Quello che hai, quello che puoi
Quello che hai e quello che puoi. Anche oggi, anche a Bellante, è stata tutta e sempre questione di quello che hai e quello che puoi. Non solo davanti, non solo per Tadej Pogačar che ha vinto, per ognuno, in ogni tratto di strada. Partendo dal fondo, dove la corsa sembra lontana, dove la calma può arrivare a tramutarsi in noia per chi aspetta: in realtà è dolore per chi può appena stare davanti al veicolo di fine gara, per chi si sente atteso, sente che anche l'appassionato che ha provato, per gioco, a seguire la vettura scopa andrebbe più forte di lui. La chiamavano scopa perché non lascia indietro nessuno. E l'abbiamo visto spesso: basta un cenno, un minimo segnale con la mano, il guidatore scende, apre la portiera e carica la bici. Quello che puoi e quello che hai: talvolta solo la possibilità di salire in macchina.
Talvolta solo la noia. Allora, chi è in fondo al gruppo, al seguito della corsa, si saluta, quando l'andatura rallenta picchia sul vetro della macchina più vicina, chiede come vada, fa una battuta. Un modo per andare avanti. Capita che qualcuno scenda dalla macchina e, nei tratti in cui scorge qualche borraccia, la raccolga. La butta in auto, non la guarda nemmeno perché non si può. Non c'è una sacca in cui metterla, non c'è nulla. Magari ce ne sono tre, quattro vicine, se ne raccoglie appena una e si va via. C'è una cadenza, un rito stabile: i frecciatori che tolgono le indicazioni stradali: un'auto dietro il fine corsa, che cancella i segni della gara. Lascia solo il ricordo, può solo quello.
Quello che puoi e quello che hai, intrecciati dalla partenza dove due atleti francesi si chiedono di Giovanni Visconti. Ci pensano e non sono gli unici. Quando un ciclista smette l'effetto è questo, perché non può più e fa strano a pensarlo. Sai che finirà, prima o poi, hai questo punto fermo ma quando succede fa strano, perché il mondo fuori da qui è diverso. È diverso ciò che hai, è diverso ciò che puoi. Non puoi tornare, ad esempio, e questo ti spiazza. In bicicletta, vada come vada, puoi tornare, puoi riprovare.
Ieri avevamo parlato dell'orgoglio di Evenepoel: potevamo solo immaginarlo, oggi l'abbiamo visto, oggi sappiamo di cosa è fatto. Dei cartelli dimenticati bordo strada: «Attacca adesso, Remco. Per favore». Puoi chiedere, hai solo quella possibilità, perché le gambe non sono tue. Puoi chiedere per favore, lo fai.
Poi c'è Pogačar che, in questi giorni, sembra potere e avere tutto. Tutto ciò che serve per riuscirci. Tutto ciò che serve perché sembri facile e le cose difficili sono belle proprio quando sembrano facili. Non è difficile per il percorso, non per la salita di Bellante, che anche ripetuta è digeribile. È difficile perché non sarebbe la tua tappa, non sarebbe la tua giornata, nemmeno il tuo percorso. Eppure ti arrangi con quello che hai. Che poi arrangiarsi non è il verbo giusto per quello che fa Pogačar. Il suo predicato è costruire, mettere assieme, unire il tempo. In secondi, in minuti. Guarda gli altri, li provoca, li stuzzica. Forse li illude anche, pensiamo a Victor Lafay che un colpo simile se lo era già inventato al Giro lo scorso anno, e poi decide quale carta buttare sul tavolo.
Qui aspettavano Alaphilippe, perché è lui e perché il Campione del Mondo che vince nella tua città fa sempre un certo effetto. Qui aspettavano Giulio Ciccone, perché siamo in "terra d'Abruzzi" e tutti lo chiamano per nome, che fa casa, che fa uomo, ragazzo di queste strade prima che ciclista. Qui hanno applaudito Quinn Simmons che ha attaccato tutto il giorno e, appena ripreso, si è messo a lavorare per i compagni. Quello che hai, quello che puoi, ma anche quello che non hai e non puoi più, quello che senti di dovere. In fondo quello che sei.
Un ciclista. Come Magnus Cort Nielsen che è arrivato con quasi ventidue minuti di ritardo, davanti a quella vettura che non abbandona nessuno, che segue e aspetta. L'unica cosa che si poteva fare oggi con Cort Nielsen, una delle poche che si possa fare con la sofferenza, col dolore. Gli hanno detto: "Dai che ce l'hai fatta". Ce l'ha fatta davvero, con quello che ha e con quello che può. In testa, in coda, persino su un'ammiraglia dopo il ritiro, è sempre tutto lì.
