Luci al velodromo
Sembrava avere gambe ovunque. Potrebbe iniziare in questo modo un racconto della corsa a punti di Simone Consonni, all'Europeo di Grenchen. E, sotto i baffi, i denti stretti per la fatica. Questa sarebbe, poi, la degna continuazione. Così iniziamo, così continuiamo perché Simone Consonni stasera sembrava davvero avere gambe ovunque, almeno da quando ha scatenato la sua rincorsa nello sparpaglio che turba, affascina, disorienta e confonde di questa specialità della pista. Un caos che meraviglia.
Scatta, insegue, conquista e riparte, già a poco meno di cento giri dal termine. I giri, sì, quelli che si guadagnano o si perdono, il paradosso è che anche chi li perde li ha lo stesso nelle gambe ed è una beffa, per l'acido lattico che brucia. Sotto quei baffi e quei denti stretti per la fatica, Simone Consonni, però, non perde nulla, anzi, guadagna in continuazione, sprint dopo sprint, giro dopo giro. La fatica brucia anche lui, ma sappiamo tutti di cos'è capace, di quanta tenacia, quasi una sfida a colpi di fioretto al dolore fisico. Alla fine restano in tre a giocarsi l'oro: con lui, lo spagnolo Torres Barcelo e il francese Grondin. Li mette letteralmente in fila: oro per Consonni, argento per Torres, bronzo per Grondin. Poi scherza, ride, finiscono appaiati, con le mani sulle spalle, dopo la sfida. Chissà cosa si dicono. Chissà se anche per loro, stasera, Consonni aveva gambe ovunque.
C'è l'amaro in bocca per Rachele Barbieri, sorpresa all'interno della pista nella prova dell'eliminazione. Uscita di scena troppo presto rispetto a ciò che ci si attendeva. C'è l'amaro in bocca dopo l'esultanza, dopo la gioia. Ma è ancora presto e si può aspettare altro. Quello che arriverà da lì ad un'ora.
Luci al velodromo e, poco dopo le venti e trenta, ci sono le finali dell'inseguimento a squadre. Sembra il loro destino quello dell'attesa lenta e inesorabile, è sempre così, è spesso così. E noi ci siamo anche questa volta. Puntuali, quasi un omaggio alla Svizzera, ai suoi orologi, quelli citati in un noto detto.
Italia-Gran Bretagna e ancora Italia-Gran Bretagna. Non è un errore, perché la finale femminile e quella maschile propongono esattamente la stessa sfida. Un diverso finale. Sarà argento per Vittoria Guazzini, Martina Fidanza, Elisa Balsamo e Martina Alzini: partono guadagnando, con addosso la maglia iridata, poi qualcosa accusano, la Gran Bretagna macina forte, anche quando si disunisce, anche quando, dal punto di vista tattico, qualcosa non va. Ci disuniamo anche noi verso la fine, non riusciamo a recuperare e siamo secondi. Ma va bene così, è un bel podio. Soprattutto c'è il percorso che, negli anni, ci riporta ancora lì ed è il percorso ad essere anche più bello.
Francesco Lamon, Jonathan Milan, Manlio Moro e Filippo Ganna: la formazione. Le biciclette dorate: il ricordo di un'estate olimpica. Via! La velocità è il loro talento, il loro sacrificio. Marco Villa indica i tempi, il gesto della mano è eloquente: va bene così, è perfetto. Ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie sensazioni: il lancio di Lamon, il volto da bambino e la voglia smisurata di qualcosa di speciale di Milan, la commozione di Moro e la potenza di Ganna. Sì, lui che questo velodromo lo conosce alla perfezione, per averci girato un'ora, per aver stabilito qui il record dell'ora. Vorremmo indagarne i pensieri, invece ci fermiamo alla medaglia d'oro nella specialità. All'inno e ai pensieri che porta.
Luci al velodromo e buio fuori. Gli orologi dei velodromi di qualunque parte del mondo custodiscono il tempo ed il tempo questa sera ha lasciato qualcosa per cui essere contenti.
