Quei posti dove vivere le corse
Per l’ennesimo giro consecutivo, un tifoso insegue Wout van Aert lungo il rettilineo. Il campione nazionale belga sta cercando di destreggiarsi tra la neve, il fan gli corre a fianco al di fuori delle transenne. Stanno tutti guardando la scena, sul muro: aspettano l’arrivo di van Aert perché è il primo della corsa e il primo trasmette sempre una vibrazione differente. Percorrono una ventina di metri fianco a fianco, Wout e questo tifoso vestito di nero. Il crossista riesce a domare la bici, mentre il tifoso non vede un avvallamento nella neve, inciampa e cade. È una scena fantozziana che fa ridere tutti coloro che seguono la corsa dall’alto.
Nel salire verso la parte più ostica del tracciato di Vermiglio, un gruppo di amici ha rovesciato un box di plastica e lo ha usato come sostegno per un tagliere. Tempo verbale al passato perché la funzione dei due coltelli si è già esaurita: croste di formaggio e pellicine di salame rimangono sul tagliere come dimostrazione di un pasto goduto. C’è una bottiglia di vino vuota, poco distante, e una pentola di notevoli dimensioni che chissà cos’ha contenuto. Iserbyt scende dalla bici per affrontare il muro di corsa proprio davanti a questo banchetto improvvisato.
I tifosi che sono quassù non godono di un privilegio notevole: la neve battuta anche fuori dal tracciato di gara permette di non bagnarsi i piedi, di non affondare fino al polpaccio. Sul muro - tutto, sempre all’ombra - no, ci sono pazzi i cui corpi devono essere ormai prossimi all’ipotermia. Finito il tratto in contropendenza, una discesa che tanti fanno comunque a piedi porta a una seconda salita, in cui il passaggio è obbligato verso l’interno del tornante. Lì è stata ricavata un’area per un fotografo, che segue con enfasi ogni atleta che passa. Ha la pettorina gialla, sta con un ginocchio nella neve e probabilmente trovava noioso scattare ai matrimoni.
Dentro all’azione com’era quel fotografo, non so se si è accorto che il muro e il scendi-sali spaccagambe subito successivo, visti dall’inizio del tracciato della Val di Sole, sembrano un cuore. Con le reti rosse a tracciarne il perimetro, con le persone a renderlo vivo e rumoroso. Non a caso Eva Lechner, dopo un brillante quarto posto, ha detto che tutto il tifo è stato grandioso, ma ogni passaggio sul muro è stato speciale.
Foto: Daniele Molineris
Wout van Aert in un teatro di ghiaccio
Percorso? Bello e duro. Il contorno? Paura del freddo. Sensazioni che sono poi le parole più gettonate alla vigilia. "Tricky" è quella che usa più spesso Pidcock per definire un tracciato che, con i suoi 1261 metri d'altitudine resta unico nel panorama attuale della Coppa del Mondo di ciclocross. Per qualcuno è come guidare sulla sabbia, per altri sarà peggio che (sciare!) sulle uova.
Un freddo cane. Per chi corre e per chi sta a bordo strada dove le parole più gettonate in questo caso sono allitterazioni. «Alè alè alè, vai Wout». A momenti non si conosceva altro modo per esprimere i sentimenti.
Suggestivo, non c'è che dire. Un teatro di ghiaccio. Dove Wout van Aert inscena il suo monologo. In testa dal minuto numero nove e pochi secondi scarsi, fino all'arrivo. Gli altri erano già a Vermiglio quando ieri lui vinceva a Essen. Arrivava solo verso sera in Italia e in mattinata provava, tranquillo, la pista. Chi lo ha visto nelle prime ore del giorno, lo ha ammirato sereno bici in spalla, attento alle traiettorie (ma con piccola caduta), e poi via a memorizzare i punti più difficili.
Si adattava velocemente. Emblema del talento. Qualche sbavatura, ci mancherebbe altro, Vanthourenhout che prova l'allungo subito uscito bene dalla prima curva, ma van Aert prende confidenza, lo affianca, lo guarda per un attimo. Poi se ne va.
Nessun problema di concetto, solo qualche rischio su una bici che prova a tagliare in due la neve, a tratti dura, aggressiva, a tratti molla: avesse avuto gli sci ai piedi sarebbe stato tipo una Sofia Goggia, oppure il genio di Clement Noel che tra i pali stretti si accende a intermittenza come mostrato solo poche ore prima da tutt'altra parte. Con una carabina in spalla oggi van Aert avrebbe preso tutti i bersagli.