Chi viene da lontano
È il giorno di chi viene da lontano. Prendete Davide e Mattia Bais, ad esempio. Loro sono abituati a venire da lontano, lo è chiunque abbia scelto la fuga come interpretazione del ciclismo. Di più, si viene da lontano e si prova ad andare lontano. E quell'andare lontano attrae e respinge nello stesso tempo. Andare lontano è croce e delizia, perché lontano si può trovare qualcosa o perdere tutto. Taco van der Hoorn lontano ci è andato non solo in bicicletta e lì ha trovato più di quanto abbia lasciato: lo ha fatto con ciò che aveva, un vecchio Volkswagen e il necessario per dormire, ma anche del buon caffè, per gustarsi quella lontananza. Sì, la lontananza scegli se ricordarla o dimenticarla ma se sei un ciclista, in un modo o nell'altro, l'hai dentro.
La lontananza potrebbe spiegarla Tadej Pogačar che tutti pensavano si fermasse dopo lo scatto per il traguardo volante e invece ha continuato e in Piazza a Terni ci si chiedeva dove sarebbe andato. Sì, in piazza, come si fa con i fatti del giorno, come si fa aprendo il giornale al mattino e commentando le notizie. Oggi per Terni non c’è lontananza. Quella che può spiegare Alaphilippe che, in quello scatto, c’è stato. Non solo fisicamente, anche mentalmente. Non solo per provarci, non solo per un segnale, per riuscirci. E ci sono le transenne che fremono, sì perché ve la immaginate una tappa così con all’attacco Pogačar e Alaphilippe? Qui l’hanno vista e mentre ci pensavano non tenevano ferme le mani. Il freddo? Non solo. Le stesse transenne a cui si è appoggiato Evenepoel e chissà a cosa pensava, con quello sguardo in avanti, a cercare qualcosa. Sembra abbia detto che attacchi come quelli di Pogačar per i traguardi volanti sarebbero stati anche pane per i suoi denti. Un tempo, oggi non più. Chissà domani, chissà l’orgoglio.
Invece la lontananza ce la spiegano, a Murlo, due signori americani che in Italia sono arrivati per pedalare e per la Strade Bianche, ma hanno cambiato il volo aereo appena hanno scoperto che un’altra gara sarebbe passata. Che in italiano dicono quasi solamente “ciao” ma conoscono i vini, i vigneti e anche alcuni fra i nomi che indicano le vie, che sono amici di Toms Skujiņš che viene dalla Lettonia, un altro mondo rispetto a loro. Sono lontani e lontano vogliono restare, almeno per ora. Perché ad allontanarsi ci si può prendere gusto.
Lontano come è lontano Caleb Ewan. Perché viene dall’Australia, dall’altra parte del mondo, perché ha gli occhi a mandorla, quasi una forma differente di visione del mondo che ti resta addosso. E perché per un velocista la lontananza è un mondo da esplorare. Loro che in volata lasciano appena spazio all’aria. Vicini, sin troppo. Senza toccare i freni. Con la costante tentazione di allontanarsi, di quel tanto che basta per alzare le braccia e sentirsi liberi. Lontani e ritrovati.
Duro Pedersen
Qualche tempo fa, Mads Pedersen spiegò: «Quando ero ragazzo conoscevo solo un modo di correre: mettermi davanti, fare selezione e poi battere tutti in volata». Non erano nemmeno tantissimi anni fa quando Pedersen correva in quel modo, perché, pur essendo professionista da qualche stagione, sembra abbia ancora margini da scoprire e confini poco marcati rispetto a tanti della sua generazione di corridori, o forse sarà quel titolo mondiale vinto quando doveva ancora compiere 24 anni - il più giovane dai tempi di Freire - che ci ha lasciato di lui un'impronta di eterno ragazzo.
Da junior, era il 2013, vinse la Paris-Roubaix: è vero, nulla a che vedere con quella dei grandi – basta vedere il terzo posto di Geoghegan Hart- , ma fa capire quanta tempra e quali desideri si manifestino nella mente del corridore nato 26 anni fa a Tølløse, Danimarca.
Mostrò da subito la stoffa del duro da corse dure. Più una gara ti macerava dentro e più lui spiccava. Non sono un caso quei pochi giorni nel 2018 tra Dwars door Vlaanderen e la successiva Ronde. Alla Dwars arrivò quinto, giornata ghiacciata, giornata di pioggia, chiuse stremato in fondo al gruppetto che vide la vittoria di Lampaert non senza aver provato a mettersi davanti nel finale “per fare la selezione e battere tutti in volata”.
Al Giro delle Fiandre fu secondo alle spalle di Terpstra che tutto solo si involava verso Oudenaarde. Pedersen andò in fuga da lontano per fungere d'appoggio ai suoi capitani, Degenkolb e Stuyven, ma, sorpresa delle sorprese, staccò i suoi compagni d'avventura e fu l'ultimo a resistere a un irresistibile Terpstra. «Il Fiandre è una corsa di sopravvivenza – disse a fine gara – e non importa come ti chiami o quanto forte tu sia».