Grenchen 2023, giorno 1: un recap
Prima giornata dell’Europeo su pista in poche (?) parole. Manifestazione in cui maglie e medaglie hanno il giusto valore: si lavora principalmente per crescere (e in alcuni casi qualificarsi) in vista di Parigi 2024. Si è tornati nel luogo in cui Ganna, ma anche Bigham poco prima di lui... sapete già cosa. E in mattinata hanno guidato le proprie nazionali nelle qualificazioni dell’inseguimento a squadre.
Disciplina olimpica e dunque di una certa importanza. Italia al completo, segna il miglior tempo e per il resto poche sorprese. Chi scrive sperava in un ulteriore salto di qualità del giovane Belgio, ma per il momento una solida Germania non si fa da parte. Questione Giochi Olimpici abbastanza circoscritta alle squadre note: Italia, Gran Bretagna, Danimarca, Germania, Francia alle quali si aggiungeranno Australia e Nuova Zelanda e probabilmente una tra USA e Canada), ma se ne parlerà più avanti, intanto stasera si lotta per andare a caccia di una medaglia, sia tra i ragazzi che tra le ragazze.
Balsamo, Fidanza, Guazzini e Paternoster, seconde, sono un po’ lontane dalla Gran Bretagna, ma stasera sfideranno la Francia per l’accesso alla finale valevole per l’oro. Bisognava rompere il ghiaccio e perlopiù è un’altra tappa di un lavoro che porterà verso Parigi.
La gara che apre e chiude la giornata è quella della velocità a squadre: specialità olimpica. Gli omaccioni olandesi fanno paura e senza paura stracciano la concorrenza con quella solita superiorità imbarazzante per gli altri che riescono a mettere in pista. Muscoli che sembrano brillare riflessi sui 730 metri cubi del legno lamellare della pista svizzera. I ragazzi italiani invece crescono, crescono, crescono, sono meno in carne rispetto a gran parte della concorrenza, ma una bellezza da vedere. Due volte migliorano il record italiano, Tognoli, Bianchi e Predomo, con un’età media da quinta liceo o poco più (19 anni) chiudono sesti mostrando evidenti miglioramenti nella velocità su pista: per loro Parigi rischia di essere (per usare un eufemismo) un divieto sacrale, ma non si vive di solo Parigi e la loro contagiosa giovinezza li porterà in alto, a patto chiaramente di continuare a investire e puntare sul movimento della velocità.
Diverso il discorso tra le ragazze dove invece si fatica maggiormente, mentre la gara vede la solita solida Germania - Friedrich, Grabosch, Hinze - superare in finale la Gran Bretagna.
Non c’è pausa per il ciclismo, per noi che lo amiamo che passiamo da un evento all’altro, che sia strada, cross o pista, per loro che pedalano e così ti ritrovi ancora e ancora gare una dopo l’altra. Prima di concludere le due prove di velocità, infatti, ieri sono andate in scena anche gare molto attese per l’Italia perché vedevano al via Fidanza e Viviani, nello scratch e nell’eliminazione, entrambi accomunati dalla maglia iridata che li rendeva con tratti quasi sfarzosi in mezzo al gruppo, ma meno riconoscibili del solito con una mise diversa da quella azzurra. Ebbene: la condizione, evidentemente, in due specialità non olimpiche ma nelle quali i due sono di casa, deve ancora arrivare e non c’è nulla di male. Fidanza chiude quinta in una gara in cui, a differenza di qualche mese fa, Mondiale a Saint-Quentin-en-Yvelines, si attacca dalla media, breve distanza, e da uno di questi attacchi se ne esce fuori Maria Martins che dopo aver inseguito una vita la medaglia d’oro su pista, dopo tanti piazzamenti vince, esultando alla fine come Ronaldo. E i portoghesi stanno bene bene in questo periodo a due ruote: l’eliminazione - che vede Viviani eliminato, appunto, precocemente, chiuderà quinto, la vince un giovane di grande talento (da seguire anche su strada) e figlio d’arte, il tedesco Tim Torn Teutenberg, per tutti, o quasi TTT, con quella che fino al momento è l'azione più interessante e da ricordare della manifestazione. Vince davanti a uno dei gemelli Oliveira, ancora Portogallo. E fra qualche ora si ricomincia.
