MiTo in fissa
A cosa si pensa quando si parla di Milano-Torino? Facile: la classica più antica del mondo... ma ora qualcosa di (completamente) diverso: la “Milano-Torino in fissa”, 145 km per una sfida cavalleresca, come la definisce uno dei suoi organizzatori, con bici a scatto fisso.
«"Milano-Torino in fissa" nasce nel 2008 ideata da quella che fu, credo, la prima crew in assoluto di bici a scatto fisso presente a Milano - ci racconta Riccardo Volpe, 46 anni, ingegnere e una passione smodata per le due ruote tanto che quando lo definisco come "folle per la bici" si fa una risata e ribatte: «Qualcuno diceva che quando non si è in bici si pensa alla bici. Questa è una definizione in cui mi ritrovo».
La prima "Milano-Torino in fissa" è del 2008: «L'idea è stata quella unire due grandi città con una forte connotazione ciclistica e all'inizio è pure una sorta di gioco di parole: fino al 2010, infatti, si partiva da via Torino a Milano per arrivare in via Milano a Torino. Poi dal 2011 al 2017 siamo riusciti a unire due simboli della storia del ciclismo: il velodromo Vigorelli di Milano e il motovelodromo Coppi di Torino. Si partiva e si arrivava fuori da questi due luoghi di culto. Il primo anno in 12 al via, veri pionieri».
Dopo le prime edizioni si decide quindi di dare risalto ai templi del ciclismo, luoghi per antonomasia delle bici a scatto fisso: i velodromi. «Dal 2012 al 2017 - ultima edizione disputata - si è partiti davanti al Vigorelli con arrivo davanti al Coppi. Questo ha contributo, in parte, a spingere le città a fare qualcosa: il Comitato Vigorelli ha fatto un lavoro eccezionale riportando la pista a essere tutelata per sempre ridando alla città di Milano e agli appassionati un luogo che fu di assoluto culto. A Torino l'associazione Pezzi di Motovelodromo ha aiutato a portare avanti un progetto che sfocerà nell'inaugurazione ufficiale del 10 aprile. Il Comune ha istituito un bando per salvaguardare il ciclismo all'interno del Motovelodromo, luogo che con le sue paraboliche da fare a tutta velocità in stile autodromo non potrà essere mai omologato ufficialmente dall'UCI, è vero, ma che diverrà una risorsa importante per chi gira in bici, oltre che situata in un punto strategico». Tutt'intorno, infatti, specifica Riccardo, circa 30 km di ciclabile in sterrato, oltre alle colline: «E di fatto sei praticamente in centro».
La spinta che porta all'ideazione, dunque, è tanto semplice quanto il suo svolgimento: «La mattina del 10 aprile alle 8 si partirà dal Vigorelli. Si attraverseranno otto città della Bassa padana per arrivare a Torino». Semplice, sì, tranne per un piccolo fattore: «Ovviamente non si smetterà mai di pedalare». D'altra parte è questo che sta alla base delle scatto fisso. « Sarà un po' come una competizione gravel dove hai una traccia da seguire. Ma ciò che conta nello spirito di questa manifestazione sarà la possibilità di godersi il viaggio». Qualche ora in libertà su bici a scatto fisso.
Arrivo al motovelodromo, quindi, che tra le tante cose significa un po' un richiamo a una grande classica: «L'arrivo sarà una sorta di piccola Roubaix: da Corso Casale tagli dentro, fai il sottopasso carrabile e arrivi direttamente in pista dove sarai chiamato a effettuare un giro e mezzo prima di tagliare il traguardo». Suggestivo.
Tutto si mescola, resta viva pure la connotazione in stile alley cat, («Alla partenza daremo una card con il logo della manifestazione e il numero scritto dietro: ma questo servirà solo per la birra a fine corsa») mescolata a quella della critical mass: «Fino ad Abbiategrasso - una sorta di km 0 – uscendo dalla città si pedalerà tutti assieme». Con un tocco di ciclismo agonistico: «L'ultimo paese che attraverseremo, Settimo Torinese, sarà lo spartiacque: è un posto che ha un'urbanistica del tutto incasinata. Sarà un po' come il Poggio per la Sanremo. Ogni volta che ci siamo passati io ho fatto una strada diversa. Ho visto ragazzi con una gran gamba saltare in aria di testa dopo aver fatto chilometri su chilometri in più ed essere arrivati alla fine svariati minuti dopo altri partecipanti».
Riccardo specifica come ci sarà una quota d'iscrizione, ma nessun premio: «Vorremmo devolvere il ricavato al fondo di emergenza dei corrieri in bici» e racconta in che modo lui parteciperà: «Con un tandem da pista insieme a un caro amico, un ragazzo non vedente che fece i Giochi paralimpici ad Atlanta '96 nel judo».
E poi, a chiudere, cita una frase simbolo che racchiude lo spirito punk alla base di tutto, lui che definisce la bici a scatto fisso qualcosa che, con il suo minimalismo, resta quanto di più affascinante sa dare il mondo delle due ruote a pedali. "Gamba tonica e rasata, bici in ordine e tutto il necessario per l'autoriparazione in strada. Pillola di cianuro in caso di fallimento." Uno dei consigli, ci dice Riccardo, che arriva dal “Reverendo Marcello” dello storico negozio Ciclistica Milano, ideatore e patron della competizione, pardon della sfida cavalleresca.
La bici, ancora una volta, che sia gioco o competizione, si dimostra il mezzo ideale per portare avanti un pensiero, un punto di vista, attraverso la fantasia, il divertimento, e grazie alla libertà di un gesto tanto semplice quanto liberatorio: pedalare. Che sia a scatto fisso o a ruota libera non importa.
Alla ricerca di se stesso: intervista a Mattia Viel
La bicicletta a Mattia Viel procura un misto di sensazioni. Quando era bambino pedalare era qualcosa che lo avvicinava alla libertà, ma non proprio libertà, forse non è la parola esatta. Forse la sensazione che più si avvicina a quello stato dell'anima è catarsi, liberazione. «Pedalavo come un forsennato: sfogavo rabbia e frustrazione. Iniziai a correre a dieci anni e quello stesso anno persi mia madre; pensavo a lei in ogni momento, vincevo le gare e le dedicavo a lei; ogni gara e ogni allenamento per me erano il mezzo più semplice per evadere da un sentimento oppressivo che mi portavo dentro».
La bicicletta al centro della casa di Mattia Viel l'ha messa suo padre. «La domenica, quando andava a correre, lo aspettavo trepidante. Pensavo a quel mazzo di fiori che avrebbe portato a casa come premio. Lui è una figura centrale della mia vita, sempre presente, ma non una figura ingombrante, quanto fondamentale. Gli episodi della vita mi hanno fatto maturare in fretta, sono andato a correre all'estero che ero ancora un ragazzino (Chambéry CF, in Francia, e poi in Inghilterra con la Holdsworth, ndr), ma lui mi è sempre stato vicino».
Ha vinto tanto fino agli juniores, da professionista si è ritagliato uno spazio da uomo squadra - volate altrui - o spesso lo ritrovavi in fuga - vedi l'ultima Sanremo.
Andava forte anche su pista, dove da allievo si prese il lusso di battere un certo Ganna ai campionati nazionali; una promessa del ciclismo, diremmo enfatizzando, qualcosa in più, qualcosa in meno, difficile capire da quale parte mettersi su quella sottile linea, figurarsi a quell'età. «Perché non ho mai sfondato? Chi può dirlo. Sacrifici ne ho fatti e ne faccio, ma forse il mio approccio al ciclismo era differente. Ho sempre dedicato molto tempo agli studi e grazie a questo mestiere ho conosciuto altri valori, mi sono tolto altre soddisfazioni».
Ha iniziato a pedalare a dieci anni, ma non ha intenzione di smettere ora che ne deve compiere ventisette, dopo aver passato un inverno in cui pareva sul procinto di chiudere la sua avventura agonistica: l'Androni, a fine 2021, non gli ha rinnovato il contratto. «Ho avuto delle offerte, ma non mi soddisfacevano». Perché un conto e ripartire con un rimborso spese e una valigia piena di sogni, quando hai vent'anni, un altro è farlo quando l'attenzione si sposta su altre priorità. «E così sono stato in Sudafrica, dove vive la mia ragazza, e ho iniziato a pedalare fuoristrada, lontano da quei posti che abitualmente percorreresti da stradista, e quando sono tornato a casa mia a Torino ho aperto gli occhi: ma davvero è una vita che pedalo in mezzo al traffico, con i camion che mi sfiorano e gli autisti che suonano il clacson continuamente? Ho iniziato a godermi le pedalate, ho iniziato a essere più libero».
Togliendosi di dosso sensazioni soffocanti. «E ho visto che mi piaceva. Noi siamo fatti per pedalare in mezzo alla natura, per goderci un lungofiume, per fare una salita e vedere un animale che corre, non possiamo rischiare la vita per fare qualcosa che ci piace. E poi c'è talmente tanto caos nella nostra vita che almeno quando esco in bici voglio tornare a una sorta di normalità. Può sembrare scontata come cosa, ma per me non lo è, perché i miei gesti nel ciclismo erano sempre: attaccare il numero alla maglietta e correre, mentre ora mi sto accorgendo di tante cose diverse. Il gravel mi sta insegnando a essere più presente con me stesso e con quello che ci circonda: pedalo e mi godo un paesaggio. Pedali, ma in realtà viaggi: cosa vuoi chiedere di più?».
Pedalare aiuta a riflettere, forse è un fatto di chimica, non lo so. Fatto sta che a Viel viene in mente qualcosa. «Ci tengo a precisare: non sono il primo, nessuna idea rivoluzionaria, ma ho iniziato a creare un progetto intorno al gravel. Ho messo giù un piano cercando collaborazioni con sponsor tecnici, ho contattato aziende interessate, offrendo in cambio feedback, piani legati al marketing: una sorta di ambassador del gravel ma rimanendo competitivo disputando diverse gare. Inizierò a livello europeo e prima o poi mi sposterò anche in America».