Lo dimenticammo. Per un po'. Un anno e mezzo dopo Mads Pedersen divenne famoso, pure in Italia e ci giuriamo anche a casa Trentin, per la vittoria nel Mondiale di Harrogate. Una corsa durissima, di quelle che piacciono a lui. Bagnata, di quelle che lui adora, con un gruppetto che (quasi) congelato arrivò a giocarsi la maglia iridata dopo aver lasciato per strada il grande favorito del giorno, Mathieu van der Poel che, sei anni prima, nel Mondiale categoria juniores disputato a Firenze, arrivò primo proprio davanti al danese.
Lo conoscemmo bene ad Harrogate. Lo approfondimmo. Ci fece un po' arrabbiare, per partigianeria - sfidiamo chiunque a sostenere di non aver provato tantissima amarezza quel giorno - , ma lo perdonammo. Per quel suo viso pacioccone che ispira simpatia, per quel suo modo discreto di apparire - come ieri - fortissimo, o scomparire - come spesso nel 2021 - mesto, appesantito e in fondo al gruppo.
Vestito con la maglia iridata fece un po' di fatica, lui che, spunto veloce, quasi velocissimo, vinse una spettacolare edizione della Gand-Wevelgem nel 2020, la vittoria più importante conquistata da campione mondiale in carica.
Ieri, mentre il gruppo si lanciava a tutta verso il traguardo di Dun-le-Palestel, alla Parigi-Nizza, Pedersen, che lo puoi riconoscere facilmente dalle bandine iridate sui bordi della sua divisa, è partito lungo per il suo sprint battendo un gruppo che ancora portava le cicatrici dei ventagli del giorno precedente.
Partito lungo, con quel miscuglio di potenza e sfrontatezza che spesso ci chiediamo come mai spicchi solo a intermittenza, come la luce difettosa in una sala. «È stata una giornata abbastanza buona, oggi». Semplici parole, mentre le gote rosse pulsavano e a malapena riusciva a nascondere l'entusiasmo.
Ha aggiunto che salterà la Milano-Sanremo perché quella è la corsa di Stuyven, capitano, suo capitano, vincitore uscente della Classicissima e ieri artefice in buona parte della vittoria del compagno danese con una trenata che fa suonare un campanello d'allarme nella testa degli avversari che vorranno provare a vincere la grande classica ligure.
Pedersen, invece, una giornata ancora migliore la cercherà nella corsa dei suoi sogni, la Roubaix, quella per uomini duri come lui. «Se dovesse piovere alla Roubaix? Sarebbe meglio per gli spettatori, sarebbe meglio per i giornalisti, sarebbe meglio anche per me». Raccontava, quando ancora la stagione doveva aprire i battenti.
Come formiche
Non c'è molto di diverso tra quello che è accaduto a Camaiore stamattina e quello che è capitato a Sovicille questo pomeriggio. Una partenza e un arrivo, certo, ma, a parte questo, si parla sempre, come dicono da queste parti, a Sovicille per l'appunto, di "una corsa di biciclette". Che poi, a ben vedere, a correre è l'uomo più che la bicicletta ma, nei vecchi paesi, si dice ancora così, come si aspetta la "partita di pallone".
Non c'è molto di diverso ma in realtà è tutto diverso. A Sovicille ci sono le domande, fuori da un vecchio bar, col sole radente, e un piatto di crostini neri, fegato e milza. Qualcuno vuole che gli si spieghi bene perché un gregario fa tutta la fatica che fa, perché quei cinque corridori sono scattati stamattina senza alcuna possibilità, altri cercano di capire di che nazionalità è un corridore dalla lingua che parla. Accade anche a noi, mentre un giornalista francese cerca di spiegarci perché segue il ciclismo e, per dire che lo segue per ciò che gli permette di sentire, poggia una mano sullo "stomaco". Ecco, a Sovicille a questa cosa non erano abituati.
Non sappiamo spiegare neanche noi lo scatto di Pogačar al traguardo volante, se non col fatto che sta bene, che, comunque, ha guadagnato un secondo, che punta a vincere questa Tirreno. Sappiamo spiegare il fatto che Cavendish si stacchi su una pendenza per nulla rilevante: se la gamba non c'è, non c'è. Tutte cose su cui riflettiamo noi e chi "le corse di bicicletta" le vive quotidianamente, per chi non è abituato tutto questo è estremamente naturale, mentre le spiegazioni si cercano per le cose che, col tempo, sembrano semplici, forse scontate, che poi, talvolta, non sono nemmeno così semplici. Per esempio quante borracce ha una squadra all'inizio di una gara come questa.
