Il prezzo della libertà
Viene da pensare alla libertà, pochi metri dopo il traguardo di Megéve. Al fatto che, forse, l’ultima volta che ci abbiamo pensato così intensamente eravamo adolescenti. Non alla libertà in generale, ma alla libertà al modo di un ciclista che può sembrare quella di una casa al mare con le finestre aperte, di un pomeriggio al cinema e di una corsa a perdifiato verso l’orizzonte. Perché la libertà di un ciclista è così piena di coraggio che sembra non sentire il peso del suo prezzo.
Che in realtà la libertà non è solo un volo libero: può esserlo certo, ma dopo quanto tempo? E soprattutto per quanto tempo? La libertà ha un peso, un costo, un prezzo. La libertà di un ciclista è, ad esempio, quella di Bettiol di cui tutti abbiamo contato i metri ad ogni pedalata, immaginando un giro di pedali che potesse colmarne sempre più per avvicinarsi al traguardo. La libertà può anche essere girare attorno a una macchina, in uno spazio stretto, quando la corsa è bloccata, quando quella è l’unica possibilità per ripartire. La prendi a morsi con fame: anche se è poca cosa.
In fuga vanno in pochi, il resto è gruppo, il resto è plotone. Perché in fuga si è più liberi, lontani, con più spazio attorno e con una visuale sgombra davanti eppure la maggior parte dei corridori stanno in gruppo. Lì dove c’è un poco meno di tutto ciò che abbiamo detto, ma c’è altro. Non devi rischiare di dover mollare dopo aver attaccato tutto il giorno, come Bettiol, se resti in gruppo. Non devi rischiare di essere maglia gialla virtuale per tutto il giorno e perderla sul più bello come Leonard Kämna. Chi non sogna quella libertà, quella dei ciclisti, forse preferirebbe non sognarla nemmeno la maglia gialla piuttosto di essere deluso. Noi preferiamo essere delusi, forse, ma aver provato. Esserci stati.
Quella libertà che sembra non aver prezzo tanto ti attrae è quella di Magnus Cort Nielsen che oggi ha vinto, per poco, dopo così tanto. Bella la libertà di Cort? Certo, bella per quello che è stato capace di vederci dentro. Che se non la riempi con gli applausi del pubblico a fiumi sulle strade, con esultanze e un pizzico di follia anche quella libertà fa male, come il mal di gambe, come la solitudine.
Più di venti fuggitivi, quasi altrettante storie di cosa sia la libertà. Quella di Ganna che è una libertà di regole e tempi, di far meglio in quelle regole, in quelle posture rigide e in quei tempi. Quella di Velasco che è la libertà di chi va in fuga al primo Tour e forse somiglia più che mai a quella idealizzata da adolescenti. Quella senza limiti, senza storie, senza punti e solo virgole o forse neanche quelle. Flusso di coscienza e desideri.
La verità è che le finestre di una casa al mare si chiudono, dal cinema si torna e non ci sono corse infinite nei prati. La libertà ha un prezzo e solo quando accetti di pagarlo sei veramente libero. Un ciclista lo fa e se quando lo guardiamo stiamo così bene è proprio per questo.
Bussare alle porte del sole
Sembrava davvero di essere alle porte del sole mentre il Tour de France andava incontro alle Alpi. Alle porte del sole mentre il ghiaccio sulla schiena dei corridori si scioglie e diventa acqua, mentre l'acqua si asciuga dimentica di se stessa. Nel paesaggio e nell'erba a tratti ingiallita, nella luce cattiva dell'estate. Si sta così alle porte del sole.
Si arrivava a Les Portes du Soleil, un paese reale, in montagna, ma ognuno a quelle porte arriva, almeno una volta, anche se non sa quando. Talvolta lo spera, talvolta dispera. Nel caldo terribile, in quello che i corridori aspettano, e sentono già l'acqua, calda, che non basta nelle borracce, il vento smosso dalla bicicletta che soffoca, le ferite che fanno più male nelle bende e gridano. Giorni brutti in cui non si sa quanto male possa bastare per farcela. Vlasov, per esempio, ha detto che giorni così non sa per quanto potrà sopportarli, "anche se poi passa".
