Alzarsi e partire

Noi che maneggiamo parole parliamo spesso di sogni ed è giusto così, perché i sogni sono necessari per un Giro d'Italia, per qualunque viaggio ed anche solo per una giornata, dal mattino alla sera. Ma per un Giro d'Italia, per qualunque viaggio ed anche per una giornata, spesso, prima dei sogni è necessario alzarsi e partire. Sì, perché, per quanto ci si possa sforzare, quasi nessuno è capace di tenere lo sguardo sempre e solo sul sogno, anche fosse il più grande di tutti, perché la realtà si mette di mezzo. Bene, proprio quando la realtà si fa troppo ingombrante, persino invadente, bisogna ricordarselo: alzarsi e partire.

Alzarsi e partire come si sono alzati e sono partiti stamani i corridori del gruppo. Alzarsi e partire dopo giorni di pioggia e con un cielo ancora nuvoloso. Alzarsi e partire anche se è una di quelle giornate in cui non si può chiedere nulla, anche se, dentro, si è convinti di essere troppo stanchi per chiedere qualcosa a questa o ad altre giornate. Alzarsi e partire anche quando ci si sente piccoli, minuscoli, e tutti gli altri sono grandi, enormi. Anche quando sembra di essere gli unici a fare fatica a pedalare, mentre i pedali degli altri girano così bene. Alzarsi e partire perché, forse, alzandosi e partendo qualcosa succederà.

Non sappiamo in quanti, fra i trenta corridori all'attacco, stamani lo abbiano pensato: alzarsi e partire. Però a tutti e trenta qualcosa è accaduto: una fuga strana, andata via da una rotonda, in un modo strano. Samuele Battistella probabilmente lo ha pensato, lui che, pur non stando bene, pur andando spesso alla macchina del medico, era in quella fuga, in cui forse è capitato ma in cui ha fatto di tutto per restare. Pensate che era con Berwick, Denz, Skujiņš, Tonelli quando, ancora una volta in maniera quasi casuale, questi quattro hanno staccato tutti gli altri fuggitivi. Poi ha dovuto lasciare, certo, ma si è alzato, è partito e, così facendo, ha anche trovato delle forze che, probabilmente, in albergo, nemmeno pensava di avere. Succede, più spesso di quanto si creda. Per questo lo ripetiamo: alzarsi e partire.

Poi può pure capitare che, dopo essersi alzati ed essere partiti, dopo essere entrati nella fuga di giornata, gli equilibri si rompano, il nervosismo della stanchezza e delle incomprensioni prenda il sopravvento, e per ventisei di quei trenta sembri un'occasione sprecata. Probabilmente lo è. Non è facile per Davide Formolo, per Alberto Bettiol, per Christian Scaroni, per Alex Baudin, per molti altri, che, erano nel posto sbagliato nel momento giusto, che, pur in fuga, non erano sulla fuga di testa, su quella che si è giocata la vittoria. Non sarà facile perché più le occasioni sono vicine, più fa male perderle. Eppure anche loro, domani mattina, poche ore prima di una tappa che promette pioggia, freddo, salite e acido lattico, lo ripeteranno: alzarsi e partire. Il resto si vedrà.

Alzarsi e partire che è quello che si fa in volata. Quello che Nico Denz, a Rivoli, ha fatto dalla testa del terzetto, la posizione peggiore per una volata, eppure ha vinto. Ma Denz si era alzato ed era partito già stamani e ancora in salita, quando sembrava dovesse staccarsi da un momento all'altro, quando era tutto unghie e denti. Stretti. Alzarsi e partire, magari sui pedali. Sarà per questo che alzarsi sui pedali, in bicicletta, evoca tanta di quella libertà che non sta nemmeno negli orizzonti più vasti e nelle praterie sconfinate. Sì, perché ci si alza sui pedali e si parte. Non per vincere, per continuare.

A questo volevamo arrivare: i sogni restano, si custodiscono, ma spesso basta essere secondi, per vederli lontani, troppo lontani, essere scorati, quasi fosse rimasto un pezzo di cuore in meno per crederci ancora. I sogni sono un atto d'amore, ma anche continuare è un atto d'amore. Uno di quegli atti d'amore silenziosi, che, senza troppo rumore, fa la storia. Non del mondo, la nostra. A patto di alzarsi e partire. Ancora una volta.