Il 5 febbraio 2023 a Hoogerheide
Non è il 30 ottobre del 1974 a Kinshasa, non è The Fight o Rumble in The Jungle. Non può essere Alì contro Foreman, perché è il 5 febbraio del 2023, a Hoogerheide, ed è van der Poel contro van Aert e viene presentato come il Mondiale di ciclocross più atteso di sempre.
Non c’è più niente da nascondere, basta pretattica: quello che si ha lo si tira fuori, sul percorso oppure altrove, comprese le foto che sui social vengono mostrate da stamattina: van Aert contro van der Poel in ogni forma ed età. Bambini in uno studio televisivo, uno con la faccia imbronciata, l’altro un po' stupito, contento, curioso, oppure sul podio a darsi un pugnetto poco convinto, o ce n'è una, più ricostruita, che raffigura un braccio di ferro tra i due, dove uno tiene lo sguardo fisso negli occhi dell’altro come un duello ripreso per il momento di maggiore tensione di uno spaghetti western.
Un western del Nord, belga e olandese, una questione per qualcuno di statistiche: van Aert ha vinto tot gare mentre van der Poel gli è superiore in questo e quello. È uno scontro fatto di polemiche, come ogni diatriba, serve a colorare la vigilia; è qualcosa in cui tutti si fanno da parte e lasciano la scena a loro. È l'apoteosi della superiorità. È devastante per gli altri. È un anticipo della stagione su strada, è il finale della stagione nel cross.
Non vorremmo mai spostare l’attenzione dalla corsa, ma bisognerebbe almeno citare, e lo facciamo, la quantità di gente, di colori e di rumori lungo tutto il percorso di Hoogerheide, Olanda.
Non vorremmo mai spostare l’attenzione dal colore tutto intorno, ma ci tocca ritornare in corsa: è quel che conta oggi. Dopo tre minuti attacca van der Poel, quarantatré secondi dopo i due se ne vanno, inizia il braccio di ferro, non li rivedono più. È un continuo logorarsi a vicenda, un domandarsi, giro dopo giro, chi vincerà? Chi è più forte dell’altro? Dove attaccherà Wout? E Mathieu sfrutterà le barriere?
Uno è spalluto, l’altro una sfinge. Uno attacca, l’altro risponde.
Uno prova ad allungare in un punto, l'altro cerca il proprio limite per evidenziare quello del suo avversario.
Avremmo voluto vederne ancora, e poi ancora, e ancora, ancora, fino a dire basta. Un altro giro, ma poi quell’ultimo giro è arrivato. C’è silenzio per un attimo, o almeno così pare di percepire, come in una di quelle piazze vuote a El Paso, Texas, oltre un secolo fa. C’è tempismo, potenza, c'è lo spiccato senso tattico che da un po’ di tempo è diventato parte del corredo agonistico di van der Poel che scatta sul rettilineo finale e vince.
E poi c'è quella domanda che sorge spontanea: l'idea dell’uno di andare così a tutta dall'inizio, può aver logorato l’altro svuotandolo dell'energia necessaria per fare la differenza prima della volata? Van Aert dice, più o meno, che è andata così, il 5 febbraio del 2023 a Hoogerheide.
Quelle cose che noti a Hoogerheide
La prima cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, è il gigantesco prefabbricato dedicato all'accoglienza degli ospiti. Una creatura articolata di acciaio e plastica che si estende su due piani per 150 metri di lunghezza; sembra un incrocio tra un incubo uscito dalle raccolte di "Padania Classics" e la tribuna degli scommettitori di un ippodromo. E sta sempre lì, occhieggia sullo sfondo di quasi ogni passaggio del circuito. Incombe.
