Ian Boswell, come tagli in un tronco d'acero

Il Vermont non poteva che essere casa per Ian Boswell. Da anni, ormai, Boswell abita in una casa rurale, fra i boschi del nord est degli Stati Uniti. Sono stati quei boschi e quelle strade sterrate a dargli il coraggio di dire basta al ciclismo professionistico, nel 2020, dopo il terribile incidente che lo coinvolse alla Tirreno Adriatico dell'anno precedente. Da quel giorno, molte cose che prima sembravano facili sono diventate complesse, parlare con più persone nello stesso momento stancante, ha bisogno di scrivere gli impegni della giornata per restare concentrato e di indossare particolari occhiali per leggere. La commozione cerebrale riportata nella caduta ha causato danni permanenti: Boswell non riesce più a stare in mezzo al traffico e, quando vede qualche gara in televisione, teme la velocità, le cadute. Da quel giorno non è il ragazzo che tutti credono di conoscere, magari solo perché lo hanno visto alzare al cielo le braccia impolverate dalla ghiaia alla Unbound Gravel 2021, solo perché lo hanno visto domare quei chilometri di strade sterrate con apparente facilità.

«All'inizio - spiega in un'intervista a Cyclist UK- accettavo le cadute come rischio del mestiere. Mi dicevo che io ero questa cosa qui e che ero disposto a mettere in conto le cadute, persino la morte. Quando sono caduto, avrei subito voluto tornare in sella, non pensavo ad altro». Ma la realtà ritorna. I primi allenamenti dopo la riabilitazione sono impossibili, Boswell ha bisogno di fermarsi, la fatica è esasperata. Come un'incisione nel tronco di uno dei tanti aceri della terra di cui Boswell è diventato figlio. Così annuncia il ritiro, dice che tornerà in quei boschi, che sente il bisogno di scoprire quelle strade sterrate fuori da casa. Forse avrebbe dovuto credere più in se stesso durante la sua carriera, avrebbe dovuto credere al bambino che era e che sognava, un giorno, di andare al Tour de France ma anche diventare adulti ha un prezzo da pagare. Orgoglioso di aver corso in Sky, di aver vinto e anche di aver mollato.

«Bisogna imparare a lasciare che il corpo sia la nostra guida. È difficile» dice oggi. Perché chi sa delle incisioni nei tronchi d'acero del Vermont, sa anche che da quei tagli si ricava lo sciroppo d'acero. C'è qualcosa da salvare anche nei tagli, anche se Ian Boswell non è più l'uomo di prima e tanti ragionamenti, forse, un tempo non li avrebbe nemmeno fatti. Oggi li fa, mentre taglia la legna e prepara i ciocchi che finiranno nel camino per l'inverno che verrà. «Ci sono molti atleti che percorrono la stretta linea di confine tra velocità e cadute: io non ho più il desiderio di correre quel rischio». Le gare di gravel, quelle che ha scelto per ripartire, lo fanno sentire sicuro perché raramente si finisce nella pancia del gruppo, spesso si arriva da soli, non ci sono volate, non c'è quella velocità e quello sfiorarsi di equilibristi senza rete. «Sono più lunghe, forse più faticose, ma il problema non è la fatica. Non sento più il bisogno di andare come un dannato a tutti costi. Se mi sento insicuro, se ho paura, so che posso frenare, rallentare. Mi prendo questo permesso».

Nonostante ciò, continua ad allenarsi, a correre, a progettare e anche a vincere. Il 5 giugno del 2021 ha superato Lawrence Ten Dam, bruciando tutta l'energia che aveva in corpo nel finale della Unbound Gravel, a Emporia, in Kansas. Ha gridato solo “Yeah”, una liberazione e una conferma. Perché capire, non significa rinunciare.
Già, perché anche il dolore ha un confine da non superare. Oltre quel limite, soffrire non ha alcun senso. Diventa pericoloso. Anche gli aceri con meno di quarant'anni non vengono incisi. C'è una ragione, c'è la ragione da seguire. Se Ian Boswell dovesse cadere ancora, se dovesse picchiare male la testa, i rischi per lui sarebbero ben peggiori di quelli che sta affrontando: potrebbe non risalire più in sella e questo no, non avrebbe proprio alcun senso. «Una volta non me ne accorgevo, ora vedo tutti i piccoli rischi che ci sono sulla strada. Il mio cervello si rifiuta di far finta di niente». Per questo Ian Boswell sa di aver fatto la scelta giusta.

Foto: account IG unboundgravel


Jeroboam 300 - Gravel Challenge

LENT MA SEGUENT
Partiamo dal nome. Jeroboam è la bottiglia di spumante da 3 litri. 300 centilitri che in una metafora ciclistica è "facile" tramutare in 300 chilometri. È "facile" a parole, perché basta chiudere un secondo gli occhi, concentrarsi sul vero significato di una cosa e trasformarlo a proprio piacimento.
È meno facile per chi questa idea l'ha curata, tracciata, organizzata e resa vera. L'organizzazione ha preso un termine dell'enologia e l'ha reso pedalabile.
Pedalabile... beh, insomma, non sempre.
Ma i ragazzi in maglia azzurra dello staff sono sinceri sin dall'inizio. Il briefing per la 300 è diverso da quella della 150, principalmente per l'intro lapidaria e inconfutabile. Only three words: «È davvero impegnativa».
Di solito si parte con un forza, un daje, un alè, un mola mia, un dai che ce la fate. Ma così è meglio, perché è un attimo prenderla troppo alla leggera. Alzo il buff a filo del labbro superiore e rispondo dentro di me: "Lent ma seguent".

PECCATI
Anche per questa intro, alla partenza alle 7:30 di sabato mattina mi vien subito da pensare a Geroboamo. Da lui viene il nome. Dal primo re d'Israele, che abbandonò la retta via del Cristianesimo, per venerare il vitello d'oro. Geroboamo il re dei peccati.
E di peccati noi 54 alla partenza del percorso lungo probabilmente ne abbiamo molti da espiare. E infatti la prima parte del percorso è costellata di imprevisti.
Pronti, via, siamo nel gruppo e inizia subito a piovere. Anche lo sterrato è puntuale ed è dietro la prima curva.
Alla prima pausa per cambiare già assetto e indossare il mantello da supereroi weatherproof ci accorgiamo che ho già perso una borraccia. O meglio la falsa borraccia con il GPS tracker.
Bene! Dopo soli 10 km percorsi salutiamo già il gruppo, e sotto l'acqua facciamo rientro verso Erbusco. Fortunatamente incontriamo due ragazzi che stavano tracciando anche il mio percorso. Perdo l'occasione di approfittarne e onestamente metto il mio tracker in un posto più al sicuro, nella sacca sopra il telaio, vicino al cuore pulsante della Canyon Grizl, che già sbuffa: «Simone sei il solito Zaaaai»


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MAI SOLI
La solitudine creata dalla mia ingenuità è in realtà una bolla che ci permette di scegliere il nostro passo, senza alcuna influenza esterna.
Fortunatamente la pioggia smette ed esce un sole timido. La prima vera salita a Polaveno scorre via liscia, come il suo asfalto (che rimpiangeremo) e parliamo anche con un biker locale che ci racconta di come abbia iniziato a spingere in mountain bike per un amico partito troppo presto.
«Voleva fare la Spartacus, anzi era già iscritto. Io non ero preparato per una gara del genere, una specie di Jeroboam in mountain-bike. Ma dovevo farla e l'ho finita. Non ero solo».
E da quel momento, il biker che conosciamo solo per voce e volto, non si è più fermato. Penso al buff che indosso, penso a chi mi ha portato ad essere qui anche oggi ad affrontare una sfida con noi stessi.
Non per vincerla o perderla, ma per affrontarla. Perché quello che rimane, nel bene o nel male, è sempre una piccola consapevolezza in più di poter superare ogni difficoltà. Perché in fondo non siamo mai soli. Nemmeno quando a Bovegno si prende la strada di S. Antonio e si inizia a salire. Nemmeno quando passiamo dalla Santella di S. Antonio, e ci accorgiamo che è vuota. Temiamo che il Santo sia scappato, per quello che ci aspetta. Ed avremo ragione.

