Cinque su cinque
Cinque su cinque, Wout van Aert appare inarrestabile. Cinque su cinque, Wout van Aert non fa più prigionieri. Cinque su cinque, Wout van Aert detta la sua legge nel ciclocross e non ci sono van der Poel al momento che tengano («È stata solo una brutta giornata, ma sono cose che succedono» dirà a fine corsa, secondo alcuni media fiamminghi pare si possa essere pure fatto male di nuovo a quel ginocchio che abbiamo già "raccontato" come ferito in mountain bike. Sportivamente parlando sarebbe una disgrazia).
Non c'è Pidcock a tenerlo, l'inglese che, lontano un minuto, lotta per un piazzamento contro Iserbyt. «È un cross che non mi si addice eppure sono andato forte». Si riposerà e lo rivedremo a Capodanno.
Cross per gente potente ieri a Zolder, cross per van Aert. Qualcuno dice "altra categoria" in effetti sarebbe dura contraddire quei qualcuno. In pochi minuti ha cancellato lo sforzo del giorno prima, seppur camuffando a parole l'apparente facilità con la quale in questo momento vince, scusate volevamo dire domina. Ha detto infatti van Aert di essersi sentito parecchio stanco dopo la vittoria del giorno prima (meno male!), che però già nel riscaldamento del mattino gli pareva di aver recuperato bene dallo sforzo. Sarà al via nelle prossime gare solo per vincere. «D'altronde mi alzo la mattina e corro per questo».
Alla domanda se lo vedremo al mondiale è serafico: «So che da qui a fino a quando non prenderemo una decisione me lo chiederete ogni giorno. Intanto arriviamo al campionato belga e vediamo di allungare la striscia vincente, poi decideremo».
Pare che il programma di corse su strada potrebbe togliercelo dal fango il 30 gennaio nel mondiale di Fayetteville. Sarebbe quantomeno un brutto affare non vedere questo van Aert quel giorno lottare per l'iride che oggi indossa van der Poel. Forse al momento non vi sarebbe corridore più degno di vestire la maglia più bella del ciclismo.
Grappe, panettone, dei e van der Poel (oggi finalmente in gara)
A qualcuno può sembrare una cosa difficile da immaginare: Mathieu van der Poel, uno che aveva appena imparato ad andare in bicicletta e già lo trovavi in giro, con la classica bici più grande di chi la porta, per le gare più importanti del mondo, mentre suo papà si prendeva a legnate con i suoi avversari; uno che ha nei suoi geni Poulidor e che completa un'opera da romanzo conquistando quella maglia gialla che il nonno non aveva mai vestito; uno che quando corre appassiona chiunque, che a volta polarizza e catalizza, è vero, anche se non ci è ancora chiaro per quale motivo la passione per van der Poel non possa essere rivolta allo stesso modo anche su van Aert e viceversa, ma forse è il mistero della fede, è la regola non scritta del tifoso. Insomma uno così che bazzica nei libri di storia nel ciclismo con facilità, tocca immaginarselo che scorrazza con gli amici per i boschi in mountain bike.
Eppure anche van der Poel è umano e infatti come una persona normale cade quando è in giro con gli amici e si fa male. «E quell'infortunio ha rischiato di rovinare la mia intera stagione nel cross» ha raccontato qualche giorno fa in conferenza stampa.
In Belgio hanno scritto che la presenza di van Aert e van der Poel durante queste manifestazioni di fine anno, equivale a gustarsi del vin brulé davanti al camino.
A Dendermonde Mathieu ci sarà, anche se non al meglio della forma: il taglio al ginocchio rimediato nella caduta in mountain bike è una ferita che si rimargina, ma è un campanello d'allarme il problema alla schiena che si porta avanti da tempo e da lontano (da Tokyo).