La seconda cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, è il labirinto di tubi, scale e passerelle che ha l'obiettivo di trasformare il paesaggio in buona parte pianeggiante in un selettivo circuito da ciclocross. Adrie van der Poel, che il tracciato l'ha disegnato senza disdegnare la aspettative del figlio, favorito numero 1 per la prova élite maschile, dice che è più duro di quanto sembri, più di quanto si è abituati all'annuale appuntamento col suo omonimo GP. Eppure la prima gara scorre via velocissima, aiutata da un clima inaspettatamente gentile a queste latitudini, in questa stagione.
La terza cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, sono insieme una presenza e un'assenza. Perché oggi a Hoogerheide ci saranno sì e no un migliaio di persone. La maggior parte sono atleti e meccanici in ricognizione, e il fondamentale esercito pacifico di lavoratori che rende possibili questi appuntamenti, e il ciclismo tutto. Ma manca qualcuno. La staffetta mista è prova molto spettacolare ma troppo giovane per intrigare il grande pubblico, tanto più un un venerdì lavorativo. E così il parco di Hoogerheide si vede, si vedono i prati e gli alberi, si sente persino qualche uccello cinguettare. È il bosco brabantino che respira, prende fiato prima di un weekend in cui saranno il calpestio di migliaia di piedi, le urla di migliaia di gole, lo scorrere di migliaia di birre a farla da padrone. Dicono gli organizzatori di aver venduto circa trentamila biglietti soltanto in prevendita, altri diecimila sono attesi in coda ai botteghini nella giornata di domenica. Hoogerheide è una festa abituale del ciclocross, da oltre vent'anni celebra la dinastia dei Van der Poel e intende continuarlo a fare anche quest'anno, con numeri sempre più grandi.
L'ultima cosa che si vede, uscendo dal parco di Hoogerheide, è una lunga fila di ragazzini in bicicletta, fermi, vestiti con gilet fluorescenti. E un'altra lunga fila che li raggiunge alla rotonda che immette nel circuito, dividendosi la strada con la nazionale dei Paesi Bassi quasi al completo (Mathieu van der Poel non c'è) che si scalda pedalando sull'asfalto. Ci sono delle grida pacate, dei saluti, qualche scampanellata, poi le due file si ricongiungono e pedalano via, a gruppo compatto. È l'ora dell'uscita delle scuole, i ragazzini tornano a casa, e a Hoogerheide si fa quello che si fa ogni giorno, mondiali o non mondiali: si pedala.
Cresce, esplode, De Lie
La facilità con la quale Arnaud De Lie ha vinto ieri la prima frazione dell’Étoile de Bessèges, classico appuntamento di inizio stagione in Francia, ha ricordato la medesima inclinazione di un certo Peter Sagan per quel tipo di arrivi: pochi minuti in cui sprigionare potenza e saltare gli avversari in vista del traguardo.
E per certi versi simile - anche se al momento giocano su terreni differenti di coinvolgimento - è quella sorta di spavalderia genuina che esprimono nel godersi una vittoria. Ieri niente segno delle corna, lui è "Il Toro di Lescheret", ma si guarda indietro, scruta i corridori dribblati e che affannosamente tagliano la linea del traguardo alle sue spalle, e si esibisce in un gesto quasi di liberazione per la fatica fatta sulla rampa finale.
La crescita di Arnaud De Lie appare netta, anzi lo è, così come il modo con cui sconfigge gli altri corridori su terreni che si assomigliano: vincere su uno strappetto che taglia le gambe sembra diventare un marchio di fabbrica.
Sale di livello lo scontro, e il classe 2002 belga cresce a sua volta. Ieri a Bellegarde ha messo la sua squadra davanti a metà gara, spezzando il gruppo ed esasperando la fatica dei suoi, sportivamente parlando, nemici. Poi sullo strappo che portava al traguardo, dopo il lavoro di un altro suo compagno di squadra, ha lasciato sfogare Mads Pedersen nel tratto più impegnativo prima del plateau finale dove, dopo aver stretto i denti, ancora pieno di energie bruciava un corridore come il danese, che lo scorso anno, su quello stesso arrivo vinse con (estrema) facilità: un momento che fu prodromo della sua miglior stagione in carriera, almeno in fatto di continuità.
