, anche se si tratta di stravolgere il piano tattico designato. Una buona premessa.

Marianne Vos

08/04/2023 - Paris-Roubaix femmes - Marianne Vos - Foto Thomas Maheux/ASO

Trentasei anni, 250 successi raggiunti proprio alla Dwars door Vlaanderen, una campionessa di tutti i tempi, su tutti i terreni. Gli aggettivi talvolta si sprecano, nel caso di Vos non bastano a descriverne la grandezza reale, bisognerebbe cercarne altri, chissà, inventarne di nuovi. Non vuole fermarsi qui Vos. Il 2024 è l'ennesimo elogio all'atleta che è: otto giorni di gara, solo una volta fuori dalla top ten, due secondi posti e due successi, alla Omloop Het Nieuwsblad e alla Dwars. Domenica scorsa, al Fiandre, ancora nel pieno della corsa, quarta, alla fine. La Parigi-Roubaix potrebbe essere un vestito cucito apposta per lei. Meglio, il prototipo di bicicletta perfetta, mai ideata prima. Serve velocità e Vos è veloce, serve abilità nel guidare la bicicletta e trovate qualcuno in grado di tenerle testa, il cross insegna, serve esperienza e tenacia e guardatela in bicicletta per togliervi anche l'ultimo "se" rimasto sospeso (ammesso che si possa averne ancora qualcuno).

Pfeiffer Georgi

31/03/2024 - Ronde van Vlaanderen Women 2024 - Pfeiffer Georgi - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Giovane e quasi predestinata per questa tipologia di corse. A ventitrè anni conta già due top ten alla Roubaix, di cui la prima, nel 2022, al debutto. Non è facile: per le avversarie in campo e per la pressione che una corsa di questo tipo incute, atlete con ben più esperienza, talvolta, sono tratte in inganno proprio dall'aspetto psicologico. Quest'anno ha già messo in cantiere risultati incoraggianti, mattoncini sulla strada che la conduce ai settori di pavè di sabato: sul podio alla Omloop van Het Hageland, quinta al Trofeo Binda, autrice di buone prestazioni alla Ronde van Drenthe e al Fiandre. Nona nel 2022, ottava lo scorso anno, chissà che la striscia numerica crescente non faccia un balzo improvviso.

Chiara Consonni

28/07/2023 - Tour de France Femmes - Chiara Consonni - Foto Thomas Maheux/ASO

Manca l'acuto in questo 2024, ma la sensazione che sia vicino c'è. Top ten? No, spesso top five e nelle gare del Nord ha dimostrato di avere i numeri per poter emergere. Ha già conquistato la Dwars door Vlaanderen, nel 2022, è scaltra, sa muoversi in gruppo. Il suo punto forte risiede indubbiamente nella volata dove tiene testa alle migliori del mondo e, talvolta, le supera: l'ha fatto con Vos, l'anno scorso al Giro d'Italia, ma non solo. Alla Parigi-Roubaix del 2023 ha concluso in nona posizione: considerando la fuga, l'hanno preceduta solo Lotte Kopecky e Pfeiffer Georgi. Indubbiamente sarà una delle più controllate in gruppo: dalle colleghe ed anche da noi.

Christina Schweinberger

27/02/2024  - Le Samyn des Dammes 2024 - Christina Schweinberger  - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2024

La conoscevamo già, certo, ma il 2023 ha sbloccato qualcosa in lei: dall'ottavo posto della Omloop Het-Nieuwsblad, infatti, i risultati e le top ten si sono susseguite, con un crescendo nel finale della stagione. Il 2024 non ha interrotto questo filone, l'abbiamo vista spesso in azione, provare a rompere gli indugi, a scattare in faccia alle avversarie, sorprendendole o spiazzandole. A Le Samyn è salita sul podio, alla Gent Wevelgem è giunta nona, nel vivo della corsa anche alla Strade Bianche e alla Ronde van Drenthe. In questi casi, di solito, gli scenari sono due: un continuo ripetersi di buoni risultati oppure il centro, il colpo grosso che continua ad accrescere sicurezze e processo di crescita. Ha ventisette anni, è nel pieno della maturità ciclistica, lo scopriremo presto.

