La storia dell'acqua
Caorle, le sue case dai colori vivaci, le sue acque, il suo eco e l'eco di Venezia, è il luogo ideale per tornare a stare bene. Caorle e il colore della sua acqua è il posto ideale per essere attesi eppure sorprendere. Lo diciamo a noi stessi, lo diciamo a voi che ci leggete, lo diciamo ad Alberto Dainese e alla sua volata, a una linea del traguardo che speravamo arrivasse in fretta e allo stesso tempo avrebbe ritardato il suo arrivo solo per continuare a guardarlo lanciato a tutta, solo per gustare ancora lo spasmo dell'incertezza e lo sfogo della felicità. Dainese, Matthews e Milan, Milan, Matthews e Dainese, Matthews, Milan e Dainese: nomi girati, rimescolati, come l'emozione prima del verdetto, qualcosa che si rigira nello stomaco. Matthews al centro, la velocità di Dainese da una parte, la potenza di Milan dall'altra. Primo Alberto Dainese, dopo una bronchite, dopo un virus intestinale, dopo aver stretto i denti, sopportato le salite, i muscoli che sono leggerezza e peso se non si sta bene. Dainese che ha rischiato di perdere ed invece no. Dainese, acqua corrente, torrente scosso dal vento, marea impetuosa.
A Caorle, in questo borgo marinaro, in questa "piccola Venezia", ci siamo resi conto che, alla fine, i ciclisti hanno molto in comune con l'acqua che oggi è l'elemento della tappa, un sottofondo, una scia. Perché i ciclisti scendono dalle discese, come le sorgenti dai monti, risalgono le montagne come fontanili. Partono e ritornano, anche se vanno lontano, molto lontano: il ciclo dell'acqua che evapora con il caldo e torna con la pioggia. Le visite a parenti di Marco Frigo e Andrea Pasqualon paiono un fiume che torna nell'alveo, che viene accolto dalle sponde, che si sente a casa e ha sul volto quel "sorriso da italiano in gita" di cui parlava Paolo Conte, raccontando di Bartali. Ci sono le gocce, ribelli, anarchiche, le fughe, quella di oggi, di Champion, Leysen, Quarterman e Sevilla, i rivoli, coloro che non tengono il passo e si staccano ma continuano a correre, cercano un'altra terra. I ciclisti hanno un loro suono, una loro musicalità che, in fondo, somiglia a un sibilo, a uno sciabordio. Le maree risentono della luna, i ciclisti del cielo e qualcosa in comune c'è: del sole che segna sulla pelle il contorno degli occhiali, della pioggia che inzuppa maglie e pantaloncini.
Un velocista potrebbe essere una risorgiva, un fontanile, uno zampillo d'acqua che trova un varco e risale, fruscia e guizza. Guardate Dainese e Milan lanciati in questo sforzo, diteci se non è così. E se un velocista è una risorgiva, la volata è un'onda, in un mare mosso, dove la spuma delle acque è il movimento frenetico di uno sprint: ogni spostamento, ogni danza impazzita sui pedali, ogni volta in cui il velocista pare quasi prendere a sberle la bicicletta, ogni urlo per dire all'ultimo uomo di aspettare, ogni gesto dell'ultimo uomo, con la mano o con la testa per indicare dove passare.
La felicità di Alberto Dainese è la felicità dell'acqua: trasparente, semplice, incredula, genuina. Dell'acqua di una terra che conosce bene, dell'acqua di casa, di quella che disseta, rinfresca, talvolta riscalda. Cara, fresca e dolce, direbbe Petrarca. Orgoglioso, fiero, perché c'è fierezza. "Com'è triste Venezia se nella barca c'è soltanto un gondoliere", risuona Aznavour. Un velocista è sempre un gondoliere solo in barca, anche se ha un treno, importantissimo, anche se vince per pochi centimetri, anche se vive nel caos e lo domina, lo interiorizza. È sempre solo, perché l'ultimo passo, l'ultima onda deve metterla in solitudine. Un velocista è solo, come Dainese, primo su quel podio. Nella piccola Venezia che oggi non è per nulla triste.