Distanze, tempi, ritardi

Ci sono circa 600 chilometri tra Kandel, luogo natale di Pascal Ackermann, e Tortona, dove il velocista tedesco è tornato a vincere al Giro quattro anni dopo l’ultima volta. La Camaiore-Tortona di ieri era una tappa da oltre 215 chilometri, la più lunga del Giro: tre agevoli Gran Premi della Montagna, qualche acquazzone, tante curve e la categorizzazione “B” come difficoltà di tappa. Ciò significa, se ho letto bene il regolamento del Giro e se ho fatto bene i conti, che per non finire fuori tempo massimo l’ultimo arrivato avrebbe potuto prendere da Ackermann fino a circa 34 minuti.

L’ultimo arrivato, invece, è arrivato ben prima sul traguardo. Si è trattato di Alessandro Verre: il suo luogo natale, Marsicovetere, dista da Tortona oltre 900 chilometri. Il lucano ha fermato il cronometro a 18 minuti e 27 secondi di ritardo: perché Alessandro? Vedendoti all’arrivo, avrei giurato che il tuo ritardo fosse di almeno qualche giorno. La sua faccia era stravolta, nera nel vero senso della parola: stare in fondo al gruppo ha significato, probabilmente, beccarsi acqua, polvere e fanghiglia alzate dalle ruote davanti a sé.

Verre è arrivato solissimo, ultimissimo. Quasi tre minuti dopo la coppia di penultimo e terzultimo, Vanhoucke e Cherel. Nei pochi attimi in cui il mio sguardo e il suo si sono incrociati, mi è sembrato di vedere un corridore «scoppiato, distrutto, un rudere». Sono parole di Dino Buzzati, che nelle cronache del Giro del ‘49 ha descritto come nessun altro la deformazione del tempo che sembra suscitare l’arrivo sul traguardo dell’ultimissimo. Ci lasciamo con uno stralcio di Buzzati dal medesimo brano: mentre lo starete leggendo, probabilmente starò cercando Verre per chiedergli del suo arrivo.
«La luce del giorno svanisce, ecco si accendono i lampioni. “Dov’è lo stadio?” chiede. Gli fanno segno confusamente, quasi infastiditi. “Permesso, permesso” egli implora con voce fievole. Ma è già notte. Quante ore sono passate dall’arrivo dei primi? Quanti giorni? O mesi? Notte buia, coi lumi dei caffè riverberanti di là della folla. E sempre nuova ressa di popolo, una colata di lava nera a lui incontro, torbida, nemica. “Dov’è lo stadio?” domanda. “Quale stadio?” rispondono. “Quello del Giro d’Italia”. “Ah, il Giro d’Italia... bei tempi, quelli!” e scuotono il capo, commiserando. Non ore, non giorni e mesi: anni interi, dunque, sono passati dall’arrivo dei primi. E lui è solo. E fa freddo. E la fidanzata è a spasso con un altro; o si sarà già sposata. “Dov’è lo stadio?” supplica. “Stadio?” rispondono “Giro d’Italia? Che significa?”».


Via dei mancati rimpianti

Forse, proprio in giornate come questa, è importante passare da "Via dei mancati rimpianti". Una via a cui abbiamo pensato oggi, che è un non luogo, in cui, però, ci si può ritrovare. Forse proprio in "Via dei mancati rimpianti" si possono capire tante cose, quando la malinconia delle cadute, quelle di Tao Geoghegan Hart e Oscar Rodriguez, su tutte, costringe al ritiro. Mentre vedere un ciclista che non si rialza spaventa, perché il tornare in piedi e riprendere la bicicletta è un gesto automatico e, se non accade, quanto deve essere il dolore?

In "Via dei mancati rimpianti" si spiega ogni scatto, ogni fuga, si spiega quella fatica portata all'esasperazione, anche quando vorresti solo dire "respira, non fa nulla, anche se non va". Perché in quel momento, quando si deve andare via, su una barella, quando si ha male e non ci si riesce a muovere, non avere alcun rimpianto, o per quanto averne il meno possibile, è l'unica consolazione. In "Via dei mancati rimpianti" c'è la sofferenza di Alessandro Covi che, con addosso le ferite e la paura di quella caduta, è arrivato a Tortona. C'è Pavel Sivakov che, dolorante, aspetta che Tao Geoghegan Hart venga caricato in ambulanza prima di ripartire. Lì, da qualche parte, c'è anche chi, rialzatosi, sposta con delicatezza ogni bicicletta e chiede a Geoghegan Hart come stia.