Alison Jackson

08/04/2023 - Paris-Roubaix femmes - Alison Jackson - Foto Thomas Maheux/ASO

La vincitrice dello scorso anno, il dorsale numero uno. Estroversa, imprevedibile sia in sella che giù dalla sella. Intendiamoci: numeri come quello dello scorso anno sono difficilmente replicabili, in generale e, ancor più, dalla stessa atleta. Siamo inoltre convinti che quel risultato, importantissimo, abbia portato gli osservatori a chiedere a Jackson e ad aspettarsi da lei anche più di quello che ci si sarebbe normalmente aspettati. Nulla di strano, di anomalo: è anzi ovvio, una vittoria di quel tipo accende dei fari enormi su ogni azione, su ogni partecipazione e, da noti, da conosciuti, è più complesso mantenersi all'altezza di quel che ci si attende. Resta il fatto che una vittoria come quella dello scorso anno non è un caso, non è da tutti: ha emozionato, entusiasmato. Chissà che quell'entusiasmo non la porti a fare qualche "follia" delle sue. Di certo non passerà inosservata.

Grace Brown

26/07/2023 - Tour de France Femmes - Grace Brown - Foto Thomas Maheux/ASO

Un paio di anni fa avremmo portato altri numeri a sostegno dell'indicazione del suo nome: undicesima alla Strade Bianche, settima al Fiandre, dodicesima alla Roubaix, seconda alla Liegi. L'anno scorso sesta alla Liegi, tredicesima alla Roubaix, quest'anno non è iniziato nel migliore dei modi, dopo la vittoria del Campionato Nazionale Australiano a cronometro e anche i risultati nelle classiche non sono di particolare pregio fino a questo momento, ma per la tipologia di atleta che abbiamo davanti come escluderla dal novero delle dieci atlete da attenzionare?

Maria Giulia Confalonieri

10/03/2024 - Ronde van Drenthe 2024  - Maria Giulia Confalonieri - Foto Dion Kerckhoffs/CV/SprintCyclingAgency©2024

Pochi giorni prima di "Le Samyn", ci aveva detto che avrebbe voluto alzare le braccia al cielo proprio lì: il risultato finale parla di un decimo posto. A seguire l'ottavo posto alla Ronde van Drenthe ed il quinto alla Gent Wevelgem. Viene dal ritiro al Fiandre di domenica, potrebbe essere un motivo in più per rifarsi. La multidisciplina, vissuta sin da ragazzina, ne ha segnato il percorso ciclistico, conferendole tutte le qualità che sono necessarie per il Nord. Prima di tutte l'istinto e la capacità di leggere la gara e le mosse delle avversarie. il velodromo di Roubaix potrebbe vederla sfrecciare a tutta in uno sprint finale.


Un lungo viaggio: intervista a Elisa Longo Borghini

«Forse, dall'esterno, non si è capito molto quanto abbia sofferto nell'ultimo anno. Non è facile comprenderlo fino in fondo e non è nemmeno facile spiegarlo». Il telefono di Elisa Longo Borghini squilla nella stanza di un albergo vicino a Waregem: è quel periodo dell'anno in cui le strade delle cicliste e dei ciclisti sono quelle di freddo, pietre, muri, vento e inverno del Nord, che, anche a fine marzo, fatica a mollare la presa. Un viaggio, alla fine questo è il ciclismo nelle sue trasferte e nei suoi bagagli. La trentaduenne di Ornavasso parla di questo viaggio e lo assimila ad un altro che ha mappe e cartine differenti: «Il ritorno a quella che ero è stato un viaggio interiore che pareva non finire mai, una meta che non arrivava nonostante la cercassi. Non ero preparata a tutta questa sofferenza: stop forzati, infortuni, malattie e al Tour de France quella setticemia di cui, ancora oggi, mi chiedo le cause. Tutte volte in cui provavo a prepararmi, in cui pensavo di farcela, il mio corpo mi diceva un no secco. Non era pronto agli sforzi che una carriera professionistica comporta, non era mai pronto. Ad un certo punto, ho dovuto lasciare la bicicletta completamente da parte».

