Wiebes-Balsamo: la forza delle idee

Monaco, da qualche giorno, pensava alla forza delle idee. Le idee che sono forse l'unico modo per cavarsela quando ci si trova davanti a qualcosa di così spropositato da sembrare ovvio, inevitabile, ineluttabile. Qualcosa che contrasta con l'essenza stessa della bicicletta perché pensare a una bicicletta è, in fondo, pensare a qualcosa per nulla scontato, semplice o intuitivo. Perché la bicicletta sceglie l'equilibrio precario, la fatica, sceglie di non avere alcuna protezione, di esporsi al vento, all'acqua o al sole, al caldo o al freddo, porta ovunque, certo, a patto che sia tu a portarla ovunque: in questo senso è il contrario dell'ovvio, di ciò che è facile, che è comodo. Somiglia più a ciò che è bello e quindi, spesso, difficile.
A Monaco, alla prova su strada degli Europei femminili, l'inevitabile, l'ovvio, poteva essere la volata finale, poteva essere Olanda e quindi Lorena Wiebes. Talmente veloce, reattiva, da vincere in volata, che è gruppo, vicinanza per definizione, quasi sempre staccando le avversarie. Wiebes, oggi, era uno spettro, da qualche notte era un incubo: quelli che arrivano quando non te lo aspetti e se ne vanno lasciandoti senza altro che domande. Quelli privi di comprensione.
Allora sono arrivate le idee e, in fondo, non sembra neanche difficile, quasi una conseguenza, a parole, perché nei fatti è difficilissimo. Prima bisogna mettere in difficoltà le olandesi, sfaldare quel treno, stancarle. Perché non si sa mai che si riesca ad andare via da sole, senza di lei oppure con lei, quasi un'imboscata per sorprenderla e poi batterla, per una volta sola, magari in difficoltà. Poi perché se volata deve essere, le olandesi devono guadagnarsela, sudarla, devono fare più fatica delle altre visto che, almeno sulla carta, sono più forti delle altre.
Difficilissimo e non solo per questo. Difficilissimo perché chiunque ha provato a scattare oggi, tante francesi, tedesche, italiane, sapeva bene che avrebbe potuto essere tutto inutile, che le olandesi avrebbero potuto essere così forti da non patire quegli scatti che anzi avrebbero potuto essere un'arma a doppio taglio contro chi li aveva pensati. La volata arriva per tutti e se il treno che paga dazio non è quello olandese ma quello italiano, ad esempio? Che si fa? Che si dice dopo aver fatto tanto, dopo aver dato tanto? Un rischio ma, se ricordate, l'ovvio con una bicicletta ha poco a che vedere.
E dopo tutti questi "se", questi "chissà", si arriva davvero in volata e le azzurre sono lì, una striscia di colore, quasi uno stralcio in una tela. Sembra un assolo di chitarra il modo in cui lanciano la volata: dapprima Fidanza, Sanguineti, Cecchini, Guarischi e Confalonieri poi Barbieri, lì dietro non solo la maglia iridata di Elisa Balsamo ma anche quella di Lorena Wiebes. Già, perché quel treno olandese ha effettivamente pagato la fatica, quasi sfibrato da tutti gli agguati e Wiebes nel finale deve arrangiarsi da sola.
È un tempo sospeso quello della volata, come lo sguardo e le mani di Ilaria Sanguineti, che sperano, quasi esprimono un desiderio a una stella cadente solo immaginata. È un tempo sospeso anche quell'attesa perché Wiebes e Balsamo arrivano talmente vicine che non si capisce chi abbia vinto. Prima Wiebes, seconda Balsamo: serve rivedere la volata per saperlo. terza Rachele Barbieri.
E allora? Allora le idee non sono servite? Allora è stato tutto inutile? No, è il contrario. Quello che è successo oggi è la dimostrazione che proprio le idee sono più forti. Di tutto, anche di Wiebes. Perché l'ovvio ha dovuto faticare a materializzarsi, grazie al difficile, al faticoso. Grazie alla squadra. Di quella fatica che fa piangere Marta Bastianelli che oggi avrebbe voluto fare di più. Sono state le idee a costruire quel tempo sospeso e quella speranza.
Attraverso la fatica, la decisione, l'abnegazione, la volontà anche quando sembra inutile. Wiebes è campionessa europea e chi ha visto la prova di oggi ha imparato qualcosa in più. Se le idee sono così potenti, allora si può essere felici anche secondi, terzi. Persino fuori tempo massimo a patto di aver creduto a quelle idee e di averle costruite.