LE SETTE CROCETTE
Le sogneremo spesso le sette crocette. Sono lì in cima al passo, al fresco dei loro 2041 metri, dal 1668. Non proprio queste crocette ora in ferro battuto, perché originariamente erano di legno.
Nessuno sa di preciso come mai siano lì, ma per noi sono il primo vero spartiacque della nostra Jeroboam.
Sapevamo che sarebbe stato il passo più duro da affrontare. Almeno sulla carta, ma in effetti sarà così anche sulla ghiaia.
Il muro a secco accompagna i primi tratti di mulattiera, che sfumano gradualmente in sentieri di cresta e in traversi tipici di medio-alta montagna. Non è roba da gravel, ma la Grizl, un po’ pedalata, un po’ spinta, rimane sempre fedele al mio fianco. Così come la Grail di Armin, nonostante un gracchiare costante della catena dilavata dalla pioggia di partenza.
Dalla nebbia che circonda il nostro lento avanzare, spuntano delle presenze, che rompono la monotonia della nostra fatica (e del mal di schiena): davanti a noi due geroboami che arrancano. Non siamo soli.
Poi una baita che invita a comprare il suo formaggio. Uno dei nuovi compagni di viaggio, cade in tentazione e si appesantisce di mezzo kilo di formaggella. Non lo rivedremo più.
Noi chiediamo dell'olio per la catena di Armin. E non è stato facile.
"Avete dell'olio?"
"Olio? Mmm Collio?"
"No, OLIO, olio della catena, della moto"
"Olio? Mmm mah".
"Ghè mia lè de l'ole?"
"L'ole, certo, chel nurmal della motosega o chel de mangià?"
L'olio della motosega rende la trasmissione di Armin un violino. Salutiamo il formaggiaio, con la promessa di tornarci in un giorno di sole, e proseguiamo tra gli asini e le mucche.
Come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette si fanno desiderare. L’atmosfera bucolica e quieta che ci circonda allevia però anche l’attesa più snervante e i polpacci che tirano tra un passo su tacchette d’acciaio e l’altro.
La vista sul monte Ario, sulle 3 Colombine, sul Campione e sul Guglielmo, è incastrata tra le nuvole basse che, come tende spesse e pesanti, non la fanno passare.
Ma poco importa, lo spettacolo è sul nostro stesso sentiero.
Assistiamo perfino allo spettacolo della vita. Una pecorella partorisce da sola, con noi come unici parenti. La incitiamo mentre dà alla luce il piccolo Geroboamo. Sì, ci ha concesso l’onore di scegliere il nome del piccolo.
E come tutti i passi di montagna, anche le 7 crocette sbucano all’ultimo secondo, dandoci perfino un piccolo scorcio del paesaggio immenso circostante. Solo per qualche minuto.

LA SERENITA’
Può sembrare un ossimoro parlare di serenità durante due giorni di pedalate su sentieri poco brevettati per le due ruote non ammortizzate.
Eppure, dalle sette crocette fischiamo in picchiata sull’asfalto freddo ma accogliente del Passo Maniva, che ci prende per mano e ci spinge fino al Bivacco Tita Secchi.
La sua struttura di legno, quasi una protesi della costa rocciosa su cui appoggia, ha in serbo per noi panini con la nutella e salame bergamasco fresco fresco di taglio.
Il primo timbro, che è in realtà una firma, ci spinge ancora più dell’asfalto del Maniva e ci proietta in pieghe continue tra i 12 tornanti acutissimi che dal Passo Baremone ci mandano “in ferie” ad Anfo.
Le rive del lago d’Idro sanno di week-end tutto salviettone, piedi a mollo e frisbee.
Ed è qui che ci riprendiamo la nostra serenità. Riusciamo a concentrarci su cosa stiamo facendo, su ogni singolo movimento, respiro e sguardo di questa avventura. La fatica c’è, ma se ne sta zitta in un angolo, almeno per un momento, e ci fa godere appieno della vita.
E poco male se dal fondo del lago d’Idro si torna a salire. E si torna a salire per quasi 1500 metri, prima lisci poi ruvidi.
Il tramonto con vista sul cavalluccio marino che è il lago d’Idro, alternato da curve in un bosco che già profuma di sera, rafforzano il senso di serenità che sta guidando il momento più brillante della nostra giornata.
E nemmeno il buio, squarciato dalle nostre amiche torce, ne la foratura della mia anteriore, ma nemmeno gli ultimi portage imprevisti di giornata ci impediscono di raggiungere il secondo check-point.

ENOUGH CYCLING
Quanto avete pedalato oggi? 13 ore, 130 km asprissimi e 4500 metri di dislivello. Beh, diciamo abbastanza, diciamo enough. Potremmo anche dire che ne abbiamo abbastanza, ma non è così.
L’accoglienza birrosa, festosa, e hawaiana (sì, hawaiana), dei mitici Enough Cycling, alla Malga Corva, sul monte Tombea, rallegra la nostra fame.
Sono quasi tutti qua. Del gruppo che abbiamo abbandonato molto presto mancano alcuni coraggiosi, e mancano certamente il Re e il principe del week-end. Geoffrey Langat e Sofiane Sehili, involati già oltre le sponde del lago di Garda. La regina è Nancy Akinyi, anche lei già riflessa dalle acque calme di Salò.
Noi siamo arrivati un po' tardi alla tettoia rallegrata dalla musica degli Enough. Ci siamo persi salsicce e salamelle cucinati da un Mattia De Marchi in borghese. Sì, tutti nomi di un certo calibro. Noi, per giustificare la nostra presenza tra loro, ci agganciamo umilmente al nostro mantra "Lent ma Seguent".
E ripieghiamo su un piatto di pasta alla Malga Corva.
E per restare fedeli al nostro mantra, dopo un bel cambio rigenerante, ripartiamo.
Inizia ad essere notte profonda, anzi mattina presto. E allora scegliamo Jimi Hendrix per alternarsi ai bramiti dei cervi e per graffiare il buio e il nostro sonno, mentre camminaliamo (un po' camminiamo e un po' pedaliamo), per altri 5 km e 600 metri di dislivello.
La discesa sterrata fino al Lago di Garda è un massaggio shiatsu infinito, e uno slalom tra i rospi giganti immobili in mezzo alla strada che non ci degnano di uno sguardo.
Il primo paese che incontriamo è Piovere. Il nome, e i lampi all’orizzonte ci inducono a proseguire, anzi pure a spingere un po'. Finalmente si può, e il Lago di Garda di notte, senza fari e clacson scivola via che è un piacere. Toscolano Maderno, Gardone Val Trompia e infine Salò.
I sussurri nella testa ci consigliano di riposare un attimo. E così l’entrata di uno studio ortopedico diventa la cuccia per noi e per le fedeli Canyon. Per ben 40 minuti. Suona la sveglia e ci svegliamo. Stanchi sì, ma comunque meno di quando suona in un banalissimo lunedì.

