Anima e farfalla

Si rischia di essere ripetitivi quando si parla di Annemiek van Vleuten, sarà perché anche lei è ripetitiva, nel suo continuare a sorprendere, nel suo sublimare uno stato di grazia che non conosce età. Per chi scrive è semplice scrivere di van Vleuten, perché improvvisa sulla parte, quella della campionessa. Incredibile nel suo aggiungere sempre qualcosa che neppure il miglior sceneggiatore potrebbe prevedere, ma che nessun regista può mettere in discussione perché spiazza e attrae.

Non era difficile prevedere un'olandese a braccia levate sul traguardo di Ninove. Non serviva chissà che immaginazione per pensare a van Vleuten. Ci raccontano di bar delle Fiandre con lavagne in ardesia e gesso per provare a prevedere chi vince sui muri e chissà quanti hanno scritto Annemiek van Vleuten. Nemmeno era difficile pensare che avrebbe vinto dominando, ma il suo dominio è una costante che non spegne la fantasia, è la declinazione di un verbo greco che fatica a restare in mente. Di quelle parole che in greco antico vogliono dire anima e farfalla, tutto e il contrario di tutto.

Quando van Vleuten parte, al Bosberg, ha tutta l'aria di chi si è stufata delle scaramucce delle colleghe e se ne va quasi con un "adesso vi faccio vedere io come si fa". Solo Demi Vollering riesce a tenerle la ruota ed è talmente incollata a quella ruota che, se solo l'inquadratura si schiaccia, quasi scompare dietro la sagoma di van Vleuten.
Significa sfidare il tuo essere atleta stare dietro a van Vleuten, farsi bruciare dall'acido lattico. Anche perché van Vleuten non molla di un centimetro. Sono in due ma lei prosegue come fosse sola, tira, tira, tira. Qualunque materiale sottoposto a tanto sforzo esploderebbe, si lacererebbe, fosse un elastico o una fionda. Non i suoi muscoli.

Undici chilometri in testa per van Vleuten, undici chilometri a ruota per Demi Vollering. Non le chiede cambi sino all'ultimo, anche perché la faccia parla per lei, Vollering non ha la sua stessa brillantezza, non può dare cambi. Deve restare lì e tentare di superarla in volata perché è più veloce e perché, in teoria, dopo quello sforzo chiunque perderebbe. Chiunque tranne lei.
La declinazione diversa, la variante, l'anima e la farfalla assieme, sono in van Vleuten. Che all'ultimo chilometro ha la lucidità di far passare davanti Vollering, una lucidità spietata, una mente sopraffina nonostante la fatica. Si fa sfilare, sta a ruota, e poi parte. Nonostante l'ultima curva, una volata lunga, difficile, contro chi, a bocce ferme, è più veloce. Quattrocento metri per tornare a superare Vollering, per tornare davanti e vincere. Bello, senza dubbi. Crudele, senza dubbi.

Finisce così. Van Vleuten che gioisce da una parte, Vollering disperata dall'altra, a tratti accartocciata sul manubrio, consolata da chi passa. E tutti gli altri lì, a guardare, dopo troppo tempo. Il ciclismo non era mai andato via, ieri, però, è tornato. Sembra impossibile, una contraddizione, un controsenso. Non lo è. Si può dire anima e dire farfalla allo stesso tempo. Ricordatevelo.


Quel mal di gambe dalla Francia fino a Ninove

Intanto, per iniziare, oggi appuntamento con un bel giro mattutino in bici. Buona idea sfruttare la giornata tutto sommato fresca, ma con il sole che già verso mezzogiorno saliva quasi a picco. Poi un pranzo veloce e preparazione per un sabato ciclistico totale: divano, birra gelata, se possibile, due dispositivi accesi perché da una parte la prima gara in Belgio dell'anno (Omloop Het Nieuwsblad), sul pavé, e basta dire pavé per accendere qualcosa: quattro lettere che raccontano il fascino di questo sport; dall'altra, in Francia, la Faun-Ardèche Classic che detta così saprebbe di poco, ma misurava il polso ad Alaphilippe e Roglič, tra gli altri, su un percorso duro, quasi montagnoso, più che vallonato.