Tutta di un fiato

Come una tazza piena fino all'orlo, sbattuta sul tavolo e poi tracannata in un solo sorso. Il liquido da mettere dentro sceglietelo voi.
Tutto in poco più di sessanta secondi, da quando Bissegger pennella la rotonda che porta verso il Siegerstor, l'arco di trionfo che segue Ludwigstrasse a Monaco di Baviera e che interrompe l'arrivo a tutta velocità del plotone. Ma per lo svizzero è solo un'illusione, quella di poter anticipare, a poco più di due chilometri dalla fine, la sacrosanta e già sancita volata di gruppo.
Tutto in circa un minuto a complicare le manovre di un treno, quello italiano, blu più che azzurro, che si perde ai 600 metri dal traguardo; vengono a mancare un po' le gambe, un po' il tempismo, un po' il coraggio e qualche vagoncino, e alla fine «da dietro arrivavano più forte e ci è andata male» ha detto Guarnieri, mentre Dainese, con Viviani, veniva risucchiato dall'inerzia del gruppo.
Tutto in quegli attimi a dividere speranze e sfiducia, oppure la realtà dai sogni che oggi per Fabio Jakobsen sono più o meno la stessa cosa. I sogni (e la realtà), come quelli dell'Olanda con van Poppel che oggi prova a sancire il sorpasso su Mørkøv come miglior pesce-pilota del gruppo, trascinando Jakobsen alla conquista del titolo europeo e di quella maglia che vestirà fino all'anno prossimo. «È stato bello, molto bello» ha detto van Poppel, raggiante, a fine corsa. «In questi giorni io e Fabio abbiamo diviso la stanza e questo è servito anche a capire e concordare alcune cose. Ad esempio: Jakobsen preferisce essere portato davanti e lasciato dove vuole lui possibilmente in scia a un avversario per poi aprirsi e sfogare la sua potenza, mentre Bennett (con il quale corre tutto l'anno in maglia BORA, Nda), vuole essere lasciato con la strada libera davanti».
In quegli attimi Jakobsen sceglie la ruota giusta, quella che vuole lui, in quegli attimi dove sarà passato di tutto dalla sua testa, ma oggi non ci interessa, se n'è già parlato sin troppo e Jakobsen è un anno che va di nuovo forte, fortissimo.
Quello che conta è che tutto d'un fiato Jakobsen, fatto di velocità e potenza, affianca Merlier e lo sorpassa. Quello che conta è stato aver scelto la ruota giusta e aver rimesso la propria davanti, dove merita di stare.