2 ORE DI BUIO
Vero, la notte è durata molto di più. 11 ore abbondanti. Ma due sono state le ore di buio totale, che sono piombate su di noi alla ripartenza da Salò.
Quando si dice: Testa bassa e pedalare. Per due ore per me è stato letteralmente così. Due ore spesso sono tutto quello che hai per pedalare, per allenarti durante la settimana. Qui, nel bel mezzo di questo viaggio in continuo, le due ore sono state un momento di buio lunghissimo.
Non solo metaforicamente ma anche letteralmente.
Accartocciato sulla bicicletta, guardavo il fanalino rosso di Armin, nel buio bagnato di un diluvio anche lui lungo due ore.
Quella lucina intermittente rossa è stata la mia guida e l'unico punto di contatto che avessi con la realtà. Non facevo che copiare meccanicamente le sue traiettorie senza aver le forze per fare altro. Se Armin fosse finito in un fosso, l'avrei fatto anche io. Ma Armin è un drago, non mollava, e non sbagliava una linea, reduce dalle sue passate scorribande di downhill.
Il mio stomaco aveva deciso in autonomia che era il momento di mollare, di tornare a casa al calduccio e per convincermi mi ha tolto tutte le energie, mi ha vietato di mangiare o di bere, e bruciava come un dannato. Ma non ce l'ha fatta.
Io ho smesso di guardare il contachilometri (e quando succede non è un buon segno) se non ogni tanto per vedere l'ora.
Dalle 5 alle 7 mi ripetevo sempre e solo le stesse 6 cose, in un loop che non finiva più:
1) Dai che arrivano le 7.
2) Dai che viene giorno.
3) Dai che smette di piovere
4) Dai che bevi un tè caldo al limone.
5) Dai che si svegliano tutti e vi fanno il tifo controllando il live-tracking.
6) Lent ma seguent
Dicono che il pensiero possa piegare l'universo, alterare la casualità delle cose e farle tendere verso di noi. Non so se sia vero. Forse è solo coincidenza, oppure è il papi che è andato a bussare dal grande capo.
So solo che sono arrivate le 7. È venuto giorno, ha smesso di piovere, ho bevuto un tè caldo al limone (e ho pure fatto un mini sonnellino sul divano comodissimo del bar. "Armin svegliami quando hai finito le tue brioche"), si sono svegliati tutti e hanno cominciato ad incitarci, vedendoci ormai ai meno 100 km, con 6000 metri di dislivello messi in tasca.

IL VOLO DELL'AIRONE
Vero, l'airone per gli sportivi bresciani è Andrea Caracciolo. Ma l'Airone per tutti i ciclisti è Fausto Coppi. E cosa c'entra Fausto Coppi con voi due che arrancate dopo 190 km? Ecco, 190, come i chilometri dell'incredibile fuga di Fausto Coppi al Giro del 1949, nella Pinerolo-Cuneo. E proprio il Campionissimo ci balza in mente nel momento della rinascita e del ritorno della speranza.
Lì, nel bellissimo parco dell'Airone, a Bedizzole, tra i joggers della domenica, famiglie allegre sorprese del sole nonostante le previsioni pessimistiche della vigilia (che sia colpa del wet bias?), rinasciamo.
Il terreno è finalmente gravel, quella ghiaia che sfrigola al passaggio dei nostri pneumatici, opponendo quella giusta resistenza che rende tutto un po’ frizzantino, ma senza sbalzarci come yo-yo sulla sella.
Il parco lascia spazio a pratoni di erba incolta e fradicia, pattugliati dalle squadre di cacciatori Bresciani con i loro cani da riporto.
Pensiamo che possiamo farcela. Il traguardo è ancora distante e ci sono ancora ben tre salite distinte da affrontare, ma il ritmo è finalmente quello giusto. Pensiamo allora che solo una fucilata mal piazzata possa porre la parola fine. Acceleriamo. Anzi, ora sì, voliamo. Come l'airone.

FANGO E MARMO
Quando si iniziano a vedere le cave di marmo di Nuvolera, pensiamo già al fango che potrebbe accoglierci sulle rampe solitamente cavalcate dai camion pesanti.
Entriamo nella cava, e la strada si colora subito di marrancione (sì, marrancione), ci illude con qualche tratto pianeggiante e poi si inerpica dritto per dritto.
Il fango c'è, e accarezza i sassi bianchi reduci dal taglio del marmo. Il fotografo ci attende, ma nota che sorridere in quella posizione da orango-tango è impossibile. E allora fa partire il drone sulle nostre teste, donandoci un attimo di sollievo con quella brezza al calcare.
Il terzo e ultimo check-point è all'insegna dell'ottimismo. "Ormai ci siete". mancano solo 500 metri di dislivello (parliamone). I ragazzi di 3T mi guardano mentre scolo una bottiglia di coca e non osano sottolinearlo (grazie). Lo faranno solo all'arrivo, ormai certi che qualsiasi problema avessi, ormai era superato.
Superato grazie ad Armin, che inizia a gridare al vento ogni volta che i chilometri all'arrivo diminuiscono di 5.
A Brescia, la salita asfaltata fino a "Brescia Alta" sembra una carezza. La salita sul Monte Picastello un po’ meno. Molto meno. La strada delle trincee è quella tipica salita che "era meglio l'avessero messa all'inizio". Ma ormai nulla può scalfirci. Se fai 300 km, quando ne mancano 30, la testa è già all'arrivo. E nemmeno quando scopriamo che la nostra traccia non porta a Erbusco, ma a 7 chilometri di distanza, non ci scoraggiamo.
Afferriamo la strada provinciale, che è come sedersi su un divano morbidissimo dopo una giornata seduta su una panca di legno, e sorridiamo alla bellissima accoglienza del villaggio di arrivo.
«Vi aspetta la vostra birra». È quello che volevamo sentirci dire. «Ma prima foto di rito e firma sul pannello».
Non sono molte le firme che ci hanno anticipato. Circa una decina. Segno che "Lent ma Seguent" era il passo giusto anche oggi. Oggi e ieri, dato che siamo partiti alle 8 di sabato e siamo arrivati alle 14 di domenica.
Come si dice? «La notte leoni... la mattina... pure! Altrimenti la Jeroboam 300 non la finisci». Ora lo sappiamo per certo.


Quello che Ten Dam ha imparato

Laurens Ten Dam ha corso diciassette anni nel professionismo, eppure ha conosciuto davvero la bicicletta solo qualche settimana fa, quando è arrivato secondo nella Unbound Gravel, duecento miglia unsupported intorno a Emporia.
«Prima di partire per Gravel Locos ho detto a Ted King che doveva essere pazzo a correre a tre settimane dalla rottura della clavicola - spiega a Cyclingnews - Giusto un paio d'ore per capire come tutto fosse diverso».
In realtà, che questo fosse un altro volto del ciclismo, l'ha visto appena ha forato e ha dovuto sistemare da solo la ruota. «Sei abituato a chiedere aiuto ma sei da solo e per ripartire devi arrangiarti».
In Kansas un ragazzo è andato a bussare a una fattoria per chiedere una pompa per gonfiare una ruota, l'olandese l'ha guardato stupito: «Credi possano aiutarti? Quante pompe vuoi che possiedano?». Nel mentre si sfidava con Ian Boswell per il primo posto. «Seccato per il secondo posto, ma ringrazio la bicicletta per tutte le avventure che mi fa vivere e le persone che mi fa conoscere».
Ten Dam vorrebbe raccontare tutte le storie dei folli che corrono queste gare. «Posso raccontare a mio padre cosa ho fatto, però non potrà mai saperlo davvero se non lo proverà. Porterò qui i miei amici: saranno in fondo al gruppo e arriveranno ultimi, ma vivranno questa esperienza e torneranno felici».


Alfabeto Nova Eroica

A come Arrigo VII

Buonconvento è un bel posto per venirci a pedalare. Sterrati, salite, discese, borghi e pievi e castelli. Lo sanno tutti da quando l’Eroica ne ha fatto uno dei capisaldi del “Rinascimento ciclistico”. Un po’ meno per venirci a morire, tanto più se, come pare, avvelenato. Capitò nel 1313 all’imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, nel quale Dante, nell’eterna contesa temporale tra papato e impero, e nelle intestine lotte tra guelfi e ghibellini, riponeva le sue speranze di riscatto politico, sbagliando però clamorosamente “cavallo”. Pare che fosse stato avvelenato da un frate, durante la comunione. Si era in piena estate
(24 agosto) e non c’era verso di rimpatriare il cadavere imperiale in Germania. Si fece ricorso a un’usanza germanica: bollire il corpo del morto per separarne le ossa dal resto delle parti molli. Le ossa vennero trasportare insieme alle insegne imperiali, lo scettro e il globo, nel Duomo di Pisa, dove lo scultore Tino da Camaino eresse un monumento funebre al sovrano. Che da questo fatto derivi il nome della celebre ribollita, noto piatto dei mitici ristori eroici?