In "Via dei mancati rimpianti" c'è, probabilmente, anche il motivo per cui Fernando Gaviria, talvolta, lancia la volata troppo lunga: perché può capitare di cadere come oggi, di non poterla lanciare, quella può essere voglia, desiderio. Umano. Da dietro un angolo, al ritrovo in quella via, spunterà anche Laurenz Rex: inventore della fuga di oggi, ultimo a cedere, con il gruppo che da chilometri lo braccava. Perché? Perché se si cede e, poi, si scopre che con un secondo in più, un metro in più, si sarebbe potuti arrivare, cosa si fa? Come ci si sente? Ne parleremo con lui, che certamente sa l'indirizzo di "Via dei mancati rimpianti", come ben lo conosce Stojnic, il penultimo a mollare. Tutti gli uomini delle fughe lo sanno, loro che di rimpianti proprio non vogliono averne.

Magari scopriremo che ad aspettarci c'è già Andrea Vendrame, che, dopo giorni e giorni, dopo quella brutta caduta sull'asfalto bagnato e tanto dolore, ha dovuto ritirarsi. Rimpianto è ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto: chi ha corso come lui, non può averne oggi, anche se non essere più al Giro spiace. I mancati rimpianti sono quelli di Thomas Champion che sta contando i chilometri all'attacco, per totalizzarne più degli altri, per percorrere più strada, da solo o con pochi, cercando la luce di un ideale, di un sogno. Sono quelli di Pedersen e Milan che si sfidano da giorni per i punti della maglia ciclamino, anche se l'arrivo è lontano, la volata un miraggio, eppure quei punti proprio non vogliono perderli, nemmeno se sono pochi, nemmeno se è uno soltanto.

In "Via dei mancanti rimpianti" è possibile parlare con Milan di questa volata, a velocità incredibile, potente, energia e fiato. Ha ammesso di aver sbagliato posizione per partire e a questo rimedierà, ma in "Via dei mancati rimpianti" verrà volentieri, perché ha spremuto ogni goccia di aria su quel rettilineo, senza remore, anche se era difficile visto come si erano messe le cose. Davanti a lui, solo Ackermann, dietro di lui Cavendish, che erano giorni che annusava la volata e, oggi, in salita si è aggrappato ai compagni, l'unica fiducia possibile, per restare col gruppo e, nonostante, la difficoltà, disputarla quella volata.

In "Via mancati rimpianti" c'è anche un bambino: quello che, qualche giorno fa, si è fatto autografare un tappo di spumante dalla maglia rosa. Non c'era altro e ha scelto quello, ma l'autografo lo ha, non ha sprecato l'occasione, il momento. In "Via dei mancati rimpianti" ci siamo tutti, per ogni volta in cui sentivamo di dover dire o fare qualcosa e l'abbiamo detto o fatto, anche se avevamo paura, anche se non è stato capito o guardato come avremmo voluto. E, diciamo di più, lo rifaremmo. Perché crediamo a "Via dei mancati rimpianti", come ci credono i ciclisti, anche se non sappiamo bene dove sia. Per questo continuiamo a cercarla e a pedalare.


Campioni vulnerabili

Uno dei pezzi più belli che mi sia capitato di leggere durante questo Giro d’Italia si intitola “Sulla volatilità del Giro”, di Kate Wagner. Non tratta dell’appassionato di volatili Derek Gee, purtroppo, ed è uno degli ultimi che leggerò: ne ho ormai abbastanza di leggere, vedere, scrivere, parlare di ciclismo per dodici ore al giorno e ho portato Ubik di Dick nella valigia per un motivo. Il pezzo di Wagner, dicevamo, riassume bene, in solo due parole, ciò che è stato il Giro finora: «ansia e conflitto».

I due favoriti della vigilia, Evenepoel e Roglic, si sono dimostrati i dominatori che ci si poteva attendere. A parte forse la cronometro iniziale di Remco, nessuno si è elevato in modo particolare dalla concorrenza per la classifica generale: perfino Remco, dopo la vittoria di Cesena e prima dell’annuncio del ritiro, era considerato un finto vincitore della cronometro romagnola. Io e altri amanti del corridore che è Remco sognavamo una performance extra-terrestre in quella cronometro, che così tanto sembrava addirsi a lui: invece Wagner mi ha fornito un punto di vista interessante. «Sono sempre più stanca della de-personalizzazione degli atleti, di presunti avvistamenti di un sempre migliore superuomo [...] e del fintamente neutrale discorso sulla performance aliena. L’atleta è un essere umano soggetto a conflitti interiori e posizioni personali; il ritmo cardiaco aumenta quando l’uomo ha paura».