Tutto ciò che chiediamo al Giro
Oggi - così iniziamo la partita a carte scoperte - non so proprio che scrivere. La giornata di ieri è cominciata in un luogo inatteso: casa mia. Ero lì perché la sera del giorno di riposo ho partecipato al rosario di un amico, un vecchio compagno di squadra. La sua morte, inattesa e tragica, ha gettato nello sconforto me e tutti coloro - davvero tantissime persone - che gli volevano bene.
Già il giorno di riposo stranisce, ma eventi del genere srotolano dai veli in cui la Corsa rosa avvolge chiunque la frequenti. Ho dunque chiesto ai miei compagni di viaggio di raggiungere autonomamente il Bondone: io sarei arrivato nel primo pomeriggio. Sono arrivato in cima che non sapevo nulla o quasi della tappa, né mi interessava granché. Avevo la testa da un’altra parte.
Guidando per le rampe del Bondone, osservavo gli occhi delle persone che, felici, pedalavano sull’ultima asperità di giornata in attesa dei corridori. Vorrei essere chiunque di loro, pensavo. Che non fossi esattamente centrato me lo fa capire con sonore suonate di clacson il furgoncino della Bardiani dietro di me: in un paio di tornanti ho rallentato fino a far spegnere il motore e il plotoncino di ammiraglie alle mie spalle non ha gradito.
Quando sono arrivato in cima, ho sbagliato direzione per dirigermi al quartier tappa e, in un attimo, mi sono trovato a due chilometri dalla sala stampa e dal suo buffet. Poco dopo si è messo a piovere. No dai, non è possibile. La prendo tutta, afferro due panini al volo, doppia cipolla, uno lo mangio l’altro si bagna. Arrivo finalmente davanti ad un televisore che mancano dieci chilometri.
Sono stati, finora, i dieci chilometri più belli del Giro d’Italia. Senza accorgermene, la Corsa rosa mi ha portato via, tra i lupi e gli orsi del Bondone, sotto le acque del Garda, tra gli amici miei a Traversetolo. E forse è questo, tutto ciò che chiediamo al Giro: di prenderci per mano, ogni tanto, e di condurci in una delle ultime città della fantasia.
Bota Lume
“Bota lume”. Potremmo anche dirlo in italiano: "Accendi il fuoco!". Ma così è più diretto, più simile a quello che si potrebbe gridare mentre il freddo stringe, immobilizza, rallenta. "Bota Lume” magari gridato da Charly Gaul, a qualcuno, in quell'8 giugno del 1956, nella bufera di neve che avvolse il Bondone, mentre gli tagliavano la maglia per togliergliela di dosso, ghiacciata, come il suo corpo. Ma Gaul era lussemburghese e "bota lume" non lo conosceva. Però scappava dal freddo, scalava per lasciarsi il freddo alle spalle, scattava per andare lontano da quella neve. Chiese un bagno caldo, il suo fuoco. João Almeida, invece, conosce bene "Bota lume”, sa il suo significato. Lo chiamano così, un soprannome che è un invito, un indole. Si legge "accendi il fuoco" anche nelle linee del volto, mentre si arrampica e porta avanti uno scatto infinito. Uno scatto che inizia ben prima del momento in cui si alza sui pedali e va. Si accende così il fuoco e presto si scopre che accendere il fuoco non è solo questione di freddo.
Il 23 maggio del 2023, tra l'altro, non c'è neve sul Bondone, ma una pioggia fine, che rende lucide le strade ed i muscoli, definendo ogni spasmo. Un flash: Filippo Zana che, dopo una giornata in fuga, ripreso dal gruppetto dei favoriti, fa il ritmo per Dunbar. Spalanca gli occhi, li chiude, apre la bocca, non sappiamo se gridi, ma un doppiatore esperto potrebbe inserire un suono, un urlo, in quel frammento di immagine e sarebbe perfetto. Le smorfie, le grida, sono un modo per "mettere a terra" la fatica. Sì, c'è anche una messa a terra della fatica, prima di lasciare. E si lascia svuotati, a zig-zag: vale per Zana, per Dennis, per McNulty, per Vine e per tutti gli uomini della Jumbo Visma che hanno fatto il ritmo per Primož Roglič. Questo intendiamo quando parliamo di scatti infiniti, scatti che iniziano prima di scattare, che litigano con ogni fibra di un muscolo, omaggio alla sofferenza. Di Bruno Armirail che prova a resistere e deve arrendersi, di tutti coloro che, in coda al gruppo, non sanno più cosa sperare: certe volte, forse, nello scatto più forte, che recide il legame e qualunque forma di fiducia nel ricucire. Perché anche credere è faticoso.