Chi spera, alle porte del sole, aumenta la velocità, sul Col de la Croix come fa Bob Jungels. Dopo due anni difficili in cui sembrava impossibile fare ciò che oggi ha fatto, ciò che oggi stava facendo. Ad un certo punto si dubita del ritorno, delle possibilità. Jungels avrà pensato a questo e questo gli avrà dato la forza di continuare perché, alla fine, può succedere, gli altri non ti tengono. In questo pomeriggio sei più forte di loro.
Non fosse che dietro parte Thibaut Pinot, scala come sa fare, la testa ciondola in "sì" che è fatica ma è anche affermazione: "Sì, è la giornata giusta. Sì, sono sempre io, non sono cambiato così tanto". Si avvicina, si avvicina di continuo e chi guarda non sa più cosa pensare, cosa sperare. Nei duelli del ciclismo, il più difficile è quello che mette di fronte due uomini che stanno curando una sofferenza, una passata disperazione.
Cosa si dice in questi casi? Di tutto. Si può anche mentire sul distacco, sulla pendenza delle salite che mancano, perché quando hai sofferto sentirti dire che non è così dura può salvarti e quando torni a crederci non è più dura del solito, delle tante volte in cui è stata dura.
Un elastico: Jungels rallenta e Pinot si avvicina, Pinot rallenta e Jungels si allontana. Così per molti chilometri, fino a che Jungels è troppo lontano da Pinot e troppo vicino al traguardo. Fino a che Jungels vince, dopo tanto tempo, dopo troppo tempo. Pinot arriva quarto superato da Castroviejo e Verona. Staccato dopo aver attaccato, come Uran.
Pogačar fa la solita cosa strana e bellissima, di quelle che non ti lasciano mai tranquillo ma, in fondo, il senso di tutto questo non può essere la tranquillità: allunga sul traguardo, con solo Vingegaard dietro. Pochi, pochissimi secondi guadagnati ma essere alle porte del sole vuol dire, anche, preparare qualcosa, come prima di aprire una porta o di chiuderla.
Essere alle porte del sole vuol dire farcela e tornare o sentire male e basta e sperare qualcosa cambi nel giorno di riposo. Soprattutto vuol dire bussare fino a farsi far male le mani. Perché per questo ci sono le porte.
La categoria dei Pogačar
Sembra tutto un gioco per lui ed è bello così. Lo sguardo di traverso mentre supera sul traguardo Vingegaard dice tutto: "C'hai provato, eh?".
"Sorrideva sempre", si dice. Così come saluta tutti quando scende in senso contrario rispetto all'arrivo. Compagni di squadra, «compatti e che si sono fatti in quattro per me», e tifosi con i cappellini gialli. «Qui all'arrivo c'era la mia compagna e la mia famiglia, oggi per me era un giorno speciale e ci tenevo». A fare bene, che poi per uno così vuol dire vincere.
Eppure. Eppure è come quando fai un gioco da bambino, ma vinci sempre e magari decidi che per una volta lasci agli altri il piacere del successo, ma niente, c'è dentro di te una scintilla, una miccetta sempre accesa, pronta a divampare. La differenza tra i corridori forti e quelli della categoria Pogačar.
Sembra quasi che Vingegaard su quel traguardo scattandogli in faccia abbia alimentato quel fuoco all'apparenza addormentato. Come avesse tirato dentro a Pogačar dei petardi. Come gli avesse dato una di quelle sberle che si dà a chi non riesce a risvegliarsi dal torpore. E quello ha reagito d'istinto.
Pogačar pareva controllare, ma non affondare il colpo, osservando Kamna da lontano, in progressione e con la testa leggermente abbassata per lo sforzo, spingeva forte, con i polpacci tirati, ma «Ero a tutta, è stata una tappa difficile [ma va! Nda], e ritengo Jonas in questo momento lo scalatore più forte del mondo». Già perché tu sai di appartenere a un'altra categoria.