Praticamente una sfida, se avessimo sovrapposto i due schermi, tra pietristi e liegisti, tra puncheur e scalatori, tutta una serie di neologismi che inquadrano bene il ciclismo.
Torcicollo, a farci compagnia, un po' per l'esercizio in bici, gratificante per carità, perché quando arrivi a casa e ti senti le gambe indolenzite, sei soddisfatto oltremodo, questione di chimica, un po' perché non è mica facile girare la testa per un paio di ore di qua e di là: di qua Roglič e Alaphilippe attaccano a turno, di là gara lineare per un'ora abbondante e c'è il rischio di addormentarsi non fosse per l'adrenalina in corpo e per quelle punture di spillo che ti arrivano al cuore (no, il giro in bici stavolta non c'entra) dato dalle immancabili cadute.
Poi la corsa si accendeva in Belgio, finalmente, in modo naturale: muro dopo muro, le gambe fanno male, mentre in Francia McNulty partiva in progressione e tutto solo si involava verso la vittoria.

Faun-Ardeche Classic 2022 - 22th Edition - Guilherand Granges - Guilherand Granges 168,5 km - 26/02/2022 - Brandon McNulty (USA - UAE Team Emirates) - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2022

Ma torniamo nelle Fiandre, in mezzo a quelle case dove almeno una volta nella vita abbiamo pensato che sarebbe carino viverci anche solo per un giorno; tra quelle strade dove abbiamo pensato che almeno una volta nella vita ci piacerebbe pedalare. Ripartiamo dal Muur, o da qualche muro prima con Benoot che se ne fregava del mal di gambe, ma attaccava fungendo da appoggio a van Aert - quanto è mancato un corridore così lo scorso anno al belga?
Poi ecco il Muur, "abitato di Geraardsbergen" (citazione dovuta), Kapelmuur, oppure detto anche, diamo sfoggio delle nostre conoscenze: il Muro di Grammont, che più che separare i vincitori dai vinti rimescolava le carte e continuava a indurire le gambe. Infine il Bosberg. Accoppiata mitica se ce n'è una, Muur-Bosberg.
Quando van Aert partiva (sul Bosberg) dalla nostra bocca usciva un: "è fatta!", e allora per un attimo ancora uno sguardo sull'altro schermo per notare come entrambi scuotevano le spalle danzando sulla bici: l'azione di McNulty era efficace in salita, tutta gambe, quasi studiata a tavolino grazie a una condizione che da inizio stagione non sembra vacillare; l'azione di van Aert erano watt che si sfracellavano sulle pietre come quando il campione belga mostra la sua forza nel ciclocross. Van Aert andava, eccolo, "è fatta!" e lo rivedevano al traguardo.
A fine corsa la telecamera si soffermava su Mohorič e Colbrelli (2° alla prima gara stagionale, niente male, piaciuto molto sul Berendries quando si è riportato su van Aert, Pidcock, Narvaez e Benoot); Mohorič sembrava dire, allargando le braccia, "quello lì oggi era troppo forte, abbiamo fatto tutto il possibile".
Già, perché le gambe di van Aert se facevano male, facevano male appena - e comunque meno delle nostre - questa l'impressione, mentre si involava verso Ninove tutto solo e ad attenderlo moglie e figlio.


Arrivano le pietre: chi c'è c'è

«Non ci sarà Julian: questo è un gran peccato» racconta Kasper Asgreen, vincitore di Harelbeke e del Fiandre nel 2021, alla vigilia della Omloop Het Nieuwsblad. Il danese afferma di come il suo grande obiettivo sarà la Roubaix e quindi ci sarà tempo per parlarne.

E arrivano le pietre domani, così all'improvviso da non accorgersene; in Belgio il manto di erba e fango muta forma in asfalto e ciottolato. Dossi diventano muri, le bici prendono una forma ancora più aggressiva; il numero competitivo di nazioni in gara aumenta esponenzialmente anche se alla fine saranno loro, belgi soprattutto, ma anche olandesi, a voler prendere in mano il gioco che non è un gioco, rappresentati da due delle squadre più forti del circondario.

Non ci sarà Julian che sta per Alaphilippe: un annetto fa ci provò (quasi) letteralmente in ogni modo, ma rimbalzò - per modo di dire, è vero: non era il miglior Alaphilippe possibile. Indurì le gambe degli avversari spianando la strada per uno sprint di sessanta corridori che permise al compagno (di squadra, in quel senso) Davide Ballerini, brillante, veloce, talentuoso, di conquistare il successo più importante in carriera: nemmeno lui ci sarà domani ed è un gran peccato, ma è l'epoca del Covid e le starting list stanno diventando spesso un terno al lotto.