Pretattica? Mah. Oggi non parte certo favorito, il che può sembrare una notizia, ma non lo è. Oltretutto a Dendermonde, gara che esalta le qualità podistiche del suo rivale preferito («mi aspettavo andasse forte, ma non che dominasse in questo modo»), sarà van Aert ad avere oneri e onori dell'uomo da battere, ma poco importa: non poteva esserci giorno migliore per stare sbracati sul divano: finalmente tutti e tre (c'è pure Pidcock), ma non è che esistono solo loro tre, Vanthourenhout, Iserbyt, Aerts, Sweeck, Hermans insomma ci sono praticamente tutti, pure gli italiani.
Certo, gli altri non dormono sonni felici: lo scorso anno quando quei due erano presenti nella stessa gara, nove volte, sono sempre finiti 1° e 2°. Volendo, per gli amanti della statistica: 6-3 il conto totale per l'olandese. Uno spettacolo.
Dei del ciclismo, per favore, preservateci il più tempo possibile i nostri eroi umani. E se magari vi avanza anche un po' di tempo, date uno sguardo pure a noi. Sono tempi duri ce n'è sempre bisogno.
Il diesel e la Ferrari
Tom Pidcock non ci sta. Sfrontato come i suoi ventidue anni, cortese come un baronetto del Regno Unito, di Leeds. Elegante e redditizio su strada, deciso quando si destreggia nel fango come un occhio che cerca un varco nel fumo di Londra.
«Non voglio essere sempre terzo, corro per battere Wout e Mathieu» ha detto così a Het Nieuewsblad, A fine gara Lucinda Brand non ha perso la sua dialettica. Non lo fa nella vittoria, figurarsi, come nel caso di sabato a Rucphen, nella sconfitta. «Non potevo fare nulla contro Vos: ero come un diesel contro una Ferrari».
Mai paragone più azzeccato e non ce ne voglia Brand: come Vos, spesso, non c'è mai stato nessuno. C'è chi la definisce, appunto, come la fuoriserie più stilosa; c'è chi la definisce semplicemente la Più Grande Di Ogni Tempo. D'altra parte non potresti chiamare in altro modo una che ha vinto quanto ha vinto e che oggi, a 34 anni e mezzo, sembra non smettere mai di essere quello che è.
La trovi sempre lì: su strada (una volta anche su pista) ora di nuovo nel ciclocross. Ha vinto sette titoli mondiali nel "fango" (diciamo così per semplificare, ma non è sempre così), ne ha vinto qualcuno anche su strada, dove pochi mesi fa solo Balsamo è riuscita a superarla.
E sabato - in un cross troppo piatto per essere vero (un cuscinetto prima della massacrante prova di Namur) con un tratto da percorrere a spirale che lo faceva sembrare una sorta di Giochi senza Frontiere incrociata alla gimkana della sagra delle pere, gara veloce e tattica dove era difficile fare una vera e propria differenza; sabato, dicevamo, a Rucphen, Vos e Brand si sono giocate la vittoria allo sprint e l'ha spuntata Vos, su terreno ideale, quello della volata contro Brand, ma domenica, nella splendida cornice di Namur, le cose cambiavano repentinamente - anche per assenza del corridore della Jumbo.
Namur e la sua cittadella: roba da diesel: il cross più bello per alcuni: tecnico e spettacolare anche da un punto di vista scenografico. Davanti subito Brand con treccia nera su sfondo bianco e dietro a seguirla Betsema con treccia bionda su sfondo rossonero. Fateci caso quando quest'ultima cade nel primo giro, la faccia che fa nell'osservare Brand che prende il largo. Una sorta di dolcissimo ghigno. Non la riprenderà più pur mantenendo sempre - più o meno - lo stesso distacco. Occhi che conoscevano già l'epilogo.
Nessuno esente da errore: principi di equilibrismo in bicicletta in mezzo a perfide canalette e contraccolpi che ti sbalzano via, Brand compresa, che faceva una fatica bestiale «al pubblico sembrava che avessi tutto sotto controllo, ma non è stato così», tra curve scivolose, terra che si incastra nei pedali, radici che si riprendono il terreno, diabolici tratti in contro-pendenza, pavé, saliscendi, e poi lui, immancabile fango e poi loro, tantissima gente. Immancabile. A spingere e spingere, urlare e sostenere.