Quello allora lo sorprende, ma non c'è scampo. La differenza è troppa con tutti su quasi tutti i terreni. Sempre. Anche se ti serve un metro, ti basta un metro per vincere in maglia gialla. Un altro capitolo, un altro successo e poi magari a fine carriera faremo i conti per capire a quale categoria appartenere. Al momento di sicuro a quella dei Pogačar.
Così va la vita
«Così va la vita», rispondeva Billy Pilgrim alle (cattive) notizie che gli davano. Così va la vita: sono tante le questioni che ci frullano in testa dopo la tappa di oggi. Non stiamo ad arrovellarci troppo il cervello, però, i ciclisti sono matti come cavalli, imprevedibile e calda come l'ancia di un sassofono questa generazione di corridori, e le domande in uno sport del genere, spesso, restano bagnate.
Dopo una giornata come quella di ieri sul pavé, cosa gli è venuto in mente di fare nella tappa più lunga della corsa? Attaccare dal primo metro andando a oltre cinquanta di media nelle prime ore (49, 376km/h la media finale del vincitore e che vincitore) dopo aver passato la serata di ieri a leccarsi le ferite. Poveri coloro - e ce ne sono già tanti, vedi Hirschi, Kirsch, poi ritirato, Moscon, Turgis - che tra cadute e malanni a malapena riescono ad arrivare al traguardo.
Ha iniziato Wout van Aert la fiera del capriccio: se n'è fregato, ha portato in giro la maglia gialla dal primo metro, allungava il gruppo perché voleva fortemente farlo. Fare che cosa? Appendere un altro quadro nella sua collezione: la fuga da lontano in maglia gialla. Non ha vinto? Così va la vita.
Si è disinteressato di ogni tattica, sta bene così. Ha perso la maglia gialla? Pazienza.
Quanto esalta vedere la maglia gialla in fuga? Chiedetelo al pubblico per le strade - per altro strade belghe per i primi chilometri; chiedetelo a chi lo ha spinto a ogni metro mentre il gruppo in fila indiana cercava di ricucire lo svantaggio; abbiamo fatto un tifo spudorato per lui come di solito si fa per una fuga qualsiasi di gente qualsiasi: anche oggi questa generazione è stata capace di ribaltare l'idea che ci eravamo fatti del ciclismo. Si tifa la maglia gialla in fuga. Quando mai? Il tutto mentre Fuglsang all'attacco con lui si rialzava e Simmons cedeva nel finale. Van Aert, invece, continuava la sua danza, che è potenza, cadenzata. Affannato, avremmo sperato di vedere dietro il gruppo tentennare, ma così va la vita.
Perché tirava la EF Education? Perché riprendendo van Aert, che nei piani (corretti) avrebbe ceduto per lo sforzo fatto, Powless sarebbe andato in maglia gialla. Non c'è andato? Così va la vita. Perché non l'ha presa? Perché davanti c'è l'altra faccia di questo ciclismo, di questa giornata, benedetta faccia, quella del bambino che normalizza gli avversari con uno scatto che devasta gambe e sentimenti, e che oggi, vincendo, già in qualche modo ipoteca il Tour. Al sesto giorno. Avevate dubbi? No, così va la vita.
Possiamo farci tutte le domande che vogliamo, la risposta è che così va il ciclismo, questo ciclismo, benedetto ciclismo. Di campioni diventati epocali che scrivono a carattere cubitali il loro nome dopo averlo forgiato a suon di imprese, tentativi che possono essere vani oppure splendidi modi di finalizzare. Idee prepotenti: bastano quelle per farci sognare. Abbiamo un dominatore? Pazienza. Alziamo le spalle, perché come diceva Billy Pilgrim, così va la vita.
Il sapore di quelle giornate lì
Succedono così tante cose nella "mini-Roubaix", come l'avevano presentata, che sembra difficile raccontarle tutte. Un po' sui generis una giornata del genere, è vero, ma solo per la nostra scarsa abitudine; manna del cielo una tappa così, per accendere un pomeriggio estivo passato a guardare il Tour de France e non riuscire mai a staccare gli occhi dal televisore.