E motivi per avere paura gli uomini che corrono questo Giro d’Italia ne hanno diversi: il meteo e il Covid, per citarne due. Il passato stesso dei possibili vincitori del Giro è un campanello di allarme, che ricordano bene: Roglic ha una lista di fallimenti nel momento topico piuttosto lunga per il campione che è, Geoghegan Hart è un po’ scomparso dopo il Giro 2020, Thomas ama finire sull’asfalto, Almeida è uscito allo scorso Giro per Covid proprio sul più bello. Avremo, insomma, un vincitore del Giro vulnerabile. Queste prime dieci tappe di Giro ci hanno ricordato «della fallibilità umana, delle manchevolezze dei corpi stessi» chiosa Wagner.

Per questo ho trovato particolarmente azzeccato ciò che ha detto in conferenza stampa Magnus Cort Nielsen - un attaccante nato che prima di ieri al Giro era stato molto dietro le quinte -, dopo aver vinto a Viareggio. «In qualche modo, il mio corpo ha continuato a funzionare. Ho avuto paura che il mio corpo potesse smettere di funzionare». Meno superuomini, più campioni vulnerabili: a pensarci bene, evviva.


Maschere

Maschere. Perché Viareggio ed il suo Carnevale sono maschere. Perché sotto la pioggia battente ed il freddo, ogni volto è maschera: la pelle è modellata dal freddo e scolpita dalla pioggia. Gli occhi sono più occhi, gli zigomi diventano appigli, le sopracciglia scolpite, persino i baffi appaiono immobilizzati e gonfi. Ogni linea del volto è tratteggiata: così appare il viso di Magnus Cort Nielsen, che vince nel giorno della fuga, del Passo delle Radici, della nebbia, di un presagio di novembre. Maschere perché anche essere ciclista è una maschera, come ogni lavoro, dentro e dietro a quella maschera, desideri umani: quelli di Nielsen che vorrebbe scalare il Kilimangiaro e vedere un film sotto le stelle, accanto a una tenda.

Dietro a quella maschera, un bicchiere di buon vino a Natale ed i bambini che giocano su un tappeto: è Alessandro De Marchi, che, a trentasei anni, riesce ancora a cogliere alcune prime volte nelle fughe- lo ha fatto alla Strade Bianche ed a Napoli- seppure le sue fughe siano innumerevoli, il fatto però che, ogni volta, vi trovi qualcosa di nuovo, racconta la sua capacità di viverle quelle fughe, di guardarle e di coglierne un significato altro dalla vittoria a fine corsa. Così ha attaccato anche oggi, ha portato via la fuga, ha fatto le discese in testa, stanco, così stanco, dopo più di 190 chilometri, da perdere per un attimo le ruote di Gee e Cort Nielsen sul rettilineo d'arrivo e, poi, da ritrovare energie chissà dove e sprintare. Terzo. Chissà dove? Nella strada che ancora c'è, rifugio della paura e del coraggio. De Marchi, da tempo, ha scelto il coraggio.

Maschere come una maschera è la fuga: quasi una catarsi, una purificazione, per chi la compie e per chi la guarda. Nella società, per gli uomini e le donne fuggire, lontani da tutto e tutti, può essere un desiderio di qualche tempo, poi diventa terrore, perché degli altri si sente necessità, anche solo della possibilità degli altri, di cercarli, di sentirli, di guardarli. Vedere un uomo in fuga è come vedere un cinema, affrontare quel brivido attraverso un gesto che è realtà e metafora. Una particolare forma di teatro.

Maschere di dolore, con un braccio alzato e i denti stretti: Warren Barguil, che non riusciva neppure ad appoggiare la mano al manubrio eppure è ripartito. È arrivato centotrentanovesimo, dopo più di 23 minuti. Ovvero 23 minuti in più di pioggia e dolore. Quel tempo in più che vorrebbe chi è felice, lo ha chi patisce. Una volata vincente dura pochissimo, una caduta dura da lì a chissà quando. Le maschere più difficili da togliersi, perché non si possono levare, devono andarsene da sole. Non c'è trucco. Non è un carnevale.