Anche per una volata accade così. Chi attraverserebbe campi e campi con semplici scarpe da ginnastica, anche graffiandosi, per una volata? Spettacolare quanto vuoi, ma certe cose, nel ciclismo, accadono sopratutto in salita. Come tante formiche per i campi, le persone. Ci dicono che qui vicino c’è un paese talmente sperduto da non essere conosciuto quasi da nessuno: Castiglion che Dio sol sa. Qualcuno sarà arrivato pure da lì.
E non solo per vedere Merlier vincere, per molto di più. Per fare attenzione a ogni movimento di un ciclista dopo l’arrivo: “Guarda quello che si è seduto sul muretto. E adesso cosa fanno? Ah lo coprono. Ma hanno la Coca Cola in mano, la bevono dopo il traguardo?”. E così via.
Mentre Merlier vince e Ganna resta in maglia azzurra. Mentre Merlier cerca dall’altra parte delle transenna la compagna e non gli interessa nulla del fatto che lo stanno aspettando alle interviste: certe cose vanno dette subito, altrimenti le perdi. Ed è un bene che sia successo, qui, a Sovicille, dove le persone, quando ti conoscono ti accompagnano a vedere un’incisione di un uomo che caccia un animale fantastico, sulla Chiesa di San Lorenzo. E tu resti lì, stupito, ad ascoltare.
Qui dove non sapere è anche meglio di sapere perché puoi stupirti e guardare ciò che non avresti mai visto. Fosse anche solo un tubolare.
Ganna e gli orologi di Camaiore
Non lontano dal mare, c’è il tendone con le inconfondibili sedie in cui ognuno aspetta il proprio turno prima di partire per la cronometro. La cronometro, in realtà, inizia lì. Inizia prima di iniziare. Ci sono dei sospiri che non ti aspetteresti mai a inizio stagione. La fregatura è l’orologio, quel timer che tutti vedono da qui e segna il conto alla rovescia per la partenza. Allora qualcuno si volta verso il collega seduto accanto e cerca di fare due parole. Si capisce, si vede, che non si conoscono, che non hanno confidenza, ma quell’orologio rende tutti uguali. Per iniziare a parlare chiedi a chi ti è accanto se vuole la tua borraccia, sai che ha la sua, la vedi, ma, anche il “no”, è un modo per far passare qualche altro minuto, forse secondo.
Non importa il risultato che vorrai ottenere, ma quell’orologio ti mette sull’attenti. Così guardi Simone Consonni che continua a toccare il casco, a spostarlo, a sistemarlo, qualcuno guarda il copriscarpe, il body, qualunque grinza. È il tempo. Lo stesso su cui disputano due signori mentre dal lungomare vanno verso l’interno: due orologi, fra l’uno e l’altro cinque minuti. Capire l’ora è fondamentale, soprattutto oggi, perché alle 16:37 parte Filippo Ganna. Qualcuno gli chiede se, dopo quello che ha fatto sabato a Siena, non teme Pogačar per la cronometro di oggi: «Dovrebbe essere scarico, ma lui con lo sforzo si ricarica invece di stancarsi». Della serie: «Vai a capire come fa».
E quell’orologio continua e le persone dai rulli accanto ai bus corrono alla partenza e poi, dall’altro lato, all’arrivo. Le lancette ti dicono cosa fare, quanto manca, quanto è passato. Per i ciclisti aumenta la frequenza del respiro, la sua profondità, l’ultimo sospiro è prima di scendere dalla pedana. Qui tutti tornano a guardare un orologio, non un telefono o un timer ma un orologio. Con le sue lancette e il suo tic-tac. Col suo giro, come le strade di questa crono che è un anello, che ti fa vedere dove sarai a breve, dove sei già stato. Che accanto ti fa correre chi corre per vederti e chi, con uno zaino in spalla, torna in hotel. Una bici per portare una persona da un luogo all’altro, con ciò che gli serve.
Ganna e il vento, Ganna nel vento. Quel vento dal mare che ha odiato per molto tempo. Un taglio nell’aria che sembra vibrata come una corda di una chitarra. Potente come chi deve penetrare l’aria, delicato come chi sfiora una transenna e non la tocca. E va, pedala più forte di prima. A poco tempo di distanza passano Ganna e Evenepoel. Nonostante il mare e il vento, si sente il rumore dei pedali, la catena. O, forse, immagini tutto, perché sai qual è il suono di un ciclista che passa, perché fra tanti suoni sembra impossibile sentirlo così bene. Sempre uguale e sempre diverso.