Quelle foto, quelle volte e poi domani

La prima immagine è del 2018, dell'estate del 2018. Quel giorno la pioggia era come un incessante ticchettio che rivoltò il percorso dell'Europeo di Glasgow: da semplice contesa per uomini veloci, ma resistenti, a gente avvezza a contesti più impegnativi, una sfida tra uomini - ragazzi - granitici.
Quell'immagine è del 2018, e quell'arrivo fu il primo a regalare i quattro titoli consecutivi che l'Italia di Cassani è riuscita a conquistare nelle rassegne continentali. All'epoca qualcuno forse si fece sfuggire l'importanza di quel podio - non del successo in sé. Davanti arrivò Trentin che, dopo una condotta di gara dai tratti somatici vicini a quelli della perfezione da parte dell'Italia, conquistò uno dei suoi successi più importanti in carriera (ah, maledetta volata di Harrogate poco più di dodici mesi dopo!), dietro di lui van der Poel e van Aert immortalati sul podio con delle facce poco convinte, poco sorridenti, a dimostrazione di quello che è da anni la loro fame, ma ancora con le sembianze di chi sembrava aver intrapreso da poco la strada dell'adultità. Primo Trentin, secondo van der Poel e terzo van Aert: a leggerlo oggi sembra qualcosa a cui si farebbe fatica a crederci.
2019, siamo ad Alkmaar, Olanda. È l'anno di Viviani e anche qui, la nazionale va che è una meraviglia; su strada è il migliore (o quasi) Viviani di sempre, ed è un Viviani che non si ciba di sole volate pure: l'arrivo con cui sconfigge Lampaert e Ackermann andati via nel finale è la dimostrazione. Ancora un percorso facile, sulla carta, ancora una nazionale che corre come si deve, ancora un successo. Poi arriva il 2020, a Plouay, Francia, ed è volata quasi vera e pura stavolta, e Ballerini che pilota Nizzolo, e poi Nizzolo che vince. Secondo Démare, terzo ancora Ackermann.
Infine a Trento è il giorno di Colbrelli, lo ricordiamo bene. Colbrelli che va via con Cosnefroy ed Evenepoel; Colbrelli che resiste agli affondi di Evenepoel; Colbrelli che batte Evenepoel davanti al Duomo di Trento e lo fa ammattire ma fa impazzire tutti.
E poi arriva domani in un lampo: Nizzolo - si è chiamato fuori dopo una caduta in gara in Belgio qualche giorno fa - e Colbrelli - ahinoi - non ci saranno, Trentin e Viviani sì, ma soprattutto non sarà più la nazionale di Cassani, ma quella di Bennati. Soprattutto non sarà la nazionale da battere - Belgio (Merlier), Germania (Bauhaus e Ackermann) e Olanda (Jakobsen) favorite, occhio alla Francia (Démare) e alla Danimarca (Pedersen). Ci sarà Dainese che sta andando dannatamente forte da mesi a questa parte. I favoriti sono altri, abbiamo detto, ma domani sogniamo lo stesso che tanto è gratis.


Il rumore che fa Annemiek van Vleuten

Tutte se lo aspettavano, nessuna ha potuto fare nulla. L’attacco da lontano di Annemiek Van Vleuten era dato per certo da tutte le rivali: la prima frazione di montagna avrebbe sconvolto la classifica e la più forte scalatrice di questo secolo avrebbe dovuto recuperare dall’ottava posizione in classifica generale in cui si trovava. A circa 85 (sì, ottantacinque) chilometri dal traguardo, all’inizio della prima terribile salita di giornata, Van Vleuten attacca. Si porta dietro l’unica atleta in grado di spingere wattaggi simili, Demi Vollering. Presente e futuro del ciclismo olandese.
È un attacco che non vede nessuno, le immagini sarebbero arrivate una mezz’oretta dopo. Su Twitter il ciclocrossista olandese Jens Dekker si chiede, parafrasando un noto indovinello filosofico sulla percezione della realtà: se attacca nella foresta e non c’è nessuna telecamera a riprendere, Van Vleuten fa rumore? Il fracasso dev’essere stato troppo forte nelle gambe delle rivali: tutte le più forti tranne Vollering non riescono a seguire, si raggruppano indecise sul da farsi. Sono Juliette Labous, Elisa Longo Borghini, Cecilie Uttrup Ludwig, Evita Muzic, Kasia Niewiadoma e Silvia Persico, tra le altre. Queste ultime due erano seconda e terza in classifica generale, ma non hanno potuto fare altro che andare su col proprio ritmo.
Chi non ci sta e prova a recuperare sulle due olandesi è Elisa Longo Borghini. È una fuga strana, la sua, quasi una ribellione scriteriata. Rimane a lungo da sola, a bagnomaria, tra le due battistrada e il gruppo successivo di inseguitrici, che intanto inglobava altre atlete, come una terza FDJ – Suez – Futuroscope (Grace Brown) e una rediviva Urska Zigart. La prime due salite – nel bosco e sopra l’8% medio – sono davvero dure e pian piano l’inseguimento di Longo Borghini perde brillantezza.
Sembra una cronometro individuale lunga più di ottanta chilometri. Van Vleuten accelera sul secondo gran premio della montagna e si lascia Vollering alle spalle. Longo Borghini è ripresa dalle inseguitrici e staccata. Le prime venti terminano tutte in solitaria o a gruppetti di due. All’arrivo Elise Chabbey (decima in classifica generale) e la sua compagna di squadra Pauliena Rooijakkers (decima nella frazione odierna) dicono che sì, se l’aspettavano, ma che ci potevano fare? Van Vleuten ha reso una tappa di montagna una lotta alla sopravvivenza: che lei, ovviamente, ha vinto