Le persone avvolte in una mantellina a bordo strada oppure sotto la pioggia, le persone che hanno già visto passare il Giro in un giorno in cui non è accaduto nulla di particolare, quelle che sono a casa e lo vedranno passare fra qualche giorno o, forse, l'anno prossimo sperano in uno scatto. «Bota lume, scatta, alzati sui pedali, accendi quel fuoco»: non a un ciclista in particolare, a tutti, perché lo scatto è un gesto universale. Quel fuoco brucia dentro anche a Formolo, che tira, impaziente: lui sa cosa c'è dietro le quinte, quello che ha in mente Almeida. Ma c'è ancora il sipario.
Scena. Strada stretta. Pioggia. In testa Almeida, veloce, più veloce, un passo indietro, una pedalata più lenta, un momento di controllo e scatta. "Bota lume”. Si accende lentamente la fiamma, ma scalda, fa metri, secondi, il fuoco è così: nei suoi colori che si intrecciano, spariscono e ritornano, nelle forme, nelle punte. Così è lo scatto di João Almeida, Kuss lo guarda, cerca di mantenere un'andatura costante, Thomas riparte, si riporta su Almeida. E qui che la verità si mostra, che l'elastico, teso, più teso che mai, si spezza: per Roglič non è la giornata buona. Venticinque secondi di ritardo per lui, da Almeida che supera Thomas. Geraint Thomas: la nuova maglia rosa. Quarto Damiano Caruso.
Non c'è neve, ma c'è un fuoco acceso sul Bondone. Un fuoco che non ha a che vedere con il freddo, con le fiamme, ma con la predisposizione, con la volontà. Con il caos in cui cercare la calma, con la calma in cui trovare il caos. Con l'idea che, a forza di fare sempre meglio, sempre il proprio meglio, verrà quel giorno. Che, a forza di aspettare, verrà quel giorno. Quel giorno che per João Almeida è anche oggi.
Strani isolotti di umanità
Mettiamo subito le cose in chiaro: non trovo ci siano particolari motivi per essere arrabbiati per la tappa di ieri, per gridare allo scandalo. Si è verificato uno degli scenari che si potevano presupporre, cioè attendismo tra i big. Questo è successo fondamentalmente per due motivi, come elencato nell’ultima puntata del podcast GIRONIMO: mancano i maggiori animatori del ciclismo di questi anni (WvA, MvdP e qualcun altro che al Giro c’era ma non c’è più) e il tatticismo tra gli uomini da classifica generale, grazie al quale intendono massimizzare le proprie chance perlomeno di rimanere col dubbio di potercela fare.
Un’azione importante, al limite tra coraggiosa e scriteriata, avrebbe messo pepe sulla tappa e sul Giro, ma probabilmente non avrebbe aiutato a lungo termine. Questo non toglie che vedere il gruppo percorrere i sei chilometri più duri della Roncola in due minuti e mezzo più di quanto abbia fatto Ben Healy in fuga sia stato uno spettacolo tutt’altro che esaltante.
Del troppo attendismo delle corse a tappe si scrive da anni. Il finale di questo articolo ne è un esempio. È uno spezzone delle cronache dal Giro di Buzzati nel ‘49, che ho aggiornato e adattato alla situazione corrente. Vi lascio a Buzzati, anticipando solo il finale: sia come non detto.