E rimanere competitivi fa parte di questo percorso. «Ho portato la mia idea a diverse squadre Continental e la D'amico UM Tools ha sposato il mio progetto. Correrò con loro diverse prove del calendario italiano su strada, anche tra i professionisti, con la libertà però di portare avanti in parallelo la mia attività nel gravel». Una sorta di Lachlan Morton italiano. «Magari! Ci metterei la firma per fare quello che fa lui. Con tutte le differenze del caso: uno degli aspetti più interessanti legati a questa disciplina è che ognuno può sviluppare la sua filosofia in maniera totalmente differente da un altro». Perché ciò che conta è il messaggio. «Peculiare è trasmettere l'idea del fascino del pedalare fuoristrada. Coinvolgere i settori giovanili, quei genitori che vogliono far pedalare i figli ma hanno timore di quello che succede in strada. Oppure dare sbocco a un ex pro che non ha più la possibilità di correre. E puoi farlo in maniera competitiva oppure per goderti semplicemente una bella pedalata».
Mattia Viel ricerca se stesso. Una nuova vita, che non sarà troppo diversa da quella che aveva prima: al centro del suo mondo ci sarà, come gli è sempre accaduto, la bicicletta. «Con l'aiuto di altre persone sto organizzando anche un evento gravel nel canavese che dovrebbe tenersi il 9 ottobre. L'idea è sfruttare al meglio una zona dove la bicicletta è molto sentita, i percorsi si prestano, ma anche per valorizzare da un punto di vista culturale il territorio. Questa è poi una delle filosofie principali che ruotano attorno a questa disciplina e sarà uno degli elementi principali che alimenteranno il fuoco delle mie azioni».
Quando Mattia mi racconta che oltre a correre su strada e iniziare a correre nel gravel, durante il lockdown ha aperto insieme alla sua compagna un'attività legata al ciclismo («Che si occupa di riabilitazione post infortunio, esercizi posturali e programmi fitness, stretching e massaggio sportivo»), interrompo bruscamente la nostra chiacchierata definendolo: “Un vulcano di idee”. Mattia tira un sospiro, sorride – almeno credo, ma spesso si scrive così, o comunque è stata questa la sensazione da una parte all'altra del telefono – e afferma: «Ero! un vulcano idee, ora quel vulcano sta dormendo: è arrivato il momento di concretizzare».
È arrivato il momento di cercare se stessi. Sempre in bicicletta, come fa da quando aveva dieci anni e viveva quel misto di sensazioni.
L'avventura di Velzna Trail
Chi parteciperà a Velzna Trail, il 23 aprile, dovrà provare a sentirsi parte della natura, a guardarsi da fuori e a vedere quanto una bicicletta che scorre su una strada sterrata stia bene in quella natura. Marco, Simone e Nicola l’hanno pensata così. Velzna è l’antico nome etrusco di Orvieto e quest’esperienza ha molto a che vedere con Orvieto: «Si parte e si arriva lì- ci dice Simone- ma in realtà c’è di più. Orvieto è questa essenzialità, quella della natura, del paesaggio, di una rupe scoscesa o di una strada romana per arrivare al mare. Quando esci di casa e senti che non ti manca nulla, magari c’è poco ma tutto l’essenziale».
Forse anche Amatrice era così, forse per questo qualcuno nel fine settimana prendeva la moto e ci andava. Lo ha fatto anche Simone e quel giorno Amatrice gli era piaciuta. Oggi, dopo il terremoto, Amatrice è l’insieme di tutto ciò che manca. Di chi manca. Amatrice è assenza. Marco ad Amatrice ha perso Matteo, suo fratello, che quel giorno era lì con Barbara, sua moglie. Di quel ragazzo è rimasta la bicicletta e Marco pedala su quei pedali, siede su quella sella. Simone ci racconta che vedere quella bici ancora per la città smuove qualcosa dentro. Marco e i suoi genitori hanno trasformato quel dolore, non hanno lasciato che li rovinasse, che li incattivisse. Come Matteo che, quando non riusciva più a pedalare a causa dei morsi dell’acido lattico in bici, non se la prendeva quasi mai: «È bello lo stesso. Certo, senza dolore sarebbe meglio. Ma guarda che bel paesaggio».
Velzna Trail cerca lo stesso sguardo. «Certe volte- prosegue Simone- quando pedalo sulle strade antiche, penso che non ce le meritiamo. Perché non ne abbiamo avuto cura. Per cambiare qualcosa, dovremmo iniziare a guardare ciò che c’è sempre stato e a dirci che è bello anche se non lo avevamo mai notato. È un obbligo morale nei confronti del passato». Così sarà bello arrivare al mare con quelle mountain Bike o quelle bici gravel e andare nella casa sul mare di Nicola per un buon ristoro. Ognuno fa quello che può per Velzna Trail e sa che basta, purché sia genuino, purché sia vero. Basta anche un solo tramezzino. Andare in bicicletta, in fondo, è cercare questa semplicità e magari trovare altro.
Nicola, ad esempio. Che viene dalla Sicilia e la prima volta che si è presentato all’Argentario per una pedalata era coperto come fosse inverno, nonostante ci fossero venti gradi. Poi ha scoperto quelle strade e ne è diventato una sorta di custode e immagina spesso strade nuove da visitare. Ha disegnato lui Velzna Trail e chi vuole fare un giro in bicicletta gli telefona e gli chiede se quella strada è stata riaperta o se c’è una via nuova, mai vista, per arrivare là.
«Quando si sente troppo forte, gli ricordiamo quel primo giorno» scherza Simone. In realtà però passare da quelle strade servirà anche a questo, a tornare a sentirsi piccoli rispetto a ciò che c’è attorno. Da Orvieto verso il Tirreno, poi Volsinii, Bolsena e ancora Orvieto, un percorso ad anello per permettere a chiunque di scegliere dove e quando fermarsi, per dire a chiunque che il tempo, quel giorno, non conta più di tanto. Il raccolto andrà all’Associazione 3.36, come l’ora di quel terremoto, per Matteo, per Barbara e per la ricerca per la Fibrosi Cistica.
«Quando pedali accanto a una rupe capisci chi sei, in realtà. La bicicletta ti riporta l’umiltà». Anche per quanto si fa fatica perché «quelle strade non tengono minimamente conto della pendenza. Chissà, forse agli antichi non interessava. Se volevano andare da un punto all’altro, ci andavano a prescindere». E a quella fatica non si può dare un significato, ognuno darà il proprio, ciò che conta è darsi una ragione per farla. Magari guardarsi attorno, mentre non ce la fai più, e dire: «Ma guarda che bel paesaggio».
Il quadruplo Everesting di Zico
Giacomo Pieri è un artigiano, un carpentiere. Gli amici lo chiamano Zico, forse anche in qualche cantiere. Zico, sin da ragazzo, andava nei cantieri e, quando tornava a casa, pensava che avrebbe voluto essere uno sportivo ma «come fa un artigiano a fare sport ad alti livelli?». Perché gli artigiani arrivano a casa stanchi la sera, di testa e di fisico, non possono permettersi tanti fronzoli.
«Quando parlo con i ragazzi vedo che hanno fame di traguardi da raggiungere. Però hanno anche la stessa mia paura di non farcela, quella che mi faceva dire che un artigiano come me non sarebbe andato da nessuna parte, perché presi in tante faccende, in tante aspettative da rispettare. Spesso non ce la facciamo perché siamo distratti, perché, in fondo, siamo i primi a non credere a ciò che vogliamo fare». Zico, pur di crederci, lavorava in cantiere a Terni dalle sei del mattino e andava ad allenarsi alle tre di notte.
Pensate che due anni fa ha effettuato il quadruplo Everesting. Ha pedalato per circa sessantacinque ore, sul Monte Petrano e ha raggiunto un’altitudine pari a quattro volte quella dell’Everest. Ci è riuscito, eppure parla del valore della sconfitta. «Quando sono riuscito a far diventare lo sport una parte del mio lavoro, il mio ego ha iniziato ad espandersi. Così fiero di me. La realtà è che quell’ego ti impedisce di crescere, perché per non ferirlo accetterai di fare solo ciò che lo accrescerà». Solo dieci anni fa, Pieri non avrebbe nemmeno iniziato l’Everesting, perché ce lo dice: «È molto più facile non riuscire che riuscire e un egocentrico non lo accetta».
La svolta a Zurigo, quando, nel 2012, un virus gli impedì di prendere parte a un evento che aveva preparato per mesi. Quel virus non era casuale, il suo corpo era indebolito da tutte le paure che si portava dietro, da ciò che non sapeva fare. «Alla base del Monte Petrano, forse, avrei dovuto concentrarmi e non parlare con nessuno. Ogni tanto gli atleti fanno così prima di una prova importante. Io invece cercavo le persone, cercavo di parlare con loro. Ciò che successe in Svizzera accadde perché vivevo male il mio essere atleta, mi concentravo sulle cose sbagliate. Dopo averlo tanto voluto, rovinavo tutto».
Così Zico sa che la sconfitta accade, ma il percorso resta. E quel percorso è fatto soprattutto di conoscenza di ciò che non sei e non sarai mai. In psicologia la chiamano anticipazione del negativo. Non è pessimismo, è consapevolezza. «Sono partito con un infortunio al piede a causa di un chiodo, sul lavoro. Però sono partito lo stesso. Se il mio corpo non ce l’avesse fatta, mi avrebbe dato segnali per fermarmi e l’avrei ascoltato. È sbagliato, però, ascoltare una mente che cerca scuse per non provarci nemmeno. Che, proteggendoti dalla delusione, ti fa chiudere».