B come Berruti, Luciano

Perché son quattro anni che non c’è più ma è come se non fosse mai andato via. Sempre qui. Non c’è quasi bisogno di ricordarlo. E se ce ne fosse bisogno basterebbe incrociare gli occhi di Jacek, suo figlio, e quello che dice e che fa con la schiettezza ereditata da un padre che era anche “il suo migliore amico”. Luciano, numero uno per sempre.

C come Crine del Carube

Biondo era bello e di gentile aspetto. Oddio, proprio gentile magari no… Però biondo e bello Roberto Lencioni, detto Carube, s’è palesato iersera all’ombra delle mura trecentesche di Buonconvento “a miracol mostrare”. A colpire l’attenzione degli affezionati che lo hanno accolto, erano i boccoli dorati che sfuggivano alla sorveglianza d’un vezzoso cerchietto. “Oh Carube!” stupirono gli amici. “Tranquilli” disse il Gran connestabile del Re Leone “non vedo il barbiere da mesi”. Per poi aggiungere bellicosi propositi che si tacciono per prudenza e decenza.

F come Franchetti

Franco Rossi, detto Franchetti, è il motore organizzativo della gran macchina di Eroica. È la corrente alternata del generatore. Il pullulare di elettroni nell’elemento chimico eroico. È uno e trino. Ubiquo e polimorfo. Pettinato come se la Forestale gli avesse fatto un giro in testa, come dice il Gatto, il re dei numeri de L’Eroica. Elettrico e sempre in tensione. Ma col sorriso.

I come I’ Bbrocci

Tutto questo mondo eroico non esisterebbe proprio se un quarto e passa di secolo fa non si fosse accesa la luce visionaria e donchisciottesca di Giancarlo Brocci da Gaiole. Il Brocci, anzi I’ Bbrocci ha
michelangiolescamente toccato il dito degli eroici adamitici e ha dato il là alla genesi. Molte cose sono successe nel frattempo, anche di grosse e non sempre di dritte. Come tutti i fenomeni di “lunga durata” anche L’Eroica per sopravvivere ha dovuto accettare l’evoluzione: ma è impossibile dimenticare dove e come tutto prese inizio. Se si ha ben presente da dove si proviene, difficile che si perda il senso di dove si vuole arrivare.

L come Lampredotto

C’è ci storce il naso al solo pronunciare il nome di questa umile, enterica ma concreta dimostrazione dell’esistenza di Dio. Ci dispiace per loro. Soffermatevi invece a rimirare il pentolone ribollente di aromi, la maestria con cui viene arpionata la sfuggente materia dissimulata in sembianza ittica, la speditezza con la quale a colpi di coltello viene ridotta a una scomposta minuzia, e l’altrettanto prontezza con cui ratto s’intinge il panino nello stesso brodo, non troppo ammollato per preservarne la forma infrastrutturale del companatico, ma inumidito il giusto per assorbirne i vaporosi umori del sedano, della cipolla e della carota, per poi adornarla della gustosa bagna smeraldina. Lampredotto, m’hai provocato. E mo’ me te magno.

N come Nova Eroica

Nova Eroica è un manifesto alla declinazione della libertà in bicicletta. Le mitiche Strade bianche divenute da oltre venticinque anni patrimonio dell’umanità ciclistica vengono qui affrontate non soltanto dalle biciclette d’epoca, come avviene nell’Eroica primigenia e ottobrina di Gaiole, o in quella primaverile di Montalcino; ma anche dalle bici contemporanee, e in particolar modo dalle gravel, oggi il mezzo più adatto per pedalare su sterrati e fuoristrada, su percorsi dall’altimetrie non proibitive. Nova Eroica è per questo un simbolo del nuovo stile dell’andare in bicicletta che si apra a pubblici sempre più ampi ed appassionati. Il Dolce Stilnovo eroico.

M come Monte Sante Marie

È il Galibier, il Mortirolo dell’Eroica. Un susseguirsi di balzi dalle pendenze cattive, che di solito i veri eroici – quelli del “Lungo” dell’Eroica di ottobre – fanno quasi al termine della loro impresa. Vedendo, come dice il nome della salite, più di una Madonna. E invocandola spesso.

P come Panzanella

Era più o meno la metà del Trecento e nelle campagne del Senese si moriva di fame: pestilenze, carestie e quell’insopprimibile voglia di fare le guerre delle prepotenti città nei contadi avevano messo allo stremo la popolazione rurale. Giovanni Colombini apparteneva a una ricca e potente famiglia di mercanti senesi, che si erano poi dati ai banchi di prestito, diventando infine così ricchi e potenti da essere ammessi tra i nobili cittadini. Ma proprio a metà Trecento, Giovanni e tutta la sua famiglia, fulminati da una crisi mistica, donarono tutti i loro averi, si fecero monaci e vissero in povertà e letizia. In un anno ancor più crudo degli altri, intorno a Giovanni, venerato eremita, si strinsero disperati uno stuolo di contadini affamati. Giovanni li riunì in preghiera e fece il miracolo: le sue lacrime pietose bagnarono quel poco di pane secco che gli
rimaneva, e poi irrorarono un ulivo e poi ancora ridiedero vita all’ortaglia d’intorno, che tornò a produrre verdure di campo. Con l’olio, il pane secco ammollato e i frutti dell’orto sfamò centinaia e centinaia di mendicanti. E nacque la panzanella, la panzanella del Beato Colombini. Ora il nome stesso di questo glorioso piatto povero di riuso non rende forse fede alla leggenda. Però alla panzanella, soprattutto da queste parti, e nelle stagioni calde, non si può rinunciare. Io, modestamente, la faccio buona quasi quanto il Beato. E senza bisogno di piangere.

R come Rubino, Guido P.

Con Guido Rubino, giornalista e fotografo, da più di dieci anni ho combinato tante belle avventure sopra e intorno alle biciclette. Stare al suo fianco è per me garanzia di lavoro ben fatto e autentico divertimento. Guido P. Rubino quando è in forma, più o meno sempre, ti fa piegare dalle risate. Ma Guido non è che un esempio tra i molti del significato autenticamente comunitario e amichevole di Eroica: e quello che scrivo di Guido lo potrei dire, a diverso titolo, per Livio, Angela, Alessandra, Maurizio, Willy, Mauro, Cristina, Roberto, Ale, Vittorio… Tutte le volte che ho partecipato, fosse Gaiole o Montalcino, la Nova o in Limburgo o nelle Dolomiti, la cosa più importante è stata quella di sapere di incontrare i vecchi amici e di farne di nuovi.

V come Val d’Arbia

L’Arbia si colorò in rosso nel 1260, nella battaglia tra guelfi Fiorentini e ghibellini Senesi, per il gran spargimento di sangue. Con Nova Eroica in Val d’Arbia i colori, delle biciclette, delle maglie, dei caschi, degli stendardi e dei tendoni del village sotto le mura di Buonconvento non si contano. Un arcobaleno in bicicletta, a dispetto di un meteo capriccioso che ha ingrigito il weekend di mezzo luglio.