E non c’è nulla da fare perché anche Pogačar è dietro. Quegli orologi che sembravano essersi quietati dopo la partenza di Ganna, come quando accade ciò che aspetti, tornano a correre dopo quella di Pogačar, per capire cosa accadrà, per capire se a Ganna sarà bastato essere così veloce. È bastato, ce lo ricorda un signore: «È diventato un piacere anche vedere la cronometro». Già, gli orologi si leggono e si ascoltano, come le storie. E, a Lido di Camaiore, Ganna li ha accordati tutti. Un’orchestra, una sinfonia.
Terra e speranze
La brezza delle speranze ha iniziato a soffiare stamattina presto su Siena. Quando, per esempio, il portiere del nostro hotel ci ha chiesto se van Aert fosse a Siena per poi confessarci che, qualche anno fa, aveva avuto ospiti i suoi genitori ma non li aveva riconosciuti. La speranza che van Aert torni qui e che i suoi genitori si ricordino ancora di questo piccolo albergo, perché lui ricorda ancora tutte quelle domande che avrebbe voluto fare. C'è chi ha sperato nella pioggia fino a stamattina e ce lo dice con semplicità disarmante: «Con gli anni del tempo te ne freghi, quando arriva una gara di biciclette, però, torni a svegliarti e a guardare il cielo come facevi da bambino per la neve». Ma ci sono anche speranze più grandi, speranze talmente grandi che non stanno in un pezzo di ciclismo. Quella signora con due sacchetti pieni di cibo da mandare in Ucraina che grida a qualcuno: «Lascio questi da donare e vengo alle transenne, tienimi il posto!».
Per un ciclista o una ciclista la speranza è qualcosa di multiforme. La sera prima, ci dicono i più, si pensa agli sterrati: li hai già visti, certo e se non li hai potuti vedere hai telefonato a chi ha avuto questa possibilità per farteli spiegare ma la notte può cambiare le cose, basta così poco perché le cose non siano più come le immaginavi. La terra è refrattaria alle speranze, non ha appigli, non ha certezze. Basta il vento. Speranza significa appoggiare una mano sulle spalle, come Alaphilippe con Honorè. Proprio dopo quella caduta che ha capovolto la bicicletta e il corpo del Campione del Mondo, in quell'unico momento in cui non hai tempo di sperare. Alaphilippe che ha continuato a sperare che può significare anche aspettare, a patto di fare qualcosa. Inseguire nel suo caso, anche dando di spalle, inseguire Tadej Pogačar che «solo a vederlo andare via a cinquanta dall'arrivo, ti lascia senza speranze», ci dice un tifoso di Gianni Moscon a cui la speranza l'ha tolta la stessa bicicletta che è, in realtà, la prima possibilità di sperare per un ciclista.
Tutta la speranza delle compagne di Lotte Kopecky la vedi all'arrivo, quando, non vedendola quasi più, nell'insieme dei fotografi, allora le fanno arrivare la loro voce. La indicano a ogni nuova compagna che arriva: «Vai da lei», è questo il senso. Kopecky ha iniziato a sperare quando ha visto che van Vleuten, tanto forte, non la staccava, quando ha visto che, se anche perdeva qualche metro, rientrava. Lei da cui oggi sono corsi tutti, lei che, due anni fa, al Giro Rosa, ha vinto mentre tutti aspettavano van Vleuten, caduta malamente. Quasi la sua vittoria fosse solo un dato in più. Non siamo riusciti a contare i secondi in cui, mentre il suo staff la aiutava a coprirsi, guardava il centro della piazza, voltandosi appena sentiva il suo nome.
La speranza di Tadej Pogačar è uguale e diversa da quella di qualunque fuggitivo. Somiglia a quella del ragazzo in ginocchio su un pilone di Piazza del Campo solo per una foto dell'arrivo. «Me l'hanno chiesta e da qui si vede meglio» dice a chi gli chiede perché non si metta più comodo. Sembra facile essere Pogačar oggi, come sembrerà facile aver fatto quella foto a chi la riceverà. Devi aver sperato quasi come chi attacca a Monte Sante Marie per saperlo.
Pogačar che vince e si butta per terra con così tanta forza che a vederlo viene da chiedersi fino a che punto l'acido lattico faccia male e fino a che punto anestetizzi i muscoli. Pogačar che ha dominato quella terra, non l'ha subita, davanti a Valverde che, a quasi quarantadue anni, dopo una gara così, chiede il permesso di passare per andare alle premiazioni. Quanto ancora può sperare "Bala"?
Vedere Pogačar vincere così, per il ciclismo, vuol dire sperare, in fondo. Non solo in quello che ancora può vincere, ma in qualcosa che ti fermi lì, anche se c'è un vento freddo come in Piazza del Campo ed è quasi sera, e non ti faccia pensare ad altro. Almeno per qualche momento. Che ti tolga la nostalgia del ciclismo che è stato, perché puoi godere a pieno di quello che c'è. Perché è vero: la speranza da sola non cambia le cose, per un ciclista come per chiunque altro, ma, senza quella, nessuna bicicletta si muoverebbe mai, che le strade siano di terra o di asfalto. Le persone che arriveranno a casa a notte, oggi, sono certe di aver fatto bene a esserci. Noi anche.