Non ci sarà Mathieu van der Poel, mamma mia quante volte ne stiamo parlando, sembra che lo mettiamo in mezzo più oggi che è assente che ieri quando era presente, ma che ci volete fare. Poi per il resto, più o meno tutti presenti, a dare spettacolo su quelle che potrebbero essere pietre polverose - previsto bel tempo e quasi calduccio, anche se molti, saremo comunque al nord, preferiranno correre con i pantaloni lunghi, considerando che diversi faranno il loro debutto dopo belle pedalate al tepore della Spagna.

Ci siamo persi, scusate: a dare spettacolo, dicevamo, più o meno tutto il resto del mondo a cui piace le pietre e capace di adattarsi in pieno a un percorso che porterà il gruppo da Gent a Ninove per 204 km. Non una passeggiata di salute di quella che faresti chiacchierando col tuo amico di gita fuori porta magnando un panino e aspirando a una buona birra fresca a fine giornata: 13 muri, nove tratti in pavè, finale che ricorda il vecchio Fiandre, quello che ai quasi quarantenni come me fa venire i brividi perché gli ricorda Bartoli: Muur più Bosberg accoppiata perfetta, e via verso il traguardo. Spazio per attaccare ce n'è, per fare la selezione ce n'è.

Squadre faro ne possiamo trovare due e appunto si torna a quel discorso Belgio vs Olanda, Quick Step contro Jumbo Visma; per diversi motivi la Quick Step (vedi l'assenza di Ballerini), potrebbe fare corsa pazza all'attacco - Štybar, Lampaert, lo stesso Asgreen, oppure Sénéchal che ama entrambe le opzioni: sia corsa dura che volata - insomma materiale ne hanno a sufficienza per sbizzarrirsi.

Curiosità per capire il nuovo corso Jumbo nelle classiche, anche se mancherà Laporte, assenza tutt'altro che da sottovalutare, ma con van Aert ci saranno Teunissen, Benoot e Van der Sande.

Favoriti tanti, outsider pure, sarà il primo assaggio del Nord e tanti elementi saranno da verificare, un nome su tutti: quello di van Aert chiaramente, mentre a noi, fra i vari, piacerebbe vedere davanti Colbrelli, anche lui all'esordio stagionale e quindi da misurare. Oppure Trentin e Covi, quest'ultimo ha dato prova di grande condizione.

Tuttavia che importa chi vince, arrivano le pietre, chi c'è c'è, non vedevamo l'ora: da qui a fine aprile ogni week end sapremo cosa fare: gustarci il meglio che il ciclismo delle corse di un giorno sa offrire, tra Belgio e Italia, con un paio di capatine in Francia e Olanda, e per distrarci un po' da tutto quello che succede.