Maschere di fatica: quella di Milan e di quella linguaccia a dire "sono a tutta", in salita e poi in volata. Mentre sta dando tutto e dopo averlo dato. Questo dare tutto è qualcosa che riappacifica con chi si è, con quello in cui si crede. Potrebbe scrivere molto sul tema Pasqualon, che, in una maschera sempre più disegnata dalla pioggia, è tornato in testa al gruppo per aiutare Milan. Credono in questo i ciclisti, crede in questo chiunque si sforzi di andare avanti anche quando fermarsi sembra semplice, persino ovvio, anche quando la maschera è di delusione, di freddo che ha fatto il nido nelle ossa: chiedetelo a Dainese, a Groves, a Gaviria, a Matthews e a tanti altri.
Maschere per provare a partire anche se non si è stati bene: così ha fatto Aleksandr Vlasov, maschere per tranquillizzare chi chiama da casa dopo un infortunio, una madre, un padre, una moglie, un figlio, ancora maschere di scalatori come Davide Bais che, a sera, in camera, pensa alla baita di montagna che sta ristrutturando.

Proprio in quelle camere, in un momento di solitudine, le maschere cadono: resta tutto quello che non si dice, che non si mostra, ma che si ha dentro. La delusione più profonda, il timore di sentire male, di arrendersi, di deludere. Perché, alla fine, solo di uomini si tratta. Ed è proprio questo quel che più vale.


Sulla forza mentale (di Remco)

Meteorologicamente parlando, certo, quella di domenica è stata una giornata del cavolo. Dal punto di vista degli orari, certo, è stata una giornata del cavolo, perché le cronometro iniziano tardi e finiscono tardissimo. Logisticamente parlando, certo, è stata una giornata del cavolo: dopo la tappa ci siamo sorbiti più di un’ora di viaggio verso la sede del giorno di riposo, San Giovanni in Persiceto. Eppure, ho potuto ascoltare - e tanto è bastato per ribaltare completamente la giornata - due persone che amano e studiano le questioni di cui si occupano. Non c’è niente di meglio di chi ha passione per il proprio lavoro e decide, per grazia, di offrire al pubblico spicchi della propria mente.

Paolo Zanfini, da un anno direttore scientifico, ha cominciato a lavorare nella Biblioteca malatestiana di Cesena molti anni fa, come apprendista. Ogni libro che ci mostra, e solo nell’Aula del Nuti ce ne sono 343, sembra un suo figlio. Con lo stesso spirito entusiasta e propositivo ci parla di una rarissima copia miniata del De Civitate Dei di Sant’Agostino conservato nella Biblioteca e di una mostra temporanea che affronta una pagina più moderna della storia dei libri, quella dei pop-up.

La seconda persona in questione è Remco Evenepoel. Poche ore prima dell’annuncio del suo abbandono al Giro d’Italia, il campione del mondo è arrivato sorridente nel truck della conferenza stampa dove lo aspettavamo io e uno scarno contingente di giornalisti. Rotto il ghiaccio con una domanda sui watt che ha spinto nella prima parte di cronometro, Remco è stato un fiume in piena: ha parlato della crono che aveva appena percorso in lungo e in largo, dilungandosi oltremodo, soddisfacendo curiosità e suscitando ulteriori domande. Soprattutto, dando la netta impressione che fosse una persona perfettamente consapevole, in controllo. Uno sportivo che ha craccato la disciplina che pratica. La sua primissima risposta ha compreso discorsi su planimetria, fondo stradale, vento, scelta di traiettorie, riflessioni circa sé stesso e il ciclismo moderno e altre cose che non ho neanche avuto il tempo di appuntarmi.

Questa incredibile lectio magistralis di Remco mi ha ricordato una cosa che si dice di Michael Jordan e del suo Flu Game, Gara 5 delle NBA Finals 1997. La serie tra Chicago e Utah è sul 2-2 e a Salt Lake City si gioca una partita dal peso enorme. Jordan è fortemente debilitato (forse causa pizza avvelenata, forse altro), ma gestisce le proprie energie talmente bene, esercitando un controllo sulla partita mentale prima che fisico, che riesce comunque a segnare 38 punti. Alla sirena finale si lascia andare sfinito tra le braccia di Scottie Pippen.

Secondo Federico Buffa, addirittura, mentre cercava di riprendersi dall’intossicazione alimentare prima della partita, Jordan immaginò ogni possesso della partita stessa, prevedendo i movimenti suoi, dei compagni e degli avversari. Avete mai visto gli occhi di Remco - a proposito di menti che visualizzano qualcosa di diverso - quando si prepara per una cronometro, basso sulle appendici e con la testa vicinissima alle mani? Non sono occhi che si dimenticano.