Le gambe che scappano di Remco

Nel ciclismo i segnali sono tutto perché lì resta l'attenzione. Così in un sabato qualunque, neanche una settimana dopo la conclusione di un Tour de France che è stato racconto e romanzo scivolato nella realtà, vedere la Quick-Step Alpha Vinyl in testa al gruppo alla Classica di San Sebastian, col traguardo ancora lontano, ha fatto tornare nella mente di chiunque stesse guardando le sensazioni dell'ultimo mese. Lo stupore costante è diventato abitudine, l'imprevedibilità una risorsa.
"C'è Remco Evenepoel" pensavamo tutti questa mattina. La presenza è un dato di fatto, ogni corridore, poi, riempie questo dato con quello che è, che sa, che gli piace. Il gusto dello stupore appartiene a Remco Evenepoel, lo sapevamo già, ma un sabato di fine luglio l'ha riportato in scena, quasi un temporale, quasi un'impressione. Un'impressione è naturalezza e istantaneità ovvero far sembrare semplice il difficile e farlo così, come si bevesse un bicchiere d'acqua.
Tutto questo è successo quando Remco Evenepoel è scattato ai quarantacinque chilometri dall'arrivo e solo Simon Yates è riuscito a tenergli la ruota, seppur per pochi chilometri. Con quella gamba avrebbe vinto anche stando assieme agli altri, magari portando via un piccolo gruppo? Probabile, a quelli come Evenepoel non interessa solo il risultato. C'è qualcosa dentro di loro che li chiama a divertire e divertirsi, a cercare il massimo grado di difficoltà, a lasciare qualcosa che va oltre i numeri, le statistiche. Un talento particolare. Ci ha colpito lo sguardo di un ragazzino sull'ultima salita: "Vorrei essere come lui". Quando si vede questo, quando si percepisce questo, si ha la netta sensazione che vada bene così, a prescindere da come va a finire.
Evenepoel ha vinto da solo, con la maglietta slacciata, con le gambe che scappano via come si dice nel ciclismo. Rende l'idea perché è come se le gambe fossero automi in grado di fare da sole, fregandosene del corpo. Invece restano lì, parte del corpo, nel corpo, e per andare così deve essere tutto perfetto, tutto in ordine, una sinfonia, un'armonia, uguale alla posizione di Evenepoel in bicicletta.
Più bello forse sarebbe stato solo con Pogačar a combatterlo, due ragazzi con lo stesso istinto, la stessa naturalezza. Invece Pogačar ha mollato prima, dopo le fatiche del Tour. Ci saranno altre occasioni e le aspetteremo guardando ai segnali come in questo sabato.
Mentre guardiamo Evenepoel esultare e ascoltare tutto quello che c'è attorno. Indica l'asfalto, indica la terra, dove tra venti giorni tornerà alla Vuelta a España. Non sappiamo cosa succederà, sappiamo però che non avere più nulla di scontato, non sapere più cosa aspettarsi, sarà ancora una volta bellissimo.