Fenomeno Lachlan Morton

Ce l'ha fatta. Lachlan stamattina è arrivato a Parigi mentre la maggior parte di noi ancora si rigirava nel letto. 5.510 chilometri percorsi in 18 giorni, oltre 65mila metri di dislivello per 220 ore di corsa.
Era l'alba quando Lachlan, fenomeno, e non stiamo nemmeno qui a discutere di una definizione che gli si addice perfettamente, ha chiuso il suo Alt Tour, una settimana prima del vero Tour de France. È arrivato sugli Champs-Élysées festeggiando a piedi nudi con una bottiglia di champagne.
Fra le sue imprese (che potete seguire su https://alttour.ef.com/) restano giornate (e spesso nottate) pedalando in montagna, Alpi e Pirenei, imprese come venerdì quando ha percorso 350 km e affrontato 5000 metri di dislivello con arrivo sul Col du Portet.
Forse una delle sue giornate più difficili. Ma a Lachlan piacciono i momenti tormentati, al limite del dolore umano, lo elevano spiritualmente e mentalmente, esempio di brillante avventuriero che ha superato altri interminabili istanti molto complicati. Come i dolori al ginocchio e ai piedi che lo hanno quasi dilaniato; giornate sotto la pioggia e con il freddo, giornate che gli hanno fatto venire qualche dubbio sulla buona riuscita dell'impresa.
Per fortuna per strada ha incontrato qualcuno che ha dato linfa alla sua idea. C'è chi ha pedalato con lui come nel caso anche del compagno di squadra Whelan, o come quando ha pranzato con sua moglie, oppure quando Rohan Dennis gli ha portato il rifornimento: pane alle banane fatto in casa.
Una delle ultime sere ha trovato lo stimolo per dare il calcio finale verso Parigi incontrando suo padre che lo aspettava al campeggio facendogli una sorpresa.
Uno spettacolo, Lachlan Morton e la sua avventura in bikepacking. Azione degna dei vari van Aert e compagnia che abbiamo esaltato in queste settimane.
«Quello che sta facendo Lachlan è pazzesco. Non ci posso credere che presto sarà a Parigi» diceva qualche giorno fa Neilson Powless, suo compagno di squadra impegnato al Tour in questi giorni.
Credeteci invece, stamattina si è chiusa la sua ennesima impresa.


Il mondo dall'alto di Federica Zavischi

La storia di Federica Zavischi è una storia di sguardi dall'alto. Dalle parole di mamma che nei momenti no le diceva «stai investendo su di te, sul tuo futuro, ed il futuro è troppo bello per lasciarlo alla casualità», alle notti in maneggio, quando era la prima ad arrivare e l'ultima ad andarsene. La storia di Federica è la storia di chi ha voluto cambiare prospettiva e ha deciso che «dall'alto si vede tutto diversamente, non so se è meglio, ma di sicuro mi piace di più perché puoi guardare gli altri ed imparare». Federica è cresciuta fra quei cavalli anche quando passava ore sui libri o faceva l'assistente di volo, anche quando l'agonismo era diventato troppo invadente per essere sopportato, provava qualcosa di troppo forte per lasciar perdere. Il momento di lasciar perdere arriva solo quando ti accorgi che le cose non sono più come prima e che non c'è più possibilità di ritorno, non è la fatica a causarlo, è la delusione.

Federica Zavischi lo ammette: l'idea di tornare a casa e non avere più una passione di quelle vere, di quelle non sai manco tu come sono arrivate a te, ma sono lì e le senti forte, la spaventava. «L'ultima volta che ho cavalcato, sulla strada parallela alla nostra c'era una gara ciclistica. Ho pensato che forse avrei potuto ripartire dalla bicicletta». C'è voglia di intensità, quella voglia sparita da tempo: Federica compra una bici, è agosto. In due mesi la usa talmente tanto da distruggerla. «L'ho torturata quella bicicletta, ma dovevo conoscerla. Dovevo fare ciò che mi veniva in mente. Anche se sembrava impossibile, anche se non ero capace e finivo col farmi male».

Quando le viene l'idea di partecipare alla Tre Valli Varesine, si rende conto di dover cambiare bicicletta. Manca poco più di una settimana ma lei vuole esserci. «Ero folle. Non ero per nulla preparata, me lo hanno sconsigliato in molti, non li ho ascoltati. Ho fatto una fatica assurda ma al traguardo sono arrivata. Non ho mai messo il piede a terra». E questo concetto di fatica, Federica lo conosce molto bene: «Mia madre non mi ha mai obbligato a fare nulla. Avevo iniziato a sciare grazie a lei ma non mi piaceva. Ho smesso ed era contenta quanto me. Lei ha amato l'equitazione alla follia ed era orgogliosa di ciò che stavo facendo, quando ho smesso e ho lasciato la mia cavalla ad un'amica ne ha capito le ragioni e sapevo che era dalla mia parte. Mamma mi ha sempre fatto capire che abbiamo tutta la libertà di scegliere e dobbiamo usufruirne a piene mani perché è nostra. Poi, però, dobbiamo essere coraggiosi e andare avanti. Non esiste libertà di scegliere senza coraggio di decidere». Le prime pedalate di Federica sono un inno all'avventura e l'avventura è anche correre il rischio di essere impreparati.

Quando si corre la Bourgogne Cyclo diluvia, lei non é preparata, non ha l'abbigliamento ideale e non sa nemmeno cosa la aspetti. Il suo allenatore la invita a non partire. Lei non vuole sentire ragioni: «Quando cavalcavo avevo l'assillo del risultato, adesso no. Adesso pedalo perché voglio riprovare la sensazione di un gruppo che si muove, che viaggia, che condivide. Se avessi dovuto pensare al risultato, non sarei partita. In quel momento pensavo a me».

Da quel giorno Federica inizia a viaggiare. «Quando cavalchi ci sono mille possibilità, puoi essere preparatissimo e sbagliare tutto. Si tratta di una sintonia. In bicicletta la responsabilità è tua, dove arrivi o dove ti fermi sei tu a deciderlo». In bicicletta, torna la condivisione di un punto di vista diverso: «Ho scalato lo Stelvio con una compagnia variegata: da Como, alla Svezia, al Sudamerica. Vuoi la verità? Non conoscevo quasi nessuno. Molti dicono “ho fatto lo Stelvio”, per me puoi dire di aver fatto lo Stelvio solo se lo hai fatto in bici. Solo se, verso gli ultimi tornanti, ti sei affacciato e vedendo quanta strada mancava hai pensato fosse meglio non guardare. Se poi ci hai ripensato e hai sorriso. Perché hai capito quanto è valsa quella fatica, cosa ti sei costruito anche mentre non ce la facevi più. In bicicletta si parte quasi sempre da sconosciuti e si arriva che, pur non conoscendosi, ci si sente legati. Così fai la foto di gruppo davanti al cartello che indica la località, perché devi raccontare che ce l'hai fatta. Che ti sei portata lì».

La bicicletta per Federica non è solo questo, è soprattutto un luogo ed un cambio di vita. «Sono stata in vacanza all'Hotel del bosco'' sulle Dolomiti. Cosa vuoi che sia una vacanza? Vai in un luogo, lo vedi, ti piace, ti diverti poi torni a casa. Io da lì non sono stata più capace di tornare davvero a casa. Ci sono tornata solo apparentemente». Così Federica cambia ancora prospettiva e decide di trasferirsi a vivere in Trentino Alto Adige, dalla Lombardia. La prima cosa che chiede quando arriva e se ci sia una squadra di ciclismo. Sono in tre, ma non conta. «Quando ho detto che mi sarei trasferita in molti mi hanno detto che ero pazza. No, non sono pazza. Sono solo giovane e voglio provare. Sbaglio? Si può tornare indietro, non è un destino scritto, non è irreparabile. Succede come quando cadi dalla bicicletta e torni subito in sella. Se non avessi provato non saresti caduto, certo. Ma se non avessi provato non saresti neppure in sella». E da lì, dal Trentino, Federica Zavischi vuole poche cose: «Voglio godermela questa bicicletta e riprendermi tutto quello che la velocità e l'agonismo mi avevano tolto. Per guardare bene devi rallentare. Se vai troppo veloce non puoi. Io voglio prendermi la libertà di pedalare al mio passo, di andare dove voglio e magari di provare quella nostalgia di quando sei arrivato e puoi rilassarti ma in realtà vorresti tornare indietro per ripartire. Voglio godermi il viaggio, come una buona cena, un buon vino e tutta la compagnia che desideri».