E in Val di Sole, teatro di ghiaccio per l'occasione e dove quel sole che sta nel nome lascia solo qualche scia e la fotografia si impregna di un blu intenso, si creano ambizioni importanti per il movimento (obiettivo Giochi Olimpici), ma si parla la lingua del fuoriclasse tutto muscoli, testa, tempra e spirito.
Capace di vincere in salita, a cronometro, in volata, nelle corse di un giorno, nel fango e oggi persino sulla neve. Trionfante, senza tentennamenti o quasi, davanti a Vanthourenhout e Pidcock autore di una superba rimonta.
La prossima volta, in caso, proviamo davvero a vedere come van Aert se la cava con un paio di sci ai piedi. Intanto qualcuno afferma, visto che van Aert va forte un po' dappertutto: in una giornata epica per il motorsport, vince il miglior motore delle due ruote. Non sarà un caso.
Foto: Giacomo Podetti
Come cristalli
Sembrerebbe sabbia, vista dall’alto. Magari di qualche spiaggia a ridosso del mare del Nord. Sono cristalli di neve, invece, a Vermiglio, in Val di Sole. Qualcuno racconta che ognuno abbia una forma particolare, diversa dagli altri, come le impronte digitali umane. Non ti aspetteresti biciclette da cross qui.
Se qualche giorno fa, vi avessimo raccontato la storia di Fem Van Empel, certamente vi sarebbe tornata in mente, vedendola davanti dall’inizio. Questa ragazza che giocava a calcio e provava qualunque ruolo perché le interessava correre, insistere. Il calcio l’ha lasciato perché ha capito che non tutti in campo davano il loro meglio, che c’era chi si risparmiava. Ha preso la bicicletta perché lì dipendeva tutto da lei. È stata una delle poche a riuscire, qualche volta, a saltare gli ostacoli in sella, senza scendere.
Non è facile con queste canaline che si formano tra la neve farinosa: c’è il rischio siano ghiacciate, puoi sprofondare, di certo sbandi, ne esci sbilenca, quasi scomposta, la prospettiva futurista di un corpo umano. Il sole qui arriva per poco tempo, il resto è ombra e luce biancastra che imbroglia.
Marianne Vos è quella di sempre, anche se ha un incidente meccanico e una scivolata che sembra impedirle di ritornare su Van Empel proprio dopo una rimonta incredibile.
Un brutto presagio come un malinconico tramonto, il sole che se ne va, poco dopo le due del pomeriggio. Dietro si continua a prendere la bici in spalla e rincorrere. Dopo cinque giri sembra di sentire il fiato che finisce e l’aria fredda che dalla bocca spalancata gela la trachea, si impossessa del respiro.
Vos e Van Empel arriverebbero allo sprint se non fosse per la neve o forse per un paletto in una curva che Vos non vede e frana a terra. Sembra infinito anche il tempo per rialzarsi qui, invece sono pochi secondi, quasi di agonia, perché scivoli e perché sai che l’altra se ne va.
Van Empel, a soli diciannove anni, vince davanti a colei che ha vinto tutto. Seguono Vos e Rochette, Eva Lechner è quarta, Alice Maria Arzuffi settima, Silvia Persico decima. C’è chi dice che Van Empel, dopo ciò che ha fatto, meritava la vittoria e chi sostiene che per quello che ha fatto Vos oggi è un peccato sia finita così. Forse sono vere entrambe le cose, com’è vero che, comunque vada, vince uno solo, giusto o meno che sia. Basta poco per una ciclista, dura e fragile come cristallo di neve.
Foto: Giacomo Podetti
Ciclisti delle nevi
Da una decina di giorni, a Vermiglio, le ruspe di Flanders Classics coordinate da Chris Mannaerts spostano, compattano, rovesciano neve. Un gatto delle nevi grande quando un bilocale ha lisciato un minimo il fondo, ma fin dai primi minuti di prove libere si capisce che presto verrà rotto dalle biciclette, come una pista alle quattro del pomeriggio dagli sci.
«Il tracciato è diviso in due parti» spiega Mannaerts. «All’inizio c’è un tracciato più tecnico e poi dall’altra parte del fiume c’è una salita molto ripida. Sarà molto impegnativo perché è una linea retta verso la collina. Vedremo chi riuscirà a salire in cima e chi scenderà dalla bici. Questa sarà la chiave fondamentale in questa gara, insieme a chi sarà in grado di effettuare gli sforzi più volte».