«Caro Roglic, egregio signor Thomas (e scrivo così perché Thomas mi dà una certa soggezione), [...] lasciate che vi rivolga una domanda: ma l’avete vista bene, attraversando Bergamo, la gente che vi aspettava? [...] Siete passati per valli solitarie dove si sarebbe detto veramente che Cristo fermatosi ad Orio al Serio non fosse mai entrato, eppure sui macigni, al limite delle boscaglie, ritti sopra gli erti ciglioni della strada uomini e donne vi aspettavano. Molti avevano fatto parecchi chilometri di strada apposta per salutarvi, giù da sperdutissimi villaggi issati sopra antiche rupi. [...] Chi avrebbe mai osato supporre che lassù qualcuno si interessasse di ciclismo? Strani isolotti di umanità relegata fuori dal nostro mondo parevano, città inverosimili, puri miraggi. [...] Siate sinceri, caro Roglic e caro Thomas: non sarebbe meglio, voi che lo potete, fare un po’ di più? Dal punto di vista razionale, probabilmente, sarebbe un errore ridicolo. Però, quanti voi fareste più felici! Non sarebbe anche questo, in fondo, un vantaggioso affare? E quanto vi vorrebbero più bene. Pensate, qualche volta almeno, a quei bambini, ragazze, vecchi, carabinieri, contadini, preti che ieri e oggi vi aspettavano, agli abitanti di Calco, Costa Valle Imagna, Nembro, Almenno San Salvatore, Villa d’Almé, Selvino, Bedulita, Sedrina, Zogno: così come vi guardavano, vi sorridevano, spasimavano per voi. Pensateci su, qualche volta. Del resto, può darsi che io abbia torto. Domani, sulla via di Trento, capacissimi l’uno e l’altro di darmi una magnifica smentita. Insomma, sia come non detto».
Una bella giornata
A Brandon McNulty non sono mai piaciute le cose semplici. Ai rifugi sicuri ha sempre preferito le possibilità e, quando quelle possibilità lo hanno deluso, ha lasciato da parte ogni alibi, così i momenti di felicità li ha trovati nell'affrontare le situazioni. Nel sapere di poterle affrontare. Di potere farci i conti. Tempo fa ha raccontato che, da junior, vinceva le gare imponendosi nella cronometro e poi difendendosi, ma, crescendo, ha capito che voleva cambiare, che voleva diventare forte anche in salita, sviluppare altre abilità, il talento contro il tempo sarebbe restato, però da ciclista sentiva di non poter fare i conti solo su quello, anche qualora fosse bastato per vincere.
Se Brandon McNulty è rientrato su uno scatenato Ben Healy, al termine della Roncola, in discesa, si deve a questa capacità. Quella di vedere chiaramente il proprio limite e sentire che non può bastare a descriversi. Ma di vedere altrettanto chiaramente la propria capacità e avere la certezza che nemmeno quella basta per realizzarsi. Talvolta bisogna staccarsi e rientrare, resistere a uno scatto, aspettare e poi buttarsi in volata. Magari vincere, come ha fatto oggi. I conti McNulty li fa quotidianamente, con quel che gli riesce meglio e con quello che deve ancora migliorare. Pure con quello in cui non si sente portato, in cui forse non migliorerà mai, tuttavia, anche lì, si diverte: le partite a pickleball con gli amici, una sorta di tennis, ad esempio. Sì, è possibile fare con piacere anche qualcosa in cui non si eccelle e lasciarsi descrivere anche da quella fragilità. Lasciarsi completare da quella debolezza.
Fare i conti è un dovere di ciascuno. Anche con il talento si fanno i conti. Ben Healy li ha fatti in tutti i chilometri di fuga: li ha fatti perché sembrava "avere la gamba che scappava", che in gergo ciclistico significa avere una gamba così buona che potrebbe andarsene da sola e lasciarti lì. Si è sfogato, sui Gran Premi della Montagna, si è trattenuto quando altri hanno preso vantaggio in salita. Ma non ce la faceva più: è rientrato a gran velocità ed è scattato, in quel modo scoordinato che, se si usasse solo l'oggettività, potrebbe non piacere, invece scuote. Sturm und Drang, sconvolgimento ed impeto, sentimento e irrazionalità, in chi agisce e in chi guarda. Chi ha talento deve vincere, sorprendere, divertire, emozionare. Chi ha talento ne è segnato. «Se la gente sa, e la gente lo sa, che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita, e ti piace lasciarti ascoltare»: lo diceva De André. Fare i conti con il talento è questa cosa qui. È Healy, secondo a Bergamo, che riprende a suonare.