Una di quelle tappe da "Lasciami stare! c'è il Tour de France!". Squilla il telefono? "Vai tu a rispondere, non vedi che oggi c'è il pavè?" Una di quella giornate da empatia con i corridori: facce stravolte e visi impolverati con il segno degli occhiali, la bava incrostata di terra; una di quelle giornata da mani e gambe che faranno così male che le scorie se le porteranno dietro in questi giorni fino al riposo di lunedì. Che lavoro avranno da fare i massaggiatori stasera!
Succedono tante cose: proviamo in ordine sparso. Si cade sin dal chilometro zero: è solo il preludio. Van Aert poi va giù, recupera, sembra impaziente, rischia di tamponare un'ammiraglia; quando è in gruppo non pare riuscire mai a rimontare la testa perché davanti si prendono i settori a tutta velocità: diventerà essenziale, quasi superbo, infine, il suo lavoro nel ricucire il più possibile il distacco da quel fuoriclasse epocale che ancora una volta ha dimostrato di essere Tadej Pogačar.
Succedono tante cose, e alzi la mano chi non ha sentito in bocca il sapore di quelle giornate lì. Alla vigilia qualche corridore lo diceva: «Chi guarderà la gara da casa oggi si divertirà... noi un po' meno».
Succedono tante cose: una fuga che va all'arrivo con dentro Magnus Cort Nielsen, quattro fughe su quattro tappe e le energie che nel finale lo abbandonano; Neilson Powless che arriva a pochi secondi dalla possibilità di vestire la maglia gialla (che, a proposito, nonostante tutto resta sulle spalle di van Aert, lui solo sa come, lo sanno le sue gambe, lo sa il suo motore, la forma e la classe); Edvald Boasson Hagen che non vince da tempo immemore e poi quando leggi che di corse ne ha conquistate ottantuno ti chiedi, «ma dov'ero finito?» perché la maggior parte ti sembra di averle perse per strada.
C'è Taco van der Hoorn, uno dei più amati del gruppo e non potrebbe essere altrimenti; Alexis Gougeard che qualche stagione fa prometteva proprio in questo tipo di contese e Simon Clarke. L'australiano che quando parla ha l'accento toscano.
Succede che dopo una giornata così, fatta di cadute rovinose, ritiri, forature, incidenti, con quasi venti chilometri di pavé, quello infame della Roubaix, diviso in undici settori che lasceranno il segno, fanno la volata dai milletrecento metri: Powless anticipa e sembra possa vincere lui, poi sembra stia vincendo Boasson Hagen, poi invece no è van der Hoorn, ma Clarke lo anticipa di pochi millimetri. Clarke, che pochi mesi fa era rimasto senza squadra dopo la chiusura della Qhubeka, pensava quasi al ritiro, ma oggi «dopo vent'anni che corro in Europa, realizzo il mio sogno. Ancora non ci credo, ho i crampi e male ovunque, ma ho bisogno di vedere il replay dell'arrivo».
Succede che una balla di fieno messa a protezione, invece di proteggere distrugge: ostruisce la carreggiata e Roglič, Paperino al Tour de France, ci finisce addosso, e a finire potrebbe essere il suo Tour, vista la spalla lussata. Succede che Vingegaard ha un problema meccanico, cambia una bici, ne cambia un'altra, poi prova a salire su quella di van Hooydonck ma sembra un bambino che prova a scalare la bici di un gigante.
Succede che Pogačar, un bambino, ma un gigante, dà spettacolo. Sembra nato (anche) su queste strade, un corridore da 9/9,5 su tutti i terreni, che ha messo il ciclismo - è solo suo quel ciclismo - su un altro livello, quello dei nomi che resteranno nella leggenda. Tiene la ruota di Stuyven, uno dei corridori più solidi da queste parti, dopo aver corso ogni settore in testa, senza squadra, scegliendo la ruota giusta e la traiettoria migliore
Succede che van der Poel ha qualcosa che non va, poteva essere la sua tappa e invece arrancava mestamente «Senza gambe» racconta. Succede di tutto, poi sembra non succedere niente, ma non ditelo a chi oggi era in bicicletta: stasera dovranno fare i conti con i dolori e le ferite. O forse sì, che a loro alla fine fa anche piacere. Lo ha detto Simon Clarke a inizio stagione: «Voglio godermi un altro anno in gruppo. Correre in bici è molto più divertente che stare seduti in ufficio». Fatti di pasta strana i corridori.