Nonostante il loro corpo non fosse al massimo, insomma, la loro mente ha sopperito, e anzi la prestazione è bastata per mettere il muso davanti al fotofinish: Remco di un secondo, Jordan di due miseri punti. Non sono contesti paragonabili, l’importanza del palcoscenico è del tutto diversa e mille altri fattori differiscono. Ma la forza mentale di Remco a Cesena ha avuto, scoperta a posteriori la malattia, un che di jordaniano. Mi si perdoni il riferimento divino, giuro non l’ho letto nel De Civitate Dei di cui sopra.


Il proprio posto nel mondo

Il concetto di completezza è uno di quei concetti di cui si parla molto nel ciclismo. Il corridore completo è colui che si esprime al meglio su tutti i terreni, che, anche quando non ci riesce, limita i danni, colui che, spesso, vince una corsa a tappe. A Cesena, sotto la pioggia, vogliamo parlare anche noi di completezza: non nel senso fisico o matematico del termine. Forse nemmeno in quello strettamente ciclistico. La completezza di cui vogliamo parlare non ha a che vedere con una parte mancante, con un'abilità non sviluppata, con la contrapposizione pieno-vuoto, perché crediamo che gli uomini e le donne siano già completi da questo punto di vista. Ognuno a proprio modo, ma completi, perché la completezza degli esseri umani è altro fatto rispetto a quella delle cose, dove sì si può applicare la matematica o la fisica.

Altro è il proprio posto nel mondo, quel qualcosa che è al di fuori di ciascuno e che è in grado di fare luce su quella completezza, di renderla visibile, di far capire che non ti manca proprio nulla. Il proprio posto nel mondo non è detto sia un luogo o un posto vero e proprio, può essere un'abitudine, una persona, un modo, un tempo. Può essere anche una bicicletta.

Abbiamo guardato Geraint Thomas e abbiamo avuto la sensazione di questa completezza. Che, almeno per oggi, il suo posto nel mondo fosse in quella posizione, apparentemente scomoda, da cronometro, in cui pareva completamente a proprio agio. Nove centesimi, solo nove centesimi, tanto lo ha separato dalla vittoria di tappa. Ma il proprio posto nel mondo non è questione di calcoli: è questione di quella tranquillità nello sguardo e nei modi. Di quel sentirsi a posto, consapevoli di quella completezza. Certamente il proprio posto nel mondo è uno di quei posti che, nonostante l'idea di stabilità, di fissità, è in realtà un luogo in cui è necessario camminare per restare. Anzi, pedalare, correre. Da cui ci si allontana con poco, in quei giorni, se si è fortunati, spesso in quelle settimane, oppure in quei mesi, in cui ci si perde, non si trova più la perfezione delle cose, che prima, chissà perché, si vedeva. Non si è incompleti, manca solo quel posto a mostrarci la completezza. Geraint Thomas, nel tempo, da quel posto si è allontanato ed in quel posto è tornato. "Ritrovarsi", un verbo che Thomas ha usato alcune volte, è esattamente questo.

Il proprio posto nel mondo è questione di sensazioni, quelle di Caruso, autore di una prova degna di nota, che su quelle fa affidamento, quelle ascolta, perché quelle indicano un passo, una rincorsa, talvolta. Di certo, sono le sensazioni a conoscerlo meglio della razionalità e una cronometro è questione di sensazioni, come il proprio posto nel mondo da cui, talvolta, ci si allontana, raccontandosi qualche assurda bugia. Prendete Remco Evenepoel: tutti pronosticavano una prova ampiamente dominata, ha vinto, non ha dominato. A tratti è sembrato semplicemente perfetto, il ritratto della potenza e dell'efficacia, poi ha perso qualcosa e con quella, pur vincendo la tappa, anche parte delle sensazioni trasmesse, una luce che illumina altro. Lo si intuisce dalle persone che dicono: «Ha vinto Evenepoel, ma sarebbe stato bello vedere Geraint Thomas vincitore».