Marco Frigo ha fatto i conti con molte cose oggi: con McNulty e Healy, con la distanza, in testa ed in coda ad una fuga, con la salita e la discesa. Ha fatto i conti con il restare indietro ed il ripartire davanti, a tutta. Fino all'ultimo, fino alla volata, lanciata senza riprendere fiato, senza poterlo fare. Soprattutto ha fatto i conti con una caduta, di due anni fa, con un ricordo che si può raccontare, ma non si può provare. Perché è passato e perché appartiene ad altri. Frigo è un altro dei "senza alibi", di quelli che pensano che ogni scusa spenga un poco l'essere umano, e corrono come pensano.
Tutto questo in una domenica in cui, dopo giorni e giorni, sul Giro torna il sole e pare nuovo, quasi una sensazione scordata: l'ombra di una bicicletta e dell'uomo che stringe una borraccia, l'acqua che gratifica, il sudore che ritorna e si posa sulla pelle, una maglietta e dei pantaloncini corti, urla e grida, tante persone, rincorse estive, strappi, saliscendi. Mentre, là davanti, McNulty, Healy e Frigo si giocano la quindicesima tappa del Giro. A conti fatti, una gran bella giornata.
Freddo, pioggia, Giro d'Italia
Alberto Bettiol è così distrutto che fatica ad alzarsi. Lo deve aiutare un uomo della sua squadra, ma le gambe sono così dure che deve appoggiarsi alla transenna alle sue spalle. Viene sollevato quasi a forza. Ha dato tutto nell’ultimo chilometro, e chissà quante cose gli stanno frullando per la mente: dopo un attacco assurdo e bellissimo ai -65, è stato più attendista e ha battezzato la ruota dell’uomo più in forma di tutto il Giro d’Italia, Derek Gee. Scatta, è troppo lungo, si pianta. Denz e Gee lo passano, prova a rimettersi a ruota: una scia buona solo per il terzo posto. Ha il viso arrossato dal freddo, dalla pioggia, forse dall’incazzatura. Bettiol ha una miriade di piazzamenti in carriera, quattro vittorie da pro (una in particolare piuttosto pesante) e svariati modi per farci credere che anche questa volta era lui il più forte.
Molti minuti dopo arriva Alberto Dainese, 82° e nel gruppone con gli uomini di classifica. È un velocista, abituato a dare e prendere mazzata nei metri finali di corsa. Oggi no, dopo tutto quel freddo e quella pioggia, no. Si colpisce il petto un paio di volte col pugno, tossisce a ripetizione, dice al massaggiatore: «Lungs». Penso volesse dire - il pensiero è piuttosto respingente - che gli facevano male i polmoni.
Due storie simili ma diverse, due storie di freddo. Due storie che racchiudono bene il perché, magari, oggi qualcuno avrà meno voglia di fare corsa dura, di sfinirsi di nuovo, o sarà impossibilitato a farlo causa gambe vuote. Qualcuno potrebbe crollare in modo aspettato, pure. Certo sarebbe bello se accadesse il contrario, se qualcuno decidesse di squarciare il Giro d’Italia: la tappa di Bergamo, forse col sole!, sarebbe lo scenario ideale.