Vincere da solo
Ha dovuto aspettare la quarta tappa e il quinto giorno. Ha dovuto leggere per tre volte il suo nome al secondo posto dietro tre corridori diversi. Ha dovuto eguagliare un vecchio primato, quello di Binda del 1930.
Ha dovuto scegliere di andare via sull'ultima côte, il Cap Blanc-Nez, il Promontorio Bianco, in una tappa che non si accendeva, e non c'era verso perché forse già si sapeva che bisognava aspettare quel momento lì; aria ce n'era, ma era una brezza, e allora tutti attendevano quell'ultima risalita verso il cielo che domina il Nord della Francia, dalle parti di Calais, dove è tutto vento, fari, coste e oceano.
Una tappa che non scaldava se non nel vedere la gente spellarsi le mani a furia di applaudire Cort Nielsen (ribattezzato oggi Côte Nielsen, ci auguriamo) e Perez. Fuga di giornata con il danese che infilava dieci Gran Premi della Montagna consecutivi, sei su sei in Danimarca, quattro su quattro oggi, prima di rialzarsi e lasciare ad altri (ad altri... a van Aert) il quinto. Se le montagne fossero GPM di quarta categoria, Magnus Cort Nielsen sarebbe il più forte scalatore di questa generazione.
Ha dovuto scegliere di fare così Wout van Aert: andarsene e non farsi più riprendere. Era vestito di giallo e lo sarà ancora anche domani.
Ha usato la squadra e loro hanno fatto come alla Parigi-Nizza: su quello strappo vicino al traguardo si decideva di buttare giù tutta l'energia rimasta. E gli altri? Chi c'era c'era. Ognuno che faceva la sua volata, van Hooydonk accelerava, Benoot distruggeva i sogni di mezzo gruppo, e quando è toccato a van Aert non ha resistito nessuno - pure Roglič si staccava, mentre Vingegaard teneva, insieme a Yates, fin su, quasi in cima.
Ha fatto saltare in aria il gruppo e in parte i pronostici, avrà pensato: ma chi me lo fa fare ad arrivare in volata? Ha preferito vincere da solo, senza correre alcun rischio come per esempio arrivare secondi di nuovo: i nostri fragili cuori non avrebbero resistito un'altra volta; ha voluto vincere in maglia gialla con un'azione da fuoriclasse, un'azione da grande classica, un'azione da grande corridore. Ha distrutto una salitella volandola a oltre trenta chilometri orari di media.
Questo è van Aert, capace di conquistare tappe al Tour lo scorso anno allo sprint a Parigi, a cronometro, e poi in fuga sul Mont Ventoux, e che oggi ha messo un'altra foto nel suo repertorio: la vittoria in solitaria - dieci chilometri di fuga - con addosso la maglia più importante della corsa francese.
Così oggi van Aert: esaltante, sopra le righe, dominante. Da domani, così dicono in squadra, sarà al servizio dei suoi capitani - oggi sorride Vingegaard vista com'è andata, sul pavè vedremo. A noi del domani, in questo momento interessa il giusto: godiamo del presente, godiamo di Wout van Aert.
Attori di una bellissima storia (pur nella noia)
È domenica e tappe come quelle di oggi sembrano studiate appositamente per permettere a chi segue il ciclismo di godersi senza pentimenti una giornata al mare, in montagna, al fiume, persino al museo, dove, visto il caldo che fa, uno non dovrebbe disdegnare l'aria condizionata degli altri.