Dateci la Strade Bianche
L'attesa è tanta. E allora dateci una gran bella corsa tra gli sterrati senesi; una corsa sporca e brutale, una classica, questa è diventata in pochi anni, anzi pardon, una Classica: Strade Bianche la chiamano, che poi, quando arrivi su verso Piazza del Campo e superi lo strappo di Santa Caterina, di bianco non c'è rimasto più nulla, se non la faccia di chi magari sta zigzagando per portare la pelle al traguardo – van Aert 2018 insegna. Bianco, sì, forse come un cencio lavato, si potrebbe dire.
Dateci qualche nome di corridori su cui puntare: niente van Aert, né Bernal, né van der Poel, nemmeno, all'ultimo momento, Pidcock (4°, 3°, 1° e 5° nel 2021, annata e corsa irripetibile), però qualcosa di interessante c'è, vedremo a breve. Una di quelle gare che prova a ribaltare l'assioma: la corsa la fanno i corridori. No, è la Strade Bianche a fare i corridori, li strugge, li infanga, domani più verosimilmente li dovrebbe impolverare.
Insomma, dateci questi nomi buoni: van Vleuten e Pogačar, Alaphilippe e Longo Borghini, Vos e Valverde, e scorrendo le liste di partenza si potrebbero pescare outsider di ogni genere: Benoot, Wellens, Van Avermaet e ancora Blaak, Niewiadoma, Ludwig. E mica solo loro.
Dateci una corsa che si corre in Italia e per la quale gli italiani (perdonate la serie di bisticci) hanno sempre avuto una sorta di idiosincrasia difficile da spiegare: se restiamo al maschile un solo successo che fu una saetta (Moreno Moser) ma non fece breccia; poi qualche podio sparso qua e là, poi qualche sprazzo mollato su e giù, ma senza mai davvero essere protagonisti per un successo finale. Quest'anno Covi potrebbe essere il fattore giusto all'interno dell'UAE che schiera un solo capitano, di cui non serve dire nulla, ma vicino al suo nome ci sono 5 stelle.
Se ci limitassimo a raccontare la gara femminile, invece, anche qui troveremmo un solo nome italiano in sette edizioni: Elisa Longo Borghini, chi se non lei, domani, con addosso il tricolore, sarà il faro del movimento. Chi se non lei per provare a scardinare le difese olandesi che andranno all'attacco seguendo la loro idea di ciclismo totale. E dentro al quale ogni tanto si accartocciano.
Insomma, dateci le Strade Bianche, abbiamo voglia di ingoiare polvere, di soffocarci e lacrimare, di tifare da bordo strada, di aspettare in Piazza del Campo come quelli che sono lì già da qualche giorno. Di fare foto e incitare, di spingere da casa come quelli che simulano senza accorgersene un colpo di reni guardando una volata dal divano. Di soffrire per loro, a volte anche con loro. In questo momento della stagione non potremmo chiedere di meglio: appuntamento a domani allora, sin dal mattino o quasi.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Pogačar
⭐⭐⭐⭐ Alaphilippe
⭐⭐⭐ Benoot, Wellens, Valverde, Mohorič
⭐⭐ Covi, Fuglsang, Clarke, Cosnefroy, Gogl, van der Hoorn, Narvaez, Simmons
⭐ Kwiatkowski, Higuita, Rota, Vermeersch G., Moscon, Guerreiro, Asgreen, Pello Bilbao, Valgren, Kron, Lopez
⭐⭐⭐⭐⭐ Van Vleuten
⭐⭐⭐⭐ Longo Borghini, Vos
⭐⭐⭐ van den Broek-Blaak, Vollering, Niewiadoma
⭐⭐ Ludwig, Garcia, Moolman-Pasio
⭐ Spratt, Bastianelli, Persico, Leleivytė, Paladin, Chabbey, van Anrooy
Vincere di rabbia, vincere di generosità
Corsa pazza Le Samyn, se ce n'è una. Corsa del nord "la più fiamminga tra le corse valloni", con poche regole: con quel circuito e i suoi settori in pavé, e tra quei sassi irregolari trovi persino alcune buche dove si formano pozzanghere.
Corsa pazza e senza regole, corsa per generosi: tre su tutti, in ordine di popolarità: Matteo Trentin, Victor Campenaerts e Stan Dewulf. Se ne potrebbero menzionare altri, come Hugo Hofstetter che arriva a tanto così dal superare Trentin sulla linea d'arrivo.