Il manager di Flanders Classics, che organizza la Coppa del Mondo di ciclocross compresa questa nuova tappa in Val di Sole, ha ragione: il rettilineo verso quel muro atroce sarà il passaggio chiave della corsa. È lunghissimo, un centinaio di metri a occhio, e nelle prove è caduto un atleta su due.
Va ripetuto: è un rettilineo pianeggiante. Non dovrebbe essere così difficile. Il problema è anche il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su questo evento: la neve. Fa slittare le ruote, il ciclista perde aderenza, la bici scoda. Qualcuno ha dovuto appoggiarsi alle reti che confinano la pista, altre si sono rifiutate di non farcela e hanno provato più volte a uscire indenni da quel settore.
La beffa consiste nel fatto che, finito questo inferno ghiacciato, comincia un muro - sempre innevato - di cinquanta metri in cui si dovrà scendere e caricare la bici in spalla. La discesa, poi, è altrettanto insidiosa: lanciarsi a oltre 40 km/h giù dal versante di una montagna su fondo innevato non è esattamente una passeggiata.
Per le gare di domani, Wout van Aert, che oggi ha corso in Belgio - e ha vinto - e arriverà in Italia stanotte, ha le stesse certezze che hanno gli spettatori, già accorsi in massa per le prove del sabato: nessuna. «Non sono mai stato un re della neve» ha detto uno dei ciclisti più forti della sua generazione, che ha comunque fatto di tutto per esserci. La neve spaventa e affascina tutti.
Foto: Giacomo Podetti
Sentirsi uno dei migliori
Si potrebbe definire Eli Iserbyt oramai quasi un gigante di questa disciplina e come a tutti quelli che vanno forte anche la fortuna gli dà una mano.
Mentre pedala nel fango verso il traguardo del quinto dei sei giri della prova di Coppa del Mondo a Besançon, guarda la ruota posteriore del suo avversario Aerts.
Poi succede qualcosa, la faccenda già la conosciamo pur essendo un popolo smemorato a dismisura. Aerts va lungo e cade, rialzandosi sembra persino tentare uno sgambetto – un colpo a metà tra il tackle e la arti marziali di cui Aerts, col fisico che si ritrova, potrebbe esserne un degno rappresentante. Ma nessuno può conoscere con sicurezza le vere intenzioni, anche analizzando il fotogramma o chiedendo lumi ai santoni del VAR; bisognerebbe chiedere consiglio a chi sa leggere la mente per capire cosa ci fosse in quel gesto che magari era semplicemente un modo per fare leva sul suo corpo su un terreno fangoso e scivoloso, per poi rialzarsi.
Dopodiché sarà stato il puro caso o per una questione di spazio e tempo, Eli Iserbyt passava di lì in quel momento esatto e lo evitava, fate voi come chi. Quando si è bravi, quando si sta per diventare giganti, tutto fila liscio, persino la Signora Fortuna tende a stare dalla tua parte.
Beh comunque, intervento difensivo di Aerts e fortuna a parte, Iserbyt va forte, e tutto gli va dritto ciclocrossisticamente parlando, a prescindere da quello che è successo.
Nemmeno elenchiamo il palmarès, ma stiamo sull'attualità: 12 (dodici!) vittorie in questo inizio di stagione che è roba proprio à la van der Poel (Alamathieu). Avversari? Van Aert è tornato e li ha già messi in croce; Aerts è sempre lì, ma non basta, a Sweeck manca sempre qualcosina, sarà per quella faccia da tenerone, Ronhaar è esaltante se non altro perché la carta d'identità fa impressione, mentre van der Haar dà spettacolo a intermittenza come la luce di una vecchia insegna al luna park. E il luna park è quell'enorme sagra paesana del ciclocross, un fatto viscerale per i belgi, di folklore, tradizioni e campanili. Ci sono state sfide selvagge a dir poco, mentre oggi tutto appare più tranquillo. Una passione che va oltre tanto che «quando vai per strada la gente ti riconosce perché d'inverno tutti guardano il ciclocross» racconta Iserbyt. Ciclocross che riversava in altri momenti migliori per l'umanità fiumi di birra e quintali di grasso dentro tendoni con musica folk dance - mentre ora, ahinoi, si ricominciano a vedere le gare a porte chiuse.