Cresce, esplode De Lie, che solo un anno fa si presentava raccontando della sua vita a Vaux-sur-Sûre, della fattoria e di come, la mattina prima del suo successo più importante tra gli Under 23, si alzò presto, come ogni giorno da quando era bambino, per mungere le vacche. Poi salì in macchina, raggiunse Grotenberge, preparò bici e vestiti e andò a vincere in volata la Omloop Het Nieuwsblad di categoria. Disse di aver sentito la fatica di quella levataccia, in gara. Almeno fu sincero.
Impressionante è la facilità con la quale in questi primi 13 mesi di professionismo De Lie abbia alzato le marce della competitività: passando dall’essere un ottimo prospetto a dare nemmeno troppi ambigui segni di predestinazione. È sicuramente presto (ma nemmeno troppo), pensare fin dove potrà abusare della pazienza dei suoi avversari, maltrattandoli su arrivi dove in passato hanno vinto o dominato, avendo pur sempre solo 20 anni.
L’idea di vederlo prima o poi (più prima che poi) scontrarsi con i più grandi del ciclismo di oggi, e su traguardi via via più prestigiosi, ci sta facendo venire l’acquolina in bocca.
Le cronache del ghiaccio e della neve
Per raccontare la gara di oggi in Val di Sole serve mettere da una parte il contorno, notevole, e dall’altra i contenuti tecnici, in una gara che ha visto corridori in difficoltà nello stare in piedi su un tracciato che doveva essere una gara di ciclocross sulla neve, ma alla fine si è rivelato un ciclocross sul ghiaccio.
È tutto all’ombra il percorso, con la neve battuta e spalata in diversi tratti e un terreno duro, durissimo, ghiacciato; i corridori battono i denti alla partenza, mentre il pubblico si scalda guidato dallo speaker e accompagna il via muovendo le mani a ritmo. Per incitare, per scaldarsi.
Il ritmo è una parola chiave, c’è chi lo trova subito, come Kuhn: il binomio neve e Svizzera, se pensiamo, tanto per fare un nome, a Odermatt, in questo momento è tornato molto in voga da un punto di vista dei risultati e l’elvetico veste per un po’ i panni di quel fenomeno che non sbaglia una gara - in altro sport - e parte forte, come per altro ci sta abituando in stagione, tenendo davanti la sua maglia rossa di campione nazionale che risalta sul bianco accecante che caratterizza il percorso.
Il ritmo lo tiene quella solita apoteosi portata avanti da campanacci e motoseghe che pare davvero una gara di sci alpino oppure nordico e che fa da colonna sonora a chi rimonta, cade, frena, tiene, spigola, spinge. In alcuni momenti pensavamo pure di vederli andare via in alternato oppure a spazzaneve.
Si fa fatica a prendere il ritmo perché si rischia di cadere, pensate a van der Poel finito lontano, troppo lontano: non prende alcun rischio (e fa bene), e la notizia è non vederlo a fine gara davanti a tutti, lui che spesso, oppure sempre, in gara prende rischi, ma oggi non era quel giorno. Non era giorno nemmeno per Iserbyt che il ritmo lo tiene pure bene finché non cade, sbatte il ginocchio e si ritira, portato via in barella. Speriamo bene.
La spunta Vanthourenhout che ci mette poco a trovare ritmo e feeling, vincitore degno, degnissimo campione europeo, con quella faccia simpatica come pochi: lascia gli altri a distacchi abissali come un tappone alpino (d’altra parte siamo sulle Alpi) di decenni fa.
Sul podio con lui Vandeputte e Kuhn, entrambi alla loro prima volta tra i primi tre in Coppa del Mondo, e l’impennata di uno, e il pugno liberatorio dell’altro dopo aver resistito al ritorno di Sweeck ,ne certificano l'importanza del risultato acquisito.