I pensieri si riannodano, sembra un flusso di coscienza in cui ogni passaggio costruisce il passaggio successivo, come quando si riflette molto su ciò che accade, cercando di riordinarlo e di dargli un senso affinché non sia inutile. Elisa Longo Borghini lo ha fatto anche con le esperienze più piccole di quei giorni lontana dalla bicicletta: quella mattinata in cui suo padre aveva avuto un piccola indisposizione e lei e suo fratello Paolo, nella stalla, l'avevano aiutato a mungere una mucca e a prendersi cura del vitellino. Aveva pensato che la vita vera fosse un'altra, che «quando ti alzi al mattino e sai di dover spalare letame tutto il giorno è dura», eppure era stata felice con tutto quel dolore che sembrava essersi quietato, nascosto in qualche angolo, meno ingombrante in quegli istanti in cui condivideva un gesto semplice con il fratello. Sì, il 2023 è stato un anno difficile, ma, allo stesso tempo, fuori dal ciclismo, pieno di cose belle, importanti: il matrimonio con Jacopo Mosca, essere diventata moglie, poter chiamare Jacopo "marito", quel giorno, le energie buone che ha dedicato a quel pensiero, la quotidianità e tutto quel che ne deriva. Ed ancora le ore ed i giorni con i suoi nipoti, come fanno le zie, come spesso una ciclista non può fare. Tutti i pensieri sono necessari per salvare e custodire il bello, per riconoscerselo ed esserne fieri, pur nelle difficoltà.

Strade Bianche Women 2024 - Elisa Longo Borghini - Foto Tommaso Pelagalli/SprintCyclingAgency©2024

Poi arrivava il giorno in cui risaliva in bicicletta, magari dopo aver parlato con Paolo Slongo, il suo preparatore: «Mi raccomandava di pedalare tranquilla, di guardarmi intorno, di tornare a godermi anche il paesaggio e di avere pazienza. Io, dopo qualche chilometro in sella, gli telefonavo: "Paolo, sto facendo come dici tu, ma non può funzionare. Vado troppo piano, non riuscirò mai a tornare quella di prima, è impossibile" . Allora, lui riprendeva a tranquillizzarmi: "Non avere fretta, cerca di volere bene al tuo corpo, ai tuoi muscoli. Se lo farai, tornerai anche meglio di prima". L'allenamento era diventato una sorta di religione: io dovevo credere a quel che facevo, anche se al momento non ne vedevo i risultati. Difficile, ma necessario». Racconta Longo Borghini che se è riuscita a rientrare alle corse è soprattutto grazie alla sua famiglia e a Paolo Slongo. Ma anche un episodio accaduto al Giro di Romandia, quasi casualmente, l'ha aiutata ad aggiungere qualche consapevolezza. Quel giorno è Marlen Reusser ad affiancarla: «Tu sai che sei fortunata, Elisa?». La risposta di Longo Borghini è pronta: «Sì, indubbiamente, Marlen, sono una donna fortunata, per molti aspetti». Reusser non le lascia il tempo di dire altro: «Sai che se ti fosse successa la stessa cosa quarant'anni fa non saresti qui con noi? L'hai pensato? Te lo dico io, ricordalo». Inizialmente quello di Elisa Longo Borghini è un "grazie" amaro, scherzoso, poi la riflessione, dopo la gara, chiarisce tutto.

«Siamo giovani e siamo atleti. Già il primo dato basta, talvolta, per farci sentire potenti e sin troppo sicuri della nostra forza, della nostra salute, come se niente potesse toccarci, sfiorarci, buttarci a terra. L'essere atleti accresce questa sensazione, perché sfidi la fatica, torni in bici anche con il male alle gambe, anche dopo esserti sentito sfinito, finito. Quante volte ci diciamo: "Ora mi riposo e domani esco, anche se mi fa male tutto"? Non è scontato che il giorno dopo ci trovi in salute, non è naturale questo stare bene, questo poter fare. Lo si capisce quando, pur giovane, pur atleta, non puoi più, sei fermo, bloccato. Quando si ha la sensazione che tutto sia finito». Invece un nuovo inizio si stava costruendo: l'UAE Tour per un accenno di ritorno, la Het Nieuwsblad per tornare a percepire il solito vigore nelle gambe e nei muscoli e la Strade Bianche per essere sicura: Longo Borghini c'è ancora ed è la stessa di prima. Il giorno degli sterri senesi, è caduta due volte, nella zona di Monteroni d'Arbia e prima di prendere Montaperti. Proprio in quel frangente, il gruppo stava rilanciando, Lotte Kopecky stava attaccando. La campionessa italiana non riesce solo a stare con il gruppo, ma anche a guidarlo, dopo un cambio di bicicletta.