Sulla strada
Sulla strada diventano difficili anche i gesti più semplici. Due numeri: 77 e 152. Rispettivamente il dorsale di Alberto Bettiol e di William Barta, squadre diverse, stessa fuga, stessa galleria, prima della discesa dal Passo del Sempione. Piove, fa freddo, siamo a più di duemila metri, Bettiol prende la mantellina dall'ammiraglia e cerca di indossarla. C'è vento, una manica è già infilata, la parte posteriore, invece, sfugge. È Barta, che si sta alternando nella rotazione per tirare, a tenergliela ferma, a permettergli di vestirla. Sulla strada si parte per inseguire una fuga che ha già più di due minuti di vantaggio e si è solamente in due: Mirco Maestri e Mattia Bais. E ci si riesce. Perché sulla strada si fa quel che, ripensandoci, non si farebbe mai. Si pedala con la bronchite, come Alberto Dainese, si pedala faticando a respirare, sotto una pioggia che è castigo, febbre.
Sulla strada c'è un ragazzino da solo, i genitori devono essere vicini, ma il passaggio del Giro lo vede da solo. Da solo nel luogo in cui ha scelto di vederlo. Saranno pochi metri di distanza, ma non conta, è una delle prime decisioni, fuori da casa. Sulla strada c'è un treno che passa in mezzo alle montagne e la gente che si ferma a guardarlo. Sulla strada si scopre che una tettoia strettissima può proteggere da tanta di quella pioggia che non ci si può pensare e che gli usi delle cose sono una convenzione, perché sulla strada usi e forme si adeguano: si può usare un giornale per proteggersi dall'acqua o dal freddo, si può usare un muretto per guardare meglio, una pozzanghera per vedere il riflesso delle cose e saltarci dentro come se l'acqua non bastasse.
Sulla strada si è in balia di quel che c'è sulla strada, sole, vento, acqua, nebbia, ma non solo. Sulla strada si è in balia di quel che si è e che spesso si scopre proprio sulla strada, quando non si può fare altrimenti. Di Bruno Armirail avevamo parlato qualche giorno fa, per quel suo tentativo di inseguire una fuga ormai andata. Di Bruno Armirail parliamo oggi che in fuga è riuscito ad andarci e, a fine tappa, più di diciotto minuti guadagnati, gli sono valsi la maglia rosa. Quanto si sarà sentito sconfitto quella sera, quanto si sentirà felice, incredulo, orgoglioso di essere un ciclista, stasera.
Sulla strada si cresce, cresce la condizione. Basta guardare Alberto Bettiol, leone delle Fiandre, anche se Cassano Magnago è da tutt'altra parte. Fiero, maestoso. Ci prova e ci riprova, insegue, rientra, ha la gamba, buona, ottima, muscoli ribelli, quelli che servono a un ciclista. «Quando si ha questa gamba, bisogna vincere»: dice a fine tappa. Perché sulla strada si capisce che la strada non perdona. Sulla strada si possono ampliare orizzonti o restringere possibilità. Nel giro di pochi secondi, di alcuni metri.
Sulla strada ci sono ciclisti in ogni dove, perché la strada decide insieme agli uomini che la percorrono, anche quando sembra non possa sorprendere, stupire. C'è la volata lunghissima di Oldani, istinto puro, volontà sproporzionata. Ci sono Davide Ballerini e Toms Skujiņš che ripartono, con un'altra volata, anche quando non ci si può più credere. Sulla strada c'è Derek Gee che della fuga ha fatto casa, che fa su una strada ciò che gli uccelli fanno in cielo, lui che li osserva: migra, trasmigra, scopre, conosce, stagioni e persone. Sulla strada c'è Nico Denz: un urlo di gioia l'altro giorno, mani che ballano, a smuovere l'aria e l'acqua, oggi. La seconda volta fa lo stesso effetto della prima, non è vero che ci si abitua.
Sulla strada ci sono bagagli e rotelle che scorrono, verso una nuova città e un nuovo albergo. Verso un cielo in cui si vuole ritrovare l'azzurro e un letto vagabondo, da due settimane a questa parte. E allora? Prendiamo in prestito le parole di Kerouac, sulla strada.
«Dobbiamo andare e non fermarci mai finchè non arriviamo»
«Per andare dove, amico?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».
E noi andiamo.