Nella neve in Val di Sole
Bianco ciclocross. Domani ai Laghetti di San Leonardo, località Vermiglio, Val di Sole, decima tappa (su quattordici, siamo ormai in dirittura d’arrivo) della Coppa del Mondo di ciclocross, seconda volta - di fila - per la località trentina. L’obiettivo, nemmeno troppo nascosto, si sa, è quello di convincere chi di dovere a far entrare questa disciplina all’interno del programma olimpico. Milano-Cortina è fuori tempo massimo, magari nel 2030, sarebbe un salto di qualità enorme per il ciclocross sotto tantissimi aspetti, a volte ci immaginiamo cosa sarebbe (stata) una lotta per l'oro olimpico tra van der Poel, Pidcock e van Aert e quasi non prendiamo sonno, ma tutto questo è un discorso a parte sul quale non ci dilunghiamo. Non ora.
Ci si prepara da tempo a Vermiglio, invece, per la gara di domani, anzi le gare. L' inverno fa l’inverno, tra freddo e neve. Lo scorso anno sul campo ci si è divertiti al netto di Capitan Temperatura Bassa ma con van Aert, Vos, Pidcock, tutto bianco intorno, le montagne a dare un contorno totalmente inusuale per una gara di ciclocross, piuttosto poteva apparire mountain bike, sci di fondo, specialità di cui la Val di Sole è ghiotta; quest’anno si ripete e il cast vede soprattutto van der Poel e la sfida di altissimo livello che sta tenendo banco al femminile; sfida entusiasmante in pieno svolgimento da un po’ di settimane, sfida tra due 2002, una generazione d’oro, olandese, rappresentata da Fem Van Empel e Puck Pieterse. Van Empel qui vinse lo scorso anno. Fu la prima vittoria nella categoria élite per lei. Van Empel guida la challenge di Coppa del Mondo con oltre cento punti di vantaggio, forte soprattutto (ma non solo) dei due successi negli Stati Uniti, in contumacia della coetanea.
Si esce dalla tradizione di erba, fango e sabbia, sperando che il cross sulla neve dei Laghetti di San Leonardo possa diventare tradizione.
Ci sarà da battagliare con il freddo. Vestitevi pesante: non lesinate. Si combatterà bevendo birra (suggeriscono in alternativa vin brulè), con cautela come sempre. Si combatterà il freddo (ci sarà anche un tendone riscaldato) spostandosi da una parte all’altra del percorso - occhio alle cadute. Urlando, applaudendo. Evento intenso come solo il ciclocross sa regalare dal vivo. Con un percorso leggermente modificato rispetto al 2021, con due collinette in più e zone dove la neve sarà dura, battuta, scivolosa e altre dove, con la neve più morbida, sarà più simile a un percorso con la sabbia ed è per questo che si dice di buttare sempre un occhio su Sweeck, abile guidatore su certi percorsi e leader di Coppa del Mondo, oltre al solito noto, il signor Mathieu van der Poel.
Saranno fondamentali le scelte tecniche, e in questo assumerà una certa importanza la ricognizione - poi che van Aert lo scorso anno abbia vinto arrivando la sera prima e provando il percorso solo il giorno della gara è un altro discorso. Ma di van Aert ce n’è uno solo. Ci vorrà potenza e tecnica, insomma, anche se non a tutti convince l’idea del "ciclocross sulla neve", sarà comunque quello sport lì, potenza e agilità assieme, partenza in griglia, bici in spalla; sarà differente, inusuale, ma non per questo meno bello, entusiasmante e con la solita parola che gira e rigira è sempre quella: spettacolo.
98 corridori al via: 47 donne (partenza alle ore 13) e 51 uomini (partenza alle ore 14:30). Nutrito il contingente italiano che vedrà il ritorno in una gara di massimo livello di Silvia Persico, Eva Lechner, Filippo Fontana, ma non solo. C’è van der Poel, lo abbiamo già detto ma lo ripetiamo, gli occhi saranno su di lui, e anche le urla e il tifo e ogni sua azione, ogni suo passaggio, errore, rimonta eccetera, sarà accompagnata dal frastuono e ci aiuterà a non ghiacciare il fondoschiena.