Si definisce un diesel, Brand, per capacità di pedalare con potenza e di andare forte anche a piedi; resiste al tentativo di rientro di Betsema e conquista Namur per la quarta volta di fila. La prima in maglia iridata in quella corsa che per bellezza, e non solo, è una sorta di appuntamento iridato.
Poi a proposito di fuoriserie, due parole, giusto due, su Zoe Bäckstedt e sulla capacità di impressionare notevolmente nella sua categoria. Vince "per dispersione" (anche) nel cross. In maniche corte e senza guanti. Ci farà divertire pure lei. Ci fa divertire un sacco questo ciclocross.van Aert e van der Poel per nome, un guanto di sfida, e ha gasato tutti perché Tom è uno da prendere sul serio, ciò che dice fa. Va bene il rispetto, la fiducia, l’orgoglio di essere fra loro ma il sale è quella voglia di ribellione, di provocazione, di mettere la propria ruota sporca di terra davanti alla loro. Ce la farà? Lo scopriremo.
Intanto ieri, a Rucphen, in Olanda, pur con l’assenza di van Aert e van der Poel, ha battuto Iserbyt e Vanthourenhout e non in un modo qualunque. Quasi con l’istinto di colui che sente l’odore della preda nella boscaglia e si sfregia coi rovi pur di prenderla. «Ad un certo punto mi sono detto: diavolo, ora dai tutto e vinci». La voglia di riscossa, di rivalsa. Prima Coppa del mondo fra gli élite, una di quelle pietre miliari di cui vi abbiamo parlato in questi giorni.
«Van Aert ha uno stato di forma incredibile ma anche io sto meglio di quanto potessi pensare» come se non lo vedessimo. Anche quando non ci riesce a vincere, come oggi a Namur, su quel fango che sa di Inghilterra, per dirla con le sue parole: due scivolate, qualche insicurezza e Vanthourenhout che va a vincere. Ma ha fatto la gara, ha messo pressione agli avversari, affamato, forse ancor di più dopo una sconfitta.
Van Aert, Van der Poel e Pidcock, rigorosamente in ordine sparso. Un tris d’assi da celare e poi gettare sul tavolo, mentre sotto le noccioline continuano a scricchiolare. La grande sfida è sempre più vicina e sarà una festa, comunque vada.
Breve ricordo di biciclette da Vermiglio
Le bici dei ciclisti professionisti non sono normali. In nessun caso. Sono messe a punto da professionisti, adoperate da persone che le immaginano estensioni del proprio corpo.
Per andare sulla neve, per di più, devono essere bici molto particolari: le pedivelle e le parti meccaniche, per esempio, sono state bagnate con abbondante liquido antigelo. Prima di arrivare a Vermiglio, per la tappa della Coppa del mondo di ciclocross, ero incuriosito proprio dai mezzi che sarebbero stati adoperati: d’altronde, cos’è un tennista senza la racchetta?
Ecco diversi dettagli insoliti delle biciclette in Val di Sole:
- Una delle bici più riconoscibili è quella del team KTM Alchemist, le cui forcelle arancioni risaltano vividamente rispetto al telaio verde muschio;
- La Pinarello Crossista di Tom Pidcock (il Team Ineos ne ha portate tre, una per tipo di copertone montato) ha sul telaio l’adesivo con le carte da poker e la scritta “play your cards right”;
- Le ruote imbiancate dalla neve: le ruote di tutti, sempre;
- Gli inserti gialli della Cervélo di Marianne Vos, che si confondono quasi con gli inserti gialli sulle sue gomme;
- Dettagli tecnici della Proflex 855, bici degli anni Novanta vista dal cellulare dello speaker Paolo Mei, che ne discuteva con Christian Leghissa. Quest’ultimo ha fatto firmare – e poi metterà all’asta, per beneficienza – il sellino di una bici a Wout van Aert;
- La scritta “Ago” sulla Guerciotti di Filippo Agostinacchio. Tecnica utilizzata: pennarello nero indelebile su carbonio;
- I nomi delle atlete sui copertoni: “Eva” per Lechner, “Puck” per Pieterse;
- La S-Works violacea di Maghalle Rochette, piantata nella neve a fianco di una bottiglia di Ferrari stappata sul podio (la canadese è arrivata terza) e col sellino sepolto sotto il bouquet di fiori.