Eppure Evenepoel su quella bicicletta da cronometro rasenta la perfezione, non c'è dubbio: è solo uno di quei giorni in cui il proprio posto nel mondo è un poco più nella nebbia. Nulla di tragico, tanto più che è proprio lui a tornare in rosa ai danni di Andreas Leknessund, succede. Lo scatto di ieri di Roglič è stata una rincorsa verso quel luogo, qualcosa che ha pagato ieri e meno oggi, però ha limitato i danni. Qualcosa da inseguire nei prossimi giorni per il Giro e non solo. Perché, quando sbiadisce il proprio posto nel mondo, iniziano i dubbi e la difficoltà di pedalare fra i dubbi non è misurabile in pendenze, come la salita.

Il proprio posto nel mondo lo si trova per caso o per scelta, può essere anche scomodo, fradicio, come quello di quel signore con i piedi in un campo e un ombrello minuscolo, che sembrava il ritratto della felicità mentre guardava i corridori. Lo si trova e se non lo si è ancora trovato si continua a cercarlo. Basta un giorno di riposo, una notte più lunga, e si può ripartire.

Giornata perfetta al Giro

È stata una giornata perfetta, al Giro d’Italia. Perfetta per il disegno: un finale mosso, con splendidi muri, in posti da urlo, come le selvagge e verdissime gole del Furlo. Perfetta per la logistica: per i tifosi che si sono assiepati sui Cappuccini per vedere due passaggi della corsa, per i tifosi che a Fossombrone hanno potuto vederne fino a quattro, per i giornalisti che hanno goduto di una rara vicinanza tra sala stampa, arrivo e bus delle squadre. Perfetta perché a Pontedazzo di Cantiano abbiamo incontrato tante persone: alcune ci hanno offerto un’amatriciana, altre ci hanno invitato davanti al loro camino. Tutte erano lì, assieme alle altre, per il Giro d’Italia.

È stata una giornata perfetta perché - l’elenco non è finito, anzi dura ancora un po’ - dopo sei partenze consecutive stamattina l’abbiamo presa su dolce, come si dice dalle mie parti, evitando la partenza di Terni. Non siamo, però, andati dritti all’arrivo: ci siamo immessi nel percorso in località Osteria del Gatto (PG), attraverso una stradina sterrata con buche grosse come piccoli laghi.

È stata una giornata perfetta perché, sulla salita dei Cappuccini, abbiamo incontrato un gruppo di amici di vecchia data. Si sono radunati per passare assieme il weekend: sia per pedalare loro che per veder pedalare altri. Il loro sorriso e la loro eccitazione, siccome di questo Giro vedranno solo una tappa, è stata spontanea e contagiosa.

In ultima istanza, ecco, è stata una giornata perfetta al Giro perché non ho nemmeno le parole per descriverla meglio di così, per ricordare chi ha guadagnato su chi, chi si è staccato, chi ha vinto e chi ha perso. Mi ha solo reso felice, e tanto basta.


Vivere l'agonia di Ben Healy

“S'immagini il lettore" la lingua stretta d'asfalto, in mezzo al bosco, verticalità e tornanti, della salita de "I Cappuccini". Non è un caso la citazione manzoniana, perché, sarà il nome del muro, sarà la follia divoratrice di metri e asfalto dell'attacco di Ben Healy, ma, vedendolo attaccare, a cinquanta chilometri dall'arrivo, ci sono tornate in mente le parole dedicate da Manzoni a Padre Cristoforo, mentre rimprovera Renzo, al lazzaretto: «una voce che aveva ripresa tutta l'antica pienezza e sonorità, la sua testa cadente sul petto s'era sollevata, le gote si colorivano dell'antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile». Quel fuoco, quel qualcosa che viene da lontano e racconta una verità, è nelle gambe di Healy quando, senza paura, sceglie di restare solo: l'unico modo per avere la certezza di vincere, l'abbiamo sentito dire. Attaccare.

Sgraziato, sbilenco in bicicletta: se fosse vera quella storia che racconta di come una coppa di champagne sulla schiena di Anquetil, in una cronometro, non avrebbe versato nemmeno una goccia, la stessa coppa, probabilmente, zampillerebbe champagne da più parti, sulla schiena Healy, ma chi ha detto che sia sbagliato, che la storia di una coppa di champagne consumata non sia ugualmente bella e piena zeppa di amori e umori. L'attacco di Healy è l'apologia della fatica, l'esaltazione della massima difficoltà, una ricerca mai finita, un viaggio disperato e di speranza. È nato a Kingswinford, nel 2000, ma ha scelto l'Irlanda, la terra da cui venivano le biciclette del padre, quelle che vedeva e da cui ha tratto ispirazione. Sopracciglia folte, barba, orecchini e capelli neri, mossi, che fuoriescono dal cappellino. Ha qualcosa del cantante, qualcosa dell'attore forse. Ha quel cognome che pare quasi vezzeggiativo e che fa pensare al verbo inglese "heal" ovvero guarire.