Vincere come Martina Fidanza
È stata la prima serata del Mondiale di Saint-Quentin-en-Yvelines ed è stata subito così la serata di Martina Fidanza, così per i colori azzurri, così per la squadra italiana. Così come una vittoria.
Vincere con i favori del pronostico in una disciplina di gruppo in pista non è uno scherzo, anzi: è roba per le più grandi; vincere confermandosi è ancora più complicato, vincere come ha vinto lei: di sagacia tattica e gestione nella prima parte; guardandosi intorno e poi scatenandosi nel finale, per distacco, imprendibile per le altre, dimostra lo spessore dell'atleta. E qualcuno ha pure detto a denti stretti: "fosse partita un po' prima prendeva un giro a tutte".
Vincere facendo sembrare tutto così facile all'apparenza, al modo di quelle baciato dal talento. Nella testa e nelle gambe. Vincere come Martina per aprire "discretamente" bene la rassegna iridata su pista, nello Scratch, come un anno fa sempre in Francia, ma a Roubaix. Cambia il velodromo ma la più forte resta Martina Fidanza. Che goduria.
56,792: È Record dell'Ora per Filippo Ganna
Tantissimi dettagli, da ieri sera, dicono qualcosa. La quantità di persone con bandierone del cinghiale sui pedali, il simbolo del fan club “Top Ganna”, rivela che è realmente impossibile voler male a Filippo Ganna. Ganna che, a fine riscaldamento, fa segno alla console di alzare il volume della musica indica quanto fosse pronto a spaccare il mondo. L’espressione di Marco Villa diversi minuti dopo la prova, un altro esempio: felicissimo ovviamente per lo storico risultato centrato, ma con quel velo di amarezza perché si potevano fare qualche decina di metri in più. Il cartellone arancione, quello che poi avrebbe segnalato la distanza record, pre-tentativo recitava 88,888 metri: una distanza a cui Ganna potrebbe pure aspirare, si diceva scherzando.
Su tutti i dettagli, però, ce n’è uno che riassume al meglio la serata di ieri: Elia Viviani nasconde una bottiglia di spumante dietro la schiena. Ganna sta finendo le interviste flash con la tv e vuole essere abbracciato dai suoi compagni di squadra, la Nazionale pista, e Viviani sta per innaffiarlo di vino bianco. Domani partono tutti assieme per la Francia, dove a breve vivranno i Mondiali su pista.
E tantissimi dettagli non hanno senso: cosa significa il fatto che, sceso dalla bici dopo una fatica così immane, Ganna sorrideva? Non si è accasciato sulla pista, sfinito. Non si è dovuto sedere appoggiandosi ad una transenna. Si è messo a passeggiare all’interno dell’ovale, felice come non mai tra le persone che ama.
È stato un record dell’ora molto umano. Un ragazzone verbanese evidentemente molto speciale ha girato in bicicletta davanti ai suoi amici, che avrebbero reagito allo stesso modo anche se non avesse battuto nemmeno Bigham (55,548 metri). Poi c’era quell’altra asticella, che era una sorta di illegale Beamon a Messico ’68. La Lotus 108, bicicletta su cui Chris Boardman percorse 56,375 metri nel 1996, fu infatti definita fuorilegge dalla UCI e il record dell’ora si divise in quello “legale” e in quell’altro, la miglior prestazione umana sull’ora. Ieri Ganna ha messo d’accordo tutti unificando questi due record.
Non avevo pensato a quanti giri di pista dovesse fare Ganna per avvicinarsi ai 57 chilometri. Beh, ne ha fatti poco più di 227. Vederlo passare duecentoventisette volte sul traguardo è stato pauroso, esaltante, noioso, catartico, storico, spaventoso. Nel punto più alto della sua prova, Ganna macinava tempi da Lewis Hamilton in qualifica: 15,3 secondi al giro. Ne ha fatto uno ai 58,99 km/h. È stato durante questi minuti che ci siamo accorti di essere testimoni di qualcosa di fuori dall’ordinario: quando aumentavano i decibel di chi cantava a bordo pista il suo nome, quando tutti i presenti si sono guardati in faccia increduli per dirsi che sì, sta succedendo davvero. Il record di Bigham è stato ritoccato di oltre un chilometro, quello di Boardman di alcune centinaia di metri: il nuovo re dell’ora è Filippo Ganna.