Foto: Daniele Molineris
Quei posti dove vivere le corse
Per l’ennesimo giro consecutivo, un tifoso insegue Wout van Aert lungo il rettilineo. Il campione nazionale belga sta cercando di destreggiarsi tra la neve, il fan gli corre a fianco al di fuori delle transenne. Stanno tutti guardando la scena, sul muro: aspettano l’arrivo di van Aert perché è il primo della corsa e il primo trasmette sempre una vibrazione differente. Percorrono una ventina di metri fianco a fianco, Wout e questo tifoso vestito di nero. Il crossista riesce a domare la bici, mentre il tifoso non vede un avvallamento nella neve, inciampa e cade. È una scena fantozziana che fa ridere tutti coloro che seguono la corsa dall’alto.
Nel salire verso la parte più ostica del tracciato di Vermiglio, un gruppo di amici ha rovesciato un box di plastica e lo ha usato come sostegno per un tagliere. Tempo verbale al passato perché la funzione dei due coltelli si è già esaurita: croste di formaggio e pellicine di salame rimangono sul tagliere come dimostrazione di un pasto goduto. C’è una bottiglia di vino vuota, poco distante, e una pentola di notevoli dimensioni che chissà cos’ha contenuto. Iserbyt scende dalla bici per affrontare il muro di corsa proprio davanti a questo banchetto improvvisato.
I tifosi che sono quassù non godono di un privilegio notevole: la neve battuta anche fuori dal tracciato di gara permette di non bagnarsi i piedi, di non affondare fino al polpaccio. Sul muro - tutto, sempre all’ombra - no, ci sono pazzi i cui corpi devono essere ormai prossimi all’ipotermia. Finito il tratto in contropendenza, una discesa che tanti fanno comunque a piedi porta a una seconda salita, in cui il passaggio è obbligato verso l’interno del tornante. Lì è stata ricavata un’area per un fotografo, che segue con enfasi ogni atleta che passa. Ha la pettorina gialla, sta con un ginocchio nella neve e probabilmente trovava noioso scattare ai matrimoni.
Dentro all’azione com’era quel fotografo, non so se si è accorto che il muro e il scendi-sali spaccagambe subito successivo, visti dall’inizio del tracciato della Val di Sole, sembrano un cuore. Con le reti rosse a tracciarne il perimetro, con le persone a renderlo vivo e rumoroso. Non a caso Eva Lechner, dopo un brillante quarto posto, ha detto che tutto il tifo è stato grandioso, ma ogni passaggio sul muro è stato speciale.
Foto: Daniele Molineris
Wout van Aert in un teatro di ghiaccio
Percorso? Bello e duro. Il contorno? Paura del freddo. Sensazioni che sono poi le parole più gettonate alla vigilia. "Tricky" è quella che usa più spesso Pidcock per definire un tracciato che, con i suoi 1261 metri d'altitudine resta unico nel panorama attuale della Coppa del Mondo di ciclocross. Per qualcuno è come guidare sulla sabbia, per altri sarà peggio che (sciare!) sulle uova.
Un freddo cane. Per chi corre e per chi sta a bordo strada dove le parole più gettonate in questo caso sono allitterazioni. «Alè alè alè, vai Wout». A momenti non si conosceva altro modo per esprimere i sentimenti.
Suggestivo, non c'è che dire. Un teatro di ghiaccio. Dove Wout van Aert inscena il suo monologo. In testa dal minuto numero nove e pochi secondi scarsi, fino all'arrivo. Gli altri erano già a Vermiglio quando ieri lui vinceva a Essen. Arrivava solo verso sera in Italia e in mattinata provava, tranquillo, la pista. Chi lo ha visto nelle prime ore del giorno, lo ha ammirato sereno bici in spalla, attento alle traiettorie (ma con piccola caduta), e poi via a memorizzare i punti più difficili.