La seconda notte la crisi di sonno, dura, brutta. Ma Zico se l’aspetta, sa che arriverà e, proprio per questo, sa anche che passerà. «Devi dirti la verità, a qualunque costo. Un uomo che dorme quaranta minuti in una notte e continua a faticare, prima o poi, va in crisi. L’errore è negarlo o sperare che non accada. L’illusione che tu sia diverso dagli altri. Devi sapere che ti accadrà e passerà».
Oggi che tutti gli dicono che è “l’uomo del quadruplo Everesting” lui risponde parlando del concetto di fatica, che cambia nel tempo e che il suo primo lavoro, quello di artigiano, gli ha fatto conoscere nei meccanismi più fini. La fatica principale, forse, è quella del confronto con se stessi, accettando la possibilità che non si sia capaci di fare quella cosa, che non ci si riesca o che non ci si riesca ancora. Per arrivare a capire che, prima dell’Everesting, bisogna ricordare altro: «La fatica maggiore è quella mentale. Quando stai facendo la prima scalata e pensi alla seconda, quando vivi proiettato a ciò che accadrà. Non serve scalare l’Everest quattro volte, ma serve capire che, se non buttiamo energie per ciò che non possiamo cambiare, avremo molta più possibilità di faticare per ciò che, invece, possiamo modificare. E da cambiare, attorno, c’è molto».
In bicicletta da Lampedusa a Capo Nord
C’era un padre, maresciallo di Polizia, a Palermo, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, la sua seicento e quella Graziella che caricava nel bagagliaio per portare il figlio a Villa Giulia, a pedalare. Per Domenico Romano, per tanto tempo, la bicicletta era il mezzo che gli restituiva papà, in quella Palermo difficile. E oggi, che anche Domenico è maresciallo della Guardia di Finanza, quei giorni sono ancora lì.
«La bicicletta è un modo di giocare anche da grandi, perché spesso è uno dei primi giochi da bambini e l’ultimo che si abbandona da anziani» dice così mentre si reca al lavoro in una mattinata dai contorni grigi nella sua città, Spadafora, in provincia di Messina. Da qualche giorno ha deciso che il 6 giugno partirà da Lampedusa verso Capo Nord: 7000 chilometri e trentacinque giorni di viaggio. Ha deciso e lo ha detto forte e chiaro «perché non sai quante cose pensiamo e progettiamo senza realizzarle. Credo accada perché non le diciamo a nessuno e, se nessuno le sa, ci sentiamo autorizzati a rimandare. Lasciamo la porta aperta dietro di noi per fuggire. Invece quella porta va chiusa».
Qualche anno fa, Domenico era partito dalla Sicilia verso Londra, sempre in bicicletta, per andare da suo figlio. L’aveva fatto per una scommessa, ma soprattutto per dire qualcosa ai suoi figli e ai ragazzi che hanno l’età dei suoi figli. «Tutti vogliamo stare meglio e avere più possibilità, fare carriera magari. La realtà è che tutti lo vogliamo ma pochi sono disposti a fare ciò che serve per arrivarci. Perché costa fatica». Romano dice che la fatica, spesso, non è ben vista nella società di oggi, sembra qualcosa che aggiunge un peso, che ti blocca perché «devi faticare. Vorrei sdoganare l’idea che la fatica può essere bella. Chiamiamola impegno, l’impegno che serve per arrivare a Calais in bicicletta o a Capo Nord. È bello perché sai che puoi arrivare. Nella vita di ogni giorno vale lo stesso, anche se spesso si fa fatica per cose più brutte, più difficili».
Quando ha pensato al viaggio a Capo Nord, ha pensato che sarebbe partito da Lampedusa «perché per tante persone in mare, purtroppo, è un miraggio quella città» e che sarebbe arrivato a Capo Nord «perché per chi pedala è un sogno arrivarci in bici». Il viaggio toccherà luoghi simbolo d’Europa, nel bene e nel male. «Saremo in due. Abbiamo allungato l’itinerario per passare da Auschwitz, il luogo in cui ogni valore umano è stato negato, ogni rispetto. Ma passeremo anche da Rovaniemi, dove c’è la casa di Babbo Natale, dove si crede al regalo come simbolo per rendere felice una persona. Alla sorpresa». Ci sarà la scoperta dei paesi e quella della condivisione, dell’incoraggiamento e dell’ascolto dei momenti di difficoltà altrui, consapevoli che serve davvero poco per fare coraggio.
Di problemi, in un viaggio così lungo, ce ne saranno. Domenico lo sa bene, ma non sopporta le lamentele: «Solo l’idea di partire per un viaggio comporta problemi: dal preparare il mezzo, alle borse, al meteo. Se ne affronta uno per volta e si cerca una soluzione e, visti singolarmente, quasi tutti i problemi sono risolvibili. Non ci sono altre vie».
Da questo viaggio, Domenico vorrebbe portare qualcosa alla sua terra. «In Sicilia c’è tutto ma, spesso, scegliamo di incatenarci a un pregiudizio, a ciò che viene raccontato. Nello scorso viaggio, all’imbarco di Calais, fra tanti stranieri ho trovato una famiglia di italiani, di Noto. Mi hanno lasciato passare davanti perché pioveva e con la bicicletta mi sarei lavato. Mi hanno cercato in mezzo a tutta la gente mentre ero seduto a terra, senza posto. Hanno diviso con me la loro pastasciutta, senza che chiedessi nulla. Vorrei portare questa consapevolezza, ciò che possiamo essere, se solo lo vogliamo».
Aspettando Patagonia Alvento
Ci sarà da attendere ancora per vivere Patagonia Alvento, ma anche nell'attesa c'è qualcosa di speciale. «Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca epistolare e quando ero adolescente- ci racconta Willy Mulonia- al ritorno da scuola, trovavo le lettere a me indirizzate nella cucina dei miei genitori, sul tavolo. Le prendevo, le portavo in camera, non le aprivo subito. Aspettavo ore, qualche volta giorni. Nell'attesa c'è tutto ciò che vivrai, la fantasia, i timori e anche la felicità. Quando partiremo per la Patagonia, sarà come aprire una di quelle lettere». Le norme entrate in vigore nel nostro paese il 25 ottobre non consentono, a causa della pandemia, di viaggiare verso l'Argentina, a meno che si tratti di motivi di lavoro. Il 15 dicembre il governo le rivedrà e deciderà se cambiare qualcosa ma decidere questa volta è stata soprattutto una questione di rispetto. «Ci spiace rimandare di un anno questo viaggio, non avremmo mai voluto, ma, ad un certo punto, devi prenderti la responsabilità di decidere, anche se fa male. Non potevamo tenere tutti gli iscritti col dubbio fino a metà dicembre, non sarebbe stato corretto. Patagonia Alvento si svolgerà, con le stesse date, nel 2022. Abbiamo scelto, sofferto, ma ora sappiamo dove guardare».
Willy Mulonia ha voluto parlare personalmente con gli iscritti, ha voluto spiegare loro cosa stava accadendo: anche questo rientra nella correttezza, nella fiducia a cui Willy tiene da sempre. «Mi hanno ascoltato e hanno capito. Avrebbero potuto cancellare il viaggio, farci altre richieste, invece no. Si sono fidati quando ho detto loro che in Patagonia ci andremo e ci andremo assieme, solo più tardi. Mi hanno solo fatto una domanda: “Nel frattempo non possiamo fare nulla? Perché non ci accompagni in qualche luogo mentre aspettiamo?”. Willy Mulonia ci aveva già pensato, un progetto era lì, pronto. Si chiama Al-Ándalus Bikepacking Light ed è un viaggio attraverso l'Andalusia, partendo da Granada, un viaggio che inizierà a gennaio, dal 2 al 9, per cui ci sono ancora alcuni posti disponibili.
«Da Granada ci dirigeremo verso il cuore dell'Andalusia e poi verso i deserti di Gorafe e Tabernas, luoghi spettacolari. Gli stessi scenari dell’ultima Badlands. Se qualcuno si ritrovasse lì senza saperlo, penserebbe di essere dall'altra parte del mondo. In realtà bastano un paio d'ore di volo e c'è tutta la possibilità di emozionarsi». Dalla cultura secolare delle città, ai luoghi dei film Western di Sergio Leone, sino alle grotte in pietra in cui vivono le famiglie nei pressi del Gorafe. «Ci sono stato questa estate, è affascinante. La temperatura resta costante a sedici gradi, in inverno e in estate. C'è qualcosa in quelle grotte, si dorme benissimo. Una tranquillità rara». Sarà bello e soprattutto sarà un'opportunità perché il viaggio è una cosa seria, una cosa per cui essere pronti. «Bisogna conoscere e conoscersi. Non devi essere solamente tu ad attraversare la Patagonia, deve essere la Patagonia ad entrarti dentro e ad attraversarti. Non è facile, per viverlo bisogna riscoprire l'animo del viaggiatore, non quello del turista. Un viaggio che cambia perché ti cambia. Lui cambia il suo significato, tu torni a casa diverso perché hai capito. In Andalusia proverò a spiegare questo a chi sarà con me».
Per questo Willy non chiede quasi mai a chi torna da un viaggio se gli sia piaciuto, chiede le emozioni che ha provato. Perché dire “è stato bello” non basta, perché la bellezza è soggettiva, anche le emozioni lo sono, però tutti riescono a intuirle, a immaginarle, chiunque si trovi davanti una persona emozionata lo capisce. A gennaio accadrà questo: «L'animo del viaggiatore ha a che vedere con lo scoprire, l'emozionarsi, con l'imparare a non aver paura dell'ignoto, di ciò che non conosciamo. Sarò guida ma non nel senso che tutti intendiamo, non parlerò di dati, numeri e nomi. A essere sincero non parlerò nemmeno più di tanto. Darò alle persone la possibilità di aprirsi e tirare fuori ciò che hanno già dentro. In quel momento sarò lì, ad ascoltare. Sarò un co-pilota». Willy Mulonia risponderà a tutte le persone che gli scriveranno per chiedere informazioni, ma il suo ruolo cambierà. All'inizio sarà consulente, assistente, per aiutare i viaggiatori a preparare la bicicletta o a prenotare un volo, poi diventerà mentore, consigliere, qualcuno che, attraverso la situazione creatasi, porrà domande e aiuterà a cercare risposte già presenti. Solo nascoste.