Prendiamo solo a margine la polemica di Nys: secondo lui non è proprio giusto, no, no, pagare van der Poel e van Aert per partecipare alle gare di Coppa del Mondo (ma d'altra parte l'attenzione gira tutta intorno ai due re della pista da ballo, e lo diciamo a scanso di equivoci che le vittorie di Iserbyt sono arrivate senza la presenza dei due); mentre a Iserbyt diamo quello che è di Iserbyt, e non sono solo bici e guanti, casco e premi, o un bacio come ha fatto la sua ragazza subito dopo il traguardo l'altro giorno. Diamo a Iserbyt i suoi meriti.
Sentendolo parlare non è proprio uno di quelli banalissimi, ma nemmeno uno che staresti ore a sentirlo discutere, diciamo una bella via di mezzo come è giusto per un ragazzo di 24 anni che va in bici: Iserbyt dice di se stesso di non poter mai arrivare all'altezza di van der Poel - tanta franchezza ci mancava.
Se qualcuno volesse conoscerlo fuori dalle corse sappia che arriva da Bavikhove, Fiandre occidentali, ha due cani e parla quattro lingue, che giocava a calcio, ma il suo primo amore (pensiamo in senso sportivo) è stato il ciclocross che praticava inizialmente per diletto quando lo vedeva in televisione nei week end. Su strada sarebbe valido e (come tutti, grandi e piccini) sogna di partecipare al Tour de France, ma servirebbe solo qualcuno che glielo facesse correre, anche in funzione ciclocross: dal punto di vista del motore, forse, potrebbe essere la svolta della sua carriera.
Iserbyt, che per caricarsi ascolta musica dance, per coricarsi non sappiamo, non sempre corre con i guanti e si considera forte, sì, ma soprattutto: uno che dà sempre il massimo (beh!). In una recente intervista afferma come intorno a lui «tutto sembra diventato più grande, ma nonostante le vittorie non mi sento il migliore al mondo. Cerco solo di vincere il più possibile». Onestamente, Iserbyt.
Qualcosa è cambiato
Qualcosa è cambiato ma non tutto negli ultimi due anni di Heinrich Haussler. A fine 2019, di questi tempi, scopriva la bellezza del ciclocross. Si sarebbe preso a botte in testa per non averlo scoperto prima, sognava di non farsi doppiare da van der Poel al Mondiale e restava a bocca aperta guardandolo passare nelle ricognizioni dei percorsi.
Qualcosa è cambiato ma non tutto; quest'anno, come quello prima, Haussler deve fare i conti con un budget che dipende da quello che ha in tasca. Paga lui: bici, trasferte, persone che lo supportano e lo aiutano e quelle persone spesso sono amici e tifosi.
Lo prendono per pazzo per come riesce a portare avanti il suo amore per lo sport ma è che solo così riesce a stare concentrato e sopportare i sacrifici; a Tabor, un paio di settimane fa, è caduto, si è ferito, sanguinante ha chiuso la gara, finita la gara non ha nemmeno fatto la doccia e ha guidato per sette ore ed è rientrato a casa alle 2 di mattina.
Ama freddo e pioggia e - sappiamo bene - corre le classiche del Nord senza guanti. Pare sia questo che lo abbia spinto a provare il ciclocross. Gli inverni che passa gareggiando, sostiene fermamente, lo aiuteranno ad avere una carriera più longeva. 37 anni, ha avuto alti entusiasmanti e sbandate che potevano costargli più che una semplice fine anticipata della sua vita agonistica.
La storia nell'ultima stagione lo ha raccontato di fianco a Colbrelli, presente con profitto alla Roubaix (1° Colbrelli, 10° Haussler), lo ha abbracciato in lacrime tagliato il traguardo: era stato fermo due mesi in estate per preparare al meglio l'Inferno del Nord.
Qualcosa è cambiato: «Sto invecchiando e il ciclocross mi aiuta a mantenere la forma d'inverno». Lo aiuta a stare sul pezzo e ad allungare la sua vita da corridore anche, o soprattutto, su strada.
Se gli chiedono cosa gli piace del ciclocross dice che è così bello che non sarebbe descriverlo a parole. Così bello che una volta disse che se un giorno i suoi figli gli dovessero chiedere di correre in bici, lui sarebbe persuaso di mandarli a praticare questa disciplina.