Le storie dei sogni

Silvia Persico ci ha provato. Sapeva bene che la frazione tra Saint-Dié-des-Vosges e Rosheim era l’ultima di possibile calma prima delle montagne, ma voleva prendere la maglia gialla già oggi. È la capitana di una piccola squadra, la Valcar, ma incredibilmente si trova al secondo posto della classifica generale del Tour de France Femmes. Quindi tanto vale provarci, consapevole di non essere una scalatrice pura. Persico ha messo davanti tutte le compagne di squadra con l’obiettivo di tenere a bada la fuga numerosa e far staccare qualche velocista. La più forte di tutte, però, non si è staccata.
Marta Bastianelli arrivava da un paio di giorni difficili. Ne ha parlato anche nella quarta puntata di “Cherchez les Femmes”, il podcast di Alvento che segue il Tour dalla Francia; dopo la quinta tappa, era in lacrime dal dolore dopo una caduta. Oggi si sentiva meglio perché ha provato a recuperare sulle quattordici fuggitive da sola. Il gruppo l’ha riassorbita, ma lei non si è persa d’animo e ha tenuto la scia delle migliori in salita. Nella volata di Rosheim, è stata scaltra a tenere la ruota giusta. Un solo problema: era la ruota della più forte di tutte.
Lorena Wiebes, la velocista più forte del mondo, ha provato a rimanere con le migliori. Poi cade e con lei Alena Amialiusik Lotte Kopecky. Sono all’esterno di una curva nel bosco: Kopecky riuscirà ad alzarsi e a rientrare, Wiebes no. Era al secondo posto nella classifica a punti, dopo la volata di ieri: vincendo oggi, la più forte di tutte ha chiuso il discorso maglia verde.
La storia di Marianne Vos, la più forte di tutte, può essere raccontata anche tramite le storie dei sogni e degli obiettivi delle rivali, che continuamente e irrimediabilmente spezza. In questo primo, rinato Tour de France, non è ancora arrivata oltre la quinta posizione. Domani vestirà la maglia gialla per il sesto giorno consecutivo. Non si tratta di lascia il segno sulla corsa, si tratta di prendersi tutto. Domani giura che non riuscirà a tenere il primato, ma chi sarebbe davvero sorpreso, in caso contrario?


Quei pomeriggi ordinari

È la prima tappa di questo Tour de France Femmes in cui non succede nulla. Si tratta di una definizione esagerata - più di una cosa è successa anche oggi, ovviamente - ma per la prima volta la cronaca degli eventi è abbastanza asciutta, tutto è andato secondo le aspettative, sprint doveva essere e sprint è stato. Lorena Wiebes era la favorita e Lorena Wiebes ha vinto.
Le dinamiche di corsa e il livello di drama cala improvvisamente rispetto a ieri. Dopo una tappa in cui quattro settori di sterrati ci hanno tenuto col fiato speso per un’indicibile quantità di chilometri, quella di oggi era adatta a tifosi bradicardici. Una frazione lunghissima, piatta, con un finale su stradoni larghi e anonimi; con tante persone sulle strade ad applaudire e far casino al passaggio del gruppo nonostante le atlete sfrecciassero davanti a loro ai 40 km/h.
Una tappa in cui c’è stato un tipico tira-e-molla tra fuga e gruppo: diversi attacchi nelle battute iniziali di corsa, il gruppo che seleziona chi può e chi non può provare ad allungare, la luce verde che arriva solo quando il drappello di attaccanti è composto da poche atlete (solo quattro, contro centoventisei) e nessuna pericolosa per la classifica generale. La meglio piazzata è Victoire Berteau, diciannove minuti di ritardo dalla maglia gialla. Berteau non ha ancora ventidue anni, è al primo anno con la Cofidis e deve ancora centrare la prima vittoria da professionista.
È già tanta roba per lei essere riuscita a centrare la fuga giusta. Com’è tanta roba per Emily Newsom riuscire a fare questi sforzi per svariate ore nonostante abbia problemi di stomaco. È la più anziana delle quattro in fuga e avendo fatto estenuanti corse gravel è particolarmente adatta a queste distanze. In gruppo si va con una flemma blanda, tanto che riescono ad evadere per qualche chilometro altre tre atlete: Grangier, Biriukova e Christie. Tre delle cicliste meno in evidenza del gruppo a caccia di gloria. Niente da fare, riprese non appena le squadre delle velociste hanno iniziato a fare sul serio.
E poi di cose ne sono successe ancora. Elisa Longo Borghini all’interno dell’ultimo chilometro ha sbagliato strada e ha perso nove secondi (che le sono poi stati condonati). Marianne Vos è arrivata sul podio per la milionesima volta in carriera. Rachele Barbieri si è confermata una delle più veloci del mondo. In tutto questa tranquillità, un’azione sola è sembrata di una violenza sovrumana: la volata di Wiebes, potente e dominante, è stata uno squarcio nella tela di un pomeriggio affascinante perché ordinario.