Ci sarà l'entusiasmo della partenza, la curiosità della conoscenza, il fascino della Spagna e dei suoi angoli più suggestivi, la meraviglia del viaggio che ritorna dopo tanto tempo e quella dell'attesa di un altro viaggio, dietro l'angolo. Soprattutto ci sarà la voglia di scoprire ciò che sta dentro per riuscire a guardare ciò che sta fuori.
Alfabeto Marche
Come dice il plurale del nome, le Marche sono tante, magari non milioni di milioni ma comunque molte più di una. Del resto vuoi mettere il gusto di un ciaùscolo, anche di uno solo contro un intero esercito di “negronetti”?
Siccome le Marche sono tante non basterebbe di certo un alfabeto a elencarle, a descriverle, a raccontarle.
Come si fa ad abbracciarle tutte, le Marche? C’è un modo intelligente e appassionante per abbracciare, e conoscere le Marche, se non tutte, almeno un bel po’.
Quale? Andarci in bicicletta.
Ma come? Le Marche sono tutte un su e giù? Come è possibile? Ci vuole un fisico bestiale!
Vi assicuro che non è così. Date retta a NoiMarche BikeLife, il progetto di proposta cicloturistica messo in piedi da un protocollo di 28 comuni marchigiani per “mappare” decine e decine di itinerari permanenti adatti a tutti i tipi di biciclette e, soprattutto, di gambe e polmoni.
Il 23 e il 24 ottobre scorso 25 blogger, giornalisti ed amministratori locali, suddivisi in tre gruppi di pedalatori, hanno percorso 500 km alla scoperta dei territori dei 28 comuni marchigiani consorziati nel progetto NoiMarche BikeLife.
Questo che leggete qui di seguito, in forma di parziale abbecedario, è solo un piccolo assaggio dei luoghi, delle storie, delle bellezze, delle golosità e e delle curiosità che ho incontrato lungo la strada.
A come Apiro e altri toponimi
Nelle Marche mi hanno affascinato i nomi dei posti, dei comuni e dei borghi, delle frazioni e di tutte le denominazioni geografiche del territorio marchigiano. Se non l’avessimo capito dalle pendenze – che, per carità, si possono fare anche senza troppo affanno, soprattutto se, come me, vi siete fatti dare una e-bike – che i borghi marchigiani stanno per lo più abbarbicati sulla cima di una collina, i cartelli stradali sono lì ricordarcelo: Montegranaro, Montegiorgio, Monsampietro e Monsano. Oltre a un probabilmente più pedalabile Colmurano, c’è pure Monte Urano, che mi fa venir la voglia di farci arrivare una tappa del “primo Giro planetario d’Italia” che un giorno vorrei tanto organizzare con Stefano Bartezzaghi: da Portovenere (SP) a Castelmarte (MB), da Roveré della Luna (TN) a Solarolo (RA), da Giove (TR) a Saturnia (GR), da Nettuno (Roma) a un comune a caso della Valle del Mercure, in provincia di Potenza. Sassotetto, sui Monti Sibillini, mi pare il luogo perfetto per farci arrivare un traguardo in salita, cosa che infatti da qualche anno succede alla Tirreno-Adriatico. Sempre a proposito di altimetrie Penna San Giovanni trae il suo toponimo da pen, antica parola romana - ovvero di una lingua preesistente all'affermazione del latino -, che significa altura, luogo posto in alto, montagna: da cui deriva anche Appennino. Mentre pedalavo in salita ho visto un cartello e mi sono illuso che fosse lì per me: diceva ATLETA. Ho ringraziato per la stima, o l’incitamento, ma mi sbagliavo. Era la segnaletica di Alteta, tra Grottazzolina e Francavilla d’Ete (che pure hanno la loro bella fantasia). Scendendo salendo da Fiastra costeggiando i crinali nord sempre dei dei Monti Sibillini ho visto un’indicazione per Colpodalla, un posto per volatili che per velocipedi. E per finire ecco Apiro: fantasticando di etimologie mi ero fatto convinto che il suo significato spiegasse l'arcano della canzone di Ivan Graziani di cui potete leggere in questo breve, incompleto Alfabeto Marche, alla lettera I: ovvero un villaggio dimenticato da Promoeteo dove, alla greca, non si conoscesse l'uso del fuoco: a+ pyros. Mi hanno spiegato che invece deriva dal latino e da un grande albero di pero che un tempo si stagliava sul crinale e indicava il luogo (ad pirum, al pero) dove poi sorse il paese. Abbozzando sono caduto dal pero. Ma per fortuna non dalla bici..
B come Boccascena
In teatro il boccascena è l’apertura del palcoscenico sulla platea. Le Marche, in quanto a memoria e conservazione degli spazi teatrali, sono una regione speciale: non è un caso che siano chiamate “la regione dei cento teatri”. Tra Sette e Ottocento, nella grande stagione del melodramma italiano, moltissimi comuni marchigiani si sono dotati di uno spazio collettivo teatrale e molti di questi sono rimasti in vita e in uso, splendidamente conservati e felicemente praticati. Io ho avuto modo di vederne solo due: a Montegiorgio il Teatro Alaleona – dove non ci troverete a recitare Alaphilippe e Cipollini – e il minuscolo Teatro Flora, costruito interamente in legno, a Penna San Giovanni.
C come Carlo il Grosso
Nel primo entroterra di Sant’Elpidio al Mare e Casette d’Ete, sorge la basilica imperiale di Santa Croce al Chienti. Un nome assai impegnativo: perché, innanzitutto, “imperiale”? Perché pare venne consacrata già fin dall’887 da Carlo il Grosso imperatore del Sacro Romano Impero, figlio di Ludovico il Germanico, nipote di Ludovico il Pio e bisnipote nientepopodimenoché di Carlo Magno. Quasi un secolo dopo, nel 968, passa sotto il diretto controllo di un altro imperatore germanico, Ottone I, e crebbe d’importanza per tutto il periodo detto appunto ottoniano, fino alla fine del X secolo. Un’altra leggenda, pare però senza molti fondamenti storici, addirittura colloca qui un palazzo eretto per volere dello stesso Carlomagno.
E come Ete
È il nome di un fiume, a regime torrentizio, come molti appenninici. Il corso è breve quanto il suo nome: circa una quarantina di chilometri, dalle sorgenti alla confluenza nel Chienti, proprio in prossimità della basilica di Santa Croce. Ma di Ete ce ne sono due: questo l’Ete Morto, che venne deviato nel suo corso originale fin dal XVIII secolo. L’altro, l’Ete Vivo, lungo pochi chilometri in meno, sfocia però direttamente nell’Adriatico, a Porto San Giorgio.
F come Falerone
A guardarlo dall’alto, da una mappa zenitale, Falerone sembra una biscia, allungata sul crinale della collina. Sarà forse per questo che l’antico insediamento, che risale all’epoca romana come attesta il vicino sito archeologico di Falerio Picenus, con tanto di Teatro e Anfiteatro romani, e ricco museo archeologico, ha tra i suoi simboli Lu serpe de Falerò, un dolce prenatalizio fatto a forma di biscia che tende a mangiarsi la coda.
G come Gismondi
Montegranaro è il paese di Michele Gismondi, che dal 1952 al 1959 è stato uno dei più fedeli gregari di Fausto Coppi. Grande amico anche fuori dalle corse, nel pieno dello scandalo del processo per adulterio alla Dama Bianca, Gismondi ospitò a casa sua Giulia Occhini, dopo la sua breve ma umiliante reclusione per adulterio. Per ironia della sorte – ma neanche poi tanto, conoscendo la generosità dei Gismondi – oggi a Montegranaro vive Gioia Bartali, nipote del grande Gino. Gastone Gismondi, nipote di Michele, è stato per anni sindaco di Montegranaro, nonché instancabile promotore delle attività ciclistiche locali.
I come Ivan Graziani
Ivan Graziani, teramano di origine, venne adottato dalle Marche fin dagli anni della scuola all’istituto d’arte di Ascoli Piceno e poi della casa di Novafeltria, dove morì il 1° gennaio 1997, a soli 51 anni. Le sue canzoni, quasi tutte, secondo me assomigliano al paesaggio delle Marche: un moto ondoso di parole e musica. Una di quelle che mi piace di più si intitola Fuoco sulla collina e mi ha accompagnato sulla strada tutte le volte che s’impennava verso un crinale e un nuovo panorama.
J come Jesi
Nel 2022 il Giro d’Italia avrà come tappa di arrivo Jesi, città di fuoriclasse, da Federico II di Svevia a Roberto Mancini e Valentina Vezzali. La corsa rosa sarà ancora una volta uno straordinario spot internazionale per mostrare a tutti le bellezze delle Marche.
L come Licini
Osvaldo Licini è uno dei pittori del Novecento a cui voglio più bene. Non saprei spiegare il perché, ma le sue forme e i suoi colori di un astrattismo pieno di sogni. I suoi angeli, in particolare, mi sono sempre sembrati che fossero disegnati per prendersi cura di chi li guardava. Licini ebbe una vita piena di incontri e di luoghi: Bologna, poi Firenze e il futurismo, la Grande Guerra e poi Parigi e i grandi pittori e scrittori del Novecento: Picasso e Modigliani, Jean Cocteau e Blaise Cendrars; quindi la stagione dell’astrattismo, con Lucio Fontana, Fausto Melotti, Atanasio Soldati e Luigi Veronesi; e ancora l’incontro con Kandinskij. Ma il suo ombelico è sempre stato Monte Vidon Corrado, il paese dove nacque, e dove dal 1946 e per buona parte del primo dopoguerra fu anche sindaco. E dove oggi hanno sede un centro studi a lui dedicato e un’affascinante casa-museo.