Questa parte finale l'abbiamo già raccontata tempo fa, ma meritava di essere ricordata. Perché qualcosa è cambiato in Heinrich Haussler, ma non tutto.
Ciclocross, cos'altro?
Abituati a tenere monitorati quei tre lì, segnandoci sul calendario il giorno del loro ritorno in gara, stiamo forse facendo passare sottotraccia le cose interessanti che sta regalando il ciclocross in queste settimane.
Ieri Besançon, per una volta Francia e non Belgio e Olanda, non è stata da meno, anzi. Il canovaccio era quello tipico di una tipica domenica di fine autunno; giornate che a noi comuni mortali ci tengono inchiodati sul divano: freddo e pioggia fuori, e a uscire di casa non se ne parla.
Toon Aerts ed Eli Iserbyt, invece, esseri umani uguali, ma così differenti da noi e tra loro, e soprattutto con una missione differente, loro sì erano fuori casa a darsele, scrivendo un altro capitolo dei loro duelli ridleyscottiani.
Proprio come nell'opera in questione, due strutture agli antipodi: Iserbyt piccolo e agile, Aerts lungo e potente. Un tratto li accomuna: la grinta.
Ieri a Besançon, in mezzo a tutto quel fango, con un sacco di gente a incitare (e parola di Iserbyt «A emozionare i corridori») su un tracciato tecnico e reso ancora più complesso dalle condizioni meteo, hanno inscenato una sfida spettacolare che inizialmente sembrava dovesse favorire il lungagnone (più a suo agio su un tracciato inscurito dalla pioggia) in confronto al piccoletto (che spesso non ama condizioni estreme).
A un certo punto, però, si era all'incirca al 51' di gara, ormai verso la conclusione, Aerts allungava e sembrava farlo in maniera definitiva, ma una leggera discesa e poi una curva insidiosa gli mostravano il conto.
Aerts, disarcionato dalla sua bici incastrata e impazzita in mezzo alle canalette create dal passaggio delle ruote sul fango, risaliva senza poter più colmare il gap che riusciva a scavare Iserbyt, arrivato lordo di fango e vittorioso al traguardo.
Ma ciò che ci premeva sottolineare in questo lunedì mattina non è tanto il risultato, ma è il fatto di aver visto Aerts, una volta superata la linea d'arrivo, francamente distrutto e deluso, scendere dal suo mezzo, avvicinare le transenne, mescolarsi tra il pubblico che lo guardava incredulo e incitare chi arrivava dopo di lui, in particolare il giovane compagno di squadra Ronhaar, campione del mondo under 23 e al primo podio in carriera tra gli élite (e terzo più giovane di sempre, indovinate chi sono i primi due?).
Quella qui in fondo al testo è una delle immagini dell'anno. Senza dubbio. Quello che abbiamo visto è ciclocross, cos'altro?
Messico e fango (ma non solo)
Prologo: un ragazzo in divisa nera attraversa un vialetto infangato in sella alla sua bici. È autunno, ormai, ed è da quasi un anno lontano migliaia di chilometri da casa. Lontano per coltivare una passione, la bicicletta; per divertirsi sì, guai altrimenti, ma anche per cercare di farne qualcosa in più che una semplice serie di gare con gli amici con i quali ha attraversato l'oceano, o restare a bocca aperta mentre di fianco passano i migliori corridori del vecchio continente.
Il ragazzo pedala senza infrangere alcuna regola della sua realtà, pur mescolandosi con la fantasia. Guarda verso l'orizzonte e sogna di diventare un professionista.
Attorno a lui è iniziato il fogliaggio. Macchie rosse, gialli e arancioni incorniciano la scena belga, di un belga fiammingo, diremmo per enfatizzare e colorire. Arriva in cima a una breve salitella dopo aver provato e riprovato curve insidiose; dopo aver tentato e ritentato a saltare gli ostacoli, dopo essere scivolato un paio di volte portandosi l'ingombro della bici sulle spalle. Ha guanti pesanti, le labbra gonfie per il freddo, si scrolla di dosso la fatica pensando all'indomani. Tutto è attesa per il giorno della gara.
I fatti: Gli appassionati di ciclocross saranno sicuramente rimasti incuriositi quando, un po' di tempo fa, hanno visto alcuni ragazzi messicani prendere il via a gare internazionali del calendario italiano. Figuratevi averli visti a Tabor, Repubblica Ceca, e poi a Koksijde, Belgio, per la Coppa del Mondo, e a Merksplas, sempre Belgio, quarta prova stagionale del Superprestige.