Arrivando presto, per una volta
Entriamo e non c’è nessuno. Al centro congressi di Crans Montana una sala stampa enorme, allestita con tavoloni lunghi e tovaglie rosa, è tutta per noi. Nemmeno ai miei colleghi di podcast era mai successo di arrivare arrivare alla sede di arrivo addirittura prima della partenza della tappa, per primi in assoluto. Forse, scriverebbe Buzzati, siamo arrivati prima anche della notizia dell’arrivo di una tappa del Giro da queste parti.
È successo perché la tappa è stata accorciata, certo, ma non l’abbiamo vissuta poi così male: per una volta abbiamo potuto goderci il buffet senza dover ingurgitare più cose nel minor tempo possibile. Se non fosse stata una tappa frizzantina dal chilometro zero, avremmo pure passeggiato tra i laghetti che costellano le frazioni di Chermignon, Mollens, Montana e Randogne.
Varie comodità a parte (il sogno impossibile resta quello di poter introdurre cibo in sala stampa), non mi piace stazionare in sala stampa: sono posti sempre diversi ma uguali, palestre o scuole, allestiti sempre con le stesse cose. La cosa più significativa successa finora nelle 13 sale stampa del Giro 2023 è la gradita apparizione di Gianni Savio l’altro ieri. Per il resto, nulla da segnalare. Non è di nessuna utilità o praticità se non per avere sedie su cui sedere, tavoli su cui appoggiare il pc e un pozzetto refrigerato contenente svariati pacchi d’acqua ufficiale del Giro.
In sala stampa, soprattutto, non si possono fare le due cose che, penso, contraddistinguono GIRONIMO, il podcast giornaliero che facciamo con Alvento e Shimano dalle strade del Giro: parlare coi corridori e conoscere, addentrarsi nei luoghi e nelle storie della corsa. Non è, questo, un elogio a un giornalismo di strada, che deve stare tra la gente giusto per il gusto di fornire una presunta voce del popolo. Né il nostro è l’unico modo di fare questo lavoro. Eppure, mi sento dire, è quello meno impolverato e stantio, quello che più riesce a far fruttare il privilegio di poter seguire tutto il Giro in loco.
Poi certo, ognuno il ciclismo lo pratica e lo vive, lo ascolta e ne parla, come vuole. E va benissimo così, basta che di mezzo (anzi, come mezzo) ci sia una bicicletta..
Il richiamo delle cime
C’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot. Anzi, per la precisione, noi fissavamo gli occhi, nascosti dagli occhiali, di Pinot, mentre Pinot guardava altrove. Proprio questo altrove è il punto: nel mezzo dello sforzo, il francese è riuscito a guardare il paesaggio. Non quello verso l’alto, quello che si fissa per capire quanto manca al Gran Premio della Montagna, quello verso il basso e non verso il gruppo che insegue, verso il vuoto, verso la valle. Pochi istanti, certo, ma importanti. Abbiamo pensato a una sorta di richiamo della montagna. Che, se volete, può anche essere naturale per un ciclista con le caratteristiche di Pinot. Ma questo richiamo della montagna non finisce lì, non si esaurisce nel gesto atletico.
Il richiamo delle vette è in quella sorta di attrazione che si sviluppa tra un essere umano e la montagna. Un’attrazione che si potrebbe assimilare a una calamita, perché c’è qualcosa di magnetico e irrazionale in un ciclista che scala: la sua posizione in sella, la sua continua proiezione verso l’alto, certamente pure gli occhi che vanno oltre, che sono sempre un metro avanti rispetto alla pedalata che si sta compiendo. Ma di richiami ce ne sono molti, almeno in astratto, quelli che contano sono quelli che sentiamo e che assecondiamo. In quello sguardo di Pinot verso la valle c’è il suo ascolto di questo richiamo.
Poi Thibaut Pinot fa il ciclista di mestiere e quell’ascolto lo declina su una bicicletta. In ogni scatto che oggi ha fatto Pinot, forse troppi, forse anche sbagliati, visto poi il risultato di tappa, c’era quel richiamo. In ogni volta in cui si è alzato sui pedali ed ha cercato di allontanare Cepeda e Rubio, c’era quel richiamo. Pure quando sbuffava, innervosito dall’atteggiamento di Cepeda, Pinot avvertiva quel richiamo. In ogni movimento, nel dinamismo di uno scalatore e, nella fattispecie di Pinot, si risentiva quella voce delle vette che, probabilmente, richiama così perché assomiglia agli esseri umani e tutti, anche chi in montagna non ci va, anche chi parla della malinconia delle montagne, la sentono.