Tadej Pogačar fa sembrare tutto facile

Sembra tutto così facile. Le spalle solide quasi immobili, la bocca leggermente aperta, la maglia bianca di miglior giovane (sic), e il ciuffo che spunta dal casco più che anti-aerodinamico è un marchio. La leggerezza con la quale si prepara alle cronometro ascoltando musica, sorridendo e ballando davanti ai telefonini che lo inquadrano e poi quei video girano su internet e lui commenta divertito.
Sembra tutto facile: un po' di gas quando serve, la ruota giusta, i compagni che si sganciano a turno, oppure Almeida che appare il suo opposto: scomposto, modalità smorfia attiva, ballerino sul manubrio, lingua di fuori ad allungare il gruppo.
Sembra tutto facile perché parliamo di Pogačar che fa sembrare tutto facile, destino di quelli forti, stratagemma di chi si sente il migliore perché poi quando la strada lo richiede effettivamente lo è. Nei giorni scorsi a L'Équipe parlava di velocità, diceva di essersi divertito a guidare una Formula 3; parlava di qualità: ha pranzato con Pep Guardiola dopo aver assistito a un allenamento del Manchester City; parlava di grandi classiche: ha già vinto Liegi e Lombardia e fra poche settimane il suo obiettivo saranno Sanremo e Fiandre: niente gli è precluso anche se scaccia (al momento!) l'idea di essere il primo corridore dopo quasi mezzo secolo a vincere tutte e cinque le monumento (Van Looy, De Vlaeminck e Merckx, gli unici a compiere l'impresa).
Parlava di crescita: «Ogni anno che passa ho sempre meno margini di miglioramento: per questo voglio vincere tutto quello che posso vincere. Fisicamente mi sento esattamente (forte, questo lo aggiungiamo noi) come l'anno scorso, ma ciò che è cambiato è la mia testa: ora ho più esperienza»; parlava di momenti difficili che in bicicletta, per sua fortuna, non sono ancora arrivati: «Mi hanno chiesto come posso essere battuto e ho risposto dicendo la verità: soffro ancora le salite lunghe (e anche qui, aggiungiamo noi: forse pure il caldo eccessivo), ma la cosa peggiore che possa capitarmi è avere una brutta giornata».
Quella brutta giornata non è arrivata nemmeno oggi verso Jebel Jais, all'UAE Tour, una salita che non ruba il cuore agli appassionati, che vede qualche nome sorprendente lì davanti (Ganna, Plapp) mentre altri che non ti aspetti perdono colpi (Dumoulin, Masnada); una salita che l'Intermarché prova a spianare, dove Yates (Adam) si nasconde, in perfetto stile Yates (Adam) sperando poi di farla franca sul traguardo. Ma sul traguardo spunta Pogačar che fa sembrare tutto facile.
Prima di esultare è talmente tranquillo e fresco che sembra dire qualcosa ai suoi tecnici via radio, poi alza il braccio e sorride come sorrideva al via qualche ora prima. «Una giornata brutta prima o poi capiterà - diceva l'altro giorno - succede a tutti, ma non me ne farò un cruccio. Mi piace andare in bicicletta anche quando non vinco». Al momento siamo spiacenti, ma non esistono controprove.


Una questione di gambe

Se la gamba di Battistella la si potrebbe definire interessante, quella di Ganna invece (anche) oggi aveva qualcosa di irreale. Provate a vedere come da solo si mette a caccia di Bodnar negli ultimi chilometri di un'adrenalinica frazione al Tour de la Provence, tra vento e le meraviglie della Camargue, con i ventagli che spezzano il gruppo e rendono affascinante persino una gara a febbraio, in una piccola (nel senso di breve) corsa a tappe francese che dovrebbe servire appena appena a misurare il termometro della condizione. A togliere un po' di polvere, a rodare, a farci conoscere qualche volto nuovo, le maglie in versione 2022, chi è già partito forte e chi più piano, eccetera...

Ed è tutta una questione di gambe, sempre. Per rimanere davanti quando il gruppo si mette a tirare e c'è il Mistral che diventa protagonista; è tutta una questione di gambe: la solita febbrile di Alaphilippe che ci prova pure nel finale, ma il vento è così forte che rimbalza, non Ganna, ma non esaltiamoci troppo, restiamo con i piedi per terra, siamo a febbraio, caspita! e c'è da tenere la condizione per altri due mesi (ci proviamo a tenere i piedi per terra ma quando vedi Ganna staccare il gruppo in quella maniera...).

Tutta una questione di gambe e allora in una volata di ventitré uomini dove c'è il nome di Viviani tra questi, uno scellino ce lo butteresti sul corridore veneto; Viviani, partito già forte come diversi pistard (l'obiettivo quest'anno è a fine stagione, si può fare tanto da subito) che vince già a febbraio cosa che negli ultimi due anni non gli era riuscito. Chissà se quelle parole di Vasseur, suo ex "capo" nella squadra francese, dette poche settimane fa («Elia si presentò al Tour con la pancetta») non abbiano stimolato Viviani.

E se c'è vento, banalmente Elia va forte (non abbiamo resistito), se c'è una volata Viviani è lì davanti a sgomitare e come oggi a vincere. Questione di velocità, non c'è dubbio, di compagni di squadra, assolutamente. Questione di fibre, sì. Comunque sempre una questione di gambe.


Forse è vero che Remco Evenepoel...

Forse allora è proprio vero quello che raccontano i corridori: a un inverno senza intoppi - dolori, interruzioni, ferite - corrisponde la stagione ideale, almeno se prendessimo per buona la prima.
Forse allora è vero che proprio ieri, 2 febbraio 2022, Remco Evenepoel, 22 anni, conquistava la vittoria numero 23 tra i professionisti alla sua prima uscita: una precisione che si aggira intorno al 100%.
Lo ha fatto dopo aver passato un buon inverno, perché forse è proprio vero quello che si dice, che se le cose non hanno funzionato al massimo nel 2021, almeno non secondo i limiti che si pone Evenepoel, è stato perché quelli prima furono un autunno e un inverno da incubo.