A base di Champagne

“Champagne per brindare a un incontro”, cantava Peppino di Capri. Nonostante l’allontanamento dalle capitali di questo nettare, toccate ieri, le bollicine non abbandonano la corsa, la costeggiano, come le vigne. Oggi si è festeggiato un tipo particolare di incontro, quello della Grand Boucle al femminile con i percorsi non asfaltati dei chamin de celles.
Si fa presto a dire sterrato ma, se si guarda bene, lo si può vedere con molti occhi diversi: chiedessimo a Mavi Garcia cosa sia, lo sterrato, risponderebbe che è qualcosa di simile a una condanna, una maledizione: in quattro tratti in tutto, Mavi, è riuscita a forare due volte, a essere coinvolta in due bizzarri incidenti – uno con una compagna di squadra più uno con la sua stessa ammiraglia che l’ha portata a terra. Tanta polvere mangiata e un minuto e trentuno secondi lasciati sul terreno gibboso: non ci si possono certo aspettare parole positive.
La musica cambierebbe assolutamente chiedendo cosa significhi sterrato a Marlen Reusser, vincitrice di giornata: le è riuscito, infatti, in una giornata così impestata per tante sue colleghe, di scattare a più di venti chilometri dal traguardo per arrivarci da sola e festante. Sabbia, polvere e pietre più o meno taglienti le devono essere sembrate qualcosa di molto simile alla buona ventura. Deve essersi divertita quasi quanto il pubblico sulla strada, la gente numerosissima che popolava i viottoli in mezzo ai campi. Anche per loro lo sterrato oggi deve aver assunto la forma della felicità, come per i bambini urlanti, le famiglie che banchettavano, gli agricoltori impegnati a decorare i campi con grandi coreografie, oppure come per il tifoso travestito da Babbo Natale che per una volta, invece di distribuire i regali, li aspettava dalle ragazze in corsa e li ha ricevuti, in questo strano Natale di fine luglio che è il Tour de Femmes.
Porsi questa domanda, però, significa spingersi ancora oltre, e chiedere anche a Elisa Longo Borghini cosa significhi sterrato: lei direbbe che è lavoro di squadra ben riuscito, quello che le ha permesso di concludere con le migliori nonostante una foratura, grazie al provvidenziale passaggio di bicicletta effettuato da Elisa Balsamo; aggiungerebbe anche che questi tratti così sconnessi, benedetti, maledetti, fondali di immagini indelebili, sono semplicemente “fighi!”. Non c’è niente da aggiungere, solo da concentrarsi sui festeggiamenti, naturalmente, a base di champagne.