Strade Bianche Women 2024 - Lotte Kopecky ed Elisa Longo Borghini - Foto Tommaso Pelagalli/SprintCyclingAgency©2024

Sente di dover parlare alla radiolina, un istinto che non trattiene: «Sono Elisa e penso di avere delle buone gambe». «Tra me e me, mentre guardavo le avversarie, dicevo: "Ora vi faccio vedere". La competitività solita, quella lettura che ho sempre dato a questo sport che mi porta a fare volate assurde ai cartelli con Jacopo in allenamento e a tornare a casa distrutta ed essere felice. Io sono così. Certo che avrei voluto qualche cambio in più da Kopecky, fa parte del gioco, certo che avrei voluto vincere, inutile dirlo. Ma non potevo non essere felice, per questo sorridevo al traguardo».

Il giorno dopo, al Trofeo Oro in Euro, ha conquistato la vittoria, in solitaria, e, proprio in quella solitudine, guardava i dati sviluppati sul suo potenziometro e si sfidava a fare di più, a fare meglio, come fosse un gioco, come in parte lo è sempre stato. La Ronde van Vlaanderen, spiega, è una gara iconica, «una gara che correrò a cuore aperto, vada come vada, perché i giorni buoni e meno buoni sono realtà costante nel nostro mestiere, ma l'obiettivo, l'idea fissa, è un poco più in là, alla Liegi-Bastogne-Liegi, sto lavorando per quella, voglio arrivarci essendo in grado di giocarmela». Quando le chiediamo come vorrebbe vincere, ride di gusto, torna indietro negli anni: «Ricordo il Fiandre del 2015, quell'azione senza senso, folle, che mi ha portato alla vittoria. Mentirei se non dicessi che io sogno ancora azioni così, "azioni ignoranti", come si dice in gergo. Allo stesso tempo, però, razionalmente so che in questo ciclismo, con i valori in campo, non è possibile una cosa simile. Sarà la squadra a fare la differenza: un insieme di atlete forti che dal loro essere insieme traggono ancora più forza. La squadra è il modo attraverso cui si superano le corazzate. La squadra è il mio modo di vincere».


Olivier, Parma

In Strada Luigi Carlo Farini 15, a Parma, varcato l'ingresso di Olivier, gli occhi si appoggiano istintivamente ad un telo, sul muro. Si tratta, evidentemente, della pubblicità di una nota marca di jeans, a colpirci, oltre alla dimensione del manifesto, però, sono, soprattutto, delle minuscole goccioline di vernice bianca, ormai essiccata che scorgiamo chiaramente e che restituiscono l'idea di qualcosa di stropicciato, talvolta dimenticato, su cui il tempo è passato, a tratti, in maniera inclemente. Carlo Alberto Caruso ci fornisce presto i dettagli di quella sensazione: il telo è l'originale di una vecchia pubblicità Levi's, risalente agli anni quaranta del novecento e nei locali di Olivier è arrivato portato da un signore, un cliente, che lavorava per Fiorucci. Lo teneva in soffitta e quasi non ne ricordava l'esistenza: la vernice, invece, deriva dai giorni in cui gli imbianchini l'hanno utilizzato per proteggere l'arredamento di un sottoscala durante la tinteggiatura. Fino a che non è stato donato a Olivier e su quella parete, dopo tanti anni, è tornato alla sua prima funzione: molti visitatori ne restano colpiti, cercano Carlo e Alessandro, chiedono informazioni e loro iniziano a raccontare la sua storia, dando particolare valore al fatto che si tratti di un regalo. Altre volte, le domande riguardano una scarpa, esposta in bacheca, sopra una mensola. Si tratta di una Red Wing, una calzatura nata nel 1905, nel Minnesota, negli Stati Uniti d'America, e strettamente legata a varie tipologie di mestieri, in quanto ideata originariamente proprio per questi: parliamo di minatori, postini, lavoratori dei campi, delle fattorie. Solo successivamente sono state ideate due linee, di cui una per l'uso comune, quotidiano. Quella che vediamo noi appartiene ad un lotto numerato, giunto in Italia qualche anno fa, venduto quasi tutto, tranne quell'unico esemplare che, oggi, resta come ricordo, come souvenir. C'è chi la vorrebbe acquistare, ma la risposta di Carlo è sempre la stessa: «No, è troppo bella. Resta qui».