Forse è vero che Remco quando si lamenta alla vigilia lo fa perché sente la gamba o altrimenti, rimanendo nel linguaggio gergale, perché non sente la catena: è di quel genere lì. Ha un impulso elettrico che lo scuote, una voglia irrefrenabile di attaccarsi il numero alla maglia e dare spettacolo. Brontolava, a poche ore dal via: chi aveva già corso in Spagna la settimana prima è avvantaggiato, bisogna prendere le cose come arrivano, bisogna rompere il ghiaccio prima e, in vista della tappa decisiva di venerdì - salita con un tratto di sterrato - pareva giudicare male tutto quello che gli stava attorno: «Mah, è pieno di rocce, forse è più adatta alle mountain bike». A inizio gennaio era stato a scalare da quelle parti, ma ora, hanno risposto gli organizzatori un po' scocciati, che taccia un po' quel Remco lì, la strada è battuta e senza ostacoli.

Forse è proprio vero che: ma chisse frega della dialettica o presunta tale di Remco Evenepoel, perché in bicicletta è uno spettacolo. Ha dato un filo di gas per rintuzzare l'attacco di Tolhoek, poi è andato in progressione e non lo hanno più rivisto. Vlasov ha cercato di limitare i danni, ma di quel belga, ex promessa del calcio, non ha potuto che guardare la schiena farsi sempre più lontana davanti ai suoi occhi. Non poteva nemmeno scendere di bici e lanciargli un pallone per distrarlo: non sarebbe servito a nulla.
Forse è vero che di quelli come Remco Evenepoel si ha bisogno per accendere la stagione. Un ragazzo che abbiamo imparato a conoscere come un bambino, ma che si fa adulto a suon di vittorie mai scontate, e riesce sempre a farci appassionare a ogni gara. È di quel genere lì.

Ben ritrovato Remco Evenepoel! (ah: non è che magari ti viene voglia di fare un salto al Giro?)


Consolazioni

La consolazione Filippo Fontana la trova in quella curva da stadio che ribattezzeremo, tanto per stare più comodi, "Curva Fontana", e che ne accompagna ogni suo passaggio con urla, trombe, sirene, motoseghe, generatori, e i vari "Vai Pippo!" che riempiono, insieme all'odore di freni e di miscela, l'ultimo pomeriggio di gare al campionato italiano di ciclocross.
È grigio il tetto sul microcosmo di Variano di Basiliano, sin dal mattino. Ed è grigio sul destino di quasi tutti i corridori. Fontana era in testa, o meglio, se la giocava quasi testa a testa con Dorigoni, davanti uno, davanti l'altro; poi la catena rotta, il cambio di bici, una foratura subito dopo, insomma un compendio di sf... ortune varie e l'avversario si faceva piccolo piccolo ai suoi occhi sullo sfondo, mentre andava a conquistare il tricolore della gara élite.

Non c'è consolazione di nessun genere, invece, per Carlotta Borello: in lotta con Gaia Realini per il titolo Under 23, anche lei, causa incidente meccanico, abbandonava i sogni della maglia verde-bianco-rossa affrontando gli ultimi due giri e mezzo tra le lacrime ma concludendo ugualmente la gara. Ha 20 anni compiuti un paio di giorni fa, Carlotta, e migliaia di altre chance davanti. Si consoli.

La consolazione, invece, Nicolas Samparisi la cerca chiamando sua mamma dopo il traguardo. Ha freddo, Nicolas, caviglie sottilissime da scalatore di altri tempi, fisico da fenicottero, «ho le mani gelate», sostiene a voce e con ampi gesti. Non trova pace subito dopo la gara, uscito a sinistra delle transenne appoggia la bicicletta sulla rete di una casa. Impreca, ha bisogno dei guanti e di indumenti di ricambio che sua mamma ha nello zaino. Anche per lui, nonostante il terzo posto finale tra gli élite, l'amaro in bocca per aver rotto la catena e per aver forato: che mestiere infame quello del ciclocrossista, a schivare sassi, ad assecondare cunette e a vedere crollare le speranze per una forza esterna che ci viene facile chiamarla sorte avversa.
Dorigoni consola il suo team manager Alessandro Guerciotti al telefono. È assente Guerciotti, probabilmente gli avrà detto che avrebbe voluto essere lì a vederlo in maglia tricolore, ma Dorigoni lo spiazza: «Mettila così: almeno dalla televisione hai visto la gara meglio di tutti».