Tappe come quelle di oggi sono quelle che danno poco spazio alla fantasia. Ai titolisti: JAKOBIS!, era già pronto nella loro testa, ma invece andrà diversamente; ai corridori: fuga della maglia a pois, danese in terra danese che esulta sui GPM, aizzatore di folle, Magnus Cort Nielsen, una folla immensa per il terzo giorno e c'è chi si dispiace che da domani (o per meglio dire da martedì) si entrerà in Francia (con due tappe per nulla male). E poi il gruppo che controlla e chiacchiera prima di schiacciare il piede sull'acceleratore e cancellare negli ultimi minuti ore di sbadigli.
Per fortuna ci sono i danesi che danno spettacolo per strada, perché tappe così sono un po' una punizione per chi le guarda da casa e per chi le commenta che deve tirare fuori argomenti di ogni tipo, ma poi arrivano gli ultimi chilometri e ci si prepara alla volata. Benedetta volata, che ci fai perdere ogni volta qualche mese di vita e ci fai venire i capelli sempre più bianchi.
Sporca volata, ai limiti, persino bellissima, appassionante: adrenalina è sempre la parola chiave giusta e usiamo quella. Tre corridori sulla stessa linea: vince Groenewegen perché poi spesso il ciclismo sembra scrivere appositamente storie di questo tipo: ieri Jakobsen, oggi Groenewegen, dopo tutto quello che è successo due anni fa, una chiusura del cerchio che ha dell'incredibile, quasi seguisse una sceneggiatura pensata a tavolino.
"Secondo van Aert" invece, che ormai è un modo di dire, ma per fortuna, anche se di rado pensiamo, esiste un qualche tipo di giustizia e allora Wout (detto in confidenza e con una pacca sulle spalle, e intanto, chi si occupa di quella bellissima disciplina che è la statistica dice che van Aert è il primo corridore da Binda nel 1930 a chiudere per tre volte al secondo posto le prime tre tappe del Tour) che ci arriva vicino di nuovo per un qualcosa di non quantificabile, vestirà ancora la maglia gialla con la possibilità di portarla per (quasi) tutta la prossima settimana. Si consoli. Prima o poi arriverà il suo momento a questo Tour come lo hanno colto Jakobsen prima e Groenewegen poi, attori di una bellissima storia come quella che racconta il Tour de France (pur nella noia di una tappa per velocisti).
Fabio Jakobsen e i giganti
Era come essere sulle spalle dei giganti, al Tour de France, sul Grande Belt, in Danimarca. I giganti sono così: li vedi da lontano, arrivano da lontano. Hanno tutto ciò che serve per essere forti, per questo li vedi da lontano, e in certi dettagli sembrano anche deboli perché ti chiedi come facciano a resistere, a stare così in alto, a sorreggersi. Per questo sulle loro spalle spira vento, perché sono esposti, perché non possono nascondersi.
Assomigliano ai giganti i corridori del gruppo in una tappa come quella di oggi. Giganti forti e talvolta dai piedi d’argilla che vanno contro vento. Sì, perché il vento è contrario, ti spinge indietro, anche in parte laterale, ma non abbastanza per aprire ventagli, per disegnare linee diverse intorno al gruppo.
I giganti forti e fragili, dall’equilibrio instabile, che si vedono da lontano come le loro radici e il loro colore ipnotico, il giallo dell’ossessione: Lampaert che, in maglia gialla, va a prendere la borraccia, che cade e torna in gruppo proprio su quel ponte di diciotto chilometri. Le radici, quelle contadine: gigante perché formi la terra su cui cammini e nello stesso tempo dipendi da lei, dipendi da tutto. Essere giganti è anche questo, è una libertà precaria e ricercatissima. Vuol dire gioire con poco, come Magnus Cort Nielsen ad un traguardo volante. Lo sanno gli uomini di classifica caduti sul finale che non pagano conseguenze sul tempo ma le pagano sul proprio corpo.