In fondo, in questi pochi minuti di conoscenza, Caruso ci ha narrato delle storie, nulla di più e nulla di meno. Ci dirà poco dopo che è questo il tratto caratterizzante del suo lavoro, nonostante Olivier sia, dal 1999, anno della sua nascita, un negozio di abbigliamento: «Dietro a ogni capo c'è una storia lunga, certe volte molto lunga, e a noi piace raccontarla. A non tutti piace e a non tutti interessa, bisogna spiegare perché lo si fa e non stancarsi di ripeterlo, anche quando sembra di non essere compresi». Il motivo ha a che fare con l'affettività che riguarda le persone ma anche gli oggetti con cui vengono in contatto: la concezione corrente è, spiega Caruso, che un capo d'abbigliamento o una scarpa si acquistino, si utilizzino, per un tempo sempre più breve, e poi si gettino via, in realtà può esserci di più, in quanto tutto ciò che «si porta addosso» fa parte, in un modo o nell'altro, del percorso di ciascuno di noi, invecchia assieme a chi lo veste. «L'immagine che utilizzo io è molto semplice: pensate di aprire un armadio e di trovare quella maglietta, quella camicia, quella felpa o quella scarpa di dieci anni prima. A quel punto si liberano una serie di reminiscenze. Così facendo non si segue la moda, si è "fuori stile", forse, perché si cerca un proprio stile». L'inizio, quello del 1999, è stato dato da Alessandro, in un altro punto della città, Carlo è subentrato nel 2015 e, nel frattempo, Olivier si è spostato in una zona più centrale di Parma; una vetrina anziché due, ma tutta la vita che pullula attorno. Il nome, in realtà, nasce quasi per caso, in quanto l'unica cosa decisa era che dovesse essere un nome inglese. Alessandro è sempre stato un appassionato di cricket e ricordava il nome di uno dei suoi giocatori preferiti di sempre che si chiamava proprio così, proprio Olivier. L'arredamento interno, invece, è stato conseguenza di una scelta ben precisa.