M come Michele Scarponi
Un altro che ci si sente pedalare accanto sulle strade delle Marche è Michele Scarponi. La sua faccia da schiaffi, la sua risata forte, la simpatia contagiosa… In realtà è vero che ce lo si sente accanto perché l’attività della Fondazione a lui intitolata, e che guidata con passione e determinazione da Marco, il fratello, è attivissima nelle iniziative per l’educazione del corretto comportamento stradale e del rispetto delle regole a tutela dei più fragili.
N come numeri
28 comuni marchigiani che hanno sottoscritto il protocollo d’intenti NoiMarche BikeLife per promuovere il cicloturismo nella regione: Apiro, Appignano, Cingoli, Civitanova Marche, Colmurano, Falconara Marittima, Falerone, Fiastra, Francavilla d’Ete, Grottazzolina, Gualdo, Jesi, Loro Piceno, Macerata. Matelica, Monsano, Montegiorgio, Montegranaro, Morrovalle, Penna San Giovanni, Potenza Picena, Ripe San Ginesio, San Ginesio, San Severino Marche, Sant’Angelo in Pontano, Sarnano, Treia, Urbisaglia. 9 servizi di bike transport; 26 servizi di noleggio bici; 37 guide e accompagnatori turistici; 36 associazioni ciclistiche; 40 officine di riparazione e ricambi e negozi di biciclette e abbigliamento; 2 officine mobili.
O come Ombelico
Sono salito su una collina che sembra davvero di stare nell’ombelico delle Marche. È la collina che sta alle spalle dell’Officina del Sole, una tenuta nella campagna di Montegiorgio, dove abbiamo ben dormito, ben mangiato e ancora meglio bevuto. La collina sulla quale sono salito alla mattina presto, tra i vigneti di Passerina, Verdicchio e Chardonnay, per vedere spuntare il sole spazia il suo orizzonte tutto intorno, dal Conero ai Sibillini: il vino che fanno lì, uno Spumante Brut, metodo Charmat, ottenuto da un blend delle uve dintorno, raccolte da fine agosto a fine settembre, non poteva che chiamarsi Trecentossessanta, come i gradi con cui lo sguardo abbraccia il paesaggio dei colli marchigiani.
P come Petronilla
Oltre a formare col marito Arcibaldo la coppia più longeva del fumetto americano (1913, e dal 1921 sul “Corrierino dei Piccoli”), Petronilla era una santa. Ed è la patrona di Grottazzolina, che le aveva intitolato la primigenia chiesa del Ss. Sacramento e del Rosario, ora sfolgorante di stucchi e decori policromi. Si dice che Petronilla martire fosse la figlia (carnale o spirituale, non si è capito) di San Pietro Apostolo. Passa anche per essere protettrice dei delfini di Francia (intesi non come cetacei transalpini, ma eredi al trono, quando ancora ne esisteva uno) e, come dice la guida locale, viene invocata per tenere lontane le pulci.
R come Romolo Murri
A Gualdo si trova il Centro studi dedicato a Romolo Murri. Non è che andando in giro in bici, con le braghe fondellate e i lycra aderente a segnare i fianchi non proprio sciancrati, si sia sempre della predisposizione migliore a farsi incuriosire dai luoghi pieni di libri, documenti, archivi. Tanto più se si tratta della storia di un prete spretato, travolto dalla passione della politica. Eppure, a Romolo Murri, nato a Monte San Pietrangeli nel 1870, e morto a Roma nel 1944, dobbiamo forse un po’ di attenzione se non altro per il fatto che s’inventò la Democrazia cristiana in anticipo di vent’anni sui tempi storici. E questo gli costò appunto l’ostracismo del Vaticano e tanti altri preclusioni. Però, se abbiamo corso il rischio di “morire democristiani”, un rischio che, mi viene da pensare oggi, quasi trent’anni dopo, col senno di poi, quasi quasi avrei corso volentieri, possiamo ben dirlo che lo dobbiamo in parte a Romolo Murri e una sosta a Gualdo, dove il terremoto del 2016 ha tolto il pennacchio al campanile, è doveroso farla.
S come Sarnano
Sarnano è una delle porte dei Sibillini. Ed è una porta girevole, tante sono le faccende in cui i sarnanesi sono affaccendati. Innanzitutto, anche a fronte delle difficoltà del terremoto, non si sono lasciati perdere d’animo, quasi che non volessero piangere sulle proprie sventure. In pochi anni si sono messi a ricostruire il paese, e mettendolo in sicurezza, facendo così in modo che la cittadinanza rimanesse legata al proprio luogo d’origine. E poi si sono vocati a un’attività di promozione del territorio come grande risorsa di turismo outdoor, che ha nel ciclismo – in tutte le sue declinazioni: la strada, il gravel, la mountain-bike e il downhill – una sfera di eccellenza. Decine e decine gli itinerari tracciati, moltissime le guide che si sono specializzate nell’accompagnamento di ciclisti e cicloturisti su percorsi della più varia natura e impegno. Luca Piergentili, sindaco di Sarnano, senza banda tricolore e senza cravatta, è la faccia di questo proficuo affaccendarsi per fare di Sarnano e dintorni una meta per gli appassionati delle due ruote, punto di partenza di numerose escursioni in quota, sui Sibillini, o sulle panoramiche strade di cresta delle colline circostanti.
T come Tiralento
Dicesi “Tiralento” di un ciclista dall’andatura cosi incerta da non si riesce a capire se avanzi o stia facendo un mimico esercizio di surplace, un Jacques Tati che scivola, da un Jour de Fête, dentro al Giro. Così mi ha spiegato Gianni Traini che, a Grottazzolina, di Tiralento, piccola azienda artigianale di abbigliamento, accessori e scarpe per il ciclismo, è il titolare. Capelli lunghi e grigi alla capo Comanche, Gianni, da quattro anni, insieme al fratello Giuliano, giornalista, disegnatore, collezionista di pezzi rari della storia del ciclismo (fotografie, riviste, memorabilia e quant’altro possa star dentro la sua curiosa voracita), ha concretizzato un sogno: produrre con le proprie mani gli oggetti dei loro sogni. Gianni e Giuliano sono cresciuti a pane e bicicletta sui colli marchigiani nell’entroterra di Porto Sant’Elpidio. Poi le loro vite hanno preso strade diverse: Gianni imprenditore nel settore trattamento metalli; Giuliano giornalista a Milano. Ma il legame con il loro territorio e le loro passioni e rimasto forte ed e riemerso, come un fiume carsico, nel progetto Tiralento. Se esiste un’eta dell’oro del ciclismo e quell’arco temporale che va dal secondo dopoguerra alla meta degli anni Settanta, e Tiralento e un omaggio a quella stagione di campioni e costruttori, corse e icone. Fanno maglie come le si faceva quando esisteva ancora l’artigianato tessile e si lavorava con filati e telai, non con materiali sintetici e macchine da stampa; fanno scarpette e caschetti lavorando il cuoio come i vecchi artigiani di una volta, sagomando a mano e piantando minuscoli chiodini, le “semenze”, nelle suole rinforzate. I loro prodotti non sono similcopie, non sono imitazioni rivisitate: sono proprio “quelle maglie”, “quelle scarpe”. Se c’e un posto dove aleggia il genius loci del ciclismo, questo e Tiralento, Grottazzolina, Marche.
V come Vino Cotto
A Loro Piceno c’è un Museo del Vino Cotto, un prodotto di antichissima tradizione ricavato dalla bollitura del mosto prima della fermentazione. Viene ricavato da uve prevalentemente locali, come la Malvasia e il Montonico, il Pecorino, il Moscatello, lo Zibibbo, il Maceratino, il Galloppa, spesso ricavate da vitigni ad alberate, cioè facendo arrampicare la vite su altri alberi, aceri o altre piante da frutta. Il mosto si riduceva a caldo a un terzo del suo volume (interzatura) e poi messo in botti dove fermentava lentamente fino all’invecchiamento che può durare anni e richiede una cura molto simile a quella delle grandi acetaie dell’aceto balsamico. Oggi il vino cotto, dalle intense sfumature aromatiche, è un vino da meditazione, o da dessert
Vivere e pedalare la 5mila Marche
«Si è alzata la tramontana ieri, copriti». È così presto che riesco a malapena a capire chi sta parlando. Si tratta della signora davanti al cui cancello ho parcheggiato la macchina, alle sei del mattino, a Porto Recanati. Effettivamente fa un freddo insospettabile per una località di mare. Manca un’ora alla partenza della 5mila Marche, ma la signora è stata svegliata dal figlio, che non vede l’ora di andare a vedere la partenza dei ciclisti sul lungomare. Non accade molto altro d’inverno, a Porto Recanati: il weekend della Gran Fondo Nibali, organizzato dall’ex professionista Andrea Tonti, ha riempito questo paesino e tutti quelli limitrofi.
Andando a ritirare numero da attaccare alla bici e mappa, scopro cosa significa “partenza alla francese”: fissata un’ora, in questo caso le 07:00 del mattino, si può partire a quell’ora precisa, ma anche dopo. Senza fretta. La 5mila Marche bisogna prenderla con calma. Si chiama così perché si fanno cinquemila metri di dislivello in più di 250 km: al via si discute se il primo ci metterà più o meno di dieci ore. Mentre ascolto gli altri, penso inorridito che non ho mai pedalato più di nove ore. Non ho mai partecipato a un evento organizzato con altri ciclisti, che grande idea una 250 km per la prima volta! Non ho mai nemmeno pedalato con un numero attaccato alla bicicletta (quest’ultima voce non viene depennata perché non riesco materialmente ad attaccarlo alla bici).