Si adattava velocemente. Emblema del talento. Qualche sbavatura, ci mancherebbe altro, Vanthourenhout che prova l'allungo subito uscito bene dalla prima curva, ma van Aert prende confidenza, lo affianca, lo guarda per un attimo. Poi se ne va.
Nessun problema di concetto, solo qualche rischio su una bici che prova a tagliare in due la neve, a tratti dura, aggressiva, a tratti molla: avesse avuto gli sci ai piedi sarebbe stato tipo una Sofia Goggia, oppure il genio di Clement Noel che tra i pali stretti si accende a intermittenza come mostrato solo poche ore prima da tutt'altra parte. Con una carabina in spalla oggi van Aert avrebbe preso tutti i bersagli.
E in Val di Sole, teatro di ghiaccio per l'occasione e dove quel sole che sta nel nome lascia solo qualche scia e la fotografia si impregna di un blu intenso, si creano ambizioni importanti per il movimento (obiettivo Giochi Olimpici), ma si parla la lingua del fuoriclasse tutto muscoli, testa, tempra e spirito.
Capace di vincere in salita, a cronometro, in volata, nelle corse di un giorno, nel fango e oggi persino sulla neve. Trionfante, senza tentennamenti o quasi, davanti a Vanthourenhout e Pidcock autore di una superba rimonta.
La prossima volta, in caso, proviamo davvero a vedere come van Aert se la cava con un paio di sci ai piedi. Intanto qualcuno afferma, visto che van Aert va forte un po' dappertutto: in una giornata epica per il motorsport, vince il miglior motore delle due ruote. Non sarà un caso.
Foto: Giacomo Podetti
Come cristalli
Sembrerebbe sabbia, vista dall’alto. Magari di qualche spiaggia a ridosso del mare del Nord. Sono cristalli di neve, invece, a Vermiglio, in Val di Sole. Qualcuno racconta che ognuno abbia una forma particolare, diversa dagli altri, come le impronte digitali umane. Non ti aspetteresti biciclette da cross qui.
Se qualche giorno fa, vi avessimo raccontato la storia di Fem Van Empel, certamente vi sarebbe tornata in mente, vedendola davanti dall’inizio. Questa ragazza che giocava a calcio e provava qualunque ruolo perché le interessava correre, insistere. Il calcio l’ha lasciato perché ha capito che non tutti in campo davano il loro meglio, che c’era chi si risparmiava. Ha preso la bicicletta perché lì dipendeva tutto da lei. È stata una delle poche a riuscire, qualche volta, a saltare gli ostacoli in sella, senza scendere.
Non è facile con queste canaline che si formano tra la neve farinosa: c’è il rischio siano ghiacciate, puoi sprofondare, di certo sbandi, ne esci sbilenca, quasi scomposta, la prospettiva futurista di un corpo umano. Il sole qui arriva per poco tempo, il resto è ombra e luce biancastra che imbroglia.
Marianne Vos è quella di sempre, anche se ha un incidente meccanico e una scivolata che sembra impedirle di ritornare su Van Empel proprio dopo una rimonta incredibile.
Un brutto presagio come un malinconico tramonto, il sole che se ne va, poco dopo le due del pomeriggio. Dietro si continua a prendere la bici in spalla e rincorrere. Dopo cinque giri sembra di sentire il fiato che finisce e l’aria fredda che dalla bocca spalancata gela la trachea, si impossessa del respiro.
Vos e Van Empel arriverebbero allo sprint se non fosse per la neve o forse per un paletto in una curva che Vos non vede e frana a terra. Sembra infinito anche il tempo per rialzarsi qui, invece sono pochi secondi, quasi di agonia, perché scivoli e perché sai che l’altra se ne va.