Giganti come i velocisti. Una volata fra giganti per i nomi e per la forza che serve a sprintare. Prendete la forza di van Aert, che rassicura, che piace perché è equilibrata, perché è algida, armonica. Si sente il suono di quella forza nel vento, ma non basta anche se, stasera, sarà maglia gialla. La stessa forza di Fabio Jakobsen è, almeno oggi, più forte: basta poco, basta passare davanti di qualche centimetro. Jakobsen vince, da gigante, sulle spalle dei giganti.
Vorremmo parlare di giganti con Jakobsen, vorremmo parlare dei ponti tanto alti che si vedono da lontano e del sorreggersi con poco. Vorremmo sentire cosa ne pensa lui che per tornare a essere un ciclista è dovuto ripartire da zero, dalla base, dopo l’incidente di due anni fa. Vorremmo sapere cosa gli ha detto Lampaert dopo l’arrivo, all’orecchio. Fanno anche questo i giganti. Perché è grande ciò che si vede nei giganti, ma per restare lì, per tornare lì, tanto più grande deve essere quello che non si vede e ti tiene in piedi. Le fondamenta o, più semplicemente, l’animo.
La Maglia Rosa e il duello Vos-Balsamo
Dicono che il primo giorno in cui indossi la maglia rosa è il giorno in cui te ne rendi conto. Anche se la sera prima l'hai tenuta distesa sul tuo letto. Sì, perché te la vedi addosso e gli altri ti vedono con quella maglia. Del giorno in cui la conquisti non hai una foto di gara con quella maglia e per sentirla vera devi poterti vedere in gruppo con quel colore, devi essere cercata fra le altre e individuata perché tu, proprio tu, sei la maglia rosa. Per Elisa Balsamo quel giorno è stato oggi. Aveva anche il casco e gli occhiali rosa, un richiamo. Si richiama ciò che vuoi ricordare, che vuoi far ricordare: l'orgoglio.
Dicono che, quando sei all'attacco e ti avvisano di essere maglia rosa virtuale, ovvero la maglia rosa del futuro, senza foto e senza colore, almeno per ora, trovi forze che non avresti mai trovato. Alessia Vigilia è stata quel futuro sospeso per diversi chilometri. Dicono che i genitori, a casa, provino ansia sin dal mattino quando sanno che sei in fuga perché in quella fuga rivedono ciò che solo loro sanno, ciò che solo loro hanno visto. E sono tutte cose vere, più che mai vere: gli sfoghi, le delusioni, i timori. E poi anche la felicità: loro, la tua felicità, la conoscono bene. La chiamano in tanti modi. A sera, a fine tappa, al telefono, la chiamano orgoglio. Quando ti hanno visto scattare e tornare a scattare col gruppo dietro, fiera.
Dicono che i fuoriclasse abbiano un'idea in più per ogni volta in cui non funziona. Anzi, dicono proprio che le idee arrivino più decise quando le cose non sono andate come avresti voluto. L'idea di tornare a fare esattamente la stessa cosa perché vuoi vincere e vuoi vincere così. Come gli ultimi ragazzini che lasciano il campo dopo aver provato a fare e rifare lo stesso tiro, fino a che non è riuscito. I fuoriclasse sono come quei ragazzini. Marianne Vos è come loro quando parte e cerca di anticipare Elisa Balsamo, come ieri. Elisa Balsamo è come quei ragazzini quando la vede con la coda dell'occhio e cerca di prenderle la ruota. Anche i genitori a casa assomigliano a quei ragazzini: la mamma di Charlotte Kool, oggi seconda, ad esempio, che l’ha messa in bicicletta per permetterle di andare a pattinare.
Marianne Vos tiene, Marianne Vos vince a Olbia. A Leuven aveva detto a Balsamo che era quasi arrabbiata, dalla tanta delusione e non avrebbe avuto voglia di parlare con nessuno, eppure era andata a dirle che era stata brava perché i campioni fanno così. Elisa Balsamo, sul traguardo, aveva lo sguardo fisso, pensieroso, quasi a chiedersi dove fosse il problema, perché quelle gambe oggi non siano state come ieri. È un piccolo dolore.