Devo fare in fretta, lo speaker si sta già spendendo in un discorso motivazionale. È vero che si può partire quando si vuole, in sostanza, ma al primo evento della mia vita potrò arrivare in ritardo? Se il sole fosse sorto una dozzina di minuti prima, mi sarei accorto di aver dimenticato in macchina il ciclocomputer. Me lo fa notare un signore con cui inizio a chiacchierare perché sulle appendici del manubrio ha un accessorio di cui devo chiedergli: è un piccolo specchietto retrovisore «che comprai alla classica più bella, la Amstel Gold Race. Ne trovai solo uno, altrimenti ne avrei comprati di più».
Al primo semaforo, dopo pochi chilometri, tutto il gruppo si ferma. Un centinaio abbondante di ciclisti aspetta il verde, senza particolari smanie. La gran parte di noi è partita col buio e arriverà col buio. Lo strappo che da San Girio porta a Potenza Picena è la prima salita di giornata. Ci lasciamo sulla destra la via Contrada Crocefissetto che siamo già impiccati al rapporto più leggero. Johnny, invece, spinge un rapporto lunghissimo. È alto sui pedali da almeno un paio di minuti, come se la sella scottasse. Ha il casco largo e rosa, gli occhiali, anche in volto assomiglia ad Alberto Bettiol. Ma viene dal Massachusetts. Si è trasferito a Monteriggioni perché «I don’t like America» e non sembra molto in vena di chiacchierare, per il momento mena sui pedali e basta.
Tutto attorno, si svolge la vita normale delle persone. Il furgone del pane, il muratore che fa colazione nel bar sotto casa. Ogni tanto qualcuno ti guarda con un misto di incredulità, stima e sbigottimento. Uscendo da Montelupone, sono tanti i bambini che aspettano lo scuolabus sul cancello di casa, avvolti in sciarpe e piumini che vorremmo avere indosso anche noi.
Francesco ha il k-way nero e giallo della Direct Energie di qualche stagione fa. Stiamo tentando di recuperare un gruppetto in cui l’ultimo ha raffigurato, sulle tasche posteriori della maglia, il volto della Madonna. Dimenticato il navigatore, devo sempre stare con qualcuno che conosce la strada, per non perdermi. Ne battezzo un paio con la maglia del Pedale Lecchese. Esperti. Uno sta distanziando l’altro all’ingresso di Macerata e il secondo, il meno giovane, ha tutto il tempo di raccontarmi di lui e della bici. Non è alla sua prima randonnée, anzi in passato ha fatto la «Parigi-Brest-Parigi, la Alps4000 e altre mattate da oltre mille chilometri».
Entrati a Macerata per l’unica manciata di chilometri in un traffico fastidioso, sussulto quando vedo il monumento ai caduti. Su quelle scalinate venne arrestato Luca Traini, il neofascista che si mise a sparare a chi aveva un colore della pelle diverso dal suo. Fortunatamente, continuando a pedalare si prova a dimenticare anche questi orrori.
Si affianca a noi un signore in pensione, Silvio, coi baffoni. Originario di Pandino, tra Lodi e Crema, un «famoso centro per lo smistamento carni, ma ora delle famiglie che gestivano macelli e facevano salami non ne è più rimasta una» dice con un po’ di nostalgia. Qualche anno fa, Pandino ha ospitato alcune riprese di "Chiamami col tuo nome", chissà se Silvio l’ha visto. Non fatica, comunque, a trovare un ciclista originario del lodigiano e sentirli parlare in dialetto diverte tutti.
Riascoltando messaggi vocali mandati prima delle nove del mattino, sento i denti sbattere tra una parola e l’altra. Ulivi, campi arati, alberi ai lati della strada e traffico minimo sono lo sfondo delle prime due ore. Addentrandosi nell’entroterra, si nota, come dice Simone del gruppo con cui condivido questi chilometri, che «nelle Marche non sanno cosa sono i tornanti. Vedono una collina e pensano “ma sì, facciamoci passare una strada dritta per dritta”». È una considerazione certamente parziale, ma certi muri mettono il dubbio. Quello di Pollenza lo vedi arrivare da lontano, sotto le ruote senti ogni grado di pendenza cambiare.
Ottime notizie: siamo in via Gioacchino Murat, quindi – immaginavo affamato e desideroso di fermarmi – vicino a Tolentino, sede del primo gazebo-assistenza. Nel 1815, il re di Napoli subì la sconfitta decisiva nei confronti dell’impero austriaco proprio qui, nel comune di cui si fatica a trovare informazioni online perché omonimo della scrittrice del New Yorker Jia Tolentino. Oltre al cibo, i volontari regalano opuscoletti (quello sulla basilica di San Nicola è fatto davvero bene) e brochure (“Tolentino musei. Arrivi come turista, parti come amico”) su Tolentino, che per qualche strano motivo ho conservato per tutto il viaggio.
Andrea prende subito una bevanda energetica, un panino e siede per terra per mangiare con più calma. Poco prima, sul muro di Pollenza, era stato in grado di descrivermi le differenze tra la mia Bianchi Infinito e la sua Bianchi Oltre, sul cui manubrio ha ben fissato un enorme ciclocomputer che avrebbe indicato la strada fino a Matera. Mi metto in testa di seguire lui, sempre a ruota, fino a che non torneremo a Porto Recanati, ma il piano fallisce presto: Andrea ha già divorato il suo panino quando io non sono ancora a metà e le mie gambe di rimettersi in moto proprio non ne vogliono sapere.
Un tratto speciale della 5mila Marche è quello che collega Tolentino a Sarnano, campo base della prima, vera salita di giornata. Sono una trentina di chilometri con più salita che discesa, con zero traffico e zero pianura perché siamo nelle Marche, con una vista mozzafiato sulle valli circostanti. Per uscire da Tolentino, un bellissimo ponte sul Chienti in selciato. Poi Sarnano, che inganna. Inizia qui la salita di Sassotetto, si sa, ma non subito. Da un paio di chilometri ho tolto il padellone davanti in attesa della salita hors catégorie, ma non comincia. Il cielo s’è fatto nuvoloso e un’indicazione, a bordo strada, spicca sulle altre per bellezza del nome: indica una passeggiata, la Via delle cascate perdute.
Finalmente la salita verso il valico di Santa Maria Maddalena comincia, e forse si stava meglio prima. Si parte da circa 500 m.s.l.m. e si arriva a quasi il triplo. Si parte in gruppo e si arriva sgranati. Si parte con le barrette prese a Tolentino che ancora danno energia, e si arriva che il ristoro in cima è l’unica cosa importante. Alcuni operai stanno rifacendo un terrapieno a lato della strada, ci chiedono se siamo della corsa di Nibali, «certo!» rispondiamo. «Volete un passaggio fino a Porto Recanati, eh?» Ci chiedono senza sapere che a noi interessa viaggiare, non arrivare.
Supero un paio di persone in salita. Uno ha lo zaino e si lamenta in continuazione con se stesso, per non essere stato in grado di vestirsi adeguatamente. D’altronde non è facile: siamo partiti in riva al mare e ora se alziamo gli occhi vediamo cime imbiancate di neve e impianti sciistici. Un altro, proprio a un chilometro dalla cima, ha stracciato la catena. Siede a bordo strada, disperato.
I paletti neri e gialli a bordo strada, quelli che restituiscono inequivocabilmente la sensazione di essere in montagna, si fanno più frequenti. Dopo un tornante verso sinistra, ci si lascia alle spalle lo sperone di roccia rossa, che un local del nostro gruppetto non riesce a ricordare se si chiami Punta di Ragnolo o Pizzo di Meta. Ogni tanto la strada permette di guardare giù, verso valle, e immagine cosa stia succedendo là in basso. Se lo starà chiedendo, solo da molto più in alto, anche Michele Scarponi, la cui stele si trova proprio sul punto di scollinamento del valico di Santa Maria Maddalena. Scarponi ottenne una delle sue vittorie più belle proprio in una tappa che passava da qui: la Civitanova Marche-Camerino della Tirreno-Adriatico 2009, di cui si aggiudicò la classifica generale. «Il mio soprannome è l’Aquila di Filottrano. L’altro giorno, dopo la tappa di Montelupone, il mio compagno Gilberto Simoni mi aveva detto: “Se non vinci ti chiamiamo il Fagiano di Filottrano”».
La stele è in bianco sibillino, «una delle rocce più chiare che ci sono. Poi l’ho incisa e scelto il blu per realizzare un’immagine moderna» mi dirà il giorno dopo l’artista Valentino Giampaoli. Scarponi è rappresentato vittorioso, che indica il cielo, sotto la scritta “correte in bici, divertitevi, inseguite un sogno”. Tira un vento micidiale, che ci costringe a prendere due cose al volo e a ripartire subito. Uso la musette di carta come foglio di giornale sotto la maglietta, ringrazio chi si sta prendendo tanto freddo per rifornirci, e via, in picchiata verso Bolognola e San Lorenzo al Lago. Il primo cartello che si incontra, in realtà, è quello dell’abitato di Pintura: perfetto perché dietro le cime innevate sembrano dipinte per davvero.
In direzione opposta, tante moto storiche, numerate, partecipano a un raduno, una sorta di 5mila Marche a motore. Arrivati al lago di Fiastra, troviamo Andrea fermo sulle scalette di un bar. Poche ore prima mi raccontava di come si fosse stancato, dopo diversi anni vissuti a Bologna, di fare le salite di Mongardino, di Monghidoro, sempre quelle. Va molto forte in bici, Andrea, e ora mi dispiace vederlo fermo a dibattere, sembra proprio, di cose di lavoro al telefono.
Saliamo insieme verso la città universitaria di Camerino, dove perdiamo un’altra occasione per abbandonare la strada più veloce, la provinciale che lambisce solo i paesi, e addentrarci nel centro storico, arroccato su una collina che promette una vista spettacolare. Ma quando hai così tanta strada ancora da fare, allungare è una delle ultime cose a cui pensi. Castelraimondo, Matelica: la SP256 è scorrevole, forse per la prima volta da inizio randonnée facciamo un’ora sopra i 28 km/h di media. Tutto troppo piatto, Francesco? Il meccanico messinese ha fatto buona parte della 5mila Marche con me e ha letto male la traccia: involontariamente, abbiamo tagliato via dal percorso il muro di Brondoleto e Castel Santa Maria. Fanno circa otto chilometri e trecento metri di dislivello in meno. Tante chiacchiere e risate in più.
In “Matelica. I suoi abitanti, il suo dialetto”, Amedeo Bricchi fa uno spaccato del parlato locale dedicandogli paragrafi come “Ciò che della sintassi latina permane nel dialetto matelicese”. È un libro molto complicato e quasi illeggibile da chi non viene da Matelica, ma alcuni passaggi fanno sorridere: «Non è regolare né bella la pronuncia Matèlica con la è aperta, cosa che si riscontra specialmente nella zona di Jesi, Ancora e più a nord, e nelle radio e tv locali di quei territori, e che la Pro Matelica dovrebbe curare di correggere». E ancora, in una nota sui soprannomi della famiglia Carsetti: «Brodolò era il notissimo Antonio, la cui figura di barbiere nella piazza principale è stata per decenni un’istituzione. Quando si sposò, non disse nulla al padre, che venutone a conoscenza lo rimproverò. Imperturbabile, Antonio rispose: “E quando ti sei sposato tu, mi hai detto qualcosa?”. Diceva che sulla sua tomba si doveva scrivere questa epigrafe: Carsetti Antonio non fu mai perverso: non pregate per lui ch’è tempo perso».
Tra Matelica e Pianné, dove la strada inizia a salire verso la seconda vetta terribile di oggi, Monte San Vicino, gli scuolabus stanno riportando a casa i bambini. Braccano è l’ultimo insieme di case, ma non è il classico insieme di case. Ce ne accorgiamo subito, quando su un muro di mattoni vediamo il cartello “paese dei murales” e sulla destra vediamo il primo: una donna con quattro occhi sul muro di una casa, che fissa i randonneur. Una tigre disegnata su una casa gialla, una carpa su un’abitazione color salmone. Catapecchie sfitte rinascono grazie a un po’ di colore. Il murale migliore? Dei panni appesi a un filo, su un balcone di una villetta poco dopo Braccano.
Letizia, un’amica jesina, mi aveva parlato benissimo di Monte San Vicino, ma è ancora più bello di così. La strada rimane in costa per un bel pezzo e si può guardare giù, mentre si sale. Matelica e altri abitati che compongono la valle del fiume Esino (l’unica che abbiamo incontrato che si sviluppa da nord a sud) diventano sempre più piccoli. Una quantità di verde da far impallidire foreste ben più note è illuminata a chiazze dalla poca luca del sole che penetra le nuvole. La cosa da fare sarebbe fermarsi ogni duecento metri e scattare mezz’ora di fotografie, ma la strada chiama: sono una dozzina di chilometri di salita al 7% medio, meno regolare rispetto a Sassotetto. Macchine incrociate in circa un’ora di faticaccia: una.
Avendo mangiato poco a Sassotetto causa freddo, le energie non sono più tante. Ho un ultimo gel e mentre lo apro mi chiedo – siccome è fatto principalmente di acqua, fruttosio e acido citrico – quale sia il verbo più adatto per descrivere l’azione che sto facendo. Si mangia un gel? No, non è abbastanza solido. Si beve un gel? No, non è abbastanza liquido. Si assume un gel? No, non è una medicina. È strana, questa abitudine dei ciclisti, di affidarsi a una sostanza così enigmatica (tra gli ingredienti, sul retro, leggo cloridrato di tiamina: che diavoleria sarebbe?) eppure così indispensabile. Me ne cade una goccia sul manubrio e pur di non assumere quelle tre calorie la raccolgo col dito e me lo metto in bocca. Ognuno ha il suo rapporto coi gel: a me, per esempio, non fanno sentire le gambe per una ventina di minuti. Dopodiché, però, è crisi nera. Lo stomaco inizia a volere qualcosa di sostanzioso, le gambe si intorpidiscono, la testa si chiede perché l’hai preso quel maledetto gel.
Quasi in cima, la salita dà un attimo di tregua. Arriviamo all’ultimo ristoro, allestito poco dopo il GPM, assieme a un uomo argentino che invece saliva dall’altro versante. Scoppia a ridere appena ci vede, capisce tutto: ha preso la traccia al contrario. Per ripararci dal vento, con Lucio e Francesco ci sediamo dietro al camion dell’organizzazione. Ci fosse il thè caldo, ne berremmo un litro a testa. «Fanno tre gradi» dice con accento sudamericano l’ex massaggiatore di Andrea Tonti.
La discesa è lunga e abbastanza rotta. Pian dell’Elmo, Frontale, lago di Cingoli. Arrivati ad Apiro, lasciamo attraversare la strada ad alcune nonne che stanno riportando a casa i bambini dopo il pomeriggio a scuola. È divertente: abbiamo incrociato tutti i momenti della vita scolastica. Se i bambini hanno fatto mille cose nel mentre, noi fondamentalmente solo una: pedalato.
Nella salita verso Cingoli, un ciclista con una maglia particolarmente bella prende forma davanti a noi. È tutta nera, coi colori dell’arcobaleno davanti. La indossa Christian, che di quella maglia mi spiega il significato: «È dedicata a mio figlio Teo, che non c’è più» dice con la voce rotta. Dall’emozione, non dalla salita. “Il Sorriso di Teo” è un’associazione di Spoleto che Christian ha co-fondato e si occupa di prevenzione di malattie cardiologiche. Hanno cardio-protetto tante scuole e Christian ne parla con orgoglio. È di nuovo in sella da poco, mi spiega in una chiamata a novembre. Era arrivato a pesare 120 kg, ma «per me la bici è tutto» e ha ricominciato a pedalare. «In bici ho riso, pianto, chiacchierato con Teo: tutto».
Nessun soprannome è meritato come “il balcone delle Marche” per Cingoli. Le colline sottostanti, verdi (color muschio, boschi e siepi) o gialle (ocra, i campi arati) a seconda di dove si posa lo sguardo, continuano per chilometri e chilometri. Il mare – che è anche dove dobbiamo tornare noi – è una striscetta blu all’orizzonte. Al contrario di noi tre, le nuvole in cielo non sembrano aver voglia di continuare assieme il loro viaggio e si sparpagliano, senza logica. Varcata la soglia dei duecento chilometri, Francesco è davvero alla frutta. Lucio gli urla che «a ruota devi stà! A ruota che non pigli aria!».
Sul roadbook si legge che a Cingoli inizia la parte più facile della 5mila Marche ed è probabilmente vero: da seicento metri d’altitudine si deve arrivare a zero e le due salite più toste sono alle spalle. Essendo nelle Marche, però, le strade non ce la fanno proprio ad appiattirsi. Si sale verso Montefano, poi verso Recanati. Non sono salite paragonabili alle precedenti, s’intende, ma il livello d’energia è sul rosso da un pezzo. La luna compare, ancora alta, quando la strada s’inclina e costringe ad alzare lo sguardo. Se Leopardi ha scritto qualcosa sulla luna, mi piacerebbe leggerlo una volta arrivato. Dopo un paio di birre, magari, mi corregge Lucio, che indica Loreto, consapevole della fortuna che ha nel pedalare abitualmente in queste zone.
L’ultimo strappo – l’ultimo, davvero – lo approcciamo che il tramonto sta a metà dell’opera. In via Selve di Sant’Antonio, a prepararci all’ultimo muro della 5mila Marche ci pensano un cavo della luce che sembra colleghi il niente al niente e qualche ulivo sparuto. La casa del custode di villa Beniamino Gigli, tenore marchigiano considerato tra i migliori al mondo tra gli anni Venti e Trenta, ravviva i sensi intorpiditi dallo sforzo. Può tranquillamente essere scambiata per una villa a sé stante: non si capisce se di un rosa naturale o di un rosso sbiadito dal tempo. Si nota bene, invece, che ormai edera ed altre piante la stanno mangiando. Un viale sassoso porta alla villa vera e propria, e lo percorrerei, se non mancasse così poco all’arrivo.
Gli ultimi tre, quattro chilometri sono una meraviglia. Dalla sommità del colle di Montarice è tutta leggera discesa fino al mare. Quel panettone che si vedeva da decine di chilometri si conferma essere il Conero e il cielo dietro assume striature rosa. Le case di Porto Recanati sono luci, si possono contare dall’alto; le gambe a Porto Recanati ti ci portano perché non hanno fatto nient’altro per le scorse dieci ore e mezza. Le foto scattate dalla bici, quel giorno, finiscono qui: se scorro il rullino, Francesco e Lucio hanno una medaglia al collo, triangolare come le colline delle Marche viste di profilo, e si rallegrano di avercela fatta. Come disse Andrea ore prima, con la voce rallentata dallo sforzo sul muro di Pollenza, «non si è mai soli quando si condivide la strada».