Per Silvia Persico più che consolazione c'è la calma come segreto del successo nella prova élite femminile: «Ho fatto un paio di errori, poi mi sono detta che l'unico modo per non sbagliare era gestire tutto con tranquillità». Quella che oggi l'ha distinta da tutte le altre.
La frenesia invece colpisce Zoccarato, professionista su strada in maglia Bardiani che da un po' di settimane si misura nel ciclocross. In uno dei punti più tecnici del percorso, sbaglia una curva e se la prende con un albero che all'improvviso gli si figura davanti.

Toneatti, invece, ragazzo praticamente di casa e cresciuto a pane e ciclocross mangiato proprio nel parco del Castelliere, stacca nel finale Leone, scivolato, e vince la gara degli Under 23. Trova conforto, Toneatti, se ce ne fosse bisogno, prima ancora che nel tricolore da indossare sul palco, in un caldo abbraccio appena superato il traguardo.
È ormai sera a Variano, mentre scriviamo queste parole. Il campionato italiano è finito e operai a lavoro smontano il palco delle premiazioni e spostano le transenne. Come una beffa il cielo si è aperto, ma non serve a nulla: il sole non si è visto per tutto il giorno, il conforto lo abbiamo trovato in una splendida giornata piena di storie, fango e biciclette.

Foto: Chiara Redaschi


Fa' la cosa giusta

Mentre Arianna Bianchi tagliava il traguardo conquistando l'ultimo titolo italiano in palio oggi, quello della categoria allievi, pochi metri più avanti di lei una ragazza col numero 135 sul caschetto attraversava il segmento in asfalto con la bici sulle spalle.

In realtà era da diverso tempo che procedeva a passo d'uomo - l'avevamo già notata da lontano - ma voleva raggiungere ugualmente il tratto in erba, ormai per la verità ridotto, dal passaggio di centinaia di migliaia di biciclette, a una poltiglia di mota, mettere giù la bici e provare a farla ripartire. Niente da fare.

Appoggiava, sul terreno incerto, il mezzo appesantito dalla fanghiglia e dalla delusione, provava a pedalare, ma la catena opponeva resistenza come se una forza avversa spingesse al contrario. Mesta, rimetteva la bici in spalla, decidendo di procedere lentamente. «Fino a dove vuole arrivare?» - ci siamo chiesti, ma dopo due curve si fermava, usciva dal tracciato e trovava lì qualcuno, un'amica, forse la sorella o una compagna di squadra, e scoppiava a piangere, facendosi avvolgere in un abbraccio consolatorio. Non aspettava altro.
La giornata di oggi vedeva in gara ragazzi e ragazze, esordienti e allievi, ma lo spettacolo, oltre che dall'infida collina che si erge sopra il circuito di Variano di Basiliano, arrivava da dietro le fettuccine che delimitavano il percorso.

Un ragazzo, molto prima dell'inizio delle gare, si era portato su un tratto dove era possibile vedere passare la corsa più e più volte. Lì, la visuale era perfetta, seppure in ombra (e quindi al freddo), tra curve in contropendenza, una parabolica dall'importante contenuto spettacolare e dall'alto coefficiente di difficoltà, la scalinata da fare a piedi («mi raccomando: a piccoli passi - tac tac tac!» urlava un tecnico) che portava in cima a un monumento, e lui, sempre il ragazzino salito su di buon mattino, con sedia da campeggio, motosega, generatore a cui aveva attaccato il suo telefono facendo partire musica da discoteca e sirene («senti questa dei pompieri che bella!»), se la spassava, lanciando, ironicamente, consigli ai coetanei in bici su quale fosse la migliore traiettoria da prendere.

E poi i genitori e i tecnici, i quali, spesso, rivestono lo stesso ruolo. Abbiamo visto quelli che spingevano a suon di urla, chi si lasciava andare persino a qualche parolaccia, chi consolava il figlio con le ginocchia sbucciate, chi ne redarguiva un altro: «Non ti permettere mai più di fare un gestaccio a un tuo avversario».
Chi, in preda all'agonismo, urlava al walkie talkie: «Campioni d'Italia! Campioni d' Italia!». Chi, semplicemente, si prodigava in un abbraccio, chi saltava da una curva all'altra e scivolava a terra, il tutto per incitare le ragazze della sua squadra. Una mamma attraversava il percorso per andare a lavare la bici del figlio, un papà applaudiva la sua bimba, ultima, ma felice e sorridente quando sentiva urlare il suo nome, convinta, in modo legittimo, di fare la cosa giusta.