A Tabor una data simbolo: il 14 novembre infatti è stata la prima volta per un team e per atleti messicani nella storia di questa disciplina.
L'internazionalizzazione del ciclismo appare scontata ormai quando parliamo di strada, e di pista, quella del ciclocross decisamente meno, in un mondo, quello del fango, che attualmente per numeri e qualità è dominato dalla lingua neerlandese con inserimenti britannici, che fanno sistema, mentre la presenza di Blanka Vas ad esempio, ungherese, più che figlia di un movimento in fermento o che investe, è molto più semplicemente talento.
Il progetto della A.R. Monex, la squadra di cui parliamo, che ha avuto per lungo periodo base sul Monte Titano, San Marino, prevedeva esperienza da fare in Europa al cospetto dei più grandi, come ha raccontato il team manager della squadra Alejandro Rodriguez: «I nostri corridori volevano capire a che livello sono e adesso sanno quanta strada c'è da fare, di sicuro si portano dietro un bagaglio di esperienza incredibile». Un'esperienza che è partita già all'inizio del 2021: i ragazzi della A.R. Monex infatti hanno preso parte a diverse prove di mountain bike, con gettoni in Coppa del Mondo, e pure su strada si sono fatti notare e persino con buoni risultati sia tra gli Under 23 che tra gli juniores.
Dunque non è solo folclore, anzi, mentre è forte la curiosità nel vedere el tricolor messicano e quelle maglie nere con le bandine celesti sulle maniche.
Tra questi corridori c'è Isaac Del Toro, che nelle sue esperienze nel CX ha persino vinto a novembre una gara del calendario italiano, il Trofeo Bikeland Ciclocross a Città di Castello. Ha collezionato un 20° posto a Brugherio e un 22° posto al Trofeo Guerciotti: per nulla male considerata anche la giovanissima età: 18 anni compiuti nei giorni scorsi. 37° a Tabor, in Belgio, Isaac, sempre il migliore dei suoi, ha ottenuto un 40° posto nel Superprestige di Merksplas e un 41° a Koksijde in Coppa del mondo, misurandosi nella categoria élite con il meglio in circolazione.
Ora torneranno a casa, «L'obiettivo è crescere - racconta sempre Rodriguez - e chissà, magari un giorno diventare delle star del ciclismo in Messico e motivare così altri giovani a conoscere questa grande, meravigliosa e durissima disciplina».
Hanno un hashtag - #LoVamosALograr - ovvero ce la faremo, banale, volendo, ma così importante per loro. Come primo approccio ce l'hanno fatta, l'obiettivo è quello di diventare sempre più forti, magari trovare un contratto tra i grandi in Europa, e fosse possibile far parlare di sé.
Epilogo: la stagione per loro si chiude. Il ragazzo carica la sua bici nel pulmino e chiude gli occhi mentre rientra a casa ripensando all'autunno belga, al fango che gli ricopriva occhi e bocca. A quei mostri sacri del ciclocross. E in fondo a quel viale un tramestio di biciclette e freni. Il suono del ciclismo.
Un lavoro a lungo termine: intervista a Daniele Pontoni
Accostare il nome di Daniele Pontoni al ciclocross, in Italia, ma non solo, è operazione semplice, quasi istintiva. Da corridore: due campionati del mondo (uno tra i dilettanti e uno tra gli élite), due classifiche finali del Superprestige, una Coppa del Mondo e diverse corse di spessore in giro per l’Europa nel palmarès, hanno fatto di lui, per anni, uno dei nomi di vertice della specialità e sicuramente il più forte crossista italiano insieme a Renato Longo.
Corridore tecnico e grintoso, da pochi mesi, dopo aver fondato tempo fa, e poi seguito da vicino fino allo scorso anno il Team DP66, cercando di dare continuità a quella che è stata la sua vita in sella a una bici tra le brughiere di tutta Europa, apportando consapevolezza al movimento e insegnando i segreti di questa disciplina a ragazzi e ragazze, è stato scelto dalla Federciclismo come nuovo Commissario Tecnico della nazionale di Ciclocross: l'obiettivo è portare in maglia azzurra nuove idee e l'esperienza maturata negli anni, dando uno sguardo diverso rispetto al passato e verso il futuro della disciplina.