Hofstetter che vinse qui nel 2020, a pandemia appena scoppiata - che brutti tempi che corrono. Piangeva a dirotto al termine di quella giornata, lui che pare un duro in bicicletta, e si presentò alla sua squadra dicendo: «In corsa sono un combattente nato che ama le corse difficili, massacranti». Perché piangeva? Si chiedevano in molti quella volta. «Perché vincere è difficile, perché per vincere oggi ho dovuto lavorare tantissimo».
Hofstetter che definisce il suo mezzo di lavoro «uno strumento musicale» e che ha un tatuaggio con una bici sull'avambraccio e sotto una scritta: "la volontà porta alla realizzazione dei nostri sogni, la fede ci aiuta a mantenere la speranza, il tempo è l’unico limite per realizzarli".
Che calza benissimo su Matteo Trentin, che sa quanto è difficile vincere, quanta volontà ci vuole, quanto è stretto il tempo della nostra esistenza: lui che è sempre lì davanti e che gli manca sempre un centimetro, una pedalata, lui che è impossibile non apprezzarlo per la generosità che ci mette in corsa, per l'intelligenza con cui si muove in gruppo, lui che fino a oggi in Belgio, nonostante una presenza costante, nonostante una capacità di limare con pochi eguali, non aveva mai vinto una corsa di un giorno del calendario primaverile. Oggi, primo giorno di primavera metereologica, ci dà uno sprazzo per sorridere in giorni tremendamente difficili.
Corsa pazza, con un braccio di ferro tra fuggitivi e gruppo che dura per l'ultima ora abbondante di gara. Campenaerts e Trentin che dominano e a volte si fanno prendere persino troppo da quelle gambe, oggi buone come non mai. Generosi, se ce ne sono due.
Corsa pazza, vinta da un corridore che ci piace un sacco per come interpreta le gare. Con una volata che ha definito «Fatta con esperienza e intelligenza». Corsa pazza, di rabbia; corsa per generosi, se ce n'è uno, corsa per Matteo Trentin.
Le strane volate del Nord
Quando si parla di "inventare", di solito, nel ciclismo, ci si riferisce alle fughe o alle vittorie nelle tappe di montagna. La volata, lo sprint, almeno idealmente, è qualcosa che ha più a che fare con la programmazione che con l'invenzione. Marta Bastianelli ed Emma Norsgaard, però, a tale proposito, potrebbero ben precisare qualcosa dopo le vittorie rispettivamente alla Omloop van het Hageland, domenica, e a Le Samyn Dames nel pomeriggio di oggi.
Le loro non sono state volate classiche, forse non avrebbero nemmeno potuto esserlo sulle strade del nord. Lì la programmazione lascia spazio all'istinto, al fiuto, che ben si accorda col vento che spesso spazza quelle strade. Bastianelli aveva pensato di controllare la gara attraverso la sua squadra, lo aveva anche dichiarato alla partenza. Poi il suo dorsale, il 91, è comparso nel folto gruppo delle attaccanti di giornata e qualcuno è rimasto sorpreso. Ha sicuramente fatto molto l'esperienza, la percezione che quella fosse la fuga buona, che controllare sarebbe stato più rischioso che provare a entrarci. Che, se vuoi la volata, da quelle parti devi guadagnartela. La volata a ranghi ristretti, se arriva ed è già successo nelle due gare prese in considerazione, è una costruzione ad istinto dove la squadra fa indubbiamente molto, ma il momento giusto devi capirlo tu e non temere di disfare ogni tattica.
Guardate la Movistar di Emma Norsgaard oggi a Le Samyn. Ha controllato la gara quasi tutto il giorno, almeno fino a che è diventata incontrollabile. In gergo si dice "essere sparsi uno per cantone"; bene le atlete a quel punto erano davvero sparse una per cantone ed in quei momenti l'energia diventa miraggio. Grace Brown, ad esempio, che ripresa da Alice Barnes proprio mentre sembrava al culmine delle energie non ha più potuto resistere e ha perso contatto inesorabilmente.
Quando le energie si fanno miraggio, rischi l'errore. Norsgaard non aveva più compagne di squadra a pilotarla nel finale, mentre Van Anrooij e Guazzini passavano il drappo rosso dell'ultimo chilometro in testa.
E qui una parentesi è doverosa: vedere Vittoria Guazzini lì davanti fa molto piacere, soprattutto dopo l'infortunio dello scorso autunno alla Roubaix. Anche lei lucida, anche lei non cede alla danza dei miraggi. Dopo uno sforza notevole con l'attacco del finale, come il gruppo sta per rientrare cerca di partire, di lanciare la propria volata. Che è anche per lei uno sprint inventato, strano, anomalo.