L'attacco è la sua guarigione, un antidoto contro l'ovvietà, anche a costo di perdere, perché quando si mette in piedi un'azione così si può uscirne non solo sconfitti, ma distrutti. Invece Healy guarisce e aumenta il vantaggio: dietro, nella fuga, quella portata via con fatica, dopo 70 chilometri, hanno volti stanchi, tirati, si attaccano e si punzecchiano. Secondo sarà Gee, terzo un ottimo Zana. Ben Healy viene da lì, ma sembra di un'altra galassia, pur con un’origine, una scintilla, comune: la fuga, per l'appunto.

Della stessa apologia della fatica, si ritrova qualcosa in Leknessund e in Roglič. Il primo prova ad andare in fuga, per aumentare il vantaggio, per sgravare i compagni di una parte di lavoro, risponde all'attacco dello sloveno, poi pagherà, ma andate a riascoltare Healy e forse questo vi interesserà meno. Roglič attacca, sorprende Evenepoel, guadagna, il giorno prima di Cesena, dove tutti aspettano Evenepoel mattatore. Un gesto, un segnale. Non solo: forse anche involontariamente un modo di arrivare dall'altra parte, di lasciare qualcosa, un dubbio (chissà) nei rivali, il pepe, il fuoco, la passione, la voglia in chi guarda. Senza preoccuparsi delle gocce di champagne che possono cadere.

Ieri, in molti, hanno parlato di Marco Pantani. Noi ne parliamo oggi, pensando alla sua frase: «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia». Sull'agonia ci fermiamo. Lo è stata anche quella di Healy, anche se pare essersi divertito, lo è stata e si vedeva da come maltrattava la bicicletta sull'ultima ascesa a "I Cappuccini". Verrebbe da chiedergli: «Perché hai attaccato a cinquanta dall'arrivo, quando, probabilmente, avresti potuto vincere lo stesso, gestendoti e facendo l'azione nel finale?». Verrebbe da pensare a una risposta del tipo: «Per vivere la mia agonia» E, quindi, guarire. Nascere o, forse, crescere.


Quando piove al Giro

Quando piove, il Giro d’Italia assume tratti diversi. Sono già diversi giorni che il tempo non è esattamente quello della scorsa edizione: non c’è caldo, il sole non picchia sulla corsa, nessun ciclista sta in pantaloncini e maglia corta. Durante la Atripalda-Salerno, però, il meteo è peggiorato. Una pioggia da Blade Runner si è abbattuta sul percorso di gara dal chilometro zero, anzi da ancora prima: Damiano Caruso si è accorto della «giornata umida» già in albergo, quando lo abbiamo incontrato lungo in corridoio.

Forse l’ibleo era ironico, forse sottostimava l’assurda quantità di pioggia che cade ogni anno in Irpinia: «Siamo a soli 200 metri d’altitudine, ma qui fa sempre così. Secondo me piove almeno 300 giorni l’anno» afferma Mary, che col compagno gestisce il bar Moon’s Face, davanti al quale i bus delle squadre hanno parcheggiato per preparare la partenza. Mentre mi riparo come posso, due britannici stanno vivendo temperature molto diverse, a giudicare dalle apparenze: Mark Cavendish è in maniche corte, quasi rilassato, mentre Tao Geoghegan Hart ha tirato su lo scaldacollo fin quasi ai capelli.

Con la pioggia sul Giro, si fa più timida la gente a bordo strada e diventa meno colorato il plotone dei ciclisti: le mantelline, per esigenze di fabbricazione, sono spesso tutte nere. Remco ne ha una con l’iride e poco altro. Nemmeno Cavendish ha la mantellina di campione britannico. Sul percorso, la gente sfida la pioggia sotto gli ombrelli, come Lukas Pöstlberger per andare al foglio firma. Le strade sono più scivolose, il freddo entra nelle ossa dei corridori e avrà effetti imperscrutabili nei prossimi giorni, si bagnano le scarpe di tutti i meccanici. Anche i ciclisti più esperti possono attraversare la linea del traguardo separati dalla loro stessa bici, com’è successo a un rotolante Cavendish. Eppure il Giro va avanti e oggi scriverà un’altra pagina del suo romanzo: magari non più intrisa di pioggia.