«La traccia di base è minimalista, ovvero poche mensole, poche cose, bianco, pulito, ma il lavoro occupa una fetta importante delle nostre giornate e, mentre lavoriamo, cresciamo, allora il negozio doveva crescere con noi, invecchiare al nostro stesso tempo, arricchendosi via via di tutto ciò che, nel frattempo, ha significato qualcosa: per esempio quel telo, quella pubblicità o quella vecchia scarpa». Dal 1999, tra l'altro, sono davvero variate moltissime cose, sia dentro che fuori, nella società: in quel momento, erano i vestiti, l'abbigliamento la forma principale di svago, il regalo che ci si concedeva per staccare dalla quotidianità, oggi, invece, il tempo libero si è popolato di molte altre possibilità e priorità, per cui anche questo mestiere è diventato più complesso. Carlo Alberto Caruso trova in questa sfumatura il principale punto di contatto tra il suo mondo e la bicicletta: «Dove c'è fatica, non si può restare se non si trova anche una passione, un motivo. Se ci si pensa bene, perché scalare una montagna in bici, col fiatone, sudando come matti e col fiato che se ne va chissà dove? Il motivo è quella cosa che ci prende e che, in mancanza di altre parole, chiamiamo passione. Il mio lavoro è diventato molto difficile, non avrei altri motivi per continuare a sceglierlo ogni giorno, se non fosse per quello che provo nei suoi confronti. Simile a ciò che sentivo quando ho iniziato a lavorare con mio padre, alla fine dell'università». Carlo non è di Parma, bensì della Bassa e quando racconta del modo di essere dei parmensi lo fa con disincanto, dapprima scherzando su una presunta rivalità, «sono "fighetti", non si fanno sfuggire nulla», e, successivamente, andando a pescare nelle ragioni più profonde di quelle caratteristiche: «Parma è un piccolo gioiello. Una piccola città in cui tutti si conoscono, c'è e c'è sempre stata bella cultura, bei parchi: la gente ci tiene a preservare questa bellezza, quindi è attenta, se ne prende cura e non si lascia scappare nulla». A chi vuole conoscere meglio i suoi dintorni, Carlo suggerisce il classico giro che lui stesso fa in pausa pranzo, in tutto quarantatrè, quarantaquattro, chilometri, andata e ritorno, partendo da via Farini, diretti verso la salita di Barbiano: un'ascesa delicata, piacevole, che permette una vista di raro pregio e che conduce anche al Castello di Torrechiara.

Ma Olivier e le biciclette, per qualche motivo, sono intrecciati a doppio filo: Carlo e Alessandro sono da sempre pedalatori e il giovedì pomeriggio, quando il negozio è chiuso, spesso si allontanano dal centro e vanno all'avventura. «Piano, piano, qualche nostro amico si è unito a noi, finchè non abbiamo pensato che doveva essere un'occasione aperta a tutti, fino a chiamarle "Oliver Social Ride": delle uscite assieme, per far gruppo, per farsi compagnia e, magari, fermarsi a bere una birra, senza guardare i chilometraggi, i watt e la velocità». Quel gruppo è presto diventato di dieci, venti, trenta, fino a quaranta persone, che chiedono, si informano e aspettano il giovedì per quelle ore di svago, magari indossano la maglietta o la felpa ideata per omaggiare il momento, il cui ricavato è stato destinato ad una associazione a favore della ricerca sulla SLA. Carlo e Alessandro si posizionano uno davanti e l'altro dietro il piccolo plotone che si va formando, cercano di tenerlo unito, compatto e, di tanto in tanto, provano a istruire chi non è così abituato ad uscire in bici. Spesso sono piccole indicazioni che, però, si rivelano fondamentali, talvolta sconfiggono vecchie abitudini che si pensava non sarebbero mai cambiate: «Parlo di un amico che non ha mai indossato il casco in bicicletta e mi ha cercato per partecipare a queste ride. L'ho avvertito: senza casco, non puoi. Credetemi, è andato ad acquistarlo il giorno stesso e non l'ha più tolto, gesto per cui anche sua moglie ci ringrazia. Cose come queste succedono e per noi fanno la differenza, come quando vediamo che l'essere in gruppo rende tutti più attenti, quasi a proteggere anche la persona che si ha accanto». Qualcuno arriva anche da lontano, da Cremona, dal Veneto, altri, invece, fanno ritorno: in sella, oppure in negozio. Si fermano a leggere qualche libro, qualche rivista, appoggiate sul bancone o in vetrina, e da lì nasce una conversazione.

Parma è anche città di fiere, vi arrivano, quindi, anche persone dall'esterno e spesso passano in via Farini, si affacciano da Olivier, magari non acquistano nulla, non cercano nulla, ma vogliono salutare, passare a vedere, nel tempo della loro assenza, quante cose sono cambiate e quante sono rimaste le stesse: «Non sono visite casuali, si capisce molto bene da un particolare: spesso si ricordano dettagli di conversazioni avute mesi o anni prima. Ti chiedono di quell'idea, di quel progetto, di quella preoccupazione che avevi oppure riprendono fatti che avevi narrato e che molti avrebbero dimenticato nell'insieme di tante parole. Fa piacere perché restituisce la sensazione di essere ascoltati». A quelle fiere, a Parma o altrove, partecipano spesso anche Alessandro e Carlo, alla ricerca di qualche capo nuovo, di qualche novità che, pur inserendosi nella linea della continuità, della storicità, possa essere in armonia e ben figurare: «Soprattutto in periodi difficili, bisogna saper scegliere, selezionare, senza lasciarsi prendere dalla foga, per il bene dell'attività. Bene, la cosa che provo tutt'oggi per questo mestiere, spesso, mi rende difficile questa razionalità. Ciò che ti emoziona si vede sempre, quando mostri, parli, racconti, per quanto tu possa trattenerti».