Van Empel, a soli diciannove anni, vince davanti a colei che ha vinto tutto. Seguono Vos e Rochette, Eva Lechner è quarta, Alice Maria Arzuffi settima, Silvia Persico decima. C’è chi dice che Van Empel, dopo ciò che ha fatto, meritava la vittoria e chi sostiene che per quello che ha fatto Vos oggi è un peccato sia finita così. Forse sono vere entrambe le cose, com’è vero che, comunque vada, vince uno solo, giusto o meno che sia. Basta poco per una ciclista, dura e fragile come cristallo di neve.
Foto: Giacomo Podetti
Ciclisti delle nevi
Da una decina di giorni, a Vermiglio, le ruspe di Flanders Classics coordinate da Chris Mannaerts spostano, compattano, rovesciano neve. Un gatto delle nevi grande quando un bilocale ha lisciato un minimo il fondo, ma fin dai primi minuti di prove libere si capisce che presto verrà rotto dalle biciclette, come una pista alle quattro del pomeriggio dagli sci.
«Il tracciato è diviso in due parti» spiega Mannaerts. «All’inizio c’è un tracciato più tecnico e poi dall’altra parte del fiume c’è una salita molto ripida. Sarà molto impegnativo perché è una linea retta verso la collina. Vedremo chi riuscirà a salire in cima e chi scenderà dalla bici. Questa sarà la chiave fondamentale in questa gara, insieme a chi sarà in grado di effettuare gli sforzi più volte».
Il manager di Flanders Classics, che organizza la Coppa del Mondo di ciclocross compresa questa nuova tappa in Val di Sole, ha ragione: il rettilineo verso quel muro atroce sarà il passaggio chiave della corsa. È lunghissimo, un centinaio di metri a occhio, e nelle prove è caduto un atleta su due.
Va ripetuto: è un rettilineo pianeggiante. Non dovrebbe essere così difficile. Il problema è anche il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su questo evento: la neve. Fa slittare le ruote, il ciclista perde aderenza, la bici scoda. Qualcuno ha dovuto appoggiarsi alle reti che confinano la pista, altre si sono rifiutate di non farcela e hanno provato più volte a uscire indenni da quel settore.
La beffa consiste nel fatto che, finito questo inferno ghiacciato, comincia un muro - sempre innevato - di cinquanta metri in cui si dovrà scendere e caricare la bici in spalla. La discesa, poi, è altrettanto insidiosa: lanciarsi a oltre 40 km/h giù dal versante di una montagna su fondo innevato non è esattamente una passeggiata.
Per le gare di domani, Wout van Aert, che oggi ha corso in Belgio - e ha vinto - e arriverà in Italia stanotte, ha le stesse certezze che hanno gli spettatori, già accorsi in massa per le prove del sabato: nessuna. «Non sono mai stato un re della neve» ha detto uno dei ciclisti più forti della sua generazione, che ha comunque fatto di tutto per esserci. La neve spaventa e affascina tutti.
Foto: Giacomo Podetti
Van Aert e il primo amore
Può sembrare scontato parlare di maschere di fango in una gara di ciclocross ma non si può fare altrimenti. Almeno oggi, almeno per il Superprestige di Boom dove Wout van Aert è tornato ad assaggiare il fango. Talmente tanto da sembrare quasi sabbie mobili che assorbono le ruote, che ti trascinano a fondo, perché non si limitano a farti cadere, a immergerti nella terra, ma ti assorbono, quasi a lasciare un’impronta, uno stampo da cui è difficile uscire. Prede nella tela del ragno, sono così oggi gli atleti.
Van Aert aveva parlato a “L’Èquipe” in questi giorni. Aveva detto che gli faceva piacere tornare e sperava facesse freddo e ci fosse il classico fango belga. Che a una gara di ciclocross è come l’odore di umido e il profumo di patatine fritte che evapora. Essenza dell’inverno e delle nebbie.
Un assolo quello di van Aert, proprio dopo la scivolata di Toon Aerts, prima della sua scivolata e della rincorsa con la bici in mano, alzata da terra per sfuggire all’attrito, al risucchio. Solo stamani i quotidiani ricordavano i tempi in cui i giovani van Aert e van der Poel duellavano nel cross, quasi con una lieve nostalgia. Che è voglia di ritorno, infatti van Aert torna e tutti se ne accorgono.