Terra! Un giro gravel nelle Langhe

Chi cerca davvero, non sa che cosa cerca. Non so proprio che cosa aspettarmi, mentre accompagno fuori la SuperX. In autunno ci sono scorci di malinconia che, di solito, mi piace stare semplicemente ad osservare. È la mia stagione preferita. In questo ottobre 2020, però, c’è qualcosa di diverso: con due bambini piccoli, la paura di un contagio e l’esperienza alienante dello smart working ad oltranza, il nostro lockdown non è mai finito e l’autunno ci ha sorpresi già stanchi, storditi. Refrattari. Ci chiediamo spesso se siamo realmente noi questi qua.

In autunno ci sono scorci di malinconia che, di solito, mi piace stare semplicemente ad osservare.

Fuori di casa fiuto l’aria: freddo, ricordi di gioventù, di nebbia e pallone, odore di campagna umida e corse campestri, di sudore e terra sembrano scendere verso di me direttamente dalle colline intorno, immerse nella foschia. Sudore e terra. Ci sono idee che, se provi a spiegartele, perdono tutto il loro senso. Bisogna accoglierle e crederci. È una fede. Parto così, senza sapere ma con in cuore la speranza che funzioni anche stavolta: la bicicletta è per me da sempre una risposta, anche quando la domanda non è chiara.

La ciclabile che corre lungo il Tanaro è perfetta per cominciare: regolare, quasi piatta, un fondo ben compatto. Pedalo agile e ascolto il fiume alla mia destra, ne sento l’energia. Ho imparato dagli albesi a convivere con questa forza misteriosa, a rispettarla, a non dimenticarmi mai che c’è.

Dopo un breve strappo su asfalto, a Roddi prendo il sentiero che cavalca la collina e in un istante realizzo che sto facendo la cosa giusta. Ancora non so che cos’è: so solo che ho voglia di sentire quegli odori, affondare le mani – o le ruote? – in qualcosa di concreto, uscirne più simile alla natura che attraverso.
Con vari saliscendi supero il nuovo, grande ospedale. A La Morra risalgo la stretta via che porta al belvedere; la luce d’ottobre mi investe sulla piazza ed esalta i colori delle colline: verde, giallo, rosso, marrone, colori caldi in un mattino che sa già d’inverno.

Per scendere le alternative si sprecano, sia su asfalto che su sterrati di vario tipo. Ma stavolta non voglio sforzarmi di capire ciò che ho in mente. Non scelgo la destinazione, è la destinazione che mi sceglie e io ne vengo inevitabilmente attratto, come risucchiato. Metafisica della bicicletta o assoluta libertà?
Mentre penso a quanto sarebbe bello applicare questo metodo di non-scelta nella vita, giungo nei pressi della cappella delle Brunate: è una piccola chiesetta – mai consacrata – con le pareti esterne dipinte di tanti colori diversi; opera di Sol LeWitt e David Tremlett, gode di una certa notorietà sui social come sfondo per le foto.  Ma non è un giro da selfie questo, per me.

Michael. Meccanico di formazione, si può dire che Michael abbia scelto questa vita per amore. Appena possono, lui e Francesca si dedicano all’enduro (motorizzato e non) e al downhill.

A Barolo, mentre finalmente l’aria si fa tiepida, inizio a capire. Sfilo tra i vigneti in fermento, brulicanti di uomini e donne come formiche operose. Qualcuno canta una canzone che non conosco; è una canzone allegra in una lingua che non capisco, eppure mi sembra di cogliere il sentimento che le fa da sfondo: ho voglia anch’io di cantare. La vendemmia è al suo apice, l’atmosfera è quella di un Natale, gioia e mistero si uniscono mentre abbandono l’asfalto, scendo e spingo la bici su per una capezzagna.

Mio fratello Michael e la sua compagna Francesca, quando li raggiungo, mi confermano coi loro sorrisi che sono nel posto giusto. L’espressione stanchi ma felici me la porto dietro dai temi delle elementari, ma è così che descriverei i loro volti. Invidio la loro abbronzatura e quei segni che hanno addosso – qualche graffio sulle braccia, le mani screpolate. Penso agli ultimi mesi: chiuso in casa davanti ad un computer, a lavorare molto e sentirmi, comunque, sempre incompleto.

Non che qui sia tutto rose e fiori – e viti. Mi informano che stamattina c’erano sette gradi, quando io ero ancora nel mio letto e che si andrà avanti finché si vedrà qualcosa. Mi fermo un po’ con loro, così, per dire che c’ero anch’io quando nasceva questo Barolo. Già, qui nasce il più nobile tra i vini nobili: eppure, in giro vedo ciò che si vede in qualsiasi vigna, ovvero erba e borse con il pranzo, giacche appese qua e là e facce stanche che spuntano tra i filari.
Può sembrare strano, ma molta della fortuna di questo territorio nasce proprio da qui.

Mi raccontano che negli anni ’60, quando il nonno di Francesca ha iniziato l’attività, in pochi avrebbero scommesso una lira su di lui e sulla sua idea. Quella terra valeva poco, allora. Fortuna, sì, ma soprattutto impegno e coraggio. Una fuga dal solito gruppetto che non ci crede e tu, che in un momento di grazia hai detto il tuo sì migliore e te ne sei andato per la tua strada. Oggi, Cascina Rocca è una bella realtà che propone ottimi vini (non solo Barolo), un posto comodo dove fermarsi per qualche giorno di escursioni nelle Langhe e un’atmosfera che è davvero famigliare, perché anche la Terra del Barolo, vista da vicino, è pur sempre terra.

Vitigno. “Il piemontese dice “O basta là”, che è anche un modo di stupirsi educatamente per qualcosa di sproporzionato che ci viene messo di colpo di fronte.” Umberto Eco.

Mi congedo con mezzo grappolo d’uva in mano e con qualche indicazione per non dover tornare sui miei passi. Piccolo avvertimento: da queste parti nessuno ha mai inseguito o perseguito i ciclisti che si avventurano tra i filari, come ho fatto io stesso; valgono ovviamente le regole del buon senso e del rispetto. Quindi, avuto il permesso, mi butto in picchiata sul versante opposto a quello di salita, giù per una capezzagna, con i filari che sfilano a destra e a sinistra, come un pubblico silenzioso e ordinato, con mani verdi che salutano, mosse dal vento.

La statale scorre veloce e insipida sotto gli pneumatici da trentacinque millimetri; tra poco potrei essere a casa, arrivato, ma questo giro non ha ancora finito con me. Al bivio prendo a destra e salgo al castello di Grinzane Cavour. Breve sosta panoramica e si riparte, in salita, verso Diano d’Alba. D’altronde, secondo me, il profilo migliore del castello è quest’altro, quello che si vede dalla strada di Diano, quando è incorniciato tra le montagne e il cimitero, tra la terra verde e marrone e la strada grigia e il cielo e le nuvole. A girare da queste parti capita anche questo, che un normale giro di “allenamento” somigli ad un giro turistico e che, per forza di cose, si debbano ignorare luoghi affascinanti, soffermarsi poco o nulla di fronte a scenari che meriterebbero più d’un pomeriggio. Forse è banale, ma anche così la bicicletta è metafora della vita.