Vince Norsgaard che ha controllato da sola il gruppetto delle inseguitrici, ha battezzato la ruota di Copponi, ha aspettato ed è partita. Di quella danza dei miraggi e delle energie è vittima proprio Copponi, che, partendo, in sostanza, le tira la volata, ma anche questo è nel conto, anche questo fa parte di quell’insieme di caratteristiche e di fiuto che fanno una velocista. Essere nel posto giusto, al momento giusto anche se già potresti pensare di aver perso. Chiara Consonni ci è andata vicino, ma nulla da fare.
Bastianelli e Norsgaard, modalità diverse, stesso risultato. Facendo buon viso a cattivo gioco, tenendo a bada, forse, anche l'indole delle ruote veloci, un'indole nervosa, che scalcia, e usandola nel migliore dei modi. Perché, al nord, la velocità è soprattutto imprevedibilità.
Per un pugno di metri
Un nutrito gruppo di corridori, ridotto infine a tre, c'ha provato fino all'ultimo. Ripresi a un centinaio di metri dal traguardo. Pedalatori di un certo spessore, superstiti di una corsa spumeggiante: Narváez - il primo a perdere la ruota nel lungo sprint finale - che sono già due anni che nel weekend di apertura delle corse del Belgio azzecca le fughe buone; poi Laporte, nuova testa nello squadrone Jumbo, oggi capitano in contumacia di van Aert; e van der Hoorn, corridore ormai di culto nei nostri tempi ciclistici, che abbiamo imparato a conoscere in modo più approfondito al Giro 2021 quando vinse la tappa di Canale; che aveva previsto a novembre di andare in fuga ieri; quel ragazzo dal volto buffo, che spesso, come ieri, corre senza occhiali, che qualche anno fa ha battuto van Aert e Merlier in una corsa in Belgio e poi decise di girare l'Europa con un furgoncino Volkswagen del 1982: tra i suoi obiettivi c'era quello di prendere appunti per conoscere alcuni tratti delle classiche più importanti, Strade Bianche compresa, che chissà, fra meno di una settimana, potrebbero ispirare il suo modo di interpretare la bici, sempre all'attacco e con una certa ammirazione per le strade impolverate.
Ma quel terzetto si è visto piombare addosso il gruppo con Jakobsen ed Ewan a tutta, aggiungessimo Philipsen troveremmo i tre velocisti più forti di questo bistrattato pianeta. Jakobsen è partito lungo dribblando le scie di chi, davanti a lui, man mano sembrava frenare contro una forza invisibile che potrebbe essere la somma di fatica e vento; una scelta ponderata quella di Jakobsen, «Partendo lungo e sfruttando la scia avrei preso più velocità dei miei avversari e così è stato».
Jakobsen che si vedeva, centimetro dopo centimetro, avvicinare e poi affiancare da Ewan. Poi il colpo di reni che per un pugno di centimetri premiava il corridore olandese della Quick Step, capace di riprendere in mano il filo con il successo sfuggito alla sua squadra ventiquattro ore prima alla Omloop Het Nieuwsblad, gara che li ha visti, anzi, non li ha mai visti realmente competitivi su quelle che abitualmente sono le loro strade. «Lefevere contrariato dopo la Omloop? Non saprei dirlo, ha parlato in dialetto West-Vlaams e io parlo solo l'olandese. A parte gli scherzi, non è stato un bel momento il suo discorso motivazionale, diciamo, ma di sicuro ha funzionato».
Jakobsen, la storia è nota, un anno e mezzo fa rischiò la vita in corsa, proprio durante una volata, proprio durante quella parte del suo lavoro che lui preferisce: «Questo è quello che so fare meglio: amo la velocità, mi hanno dotato di gambe veloci, ci si sente bene a correre per la vittoria». Dice che la pressione che deriva da avere una squadra che corre per lui lo motiva al massimo soprattutto se, come successo alla Vuelta e come successo ieri: «I miei compagni mi dicono che lavoreranno tutti per me, perché mi considerano il più veloce in gruppo».
E intanto che quel gruppetto di corridori, ridotti a tre dopo una corsa d'attacco, manda giù l'amaro in bocca per non essere riuscito a compiere un piacere che poi è un dovere, ovvero arrivare sulla linea del traguardo e vincere, Fabio Jakobsen guarda avanti: «Parigi-Nizza, intanto, poi per la Sanremo ancora non si sa, mi dovessero selezionare mi farò trovare pronto».
E magari anche lì conquistare tutto a suon di velocità. Fosse per una questione di metri o di centimetri cambierebbe poco, ciò che importa è far risuonare le fibre veloci che qualcuno gli ha dato in dono e poi magari apparire in foto, felice, sorseggiando birra, come successo qualche ora fa alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne.