Sul Mortirolo di notte: Race Across the Alps
Pensate di trovarvi sul Mortirolo in piena notte. Anzi pensate di scalare il Mortirolo quando è già buio, quando gli unici raggi a filtrare non solo quelli del sole ma quelli della luna. Cosa provereste? A Fabrizio Duca è successo e proprio lì, sul Mortirolo, in piena notte, il cambio della sua bicicletta si è rotto. Cosa fare?
Ci torneremo tra poco. Ora, però, facciamo un passo indietro al giorno in cui Fabrizio ha saputo che sarebbe stato l'unico italiano a partecipare alla Race Across the Alps: 525 chilometri attraverso l'arco alpino, più di 14000 metri di dislivello. "È una piccola follia e come tutte le piccole follie c'è chi ti capisce e riesce a immedesimarsi in ciò che provi tu a quell'idea e chi, invece, ti dice solo che è una pazzia". Quell'idea ha anche un tempo: trentadue ore, solo trentadue ore per riuscirci.
Chi organizza si rende conto di quel che chiede e per questo ogni partecipante può portare due persone, due amici per Fabrizio, che staranno in macchina, guideranno tutta la notte e lo affiancheranno per ogni cosa. Oriana, in ammiraglia, dice che accompagnare, in fondo, è un atto d'amore: "Essere pronti ad ascoltare tutto, a non perdere la pazienza anche se sei stanco anche tu, anche se non ce la fai più. Ad avere paura e nasconderla. Se ci pensi questi sono anche gli atteggiamenti di un genitore". Ecco i pensieri di quel venerdì, quando si parte da Nauders.
A Bormio si scatena il diluvio. Sul Gavia l'acqua è ghiacciata, nevica. Fabrizio non riesce più a muovere le mani, fatica a parlare. "Io non capivo che non avrei potuto proseguire così, non accettavo di fermarmi. I miei amici sì e hanno avuto paura. La cosa importante è che mi hanno protetto da quella paura e dopo un'ora mi sono ripreso, sono ripartito". Pedalata dopo pedalata, Aprica e poi Mortirolo.
Era notte lì, vi ricordate? Fabrizio con il cambio rotto non sa più cosa pensare e chiama al telefono il suo meccanico. Già perché in avventure del genere c'è sempre chi, a casa, ha il telefono acceso ed è pronto a rispondere, anche in piena notte. Fabrizio ascolta le indicazioni, impara, capisce, aggiusta e riparte. Ancora, un'altra volta. Andando incontro alla nebbia all'alba del Bernina, a tutte le volte in cui tra Albula, Fluela e passo del Forno ha pensato di fermarsi, ai momenti in cui non riusciva a mangiare.
All'inizio aveva detto ai suoi amici: "Se vedete che non sono più lucido, fermatemi. Fatemi scendere di sella. Portatemi via da quel che sto facendo". Quando quel momento è arrivato, quando quel crollo psicologico è arrivato, Oriana ha preso il cellulare e dal furgone ha iniziato a leggere a voce alta tutti i messaggi di sostegno che arrivavano, mentre Fabrizio si commuoveva, piangeva.
Fabrizio che ad un certo punto ha iniziato a pensare: "Manca solo lo Stelvio" e quando pensi così hai detto tutto. Quello Stelvio che mancava, Fabrizio l'ha percorso e ci è riuscito: 32 ore e 24 minuti. È bastato perché gli organizzatori hanno dilatato il tempo massimo e sarebbe bastato comunque perché Fabrizio ce l'ha fatta. Dopo un giorno di riposo avrebbe voluto ripartire, inventarsi altro, un'altra piccola follia.
"Mi dicono che sono un campione. Non lo sono. Qualcuno parla di eroi per gli uomini che fanno queste gare. Tenete la parole eroe per chi se la merita davvero. Io ho giocato, mi sono divertito. Ho anche rischiato, temuto ma anche nei giochi succede. La mia bicicletta è questo, solo questo". E ora tornate col pensiero sul Mortirolo, in piena notte, e diteci quando bene si sta.
Unbound Gravel: tornare cambiati
Emporia è subito sembrato un universo parallelo all'interno degli Stati Uniti d'America. In realtà, appena toccato il suolo, Mattia De Marchi ci ha pensato: «Sono in America» e gli è sembrato strano, eppure bello. Certamente contrastante con quella sensazione di normalità che può affliggerti quando ti abitui a ciò che fai. Ad Emporia, l'abitudine non si è mai fermata: come avrebbe potuto fra tutti quelle persone che lasciano le proprie case per far spazio ai concorrenti dell'Unbound Gravel? Come avrebbe potuto scossa da quei clacson che per strada suonano ai ciclisti solo per salutarli, per dare il benvenuto?
Mattia De Marchi li ha sentiti e sono stati esattamente come la sua indole, qualcosa che bussa alla porta e ti ricorda perché lo stai facendo. «Inseguire Ten Dam probabilmente non è stata la scelta giusta e dovrei dirti che non lo rifarei. Invece no, lo rifarei perché facendo diversamente non sarei io. Avrei potuto piazzarmi meglio ma attendere non fa per me. E poi cosa avrebbero guardato tutte quelle persone che seguivano sulla grafica il puntino blu che mi rappresentava e speravano ce la facessi? Proviamo a pensarci». Ten Dam, quando lo ha visto, incollato alla sua ruota gli ha subito chiesto chi fosse e, sentendo il suo nome: «Mi ricordo di te a "The Traka", sei in gamba. Dai che facciamo all in».
Mattia, in quel momento, ha potuto solo sentire quelle parole, non vedeva quasi più nulla perché, la pioggia, faceva rimbalzare quella sabbia collosa sugli occhiali, rendendo impossibile tenerli: «Ad un certo punto, li ho tolti e quei granelli mi entravano negli occhi, facevano male, io, però, ero solo innervosito perché iniziavo a perdere le ruote, mi superavano. Al traguardo non vedevo quasi più nulla e lì ci ho pensato: "Mattia, ragiona: non vedi più e hai in mente solo la gara?". Per fortuna non era niente di grave e la vista è tornata, ma mi ha fatto riflettere». Certo, fa riflettere perché spiega cosa accade in quei chilometri in sella, il misto di sensazioni che ti estranea da tutto ma, alla fine, ti lascia lì, lucido e a contatto con gli altri, su quelle strade che cambiano repentinamente forma e direzione.
Boswell e Stetina non vanno all'attacco con lui e quando viene ripreso lo affiancano: «Bel numero». De Marchi non ce la fa più, è al gancio, ringrazia e stringe i denti. «Dai 320 chilometri dell'Unbound Gravel torni comunque cambiato, è questo il punto. L'esperienza resta e va oltre il risultato. Ciò che succede ad Emporia te lo ricordi appena pensi a questo sport». La conseguenza è un pensiero al mondiale gravel su cui sta riflettendo l'Uci: «Chiedo di pensarci bene, perché le gare che stanno organizzando sono solo gare, non c'è nulla di tutto questo. Ci si pensi, si studi ciò che accade negli altri paesi e ci si prenda tutto il tempo prima di organizzare un mondiale. Altrimenti, per sfruttare le opportunità che il gravel offre, rischiamo di snaturare quello che è. Non spetta a me decidere e ho pieno rispetto di chi lo farà, ad oggi, però, spero proprio che questo mondiale non ci sia».
Nel frattempo c'è un viaggio in Africa fra pochi giorni e diverse gare proprio lì. A Mattia hanno già detto che all'arrivo in aeroporto le persone affiancheranno i ciclisti e chiederanno cosa facciano con tutte quelle biciclette, perché in Africa questa abitudine manca. Lui sta pensando alla risposta da dare, a come spiegare ciò che accadrà: «Ho scelto di non aspettarmi nulla e di vivere questa avventura per quello che sarà. Ogni tanto, però, mi immagino i bambini che ci cercheranno e ci rincoreranno. Mi dico che sono fortunato e quel volo vorrei prenderlo il prima possibile. Anche adesso».
Sassi e serpenti: Seven Serpents
«Là ci sono solo sassi e serpenti» dicevano così gli amici di Bruno Ferraro quando, da ragazzi, a qualcuno veniva l'idea di andare sull'isola di Krk o di Cres, in Croazia. A Ferraro è tornato in mente pensando a quegli 818 chilometri e 15000 metri di dislivello che aveva visionato in primavera per collegare Ljubljana a Trieste, così ha chiamato questa avventura in bicicletta "Seven Serpents gravel".
Bruno Ferraro, che questa volta è stato organizzatore della gara che si è svolta il 15 maggio, l'ha vista con gli occhi di chi pedala perché, in realtà, di essere ciclista non si smette mai. E l'ha pensato come un viaggio bello ma non sempre comodo: solo in questo modo si conosce davvero la bicicletta. «Alcuni tratti si percorrono bene in mountain bike, altri in gravel, per altri servirebbe una bicicletta da strada. C'è un chilometro sull'isola di Krk in cui la bicicletta va portata in spalla perché pedalare è impossibile. Credo il significato di un viaggio in bici stia anche in questo adattamento». Ben vengano quindi i commenti di chi ha detto che non se l'aspettava così dura, che alcuni momenti sono stati davvero difficili, ben vengano perché, su più di 60 partenti, solo in sei si sono ritirati e tutti hanno detto che torneranno: «Trovi il tratto duro e pensi di mollare, poi, però, c'è un paesaggio che ti colpisce, una strada scorrevole e ti dici che sarebbe un peccato mollare, allora continui».
In quel continuare c'è la soddisfazione non solo di ogni ciclista, anche quella di Ferraro che quei ciclisti ha cercato di conoscerli uno per uno, di portarli all'arrivo, di accompagnarli. Sono state importanti le indicazioni tecniche, non solo però. Sull'isola di Krk, c'era Sandra con la bici a mano, poi in spalla, e Bruno Ferraro ha camminato con lei, l'ha incitata come fa un ciclista quando ne vede un altro in difficoltà: «Qualcuno, come si sente spronato, ha subito un guizzo di velocità, magari si alza sui pedali. Altri, come Sandra, sono più timidi, allora sorridono solamente o ti guardano, ma sai di avergli fatto del bene».
Sette checkpoint, castelli, chiese e ponti, rocce aspre e anche qualche biscia proprio a Krk e a Cres, perché in quel modo di dire un fondo di verità c'era, sino alla vista sul Golfo di Trieste e alla discesa verso l'arrivo in piazza. Quella piazza dove puoi sederti a terra con una lattina e un panino e sentirti a tuo agio, dopo aver liberato tutte le sensazioni che ti hanno accompagnato. Ferraro ci parla di Jonas, secondo classificato: «È arrivato a sera, ero dietro la linea del traguardo a braccia aperte: mi ha abbracciato e stretto davvero forte. Era molto contento di avercela fatta e sentire questa stretta mi ha fatto un certo effetto. Ho pensato a cosa possa lasciare una gara». Una gara, ovvero, per Nils Correvon primo classificato, quasi sessanta ore, per gli ultimi molto di più, però, la loro fragilità a Trieste è una testimonianza: «Sono fiero del fatto che anche loro siano arrivati, che abbiano superato gli inconvenienti, io stavo aspettando proprio loro. Per i primi è più facile, dopo metà gruppo inizia a complicarsi tutto».
Seven Serpents ha parlato proprio a loro, ha accolto chi è alle prime esperienze nel bikepacking e, dopo tutti quei chilometri, ha trasmesso un messaggio importante: «Non fermarsi alla prima difficoltà, perché i pedali torneranno a girare bene, a patto di avere pazienza e sarà ancora più bello».
L'appuntamento è, quindi, per l'anno prossimo perché "Seven Serpents" tornerà e laddove c'erano solo rocce e serpenti ci saranno tanti ciclisti a condividere una giornata, una nottata, un divertimento e quella fatica che rende più vere persino le poche parole che ti scambi seduto su un muretto mentre riprendi fiato. I nomi più importanti del panorama gravel sono avvisati.
The Traka: Morton e De Marchi, uomini e idee in fuga
Fa quasi effetto dirlo, eppure sabato l'abbiamo ripetuto più volte: "Lachlan Morton e Mattia De Marchi soli in testa a The Traka". Chi era sulle strade di Girona, l'ha vista questa fuga, questo coraggio nell'andare via, lontano dagli altri, che è poi ciò che nel ciclismo si cerca sempre. Questo staccarsi dal gruppo, dalle sue abitudini, dalla sua "pancia", dalla sua protezione, dal sentirsi sicuri, che prima ricerchi e poi, con l'anima del ciclista, respingi per ciò che ancora non conosci.
Due uomini, in realtà due idee, perché le idee assomigliano ai ciclisti e a tutti i loro chilometri, anche a questi 360 tra strade gravel, single track, salite, discese, curve e tratti tecnici. Le idee che nascono in un luogo chiuso, protetto, isolato, e che hanno questa spinta ad uscire fuori, a partire in fuga, anche se le ributti indietro, per volontà tua o di altri.
Lachlan Morton, Mattia De Marchi e i loro sguardi che cercano punti diversi da guardare per andare avanti, mentre il sudore appesantisce capelli e barbe e imprime il segno del casco. Da soli, davanti a tutti, in questo caso. Due idee che sono poi la stessa idea: un essere umano che parte in viaggio su una bicicletta è più vero che mai. Perde ogni maschera, molto pudore, non nasconde la fatica, il dolore, la felicità, non nasconde se stesso aspettando chissà cosa.
Pensiamo all'acqua che hanno bevuto, a quella che si sono spruzzati addosso, per il caldo o per levarsi di dosso la colla naturale che il sudore e la polvere costituiscono per intrappolarti. Al cibo che hanno mangiato, al pranzo dei ciclisti, a come le mani stringono quel cibo, alla pasta, al sugo, al ragù, a quel sapore che devi essere "finito" per tornare a sentire come la prima volta dopo esserti abituato. Alla fatica, alle smorfie, a qualche imprecazione: a quelle di Morton quando ha visto De Marchi andare via e si è ritrovato bloccato da un incidente meccanico. Tutto fuori, tutto allo scoperto.
È la loro idea: di De Marchi che vince per la seconda volta a "The Traka" e in tredici ore macina tutti quei chilometri, di Morton che arriva secondo e di tutti quelli dietro di loro. È l'idea dei ciclisti, un'idea in fuga come tante altre, per cercare qualcosa. Può essere un prato dove buttarsi, un getto d'acqua più forte per prendere a sberle la fatica o tutto quello che pensate vi serva. A loro serviva tutto questo e sono andati a prenderselo.
Da sola verso l'oceano
Il viaggio di Noemi Giraudo, in bicicletta, verso l'oceano, ha a che vedere col tempo. Il tempo che sentiva di sprecare, che sentiva non appartenerle più. «Passavo le mie giornate chiusa in quattro mura a lavorare, guardavo il cielo fuori dalla finestra e non capivo cosa stessi facendo. Dopo tanto tempo ho lasciato un lavoro in cui non mi ritrovavo più, una decisione difficile, sofferta, sentivo il bisogno di andare via. Negli ultimi tempi facevo fatica anche ad alzare la cornetta del telefono per prendere un appuntamento». Quando ha scelto di caricare le sue borse su una bicicletta e partire verso Arcachon, verso le Dune du Pilat, si è chiesta da cosa stesse scappando. Non ha detto nulla a nessuno, tranne che ai familiari più stretti perché temeva di non arrivare; tutti sapevano che stava partendo, quasi nessuno che pensava all'oceano. «A ventisette anni non avevo mai trovato il tempo per vedere l'oceano e mi sembrava uno spreco. È stato bello sedersi alla scrivania e programmare questo viaggio. Mi è tornato in mente il primo viaggio in bicicletta che avevo fatto anni fa in Sardegna. Ero tornata piena di autostima e mi ero promessa che avrei fatto viaggi simili almeno una volta all'anno. Sono passati cinque anni e nessun viaggio. Fa riflettere».
Quattordici giorni, circa 1.100 chilometri, da Boves, in Piemonte, attraverso la Francia, da sola, con una tenda e diverse borse. Qualche timore solo la notte prima di partire, poi tutto è stato naturale. «Molti mi hanno fermato per strada e quando ho spiegato dove stavo andando mi hanno chiesto se non avessi paura, da sola, essendo donna. Mi sono arrabbiata più volte perché le donne hanno paura quanto gli uomini, sanno stare da sole e fare fatica. Io non avevo paura». Nemmeno il quarto giorno quando, vicino a Valence, il vento era così forte che la bicicletta non voleva proprio andare avanti. «Papà al telefono mi ha suggerito di prendere un treno e avvicinarmi così all'oceano. Non ci ho pensato nemmeno un minuto. Mi serviva quella fatica». La fatica, in questo viaggio in bicicletta, era leggera, non pesava. Nonostante l'autunno, gli abiti pesanti e il rischio di trovare brutto tempo, prima sulle Alpi e poi a plateau de l'Aubrac. Proprio qui, mentre la salita finisce e la strada spiana, Noemi vive uno dei momenti più belli: «Un'aquila ha volato per un attimo sopra la mia testa. In quel momento ho pensato a cosa sia la bicicletta. Questo mezzo che ti permette di viaggiare a piedi sollevati da terra».
L'oceano è la destinazione finale, ma Noemi non ci pensa molto durante il viaggio. «Volevo stare in quei luoghi e in quel tempo. Sono convinta che crescendo abbiamo perso la capacità di vivere ciò che ci accade. Ci proiettiamo avanti o indietro e non vediamo ciò che ci passa sotto il naso». Questo è un problema, anche se ciò che abbiamo davanti è noioso. In questo viaggio, la noia è arrivata nelle lande: 129 chilometri di rettilinei, tra i pini marittimi. Devi cercare un punto e focalizzarti su quello, altrimenti non pedali più.
Passano i campeggi, le tende e anche qualche casa. Warmshowers, un'applicazione attraverso cui viaggiatori mettono a disposizione la propria casa per altri viaggiatori, le fa conoscere una famiglia francese che la ospita una sera. «A cena a parlare dei loro viaggi, delle nostre lingue e di dove stessi andando. Ero a casa loro ma mi hanno fatto sentire a casa mia». Come quella serata trascorsa con ragazzi che stavano percorrendo la parte francese del cammino di Santiago, mentre fuori c'erano meno sei gradi e un tempo da lupi. «Ho scoperto Le Puy en Velay, ma soprattutto ho capito l'enorme potere che abbiamo nelle mani: far sentire qualcuno a casa, l'ospitalità».
E ancora i saluti «perché anche la vecchietta che sta chiudendo la porta di casa ti saluta quando ti vede» e le strade di campagna. «Avrò percorso due chilometri con un'auto alle mie spalle, una stradina strettissima dove era impossibile superarmi. Temevo mi suonasse il clacson. Invece no, ha atteso, senza fretta. La Francia è piena di ciclabili, le strade sono vissute in funzione della bicicletta, gli automobilisti mettono la freccia a destra per segnalare il ciclista».
Infine gli ultimi sessantacinque chilometri fatti tutti d'un fiato e l'uscita dalla foresta. «L'oceano appare all'ultimo e il vento oceanico è talmente forte da spingerti indietro». Noemi sale su quella duna, guarda l'acqua e telefona a sua madre. Quello che ha pensato davanti all'Oceano è difficile da raccontare perché, in fondo, appartiene solo a lei. Qualcosa da dire, però, c'è. Per esempio, dell'autostima che torna quando ti accorgi che andare via non vuol sempre dire scappare, vuol dire solo trovare un nuovo modo di vivere le cose. Quello che abbiamo il dovere di fare tutti quando la vita ci scappa dalle mani. «Potrei dire che un viaggio così lo consiglio a tutti. In realtà dico di pensarci perché ti mette alla prova, resti solo e rischi di stare peggio. A me la solitudine fa bene, non so ad altri. Quello che consiglio a tutti è di ritrovare il tempo per se stessi».
La lezione di Mattia De Marchi a Badlands
Pochi giorni dopo Badlands, a Rimini, un ragazzo ha avvicinato Mattia De Marchi solo per dirgli che gli sarebbe piaciuto essere come lui. «Gli ho risposto che poteva farlo: avrebbe dovuto solo allenare la mente più che il fisico ma poteva fare tutto ciò che avevo fatto io. Molte persone si fanno intimorire dall'idea di non essere all'altezza; sono sciocchezze. Un viaggio come questo lo consiglierei a chiunque. Non come ciclista, come uomo». De Marchi è certo che la sua vittoria in terra di Spagna, i 750 chilometri percorsi in 43 ore e 30 minuti siano solo una parte del racconto che Badlands merita. «Per esempio, vorrei raccontare che mi mangio ancora le mani per i tratti percorsi di notte, perché avrei voluto vedere quei paesaggi e giuro che ci tornerò. Non solo: potrei dire del rammarico che ho per essermi perso anche la paura del vuoto, le vertigini che ho da sempre, in un sottile tratto di deserto a precipizio nel nulla. Sono andato così veloce perché non me ne sono reso conto, altrimenti probabilmente mi sarei attaccato alla roccia per diversi minuti. È il prezzo da pagare per aver vinto».
Ora che è trascorso qualche giorno dal suo arrivo a Granada si rende conto di quanto Badlands sia stata la gara che non immaginava. Una gara assurda che a pochi chilometri dal centro ti porta in un deserto, poi in una palude e ancora in un deserto, fino al mare e di nuovo alla città. Una gara che ti fa scoprire la Spagna nascosta, quella silenziosa, dai contorni mai visti. «Immaginavo Girona o Barcellona e ad ogni curva mi chiedevo: e adesso dove finiremo? Discese tecniche, sterrati, salite ripide e chilometri nel nulla». Dopo tante gare, la gara in cui ha sconfitto una delle sue fobie: pedalare da solo la prima notte di una corsa. «Non so perché, l'idea mi ha sempre terrorizzato. Al tramonto ero a ruota di Sebastian, un ragazzo tedesco. Ero tranquillo, quando lui ha iniziato a staccarsi. Pur di non restare solo, l'ho anche aspettato: non arrivava. Non è stato facile ma ci sono riuscito. Ho superato una paura che altrimenti non avrei mai superato».
Il segreto, in fondo, non è così complesso. Mattia De Marchi lo dice a tutti, ciclisti e non: nei momenti difficili bisogna ricordarsi sempre che succederà qualcosa che cambierà la situazione. A lui è accaduto l'ultima notte. «Avrei dovuto arrivare intorno all'una, in realtà sono arrivato dopo le cinque. A un certo punto non volevo più pedalare, ero talmente stanco da non sentirmela più. Ha cambiato tutto un messaggio di Federico Damiani, compagno in Enough Cycling. Sono bastate poche parole rivolte al gruppo di Enough: “Guardate cosa sta facendo Mattia! Ci vorrà tempo prima di capire la grandezza di quello che ha realizzato”. È tornato il coraggio, è tornata la forza per pedalare».
Quella forza che è anche piacere. Mattia ne parlava pochi giorni fa con Alessandro De Marchi, suo cugino. «Alessandro ha ancora tanta fame, perché nessuno gli ha mai regalato nulla. Forse anche per questo ha capito che bisogna imparare a godersi la bicicletta senza aver sempre e solo la testa sulle tabelle. Altrimenti ti stanchi, ti stufi e smetti. I professionisti devono capire che liberare la testa fa bene come allenare il fisico». Anche a Mattia De Marchi capita di non aver voglia di allenarsi, allora prende la bicicletta da gravel e va sugli sterrati, nei boschi: basta staccare per qualche ora dalle strade d'asfalto, dalle auto e ci si rigenera. In autunno ha programmato un viaggio di due giorni proprio con Alessandro. «Ho provato anche a portare dei giovani ciclisti con me. Tornano a vedere il mondo e si stupiscono, così faccio notare che quelle cose ci sono sempre state, erano loro a non avere occhi per guardarle».
Anche per questo Mattia si sente fortunato, lui che ha sempre voluto essere un esempio e ci è riuscito. «Nelle fasi finali di Badlands ero rimasto senza cibo, aspettavo di arrivare in un paese per recuperare qualcosa. Ad un certo punto, in fondo a una strada bianca, noto un furgone rosso e una famiglia che mi chiama. Mi avevano preparato un panino e dell'acqua fresca. Avrò perso qualche minuto ma ho voluto fermarmi con loro. Capisci? In Spagna, qualcuno teneva così tanto a incontrarmi che è venuto a cercarmi in gara. È stupendo». Sì, perché come dice Mattia De Marchi, alla fine, tutto torna.
La Transibérica e il rispetto per la fatica
Il cielo di Bilbao era impazzito il 14 agosto, come a prendere a schiaffi chiunque vi si trovasse sotto: pioggia fitta, vento, nuvole nere e sole. Bruno Ferraro era lì per partire per la Transibérica, gara di ultracycling attraverso la penisola iberica. Qualche mese prima, Bruno si era rotto la clavicola cadendo in bicicletta e, quel giorno, si accontentava di partire perché aveva temuto di non arrivare proprio sotto le bizze di quel cielo che fissa l'oceano.
La partenza è alle ventuno nella piazza del museo Guggenheim. Ad attendere gli iscritti circa tremila chilometri. Al dislivello si prova a non pensare, fa quasi paura. «Mi è sempre piaciuto guardarmi attorno - racconta Bruno - e non ci ho mai rinunciato anche quando ho gareggiato. Credo sia uno spreco, se si ha la fortuna di pedalare». Così di Bilbao ritorna subito la parte vecchia della città e il fiume che l'attraversa. Di ogni passaggio in un luogo, Bruno ha custodito qualcosa in più della fatica.
Devono trascorrere ben ventidue ore per arrivare al Mont Caro, a sud della Catalogna. «La vegetazione si dirada e l'ossigeno viene meno. La cima è a 1.441 metri, ma potresti pensare di essere a oltre duemila metri». Fa caldo e le falesie che si stagliano ai fianchi di Ferraro accrescono la sensazione di soffocamento. La scelta, però, è chiara: «Ho deciso che non mi sarei mai fermato a dormire prima di una salita. Meglio partire in pianura al mattino e faticare di più la sera». A Ordesa, la luce del tramonto rimpalla sui minerali delle rocce e confonde. «L'ultimo tratto era su terra, ghiaia. Ricordava il Colle delle Finestre. L'aria era quella dei Pirenei, le gambe iniziavano a chiedere tregua».
Il Deserto di Bardenas Reales arriva a mezzogiorno del giorno seguente. «In Spagna l'escursione termica è molto elevata. Di notte si sta bene e al mattino l'afa è tollerabile, qualche tempo dopo sarebbe stato impossibile pedalare in mezzo a quelle guglie di sabbia e argilla che ti seccano la gola solo a guardarle». Dopo Albarracìn, “un borgo toscano trapiantato in Spagna”, Bruno arriva alla Sierra De Guadarrama. «Avevo prenotato una camera a Segovia: sono arrivato dopo la mezzanotte e sette ore a pedalare all'insù, dovevo dormire. Prima di ripartire ho fatto un giro nel centro di Segovia, circa venti minuti». Verso il confine portoghese, si sale a Peña de Francia. «Sembrava il Mont Ventoux. C'era solo la luna a rischiarare i contorni di un monastero in cima. Pedalare di notte è una scoperta».
Bruno fa rifornimento dalle stazioni di servizio e dai benzinai, solo tramezzini: per un giorno ne servono quattro. «Bastava il sapore del formaggio di capra per darmi coraggio o il profumo dei pomodori accanto alla fesa di tacchino per risollevarmi il morale. In avventure di questo tipo scopri che basta ben poco». Da lì non manca molto. El Morredero “è un trampolino pronto per lanciare una navicella nello spazio”, la salita più dura che Ferraro abbia mai visto. «Rampe da togliere il fiato e pochi tornanti. Ho abbassato la testa per non vedere. Dall'altro versante, le ombre delle pale eoliche che si accostavano alla luna sembravano quasi la sceneggiatura di un film di fantascienza».
I laghi di Covadonga, in Asturia, sono l'ultimo sforzo, prima di tornare a scendere verso Bilbao. «Il primo cartello lo si vede a ottanta chilometri dalla città: è un'illusione. I continui saliscendi sono velenosissimi. Ero quarto, dietro di me c'era Simon de Schutter ma ormai non poteva più riprendermi. Non mi sembrava vero». Sono passati più di sette giorni, è domenica 22 agosto. A vincere è Ulrich Bartholomos, un ragazzo che sorride anche quando è stremato.
C'è una morale particolare in questi uomini della fatica. Justinas Leveika, lituano, arriva terzo e a Bruno dice subito che senza quelle due ore di sonno in più lo avrebbe ripreso. «Gli ho detto che rispetto la fatica e che non lo avrei mai superato a così poco dal traguardo. Mi sarei accostato al suo fanalino e saremmo arrivati assieme. Terzo o quarto non cambia nulla, il rispetto, invece, fa sempre la differenza».
Bruno, stasera, atterrerà in Italia e tornerà a guardarsi in giro, con calma, serenità, cercando di ricordare ogni dettaglio. In fondo, è questo a contare.
Foto: Transiberica
Omar Di Felice e la Race Across France
Omar Di Felice ha compiuto quarant'anni il 21 luglio, giusto pochi giorni di partire per la Race Across France, 2500 chilometri di pedalata unsupported sulle strade transalpine. «È un compleanno particolare: molte cose cambiano, tu con loro e ti chiedi come sarà il tuo futuro. In Francia cercavo una risposta». Di Felice, l'anno scorso, è arrivato secondo in questa gara e da quel momento ha iniziato a pensare a come avrebbe potuto fare per vincerla. «Avevo corso in maniera conservativa e ho perso con un ritardo di sole due ore, nulla in una gara di ultracycling. Soprattutto, però, non conoscevo bene il mio primo avversario».
Omar ha studiato i suoi rivali e ne ha tracciato i profili: ha visto coloro che di notte hanno maggiore bisogno di recuperare, coloro che non dormono quasi mai, i ritmi gara e le medie. «Io ho bisogno di dormire almeno tre ore a notte, al chiuso, i miei avversari lo sanno. I microsonni, invece, tendo a lasciarli per la parte conclusiva di gare di questa lunghezza per non stressare il corpo. La privazione del sonno è la più antica fra le torture medievali, se non ti regoli bene, ti distruggi».
Già, perché il corpo e la mente sono sempre in un intreccio stretto. «Sono partito a tutta per imporre il ritmo e far capire che avrebbero dovuto temermi. Il punto era uscire dalle Alpi in testa: sono i cambi di tempo in quelle circostanze a definire le posizioni. Gli ultimi giorni sono stati i più importanti e i più difficili: ho logorato mentalmente uno dei principali rivali, fino al suo ritiro, ma quando ero in testa da solo faticavo a trovare le motivazioni per continuare a faticare. Il rilassamento ti frega». Ogni sera un rifornimento in una boulangerie per le ore notturne in cui la crisi è in agguato. «Restare senza cibo è terribile, perdi ore su ore. Anche l'idratazione è fondamentale di notte perché il nostro fisico la richiede anche in questa circostanza». Omar ha vinto: cinque giorni, otto ore e quarantanove minuti e il gradino più alto del podio. Una liberazione.
«Ho capito che la mente può supplire a qualunque limite del corpo. Nel ciclismo moderno, se smetti di vincere, tutti credono tu non valga più nulla. Non è così. La realtà è che, iniziando sempre più presto, si rischia di essere considerati finiti già in giovane età. È un rischio soprattutto per chi non regge queste pressioni e queste tensioni».
Se oggi Omar Di Felice pensa agli anni che passeranno non ha timore. «Verrà il giorno in cui le cose cambieranno e non sarà certo il mio non volerlo accettare a modificare la realtà dei fatti. Credo che sia la predisposizione l'importante. Ho sempre pedalato per scoprire, per imparare e conoscere. Continuerò a farlo a qualunque età, cambieranno i modi, non la sostanza».
Il viaggio in Alaska di Tiziano Mulonía
Solo il giorno prima Tiziano Mulonía si era svegliato piangendo. Sette, otto mesi passati ad allenarsi duramente e ora il viaggio in Alaska era a rischio. Aveva chiesto più volte spiegazioni all'ambasciata americana, ma l'invito era sempre lo stesso. «Le faremo sapere. C'è un'epidemia, è un periodo delicato». Quella telefonata, il 26 febbraio, era totalmente inattesa ormai. Tiziano, al mattino, era uscito in bicicletta per distrarsi, per non pensare a nulla. «Avevo già tutto pronto, la bicicletta impacchettata, il tampone prenotato. La testa mi diceva che non c'erano più possibilità, l'istinto mi faceva restare in attesa». Quel permesso voleva dire che quelle 350 miglia di Iditarod Trail, lunga ultramaratona invernale che si può affrontare in bici, a piedi o con gli sci, da percorrere nel gelo, sarebbero stata realtà solo due giorni dopo. Lo spaesamento aveva presto lasciato spazio ad un'organizzazione fulminea con un volo preso all'ultimo secondo, tra chi gli permetteva di scavallare la coda in aeroporto e chi lo mandava a quel paese, innervosito da tanta fretta. A Tiziano non interessa, l'unico suo pensiero è arrivare in Alaska.
Sono ventisei le ore di volo e Tiziano Mulonía cerca di non dormire, vuole arrivare stanco, in modo da riposare bene la notte. In hotel, a tarda sera, preparerà la bicicletta in vista dell'appuntamento con il meccanico e andrà a letto. «All'entrata in quel negozio ho sentito una forte botta, un tonfo sordo, qualcosa che rimbombava. All'inizio ci ho dato poco peso, poi, non riuscendo a togliermelo dalla testa, ho chiesto. La risposta mi ha lasciato basito: “C'è stato un terremoto. Più di quattro gradi della scala Richter, qui succede”. Mi sono ripetuto che dovevo stare calmo». Suo fratello, Willy, glielo aveva detto molte volte: «Ricorda, in Alaska ti aiuteranno solo la calma e la pazienza». Lui in Alaska c'era già stato e un percorso simile lo aveva già affrontato a piedi, si era ritirato distrutto, prima di scoprire un'ernia e di capire che i tempi di recupero per la camminata non ci sarebbero più stati. Dopo alcuni mesi aveva chiesto a Willy di metterlo in sella, perché era l'unica possibilità per poter pensare di tornare in Alaska. «L'unica volta che ero stato in bici avevo diciotto anni e con Willy avevamo scalato un monte della zona. In cima avevo giurato che non avrei mai più toccato una bici. Ma la vita è imprevedibile».
Tiziano parte forte, sta bene e, forse, questo lo induce in errore. La prima notte la neve cade grossolana e lui, in viaggio verso il secondo checkpoint, la subisce. Arriverà con sei ore di ritardo sulla tabella di marcia e oggi ammette che la scelta migliore sarebbe stata fermarsi al primo punto di controllo e gestire i tempi diversamente. Il giorno successivo dovrebbe percorrere cinquanta chilometri, ne percorre novanta per recuperare quel ritardo. L'avvicinamento alla prima scalata del Rainy Pass è cruciale: bisogna arrivarci il prima possibile, in modo da avere il tempo di recuperare. Tiziano ha dormito bene, “quasi in coma” dice lui, e quella mattina i pedali vanno veloci. Ad un bivio, Mulonía sbaglia strada e va dritto. «Stavo percorrendo vie che non conoscevo, nel nulla. Dopo circa quaranta chilometri ho controllato il gps: ero fuori percorso. Mi sono seduto per terra, sono crollato. Piangevo, singhiozzavo. Saranno stati tre minuti, infiniti. Al ritorno della razionalità, mi sono parlato: “Tiziano, sei stato tu a sbagliare. Ora riparti e vai a destinazione”. Dovevo arrivare alle sei del pomeriggio, sono arrivato alle due di notte, ma era l'unica cosa da fare. Se non sei grado di porre rimedio da solo ai tuoi errori, sei il tuo più acerrimo nemico».
Le esperienze degli anni precedenti gli hanno insegnato la sola cosa che conta in questa ghiacciaia. «Madre Natura comanda, lei decide, lei ha pieno potere su di te. Se pensi di sfidarla, se pensi di ingannarla, ti affossa, ti sfinisce. In casi estremi ti uccide. Devi accettare la tua inferiorità e vivere con rispetto». La paglia accanto a cui posa il sacco a pelo per riposare è la stessa che l'anno prima non lo ha lasciato dormire, questa volta, però, Tiziano non si alza, non perde la pazienza. «Una volta, con Willy, ero ripartito in piena notte e avevo camminato ventidue ore, a mollo in settanta centimetri di neve, a meno cinquanta gradi, solo per l'impazienza di arrivare. Ricordo che Willy, all'arrivo, mi disse: “Tiziano, non sei contento? Sei arrivato, l'hai finita”. Ero felice ma non me la sentivo di sorridere, avevo sbagliato, non mi ero controllato, non avevo fatto come avrei dovuto. Avevo pagato quella fatica e avevo capito cosa non fare più. Se non sei razionale, sei perduto. Qualche anno fa sono stato assalito da un alce di settecento chili. Potevo spaventarmi, scappare o pensare al ritiro. Mi sono gettato nella neve fresca, ricordando che questi animali, lì, vanno in difficoltà». Si riparte alla una di notte, svegliati dall'arrivo di una gara di cani: le norme non permettono l'assembramento e quattro ore di riposo sono più che sufficienti.
Mulonía scala l'altro versante del Rainy Pass. In cima torna a cadere la neve, gli ultimi due chilometri li percorre con già venti centimetri sul terreno. Giusto un checkpoint per mangiare qualcosa e si va verso Finger Lake. Mancano cento miglia all'arrivo e non nevica più. Tiziano impiega altri due giorni. Il suo viaggio terminerà alle due di notte. «Stavo perdendo lucidità, ero convinto di non avere più cibo, invece qualcosa c'era ancora. Negli ultimi chilometri pensavo a mia moglie e a mia figlia. A tutto il tempo che ho tolto loro per prepararmi, a tutte le attenzioni che mi hanno dedicato, al pane contato a tavola, ai vestiti che mi hanno fatto trovare sempre puliti, a posto, pronti per ripartire. Sono in debito con loro, ma restituirò tutto, se lo meritano». E ancora ritornano le parole di Willy e la consapevolezza. «Non gli ho mai chiesto nulla in più di ciò che già mi dicesse. Non doveva essere lui a sobbarcarsi anche la mia fatica. Ho sempre pensato che dovevo essere io in prima persona a sbattere il naso per capire gli errori. Devi avere il coraggio di sbagliare da solo, perché, poi, la soddisfazione sarà ancor maggiore. Essere uomini significa anche questo».
Tiziano aggiunge poche parole: «Non voglio sentire parlare di eroismo. Non sono un eroe. Quello che ho fatto è qualcosa di mio, qualcosa che fa parte della mia vita e che tengo stretto. Solo questo». Poi l'ultimo pensiero: «Due anni fa, abbiamo perso il nostro secondo figlio. Era ancora in grembo, diciotto anni dopo la mia primogenita. Io ho sofferto, ma l'ho accettato. Mia moglie ha passato un periodo molto difficile e non se l'è più sentita di provare ancora ad avere un bambino. Aveva troppo paura di una nuova perdita, di tutto quel dolore. Ho accettato questa scelta. Due mesi fa abbiamo preso una cagnolina, abbandonata in una scatola in un campo. Non puoi immaginare quello che mi fa provare guardarla. Mentre ero in Alaska, mia moglie le faceva sentire la mia voce e lei guardava lo schermo del telefono. Quando sono tornato mi ha accolto in un modo indescrivibile. C'era così tanta felicità in quel suo scodinzolare. Se avessi saputo che avere un cane sarebbe stato così, l'avrei adottato dieci anni fa».