E proprio come nella vita, capisco questa cosa eppure continuo, corro, testa e pancia giù, su per la salita di Diano. Alle mie spalle so che fanno capolino il Monte Rosa ed il Cervino, ma non mi volto, non addolcisco questa fatica che voglio proprio così, dura, brutta, arrogante come pensare di stabilire un nuovo KOM sulla salita di Diano con una bici da ciclocross che pesa dieci chili.

In discesa l’aria rimane tiepida, ogni curva a sinistra permette di scorgere Alba, là sotto, a destra, adagiata nella sua conca. Arrivarci dopo le Langhe mi fa sempre pensare ad una nave persa nel mare in burrasca, che finalmente avvista terra. Anche la città, che ho sempre un po’ snobbato, dopo il lockdown la guardo con occhi diversi, come una compagna che ha visto le mie stesse cose, che nel silenzio ha accolto le mie paure, che mi conosce da sempre ma ora un po’ di più.

Pedalando verso il centro mi fermo in coda nei pressi di una rotonda, un vigile regola il traffico e io devo aspettare il mio turno. Penso alla prima coda fuori dal supermercato, alla guardia che chiamava i numeri per entrare, alla pioggia leggera che mi bagnava e io che apposta non aprivo l’ombrello. “So di chiuso”, dicevo sempre a mia moglie, in quel periodo. Mi annuso. Ho deciso che sudore e terra saranno la mia cura e ho bisogno di continuare. Mi viene in mente che non sono mai stato al Bricco delle Capre, così torno sullo sterrato della collina albese e in poco tempo scendo a San Rocco Seno d’Elvio, quindi risalgo verso Treiso sfilando accanto alle Rocche dei Sette Fratelli, suggestive formazioni marnose che paiono creste di montagne in miniatura. Una voragine paurosa ed affascinante.

La terra è bassa È uno dei modi di dire tipici di questa zona. Vuol dire: bisogna chinarsi, faticare. Ma fa più effetto se non si spiega.

Alternando una dorsale di Langa a tratturi polverosi arrivo a casa di Roberto. “In montagna ci si lega per la vita e per la morte”, diceva Walter Bonatti. Io e Roberto ci siamo legati molte volte per la vita e vorrei che fosse così anche questa volta, sebbene con una corda invisibile.

Il Monviso ci osserva col suo solito cappello di nuvole, mentre sediamo sul terrazzo, io con un panino in una mano e una Coca Cola nell’altra.
Il vino preferito da Roberto è il Barbaresco, ma non si apre un Barbaresco con un panino in mano a metà di un giro in bici, alle due di pomeriggio.
Roberto mi parla del suo motto: “vino autentico”. Niente di speciale, no? «Eh, no» mi dice. «È importante. In un mondo sempre più dominato da assemblaggi, che tentano di soddisfare il cliente in ogni modo, io credo che il vino debba restare vero con sé stesso, parlarti del proprio vitigno, della propria indole. Come dire: questo sono io: se ti piaccio, bene. Il vino è esperienza».  Un giorno Roberto avrà una sua cantina e questa sarà la sua filosofia.

Mi accompagna per un po’ lungo la strada con la sua Columbus azzurra in acciaio, presa da poco; ci salutiamo ad un bivio, al termine della discesa, con la promessa di un giro insieme. So che non succederà. Oggi è come un sogno, un giro che non esiste, un momento vero ma sospeso, rimasto appeso da qualche parte nel tempo.

La strada per Neive è un balcone su una Langa elegante e raffinata; anche qui è chiaro che, senza lavoro, non ci sarebbe nulla. Lo vedo nei trattori che incrocio, nelle loro tracce di terra che entrano ed escono dalla striscia d’asfalto, da e verso pendii scoscesi e pericolosi. Auto lussuose con targhe di ogni provenienza mi sorpassano e, quando sono abbastanza lontane, torno a sentire il mormorio frenetico, tormentato della vendemmia: motori che sbuffano, voci, a volte canti, altre volte bestemmie.

Giorgio, sulla terrazza della Cantina Negro Giuseppe.

Ne parlo con Giorgio Negro, sulla terrazza panoramica della sua Cantina Negro Giuseppe. Qui è un po’ come essere a teatro, solo che gli spettatori stanno sul palco ed ammirano la platea: una platea verde con corridoi precisi e ordinati, silenziosa eppure calorosa, di una bellezza sofisticata e rustica al tempo stesso.
Siamo al centro di questo anfiteatro verde con un rosé in mano, Giorgio mi spiega come suo papà, Negro Giuseppe appunto, avesse giusto questo pezzo di terra, comprato con il lavoro in fabbrica. Mi chiedo se dopo anni in fabbrica avrei voglia di comprare della terra da lavorare, e non piuttosto una casa con piscina. Intuisco quest’idea che la fatica alla fine ripaghi sempre, che non va mai persa o sprecata; la volontà di lottare momento per momento, con fiducia. Dopo tutta la giornata spesa in giro, con i polpacci sporchi di terra e polvere e il sudore che opacizza la barra in carbonio nero della mia bici, finalmente mi sento al mio posto. Dopo tutto il fermento respirato su e giù per le colline, la calma di Giorgio e di questo angolo di Langa, insieme alla luce che cambia nel pomeriggio di ottobre, fanno bene all’anima.

Rimonto in sella, la SuperX è bellissima nella sua veste nera con schizzi di fango e con il suo cerone di Langa.
Rimane Barbaresco, con la sua torre e i suoi turisti, che osservo solo da lontano: ci vorrà un po’, per me, per accettare di nuovo la folla, la calca. Ma dopo oggi, grazie alla bici (e agli amici) so che questo non significa essere solo.

Torno a casa cercando le tracce dell’Ecomaratona, sul sentiero dei partigiani lungo il Tanaro e poi su per la collina di Altavilla. Scollino, riecco Alba, resto per un attimo ad osservarla: mi sembra più vera, onesta, come un vino autentico.

La sera, la terra è stata lavata via dal carbonio della mia bici e dai miei muscoli stanchi. Ma sull’asfalto delle vie rimarrà fino alla prossima pioggia.

Foto: Alessandro Foglia


Asja Paladin: «Hakuna Matata»

«Se ripenso a quei giorni in Kenya, non molti anni fa, penso a quanto sia facile essere felici. A quanto poco basti per essere felici. Forse il fatto è proprio questo: la felicità è un concetto molto semplice, ma noi tendiamo a complicarlo. Di fatto si complicano le cose quando non si capiscono. Quando qualcosa ci è chiaro riusciamo a semplificarlo. Ad arrivarne all'osso. La felicità noi non l’abbiamo capita. L'hanno capita quei bambini lì, che sono felici con in mano un tocco di cibo o una manciata d'acqua. Loro, non noi». Asja Paladin sta parlando di noi, di tutti noi, ma anche di sé stessa: «Vale anche per me. Non a caso mi sono tatuata quella frase sulla pelle. Ho una mente abbastanza iperattiva, continuo a riflettere, a ragionare, magari a preoccuparmi. Allora me lo dico: “Asja, hakuna matata!”. Che è come dire: non ci sono problemi, non complichiamo le cose, vediamole e viviamole per quello che sono. Lo so, dirlo è facile, farlo è molto più difficile. Però si può fare, si deve fare. Ci sono cose prioritarie, cose importanti e cose che, in fondo, non sono per nulla importanti. Riusciamo a distinguerle? Riusciamo a capire per cosa vale la pena di non essere felici e per cosa no? Forse è questo il problema. Forse per questo non riusciamo ad avere lo stesso sorriso di quei bambini. Forse per questo non capiamo molto la felicità».