Dopo un quarto di secolo di storia e di racconti, ricordi, aneddoti, Olivier, quando guarda avanti, al futuro, non cerca molto, non desidera grandi cose: ciò che spera è, in realtà, collegato a quella voglia di stare assieme che contraddistingue la sua evoluzione: «Sì, vorremmo venissero a trovarci ancora più persone. Non è tanto un discorso economico, sebbene un lavoro sia fatto anche di questo, piuttosto è una questione di comunità. Più siamo, più bello è». Non serve dire altro. Sarebbe futile, il quadro è completo.


Il mondo di Piemontgravel

Ai tempi dell'università, a Torino, Tazio Chiomio prendeva la bicicletta e, nel fine settimana, si dirigeva verso la collina, dall'alto restava a guardare, mentre i minuti scorrevano e lui nemmeno se ne accorgeva: da un lato, a sinistra, la grande città, elegante, sabauda, dall'altro i piccoli paesini e la natura incontaminata. Un contrasto, tra realtà urbana e il verde, i colli che guardano verso i monti, che, a ripensarci, è la perfetta descrizione del Piemonte stesso, emblematico dell'essenza di un territorio, della sua varietà. Luigi, suo padre, può testimoniare lo stesso: da sempre appassionato di ciclismo, anche lui ha girato in lungo ed in largo la propria regione (e non solo) in sella: quando, ad esempio, arrivava alle partite di calcio del figlio con la bici sotto mano, ancora sporco dalla terra e sudato dal tragitto, e si sedeva così sugli spalti a seguire la gara, oppure quando, ogni volta in cui, in famiglia, si partiva per andare da qualche parte, era sempre l'ultimo ad arrivare, in sella ovviamente, mentre Tazio, la sorella e la madre erano in macchina, e il primo a ripartire per tornare a casa in orario. Proprio vivendo in questo modo, per più di trent'anni, si era reso conto di quanto il Piemonte avesse da raccontare, molto più di quanto generalmente non si creda. PiemontGravel nasce da questa intuizione, nel 2019, ispirandosi a realtà già affermate come il Tuscany Trail ed ereditando, all'inizio, i percorsi usuali della zona, molto tosti, sia a livello altimetrico, 1500 metri, che di chilometraggio, quattrocento, cinquecento, talvolta seicento chilometri. Successivamente prenderà la forma di quel che è oggi, anche se, come specifica Tazio, l'evoluzione è continua.