Promesse
Quel numero di dorsale poteva sembrare una promessa: uno. E l'uno, stamattina, a Carpi, nel primo giorno di ottobre, lo aveva Elisa Longo Borghini. Lei che, appunto perché conosce il valore delle promesse, le tratta con cura. Dire troppo, sbilanciarsi troppo, significa generare attese e, se poi le gambe ti lasciano, le peggiori delusioni per chi è lì a guardare, a guardarti, vengono proprio da lì. Dalle promesse, da ciò che, ascoltando le tue parole, aveva immaginato. La sua promessa è, da sempre, il suo lavoro. Il lavorare duro, il non cedere nulla nemmeno in autunno, il non dimenticare nulla nemmeno a fine stagione. Ed è questa, in fondo, l'unica cosa che si può promettere: volerci essere. Fare il possibile per esserci.
A Bologna, i portici della salita di San Luca sembrano fuori dal tempo. Li abbiamo visti in primavera, promessa di maggio, in estate, intermezzo di frescura, in inverno, riparo dall'aria tagliente, in autunno, con le mani nelle tasche della giacca nelle giornate più aspre. Elisa Longo Borghini li conosce bene, come ben conosce quella salita, perché quell'uno è anche passato, quello delle due volte in cui qui ha già vinto. Promettere di fare il possibile vuol dire guardare avanti perché promettere è fissare un punto nel futuro e credere di andarci, vuol dire stare su una bicicletta che ha poche certezze e quella di andare avanti è una di queste, vuol dire scattare in salita, anche se sei stanca, anche se è più difficile.
Elisa Longo Borghini ha fatto così ancora oggi ed è stato uguale e diverso da tutte le altre volte. Qualcosa che colpisce, che resta in mente, perché non è solo il risultato, è il modo: una sorta di presagio che abbiamo quando alcuni atleti fanno qualcosa di straordinario in modo normale o qualcosa di normale in modo straordinario. È questo il capovolgimento che attira, che calamita. Un segreto, forse.
Seconda Veronica Ewers, terza Sofia Bertizzolo. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, della sua fatica, dell'ultimo strappo del mondiale di Wollongong, e guardatela oggi, mentre è lì a giocarsela che è un piacere. Il discorso non è molto diverso, sempre di promesse si parla: di quelle fatte agli altri e di quelle fatte alla propria persona.
Una ciclista sa che non si può illudere chi aspetta per ore un passaggio di qualche secondo, sul San Luca anche qualche secondo in più tanto è duro, ma una ciclista sa anche che ha il dovere di promettersi qualcosa di grande, di molto grande, quasi essenziale, per andare avanti.
Pensiamo a Marta Cavalli che proprio oggi è rientrata dopo la caduta al Tour de France Femmes ed è arrivata sesta. Vogliamo immaginare cosa sia stato per lei questo giorno, dopo tutti i risultati della stagione, dopo la crescita di questi anni. Questo giorno è stato quello che si era promessa dopo essersi rialzata dall'asfalto francese, costretta a tornare a casa. Promettersi il giorno del ritorno significa avere la pazienza di aspettare e il coraggio di dire no pur volendo dire sì. Significa credere al fatto che arriverà. Anche per Marta Cavalli è stato un sabato uguale e diverso dagli altri, un giorno da cui non si aspettava nulla e in cui chiedeva a tutti di non aspettarsi nulla perché è meglio pedalare leggeri in salita. Il suo essenziale era pedalare in gruppo, risentirsi in quel caos del plotone. Le promesse sono promesse e bisogna averne cura. Tutto qui.