Un sussulto di gioia

Un capannello di fotografi, giornalisti e membri della squadra corrono al fianco di una ciclista. Sono così tanti che dev’essere la vincitrice, ma non si capisce chi sia. Oltre al tanto pubblico, sul traguardo di Épernay anche gli addetti ai lavori sono un bel po’. Quindi c’è un bel casino, non tanto differente da quello che si vive in tanti traguardi del Giro d’Italia. Un urlo, però, si eleva sopra il trambusto: è quello della vincitrice di tappa, inconfondibile, perché è un personaggio sopra le righe e mai banale, Cecilie Ludwig.
La campionessa nazionale danese ha una maglia pulita. La croce bianca al centro, sfondo rosso, nessuno sponsor. Lo stesso vale per casco e guanti. Quando riesco a farmi spazio tra la folla, vedo Ludwig seduta per terra, esausta ed ebbra di gioia, impegnata ad abbracciare la sua massaggiatrice e a chiederle qualcosa da bere. Quando le viene passata una lattina di aranciata, ha un ulteriore sussulto di gioia: le emozioni sono così per Ludwig, una dietro l’altra. Ha appena vinto una tappa nella corsa più importante della stagione e riesce ad essere contenta anche di bersi un’aranciata.
La stappa ma non la beve nemmeno. Si porta una mano al petto, forse realizza cos’ha appena fatto. Marianne Vos è stata talmente sverniciata da aver definito le dimensioni del gap «abbastanza grandi». Si stende in posizione prona, coi gomiti tiene il busto poco alzato e solo allora sì che beve un po’. È esausta, si lascia andare completamente sull’asfalto come fosse un lettino da spiaggia. Il busto si ingrossa e si assottiglia ad ogni respiro, a occhio e croce sarà ancora oltre i centocinquanta battiti al minuto. Le dicono che deve andare sul podio ma si prende ancora qualche secondo per stare sull’asfalto: ha vinto, che problema c’è.
Mentre la danese è già sul palco, Emma Norsgaard (23 anni oggi) raggiunge alcune atlete della FDJ–Suez–Futuroscope perché portino i complimenti alla sua connazionale. Scherza sul fatto che Cecilie ha vinto nel giorno del suo compleanno e dovrebbe quantomeno dividere i premi con lei. Una massaggiatrice della FDJ tira fuori un telefono cosicché Guazzini, Le Net, Muzic e Brown possano guardare Ludwig in conferenza stampa. La vedono piangere, piangono anche loro, si abbracciano. Tutte hanno belle parole per Cecilie Ludwig: un’altra meravigliosa vincitrice di tappa in uno splendido Tour de France Femmes.


Le mani di Marianne Vos

Le mani della gente. Tantissime, rumorose, che salutano, che sbattono sulle transenne della salita finale. Le mani dei gendarmi, che indicano a tutti dove andare. Le mani di Elizabeth Holden, che mostra col palmo verso il busto, per far vedere come abbia scelto uno smalto rosa e azzurro in tinta coi colori della sua squadra. Le mani della lanterne rouge Martina Alzini che proprio non ce la fanno a stare ferme durante un’intervista mattutina. Le mani di Elisa Longo Borghini, aggrappate al manubrio della sua bici mentre prova a fare la differenza verso il traguardo di Provins, su un arrivo applaudito da tantissime altre mani.
Mani che sfregano sull’asfalto ruvido delle stradine di campagna (sensazione a cui non ci si abitua mai) e mani che festeggiano una vittoria, sensazione a cui sono abituate visto che è circa la trecentesima volta.
Non è un’iperbole: Marianne Vos ha vinto un numero talmente elevato di volte, in così tante discipline, che fornire un conto esatto è difficilissimo. Questa, però, le ha consentito di vestire la maglia gialla e non è difficile crederle quando dice che, di tutte, è la più bella. È arrivata al termine di svariate azioni sagge: prima ha fatto scatenare Wiebes e Kopecky sul traguardo volante, poi ha seguito un attacco di Balsamo, con cui la campionessa del mondo ha portato via un drappello di cinque atlete, diventate sei quando Balsamo, Longo Borghini, Vos, Niewiadoma e Persico (scusate se sono nomi da poco) hanno raggiunto la fuggitiva, la giovanissima Maike van der Duin. Vos ha dovuto «tenere a mente diversi possibili scenari» per il finale, sapendo che la più veloce di tutte forse è Balsamo ma sta lavorando per l’altra Elisa, che Niewiadoma proverà ad anticipare, che Persico ha una gamba incredibile.
Le mani le stanno per scivolare dal manubrio quando mette le ruote pericolosamente vicine ad un marciapiede a bordo strada, a circa trecento metri dall’arrivo. Ma lei è Marianne Vos, figurati se non sarà lei, anche oggi, ad alzare le braccia al cielo.