Eppure le idee arrivano così. In quel pensiero si intravedono tante idee. Domani al Giro Donne ci sarà riposo, quella stessa maglia rosa sarà distesa sul letto di Balsamo come ieri sera, mentre Vos in testa avrà la maglia rosa futura, quella che non c'è ancora da nessuna parte, se non in una fuga immaginata, in un abbuono, in un varco spazio temporale. Le idee, plasmate dall'orgoglio, verranno da lì. Lunedì, a Cesena, vedremo il resto.
Non è un racconto di fantascienza
Spesso, guardando le bici da cronometro, immaginiamo un mondo proiettato verso il futuro. Certo, se dovessimo pensare alla nostra epoca in quanto a progresso ci verrebbe da ridere, ma soprassediamo.
Proviamo allora a tuffarci dentro a un racconto di fantascienza, a immaginarci un pomeriggio a Copenaghen come se Copenaghen fosse, appunto, il mondo; come fosse la società a cui vorremo appartenere e che sogniamo, leggiamo, raccontiamo, proiettiamo: biciclette su biciclette, bicicletta da crono con quella loro forma aerodinamica tirata al massimo, e poi ciclabili, viabilità, bandiere, tifo. Ecco: immaginiamoci il Tour de France in Danimarca.
Nel tardo pomeriggio di oggi, tutto quello che stava intorno era stato cancellato, un po' dalla pioggia che all'improvviso anticipava chi da giorni studiava il tempo e faceva carte, stilava programmi; diventava parte della scenografia mutando forme, mescolando valori, aumentando le difficoltà, dilatando margini. Un mondo quasi perfetto, guidato da corridori che apparivano come imperturbabili esemplari scenici, nelle loro tutine colorate, che pennellavano le curve e si dilettavano nell'andare uno più forte dell'altro.
In questo mondo ideale, ma che in realtà vive di sottili anomalie, il più veloce in bicicletta vince e oggi, nella sfida contro il tempo che serviva a dare in pasto ai contendenti la prima maglia gialla, toccava prendere la scena non solo al più veloce, ma anche al più astuto, al più fortunato, a quello meglio equipaggiato, al più motivato, sì insomma a quella sorta di emblema che potremmo chiamare: l'uomo bici.
E in questo racconto di fantascienza ci si infilava Mathieu van der Poel che ammorbidiva le curve come stesse dipingendo la carena di uno shuttle diretto nello spazio, con tutta quella sequela di facce che oggi prendevano una posa seria, fermo sul trono del primo in classifica a guardare l'arrivo in successione dei suoi avversari.
Il climax prevedeva il suo momento intorno alle 5.30 del pomeriggio. Qualcosa in meno, non importa. Arrivava.
Arrivava Ganna, col suo bolide, che scalzava van der Poel dal trono, ma il tutto durava lo spazio di pochi secondi. Piombava van Aert ed ecco, abbiamo detto tutti: è fatta! Arrivava Pogacar, che distribuiva lo sforzo, senza prendere eccessivi rischi all'apparenza perché lui è così: una guida naturale che alza il suo livello con la pioggia e la strada bagnata. Arrivava dietro di pochissimo. Van Aert andava in maglia gialla.
"No, ma... cosa succede?"
Smetteva di piovere, perché negli ingredienti di un buon libro di fantascienza c'è anche il thriller. E la sfida spaziale tra quei quattro lì veniva bruscamente interrotta da Lampaert, come da un altro pianeta, con quei lineamenti leggermente a mandorla e le orecchie a punta. Dicevano in questi giorni come la Quick Step avesse schierato la peggiore squadra della loro storia al Tour e invece loro si presentano così. Con una gara perfetta, con il loro uomo bici del giorno, che piangendo a fine gara non credeva a ciò che aveva appena combinato.
All'improvviso, finito tutto, quello che stava intorno a Copenaghen riappariva. Case, palazzi, monumenti, bandiere. Lampaert in maglia gialla e chi lo avrebbe mai detto.
Ma il ciclismo è fatto così, non è perfetto come il mondo ideale che ci eravamo immaginati, non è un racconto di fantascienza. Anche se con quelle bici lì a volte ti vengono dei dubbi.