Ha raccontato che quando ha scelto di dedicarsi alla strada molti suoi tifosi del cross non l’hanno presa bene, quasi un abbandono. Ma lui non voleva questo: «Avevo già vinto diversi titoli, uno in più non cambiava nulla se non avessi provato la strada». E sulla strada ha messo la stessa grinta che serve per uscire indenni da quei sentieri melmosi. Riguardate la Sanremo del 2020 o il Ventoux al Tour 2021, fra le altre cose e sentirete ciò di cui parliamo. Quella scossa che ha che fare con il modo in cui si batte e, spesso, vince. Qualcosa di primordiale.
Oggi ha fatto lo stesso, davanti a Toon Aerts e Van der Haar, Iserbyt quarto, Pidcock settimo. E non è finita qui perché dicembre è una vigilia continua, non solo di feste. «Se dovesse arrivare il giorno- ha aggiunto- in cui mi mettessero nella condizione di scegliere tra cross e strada, sceglierò. Ma sarà un colpo al cuore perché il ciclocross è il primo amore e credo sia compatibile con l’attività su strada. Fino ad allora in inverno tornerò nel fango». Basta nostalgia. Si vive il presente.
Ciclocross, cos'altro?
Abituati a tenere monitorati quei tre lì, segnandoci sul calendario il giorno del loro ritorno in gara, stiamo forse facendo passare sottotraccia le cose interessanti che sta regalando il ciclocross in queste settimane.
Ieri Besançon, per una volta Francia e non Belgio e Olanda, non è stata da meno, anzi. Il canovaccio era quello tipico di una tipica domenica di fine autunno; giornate che a noi comuni mortali ci tengono inchiodati sul divano: freddo e pioggia fuori, e a uscire di casa non se ne parla.
Toon Aerts ed Eli Iserbyt, invece, esseri umani uguali, ma così differenti da noi e tra loro, e soprattutto con una missione differente, loro sì erano fuori casa a darsele, scrivendo un altro capitolo dei loro duelli ridleyscottiani.
Proprio come nell'opera in questione, due strutture agli antipodi: Iserbyt piccolo e agile, Aerts lungo e potente. Un tratto li accomuna: la grinta.
Ieri a Besançon, in mezzo a tutto quel fango, con un sacco di gente a incitare (e parola di Iserbyt «A emozionare i corridori») su un tracciato tecnico e reso ancora più complesso dalle condizioni meteo, hanno inscenato una sfida spettacolare che inizialmente sembrava dovesse favorire il lungagnone (più a suo agio su un tracciato inscurito dalla pioggia) in confronto al piccoletto (che spesso non ama condizioni estreme).
A un certo punto, però, si era all'incirca al 51' di gara, ormai verso la conclusione, Aerts allungava e sembrava farlo in maniera definitiva, ma una leggera discesa e poi una curva insidiosa gli mostravano il conto.
Aerts, disarcionato dalla sua bici incastrata e impazzita in mezzo alle canalette create dal passaggio delle ruote sul fango, risaliva senza poter più colmare il gap che riusciva a scavare Iserbyt, arrivato lordo di fango e vittorioso al traguardo.
Ma ciò che ci premeva sottolineare in questo lunedì mattina non è tanto il risultato, ma è il fatto di aver visto Aerts, una volta superata la linea d'arrivo, francamente distrutto e deluso, scendere dal suo mezzo, avvicinare le transenne, mescolarsi tra il pubblico che lo guardava incredulo e incitare chi arrivava dopo di lui, in particolare il giovane compagno di squadra Ronhaar, campione del mondo under 23 e al primo podio in carriera tra gli élite (e terzo più giovane di sempre, indovinate chi sono i primi due?).
Quella qui in fondo al testo è una delle immagini dell'anno. Senza dubbio. Quello che abbiamo visto è ciclocross, cos'altro?