Foto: Tiziano Mulonía
In Egitto per conoscere mio padre
Dopo più di un anno, Omar Mohamed Ali e suo padre si sono incontrati oggi all'aeroporto del Cairo e per più di tre settimane viaggeranno assieme nelle loro terre originarie, quelle d'Egitto. Omar correrà e pedalerà, papà lo aspetterà insieme alla squadra di supporto e al pomeriggio chiacchiererà con lui e visiterà città. In fondo è stato proprio papà a volere questo viaggio assieme. «Quando gli ho telefonato e gli ho detto che avevo intenzione di partire alla volta dell'Egitto, mi ha subito detto che, se fossi partito, lui sarebbe stato al mio fianco». Fino a qui potrebbe essere una storia come tante altre, invece no, perché Omar e papà sono stati lontani per troppo tempo e ancora oggi non si conoscono pienamente.
«Oggi so che la storia di mio padre è la storia di un uomo a caccia dei propri sogni. Da bambino non potevo neppure immaginarlo e avrei voluto fosse come tutti i genitori dei miei compagni di classe: quelli che andavano in campeggio, in montagna e al mare con i figli. Lui no, lui non c'era mai. Sono stato arrabbiato molti anni con lui poi ho capito che non avrebbe mai potuto essere come loro. Papà veniva da un paese povero, aveva combattuto la guerra del Sinai, l'aveva persa, e prima di conoscere mamma viveva in Inghilterra. Lì dove sarebbe tornato dopo il divorzio. Era consulente finanziario e in quegli anni nessuno qui avrebbe affidato i propri risparmi a un uomo di colore». Omar racconta che papà è cambiato, dice che la vera avventura sarà la riscoperta di quest'uomo e pensa alle domande che vorrebbe fargli.
«Nonostante tutto, in quegli anni ha mantenuto cinque persone. Da bambino quando mamma e papà si lasciano tu stai istintivamente dalla parte della mamma perché cresci con lei, papà è colui che ti ha abbandonato. Non è così. Mio padre, diventando anziano, ha sentito sempre più la mancanza della propria famiglia, è diabetico e in Inghilterra ha tutto, ma noi gli manchiamo. Vorrei chiedergli tante cose ma ho anche paura perché con lui non ho la confidenza tipica dei figli con i padri. Magari, se troverò il momento, gli chiederò se abbia mai pensato di rifarsi una famiglia. Lo vorrei sapere da tanto».
Il viaggio partirà da El Alamein. «Sono stato militare, andrò al sacrario e lascerò il mio cappello da alpino. Lo sento come un dovere. In fondo, El Alamein è una parte di Italia, in terra egiziana, dove durante la guerra hanno perso la vita troppe persone». Poi ci si sposterà verso Alessandria d'Egitto, la città natale del padre di Omar. «L'ultima volta che sono stato ad Alessandria era il 1992, per le vacanze d'agosto, a casa della nonna. Quell'anno ci fu il terremoto, la piramide di Giza venne danneggiata, e noi tornammo a casa solo a ottobre inoltrato perché i voli erano sospesi. La casa di mia nonna subì dei danni e pendeva da un lato, così, per far stare dritto il letto e riuscire a dormire, gli mettevamo dei libri sotto». Da qui, Omar si muoverà verso il Cairo e poi verso l'Oasi desertica di Bahareya. «Sarà una strada desertica di 400 chilometri. Farò circa 50 chilometri al giorno e ne uscirò in otto giorni. A fianco a me scorreranno due deserti: quello bianco, calcareo, di pietre e il “grande mare di sabbia” del deserto occidentale». E via verso l'oasi di Dakhla, di Kargha e finalmente Luxor, la Valle dei Re. L'ultima tappa, ad oggi, sarà Aswan, ma Omar confessa che, in fondo, gli piacerebbe arrivare ad Abu Simbel e, se ne avrà modo, ci proverà.
La domanda viene naturale: qual è la cosa che più ti spaventa? «Perdermi in mezzo al deserto. In Oman, nel 2019, mi successe, ma non ero solo. Qui, nonostante la squadra di supporto, passerò ore e ore da solo e quindi la paura è maggiore ma, come dico sempre io, se hai un obiettivo, lui ha te. Difficilmente ti perderai, se credi a questo. Forse è così che ho scelto il minimalismo, nello sport come nella vita. Non serve molto per farcela». In realtà c'è un'altra cosa a cui Omar crede e che lo aiuta: il destino. Ci crede da quella volta in cui papà gli raccontò della sua guerra. «Me ne parlò solo una volta e si vedeva quanto soffriva. Una spia israeliana fece attaccare la postazione di mio padre: molti rimasero feriti, un suo compagno gli chiese dell'acqua e papà andò alla base a prendergliela. In quegli istanti la postazione venne rasa al suolo. Papà riuscì a tornare a casa a piedi con altri diciassette compagni. Si nascosero fra i corpi dei soldati uccisi e si sporcarono di sangue per non farsi riconoscere. Due israeliani si fermarono proprio sopra il suo corpo, uno gli tirò un calcio: “È morto anche questo”. E proseguirono. Papà mi dice sempre che bisogna credere nel destino, che quando ci succede qualcosa di brutto è solo perché ci aspetta qualcosa di meglio. Lui ha passato tre terremoti, un uragano, la guerra, il Covid ed ha ancora voglia di scoprire, di viaggiare, di conoscere. Noi diciamo che ha la pelle del coccodrillo del Nilo, tanto è forte. Forse è il caso di ascoltarlo. Forse è proprio perché ho lui davanti che riesco a credere nel destino».