«PiemontGravel si rivolge soprattutto al mondo gravel, ma non solo, qualcuno partecipa con mtb, qualcuno con bici da strada. Si corre su sentieri variegati, simili alle strade bianche, ma differenti, originali, direi. Abbiamo strade secondarie, single track, strade poco battute, lontane dal traffico, nel silenzio». Oltre le tracce ed i chilometri, c'è la potenzialità di una manifestazione che ha un dna importante e a cui Tazio vorrebbe dare una vocazione sempre più avventuriera, meno corsaiola, meno race, un evento, insomma, in cui, intorno alla bicicletta, possa ruotare tutta una serie di altre cose: la componente umana, le tradizioni di un luogo, la conoscenza della natura e del territorio. In fondo, anche Luigi ha sempre visto tutto questo nel girare dei pedali di una bicicletta, pur con un approccio differente: lui ed il figlio lavorano assieme, in uno studio di architettura, a Cavour, e ogni tanto ne parlano, oggi che, dopo che molti suoi amici, che lo aiutavano nell'organizzazione di PiemontGravel, hanno lasciato, Luigi ha chiesto al figlio di occuparsi in prima persona della gestione della manifestazione. «Immagino una sorta di transizione. Già all'università avevo vinto un concorso per il progetto di un modulo abitativo per cicloviaggiatori e camminatori, realizzato nel vercellese; così ho iniziato a pedalare in solitudine e ad assaporare tutto ciò che avevo intorno a me, mentre andavo incontro al vento». Il punto è proprio questo: bisognerebbe riuscire a godersi queste rincorse sui pedali, invece, spesso, non avviene.
L'immagine che Chiomio ci consegna è enigmatica: la testa bassa di alcuni ciclisti, a controllare la velocità, i chilometri percorsi, i watt sviluppati. «Il lato agonistico ci sta, assolutamente, ma non siamo professionisti e abbiamo un'enorme opportunità connessa alla bicicletta, un mezzo che, nell'arco di pochi giorni, permette di arrivare ovunque, di esplorare luoghi che non si erano mai visti o, per quanto, non si erano mai visti a quel ritmo, lento, ideale. Penso a quel signore che, lo scorso anno, ha concluso PiemontGravel dopo quattordici ore e 333 chilometri percorsi, con ben 12000 calorie consumate: quanto si è goduto ogni momento dopo l'arrivo? Di notte, come mi ha visto, mi ha subito detto: "Potrei mangiare dodici pizze adesso". Non è meraviglioso tutto questo?». Intanto avrà assaggiato il prosciutto di Cuneo, piuttosto che il vino Ceretto delle Langhe, abbondanti al traguardo, in una sorta di aperitivo, a raffigurare la territorialità, i prodotti del luogo. Dalle Langhe, forse la zona più conosciuta del Piemonte, nella progettazione dei percorsi ci si sposta, si allarga la prospettiva, fino ai piccoli paesini di campagna: oggetto di scoperta per chi viene dall'estero ma anche per i piemontesi che si sorprendono ogni volta.

La manifestazione inizia il venerdì pomeriggio, quest'anno il 5 aprile, con un briefing tecnico e qualche assaggio, e propone ai partecipanti quattro percorsi, fino al 2023 erano, invece, tre: il primo, da ottantadue chilometri ideale da percorrere in giornata esplorando le Langhe, gli altri maggiormente lunghi e variegati, tra collina, pianura, laghi, Prealpi. A dare il nome ad ogni traccia il numero dei chilometri, tranne la prima, il cosiddetto "111 sbagliato", un poco accorciato per permettere anche ai meno esperti di percorrerlo in giornata. Per il futuro sono tante le implementazioni che Tazio ha in mente, ma una radice deve restare salda: l'autenticità del viaggio. «Si parla di un evento bikepacking unsupported, qualcosa che si richiama al viaggio in solitudine, all'avventura. Bene, quando si pedala da soli non si ha una guida a indicarci la strada, non si hanno input esterni particolari. Si vede ciò che si vuol vedere e si va dove suggerisce l'istinto: noi non vogliamo imbrigliare questa libertà, desideriamo anzi lasciarla sfogare al massimo, perché ci piace, ci piace molto». Una libertà che è tale anche nel mezzo: la bici espone all'aria aperta, non rinchiude chi la guida in una struttura, nel frattempo permette di familiarizzare con la fatica: «Pensiamo a un figlio che gestisce un lavoro avviato perfettamente dai genitori e ad un ragazzo che, d'altra parte, costruisce passo passo la propria attività, con sacrificio, rinunce, certo, ma anche soddisfazioni. La fatica è il mezzo per raggiungere questa contentezza, questa serenità. Può trattarsi di un risultato finale, ma anche dei piccoli passi, delle tappe di un qualunque percorso, sui pedali o nella vita di ogni giorno».
Fino a quando PiemontGravel, da evento, importante per contribuire alla quotidianità della città, diventerà un percorso permanente, che potrà essere ancor più di sostegno, per il territorio e per la cultura del ciclismo e di un certo modo di intendere la bicicletta. Sì, il desiderio di Tazio Chiomio, dopo aver inserito la collina di Torino nel percorso, è proprio questo e sta già lavorando per realizzarlo.