Cime innevate, a riposo, come gli uomini che ne hanno passate tante e hanno bisogno di un inverno in solitudine per tornare. Thibaut Pinot è stato questo. Cime in piena luce, più vicine al sole, in cui il caldo è più caldo ed fresco è più fresco. Anche questo è stato Pinot. Cime tempestose, tormentate, che attraggono e respingono, che si amano e si odiano. Queste sono le cime che non si lasciano mai, a cui si appartiene sempre, perché è l’essere vetta, è l’essere montagna, è l’essere uomini a esporre a queste tormente. Pure in giorni in cui si fa come ha fatto Pinot oggi, in cui il desiderio ed il talento sono più che mai la chiave per salvarsi e salvare, ma non basta.
In quei giorni in cui, poi, capita che manchi la forza all’ultimo, che si sia secondi con una smorfia, dietro ad Einer Rubio, che oggi sembra l’unico ad aver davvero fatto tutto giusto, tutto perfetto. Capita poi che si vesta la maglia azzurra, che tanto si desiderava, con negli occhi una nostalgia primitiva, una cima tempestosa, anche se c’è luce sopra Crans Montana, perché quel richiamo non si è colmato, perché qualcosa è sfuggito. Probabilmente è proprio quel qualcosa che manca sempre a un essere umano, a far venire voglia di guardare la valle, per qualche istante. Pure nella fatica di uno scatto appena partiti, in una tappa accorciata, che inizia già arrampicandosi sulle strade strette delle vette, col respiro a tratti più stretto di quelle vie. Dall’alto si cerca la completezza.
Nel gruppo non è accaduto molto, Damiano Caruso ha acceso una fiamma, all’ultimo. Si è parlato tanto della tappa accorciata, questo sì e ognuno avrà la propria idea. Ma c’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot, intento a guardare la valle, per una frazione di secondo, nel pieno dello sforzo. E questo è molto, molto di più.
Il nome del Giro
Nelle "Postille a Il Nome della Rosa", uscite in un’edizione successiva del romanzo e divenute tanto celebri quanto il libro stesso, Umberto Eco rivela tante cose sulla creazione del suo capolavoro. Tra tutte, ogni volta mi colpisce il singolo motivo scatenante, uno solo, per la realizzazione del libro: «Avevo voglia di avvelenare un monaco». È una frase di una semplicità disarmante se messa a confronto con la complessità del libro e i vari livelli di lettura cui si presta: proprio questa discrepanza tra il nocciolo della questione e il risultato finale mi pare la caratteristica fondamentale delle corse a tappe di tre settimane.
La Bra-Rivoli è stata, per fare un paragone piemontese, l’impasto di cacao e zucchero che avvolge la Tonda gentile: molto buona e gradevole, ma non del tutto cruciale, perché ciò che vuoi addentare sta al centro. «Il resto», dice sempre Eco nelle Postille, «è polpa che si aggiunge strada facendo». E così la corsa è transitata ai piedi di un luogo echiano come la Sacra di San Michele, ma gli uomini da classifica generale, temendo forse il veleno sugli angoli delle pagine, non hanno voluto aprire il libro della guerra.
Oggi, forse, una sbirciata al finale del romanzo riusciremo a darla. Per la verità, non è ancora successo che uno dei contendenti al podio finale sia uscito di scena per hybris, per voglia di conoscere il contenuto misterioso non di un libro rarissimo ma delle proprie gambe. Alcuni sono usciti di scena causa malattia (Evenepoel, Vlasov, Uran), altri per sciagure di varia entità (Geoghegan Hart, Vine): tanti vorranno tenere le proprie carte in mano, giocare sulla difensiva, cercare di rimanere fuori dai guai. Come insegna il Nome della Rosa, non è sempre la strategia corretta.