Foto: Chiara Redaschi


Bici rotte, amatori e acrobazie

«È un circuito bellissimo». Parola di amatore, anzi di uno dei campioni italiani tra gli amatori oggi, Massimo Folcarelli, 47 anni, al suo diciottesimo titolo nella categoria Master. Beh, mica male.
Ha messo su una squadra un po' di anni fa, la Race Mountain Folcarelli Team, con sede ad Anzio, provincia di Roma, un progetto ambizioso per tutto il Centro Sud. «Perché - ci tiene a specificare - aumentano appassionati e praticanti: il ciclocross da diverso tempo sta prendendo piede anche da noi».

In squadra corre pure suo figlio Antonio che va forte e si vorrebbe giocare un buon piazzamento domenica tra gli élite. «Inizia tutto così: padri che corrono tra gli amatori e figli che si appassionano e si gettano nella mischia». E quando scorri le liste di partenza o senti lo speaker Brambilla che snocciola vita e miracoli di tutti i partecipanti come fosse l'elenco dei santi recitato a memoria nell'omelia domenicale, ti accorgi che è pieno di figli o sorelle, padri e madri d'arte.

È un tracciato bellissimo, davvero. Tecnico, vario, che cambia di ora in ora, «com'è giusto che sia» racconta un altro dei tanti protagonisti di oggi. La sua bici a fine corsa è una crosta infangata dal terreno di Variano (mi raccomando, l'accento cade sulla seconda a) di Basiliano, provincia di Udine, in una giornata che si apre fredda da farti cadere le dita dei piedi, procede ventosa ma serena, si chiude con un cielo che si tinge tra il viola e il blu.

Il circuito parte piatto, veloce, e si lancia, tecnico e suggestivo, verso l'alto nel parco del Castelliere di Variano. Alle 9 era tutto gelato coperto di brina mista a un filo di neve ghiacciata, residuo di una spruzzata di un paio di giorni fa. Il terreno è duro, ma un'ora dopo si iniziava a creare quella tinta di fango, con le sue canalette da battezzare giro dopo giro, che tanto piace a chi corre uno sport che ha bisogno di una cura particolare del dettaglio. Dal tipo di copertone alle atmosfere, dalle migliori traiettorie da preferire, fino alla scelta dei tratti da correre a piedi o in bici.
Gli allenatori si fermano vicino a segmenti così complicati da apparire, a volte, persino enigmatici. Spiegano ogni dettaglio: «Se non riuscite a farla tutta in bici, sganciate un pedale e spingete come fosse un monopattino». Oppure: «Scendete di sella prima di scollinare, ma mi raccomando: la bici tenetela sul lato destro». Ragazzi e ragazze lo guardano come si fa con un maestro a scuola che sta spiegando una materia affascinante e della quale non si può perdere nemmeno una parola.

Una discesa in particolare, in mattinata, è quasi impraticabile, ripida, dura, sconnessa. Qualcuno con una piccozza lo smussa e ne tira via i sassi. « Tiro via i claps!» (appunto, pietre) urla in friulano a chi gli chiede cosa sta combinando. Altrimenti si corre il serio rischio di spaccare una ruota.

Amatori di ogni età si mescolano con ragazzi e ragazze, persino bambini: qualcuno urla "Forza mamma!" che è un po' l'inverso di quello a cui si è abituati a sentire di solito alle gare con i genitori che incitano i figli. Esordienti e allievi fremono per provare il tracciato. «Prima tocca a loro, poi a voi» li cerca di calmare uno degli organizzatori.

Il vociare sotto la collina, dove ci si scalda prima di gareggiare, appare quasi il ciacciare a scuola, un ronzio di insetti: sono i ragazzi che si dimenano e fremono sui rulli. Si susseguono gli arrivi e le partenze. Amatori prima e poi le staffette che fanno il loro esordio nel campionato italiano. Vinceranno le squadre "di casa", lo Jam's Bike Team di Buja e la DP66 Giant SMP.
Terra e biciclette vengono maltrattate per il bene del ciclismo e dell'agonismo. Si alternano facce e divise, capelli grigi e volti segnati dal fango incrostato. Sorrisi e delusioni. rotture, acrobazie e cadute. Ci sono più camper che a un raduno di camper.