Quella di quei giorni è una scoperta e Asja con le scoperte ha un rapporto particolare. Asja se ne intende di scoperte. Sa, per esempio, che se una parte delle scoperte è nell'inesplorato, nell'epico, nell'estremo, l'altra parte è nella normalità. Di quella parte, delle scoperte che risiedono nella normalità, si parla meno, quasi per nulla per lo stesso motivo per cui si fatica a parlare in maniera semplice di felicità. Perché? Perché non le abbiamo capite. «Ho ventisei anni. Ho corso per vent'anni in bicicletta. Quanti posti avrò incrociato? Quasi tutti i giorni mi sposto in macchina: dai finestrini quanti luoghi vedrò? Abito a Cimadolmo. A Verona sono stata diverse volte, conosco la città. I centosessanta chilometri da Cimadolmo a Verona li avrò percorsi decine di volte. Posso dirti la verità? Quei centosessanta chilometri io non li conoscevo per nulla». Poi c'è un'idea, quasi improvvisata, e la voglia di rispondere e di rispondersi sì: «Sai che quella notte non ho dormito? Mi giravo e mi rigiravo nel letto e mi rimproveravo da sola: “Ma insomma, Asja. Sembra che devi andare a gareggiare. In realtà si tratta di un giro con amici. Perché devi fare così?”. Il motivo preciso non te lo so dire ancora, sarà il mio carattere. Però so che è stato un misto di entusiasmo, di voglia di partire, di soddisfazione ma anche di paura. In allenamento non sono mai partita con quei chilometraggi, si cresce gradualmente, e all'inizio l'idea di tutti quei chilometri, seppur inconsciamente, ti spaventa. Tutto torna la sera, come arrivi a casa e sei stanca morta ma soddisfatta. Guardi una cartina e ti dici: “Vedi tutti quei chilometri? Li ho percorsi io, con le mie gambe e la mia bicicletta”».

Ma la sorpresa più grande non è nemmeno questa. La sorpresa più grande Asja l'ha avuta quando si è fermata a bordo strada a guardare. «Sembra impossibile ma mi sembrava di essere in posti nuovi, in posti che non conoscevo per nulla. Solo il fatto di esserci arrivata in bicicletta, di averlo fatto con amici, di essermi presa il mio tempo, ha fatto tutto questo. Ho visto cose che non avevo mai visto e le ho viste in modi che non avrei mai immaginato. Alla fine bastava una bicicletta, poco equipaggio e voglia di far fatica. Non è poi molto, ma bastava». Quella sera, guardando la cartina, Asja ha ripensato a tante cose: «Sono orgogliosa della mia carriera in bicicletta. Mi spiace non correre più, ti direi una bugia non ammettendolo. Ma non c'è rimpianto: ho imparato tanto e nulla sarà sprecato. Mi sento più forte, so che posso fare ciò che voglio nella vita. So di esserne capace. Mi hanno sempre insegnato che nella vita è essenziale dare tutto, anche più di quello che hai se tieni veramente a qualcosa. Molte cose, poi, non dipendono da noi e non possiamo farci nulla. Sono giovane e ho molta voglia di progettare e organizzare. In un certo senso, progettare e organizzare mi tranquillizza. Il bikepacking è questo. Il momento dell'organizzazione è uno dei più belli: pensi a cosa portare con te, alleggerisci o appesantisci i bagagli, chiedi consigli, nel mio caso a mia sorella Soraya, e ascolti proiettandoti in avanti con l'immaginazione. A proposito di progetti, ho già guardato le cartine: da qui alla casa di una mia amica in Germania ci sono 800 chilometri. Quando farà meno freddo, ci penserò. Poi vorrei andare a Napoli, una città che amo».

Sulla sua schiena, nella tasca posteriore della divisa, Asja tiene un piccolo panda di peluche: «Si chiama Yugen ed ho deciso che lo porterò con me ad ogni avventura. Yugen è una parola giapponese, intraducibile letteralmente. Per me è una sorta di consapevolezza della bellezza nascosta nell'universo: qualcosa che non si può descrivere a parole ma che fa emozionare. Un fascino profondo insito nelle cose che non riusciamo a capire fino in fondo ma che ci sono, che sentiamo».

Guardando la bicicletta, l'ha vista diversa e non ha avuto dubbi: «La bicicletta non è cambiata. Sono io che ho depurato la bicicletta da molte cose che erano essenziali per la mia carriera e che oggi posso permettermi di non considerare. Ho visto quanto è bello vivere il ciclismo così, senza ansie, senza preoccupazioni. Senza fretta. Solo per il gusto di stare su quel sellino e pedalare su una strada».

Foto: Asja Paladin


Un po' di umido stanotte, eh?

Jeroboam Dolomiti - 29 agosto
“Da giugno, è il secondo weekend che piove qui in Val di Fiemme. Una bella sfiga”. Maurizio forse ha ragione, perché è la prima Jeroboam Dolomiti che organizza e una mano dal meteo - è vero - non sarebbe guastata. Il punto è che nessuno, però, sembra farsi troppi problemi. Il venerdì sera è tutto un ritirare pacchi gara, sistemare borse, numeri e bere birre per accompagnare polenta e costine, incluse nel “ristoro 0”. Insomma si parla più di birre che dell’acqua che si prenderà il giorno dopo.
C’è di dorme in tenda, chi dorme in camper e chi arriva “già dormito”. Appuntamento alle 8 a Varena per il briefing, in cui si consiglia caldamente - vista l’allerta meteo per la notte - di non pensare al percorso da 300km, ma di ripiegare al massimo su quello da 150. C’è anche Nico Valsesia che comunque ci vuole provare. Un po’ di esperienza lui ce l’ha, quindi si registra la notizia e si può partire, ognuno padrone del suo destino.
Il meteo regge e il percorso 150 regala una prima parte magica. A mezza costa, su strade bianche contornate da campi, si risale la val di Fiemme verso Moena, mentre un timido sole sbuca dalle nuvole e scalda il terreno quel che basta per far sollevare un alone di umidità quasi mistico. Un bel contrasto con le gomme che cercano le pozzanghere per sporcarsi e sporcare i componenti del gruppo il più possibile.
C’è da superare una montagna e lo si fa su una forestale sterrata di quelle cattive. Di quelle che a poter parlare con chi le ha costruite chiederesti se era una sfida a usare meno tornanti possibile. Poi la discesa e finalmente la Val Venegia. Il vento è forte, la pioggia è vicina, ma è difficile pensarci mentre si pedala al cospetto delle Pale di San Martino.
Primo checkpoint, strudel e giù dal Passo Rolle per una forestale. Prima velocissima e perfetta, poi quasi un single track per chiudere alla fine con un ponte tibetano. Tutto il gravel minuto per minuto.
Si torna in Valle scappando dalla pioggia. La fuga non va in porto e la seconda parte sono quattro ore di acqua di un certo livello. Ci scuseranno i nostri lettori se non abbiamo bene idea di dove ci trovassimo da questo punto in poi.
Sappiamo solo che dopo un’altra salita nel bosco, con gli alberi a farci da ombrello e a creare un’atmosfera surreale, c’è tempo per un altro strudel al check 2, prima di una discesa verso Ora e la risalita in val di Fiemme lungo la ciclabile sterrata della ex-ferrovia. Bellissima, attrezzatissima, consigliata anche per una gita tranquilla in famiglia.
E poi dopo ancora un po’ di salita, ancora un po’ di discesa e poi l’arrivo. E poi la polenta, la birra e tutto il resto, mentre qualcuno racconta della giornata, qualcuno delle sue (dis)avventure e qualcuno compie persino gli anni allo scoccare della mezzanotte. Poi tutti a letto, con un tetto sulla testa mentre fuori il cielo continua a mandare acqua per tutta la notte.
La mattina porta qualche dolorino alle gambe, qualche ricordo delle birre e qualche bici da lavare. E porta anche Nico Valsesia, che alle 8.00, puntuale, arriva dalla sua 300 km dopo aver pedalato tutta la notte. Più fresco di quelli uccisi dalle birre, ci guarda, sorride e poi: “Un po’ umido stanotte, eh?”

Federico Damiani