Muretti Madness
La storia di Muretti Madness è in realtà la storia di quattro ragazzi, studenti di Architettura all'Università di Firenze. Ce la racconta Matteo Pierattini, ancora in studio, a progettare, a sera. «Eravamo tutti appassionati di ciclismo, ma, come abbiamo iniziato a lavorare, il tempo per pedalare scarseggiava. Non volevamo rinunciarci, così siamo andati sui muri attorno a Firenze. Lì pedali un paio d'ore e ti sembra di aver fatto tutto il pomeriggio in bicicletta». Muretti Madness è proprio questo, un elogio alla lucida follia di chi, un sabato di ottobre, percorre 120 chilometri attraverso quelle mura, 25 muretti, più di 3500 metri di dislivello, circa otto ore in bicicletta, senza alcuna ricompensa. «Se ci pensi, la fatica del ciclismo è totalmente irrazionale. Se ti chiedessi chi te lo fa fare, rinunceresti. La fatica degli eventi come Muretti Madness è forse la più bella perché non vuole nulla in cambio». Pierattini se l'è chiesto: «Se mi avessero proposto una cosa di questo tipo, l'avrei fatta? Sì, ho noleggiato un furgone e ho viaggiato quindici ore in piena notte per andare in Belgio a vedere le Classiche del Nord. L'avrei fatta».
Perché Muretti Madness è un evento, non è una gara, non c'è competizione. Nato otto anni fa, quando appuntamenti così erano rari, con un'idea precisa: pedalare duro, “pedalare tosto”, come dice Matteo con un'inconfondibile cadenza toscana, assieme ad altri che condividono qualcosa con te. «Una visione del mondo, della fatica. Se si ascoltassero le voci degli iscritti, non si sentirebbe mai parlare di watt, potenza o velocità. Li senti commentare il percorso o i paesaggi. Li senti raccontarsi storie e problemi, perché condividere la fatica ti dà questa fiducia. Siamo partiti in dieci, quasi un gruppo di amici, quest'anno settecento persone hanno pedalato sui muretti. C'è una magia in questo». Matteo sostiene che questo segreto risieda nella bellezza, perché fai fatica volentieri se sai che qualcosa di bello ti aspetta.
«Sono i paesaggi e anche i muri. Queste stradine strette, meravigliose, che certe volte non sono conosciute nemmeno dai fiorentini. Ho girato molto per scoprirle, luoghi come Monteripaldi e la vecchia Fiesolana vengono da quei giri. Perché la Muretti l'abbiamo inventata, ma, soprattutto, abbiamo continuato a pedalarla ogni anno. A viverla da dentro».
La festa finale, come i ristori, è studiata attraverso questa bellezza. Si scelgono locali dall'aspetto famigliare, gestiti da qualcuno che conosca il ciclismo, che sappia che persone sono i ciclisti. Ai ristori c'è cibo genuino: un panino col prosciutto o con la marmellata, una torta fatta in casa. «Nutri il corpo, le gambe, ma anche la testa, che può liberarsi per qualche istante di tutte le difficoltà che ciascuno fronteggia». Dicono che Muretti Madness sia un piccolo Fiandre e in un certo senso il paragone è inevitabile, Matteo, però, aggiunge qualcosa. «Molte di quelle stradine sono quelle su cui Ginettaccio Bartali si allenava, affacciate su Firenze. Ho immenso rispetto per il Fiandre, affetto, anche. Ci sono dei punti in comune, ma restano cose diverse. Dovremmo imparare ad essere orgogliosi di ciò che facciamo, che creiamo, senza doverlo per forza paragonare ad altro. In Italia c'è una grande cultura ciclistica».
Per questo Matteo Pierattini augura a Muretti Madness di durare nel tempo e di diventare qualcosa di permanente. «Sarà un percorso che inizieremo dal prossimo anno, innanzitutto a livello legale. Vorremmo che questi tracciati restassero permanenti e fossero punti di visita per coloro che passano da Firenze. In un certo senso un dono a Firenze e a chi, come noi, ha voglia di fare fatica in bicicletta, ma non ha molto tempo». Ogni anno, i ragazzi di Muretti Madness cercano un muro nuovo, una strada mai esplorata e lo fanno per chi arriva da lontano. «Ci sono persone che partono da Milano, da Bergamo o dalla Sicilia, che viaggiano in treno la notte del venerdì, dormono tre ore e poi pedalano. Abbiamo il dovere di dare qualcosa a chi arriva qui dopo tanti chilometri e magari torna ogni anno. Noi abbiamo scelto di portarli a vedere un posto nuovo, un luogo in cui non erano mai stati». C'è il pacco gara, magliette e cappellini, l'avventura e la voglia di vedere le persone felici.
Durante la pandemia, Muretti Madness si è svolta nella sua versione diffusa, in modo da non creare assembramenti, non rinunciando ad andare in bicicletta. «Ci spiaceva rinunciare e le persone hanno capito. Sono venute in tante, hanno visto l'atmosfera serena, tranquilla di queste vie. Qualcuno lo abbiamo incrociato ed era felice. Credo basti dire questo». In otto anni, sono cambiate tante cose. Alcuni di quei ragazzi della facoltà di Architettura hanno avuto figli, Matteo stesso ha una bambina e non vede l'ora di farle conoscere Muretti Madness. «Quest'anno sarebbe potuta venire con noi, ma aveva la febbre, una brutta bronchite. La porterò presto. Anche questo è bello, vedere che questa avventura che ci è scoppiata fra le mani continua e resta salda fra tutto ciò che cambia. Ha preso una fetta importante delle nostre vite. È cresciuta e ci ha cresciuti. Perché da quei muretti abbiamo imparato tanto e continuiamo a imparare».
La mia prima 5mila Marche
«Ciclismo». È la prima volta che rispondo così a un medico dello sport. Mi ha appena chiesto per quale sport sto facendo la visita medico-sportiva agonistica: evidentemente non ha notato il cappellino iridato con la scritta EDDY MERCKX che ho portato in testa fin dentro lo studio. Dopo avermi appiccicato elettrodi e fili su tutto il corpo, torace in particolare modo, inizia a farmi correre sul tapis roulant. Di recente ho letto che, agli albori della sua storia, il tapis roulant venne usato nelle prigioni come strumento di tortura, e avviso il dottore che per me sarà più o meno la stessa cosa. Da quando ho smesso col calcio e anche le partitelle tra amici si sono diradate, non corro sostanzialmente più. La mia unica attività sportiva è la bici.
Il dottore è soddisfatto del test, tutto in regola, idoneità conseguita. Salgo sulla city bike e torno a casa per la strada lunga: è poco che mi sono trasferito a Bologna e girare per una città ancora sconosciuta è un’esperienza unica. Passando su un cavalcavia, noto un murale firmato da un collettivo di donne peruviane. Che bello sarebbe, pedalare sulle Ande. È un breve tratto in salita, questo cavalcavia sui binari del treno, ma per superarlo un rider pieno di borse e zainetti deve spingere sui pedali con tutto se stesso. La salita non è sempre uguale per tutti.
L’idoneità agonistica è obbligatoria per la 5mile Marche: oltre 250 km sono uno sforzo enorme per amatori o dilettanti o cicloturisti. Oggi non solo faremo quella distanza, ma ci metteremo cinquemila metri di dislivello in mezzo: le salite hors categorie di Sassotetto e Monte San Vicino saranno le più dure. Se penso che partiremo a Porto Recanati, a due passi dal mare, e transiteremo ai 1.455 metri d’altitudine di una stazione sciistica, vado già in acido lattico. Dal buffet della fin troppo ospitale struttura in cui trascorro il week-end marchigiano, che culminerà domenica nella GF Nibali, ho sottratto un paio di vasetti di marmellata in più, qualche fetta biscottata, miele, succo di frutta. Non dovrebbe fare caldo, anzi, ma serviranno tantissimi zuccheri.
Spero non piova, non faccia brutto, non ci sia nebbia nemmeno lassù: vorrei riempirmi gli occhi col parco dei Monti Sibillini per alleviare la fatica. Sono pazzo? È la prima volta che attacco un qualsiasi numero alla bici e lo faccio per una gara di oltre duecentocinquanta chilometri. C’è quella telecronaca, «A molti corridori dopo duecentocinquanta chilometri si spegne la lampadina invece la sua luce irradia il circuito di Varese», che riascolto almeno una volta al mese perché è perfetta. Racconta un momento storico mentre accade e lo fa con grazia e precisione. Solo ieri notte - quando non si dorme, bisogna premere play sui video a cui si è più affezionati - ho realizzato che è la stessa distanza che mi toccherà oggi. Altro che lampadina, qua potrebbe saltare un intero impianto d’illuminazione.
Non devo dimenticare i tre punti di ristoro, Tolentino, Sassotetto e San Vicino. Non devo dimenticare di bere costantemente, anche a costo di fermarmi e ricaricare le borracce tramite fontanelle a bordo strada. Non devo mai andare troppo in su coi bpm (non ho la fascia cardio, come la controllo ’sta cosa?), mai sotto le sessanta/settanta pedalate al minuto (non ho il contapedalate, come la controllo ’sta cosa?). Non devo dimenticare di abbassare la luminosità del Garmin, che se si scarica nella prima metà di gara poi come ci torno a Porto Recanati?
Un’ultima considerazione, che sono quasi le sei del mattino e stanno aprendo il ritiro pettorali: avrei voluto un numero figo, il #100, il #91 di Rodman, il #71 con cui Colbrelli ha appena vinto la Roubaix, che ne so. Mi bastavano anche numeri sotto il 230 circa, così avrei guardato le ultime startlist di Giro o Tour e mi sarei immaginato di essere il ciclista corrispondente. Perlomeno, avrei desiderato almeno numeri che finiscono con zero o cinque, perché danno un’idea di rotondità, o numeri divisibili per tre (feticismo ereditato dal prof del liceo). Invece: 1057. Molto deluso, cerco qualcosa su questo inutile numero a quattro cifre e scopro che nel 1057 morì Macbeth, il re di Scozia su cui Shakespeare ha basato la famosa tragedia. Non è un’opera nuovissima ma non l’ho mai letta e non voglio spoiler. Nemmeno voglio paragonare la vita di un reale britannico dell’undicesimo secolo alla faticaccia ciclistica che mi aspetta. Ditemi solo: finisce bene Macbeth, vero?