Poi, in mezzo a una colonna sonora kitsch che mescola Battiato, successi dance anni '90 rifatti in spagnolo e l'inno di Mameli, scende il tramonto che tinge di rosa le bianche montagne friulane sullo sfondo.


L'ottavo giorno

E l'ottavo giorno un incidente meccanico. Wout van Aert, smette di pedalare. Scende dalla bici e poi è costretto a inseguire. E l'ottavo giorno Thomas Pidcock pigia sull'acceleratore (in particolare tra 4° e 5° giro, come una furia, chiusi sotto il tempo di sette minuti), piccolo sì, ma forte, guidatore sublime, tecnicamente impeccabile sul circuito olandese. Impeccabile o quasi, con un errorino che nel finale rischia di pregiudicargli il successo: d'altronde il ciclocross non ricerca la perfezione nonostante i tentativi connessi a cui aspira van Aert. Il ciclocross è arte e come l'arte che piace a noi è imperfezione, tecnica, ricerca e istinto. È forza nelle gambe e nella testa.
Parlavamo di piccoli, ma tenaci, ed ecco spuntare Eli Iserbyt, prima a comandare, poi a tiro quanto non bastava per superare il rivale (di sempre), ma per creargli apprensione, quello sì, salvo dare tregua a quelle gambe che da mesi macinano chilometri e sembrano non fermarsi mai.
Hulst è Olanda, non è Belgio. Davvero poco cambia, ciclocrossisticamente intendendo. Il Vestingcross di Hulst è tecnico, ma velocissimo, il terreno varia e c'è un enorme mulino, lo Stadsmolen, tra le attrazioni da visitare. Non fossimo in piena pandemia, nella giornata di ieri sarebbe stato bello andare lì e farsi un giro. Se non è altro perché era in piena vacanza natalizia. Poi in quel mulino i ciclisti ci passano dentro in gara, si gira attorno e tra le mura. Si sale, si salta e si scende, si corre a piedi, insomma ad Hulst, che non è Belgio ma è Olanda, ci si diverte e si potrebbero fare anche un sacco di foto da ricordare. Non manca nulla (a parte van der Poel). È il ciclismo questo, e per fortuna il meglio deve sempre arrivare.
E l'ottavo giorno Wout van Aert rimonta fino al 4° posto dopo essere rimasto fermo per quasi un minuto ed essersi messo a lottare spalla a spalla con gente che incrocia solo - a malapena - sulla linea di partenza o in ricognizione.
Poche ore prima, a Baal, a casa Nys, un altro problema, ma lì un percorso più lento gli permise la rimonta, qui si interrompe senza togliere il fascino a una gara che regala un degno vincitore. Perché se non vince van Aert, ma lo fa Pidcock è comunque qualcosa di notevole. Non tutti sono d'accordo nel parlare di "big three" o "tre tenori" o vedete voi, ma a oggi, da quando è tornato van Aert, hanno vinto solo loro due.
Ha guidato magnificamente Pidcock, mentre da dietro van Aert rimontava e rimontava nella sua livrea nero-giallo-rossa. Dopo pochi minuti piombava su Venturini, il campione di Francia, 20° al traguardo, uno che non correva in coppa del mondo di ciclocross da diversi anni e l'ultima volta che lo fece arrivò 4°. Lo dribblava, sguardo da segugio in ferma, sempre rivolto in avanti a caccia.
Si ferma a sette di fila van Aert, uno che vince in media tra cross e strada una gara su tre, circa, e che nei giorni scorsi ha pubblicato una serie di dati relativi al suo 2021 tra cui 205 giorni in cui ha dormito fuori casa. Si dice che forse non ci sarà al Mondiale e sarebbe lo spot peggiore per il ciclocross, soprattutto oggi che c'è preoccupazione sulle condizioni di Van der Poel.
E allora Pidcock sogna concretamente di conquistare il titolo mondiale in tre specialità (cx, strada e mtb) e intanto approfitta e inizia a vincere qua e là, mentre Eli Iserbyt si porta a casa la coppa del mondo che proprio male male non è, succedendo nell'albo d'oro proprio a Wout van Aert.
E così l'ottavo giorno qualcosa cambia nella sfera del ciclocross, mentre restano intatti il divertimento e qualche accento con sbavatura.