Racconta, Pontoni, di sentirsi «motivato per questo incarico, complesso, ma incredibilmente stimolante». La sua nomina è arrivata a fine giugno e dopo qualche mese è diventato effettivamente operativo.
Nuovo corso, nuove idee: rispetto al passato, quali cambiamenti stai portando?
Il nostro è un progetto a lungo termine che mira a salvaguardare le categorie giovanili, confrontandoci con le società, i nostri primi interlocutori, e con i comitati regionali. C'è da comprendere, però, che questo non si può fare tutto in pochi mesi; siamo a lavoro da agosto, circa, e stiamo cercando di tamponare il più possibile in questo inizio di stagione apportando i primi cambiamenti ma in maniera graduale. Tuttavia con i ragazzi, così come con direttori sportivi e team manager, c'è un dialogo costante: questo ci permette di essere avanti con il lavoro.
E poi, più che rispetto al passato, posso dirti qual è il mio modo: porto nel ciclocross, a livello tecnico, quella che è stata la mia esperienza: ciò che ho imparato sui campi di gara prima e gestendo una squadra poi. In sinergia con la Federazione arrivano le idee: intanto cercherò di lavorare di più sulle categorie giovanili, puntando anche sugli allievi; stiamo organizzando dei mini-ritiri dove vengono chiamati ragazzi delle categorie giovanili. Questo se vogliamo è un po' una rottura con il passato.
Hai anche uno staff di qualità a supporto. E sarete strutturati in un modo, permettimi di dirlo, più internazionale.
Uno dei punti emersi sin dai primi incontri è l'idea di strutturare la nazionale come fosse un team del World Tour. Tecnici e atleti saranno affiancati da esperti nel campo della scienza, dell'alimentazione, del supporto psicologico. Perché oggi fare ciclocross non è soltanto pedalare, ma c'è altro. Ti faccio un paio di nomi: avremo Borgia per la parte psicologica, Bragato per i test atletici, ovvero eccellenze assolute.
Come ci si interfaccia, in Italia, con l'attività su strada e con le varie squadre, visto che poi la strada, da noi, fagocita tutto.
Abbiamo iniziato a parlare anche con direttori sportivi e preparatori di corridori professionisti, ma arrivando a fine stagione per loro non è facile preparare il nuovo anno di cross perché è già tutto programmato per la loro stagione su strada.
Per le categorie giovanili è più semplice perché ce li troviamo ogni domenica in gara. Il programma della Nazionale è comunque un bel programma fitto: undici trasferte tra Coppa del Mondo, Europeo e Mondiale. Come primo anno è una partecipazione molto soddisfacente, ma dobbiamo fare un passo alla volta: teniamo presente come le categorie giovanili negli ultimi due anni hanno corso pochissimo, a volte quasi niente.
Quindi ci sarà una sinergia anche con squadre e corridori professionisti?
L'idea è quella. Per il mio settore sarebbe importante che qualche atleta venga anche nel ciclocross, una disciplina che sforna atleti e li manda poi a correre su strada: il problema è che è un rapporto unilaterale in quanto da noi non rientra più nessuno. Visto quello che succede anche con van Aert, van der Poel e Pidcock, ma non sono gli unici, sarebbe un vantaggio per tutte e due le discipline. Noi intanto abbiamo messo quattro, cinque atleti nel mirino, speriamo almeno di averne due, sono nomi importanti quelli che ho in mente che se accettassero darebbero inizio a un lavoro fondamentale, diverso, a una linea da perseguire in futuro che farebbe bene sia al ciclocross che alla strada.
Dal punto di vista del sistema, dell'organizzazione e degli investimenti, quali difficoltà ci sono in Italia non dico rispetto a Paesi come Olanda e Belgio, ma più che altro a nazioni emergenti come la Gran Bretagna.
La cultura e i numeri non sono paragonabili ovviamente con Belgio e Olanda. Noi partiamo adesso e partiamo da zero. Tu citi bene la Gran Bretagna: nazione emergente ma che è partita con il suo programma una decina di anni fa e ci ha messo un po' di tempo per arrivare al punto dove si trova ora, e lo ha fatto con idee, con il lavoro e con strutture messe a disposizione dalla Federazione. Ecco questo è quello che abbiamo in mente anche noi: strutture che la Federciclismo ci metterà a disposizione, idee che ti ho annunciato, altre che svilupperemo nel tempo: un po' alla volta e a lungo termine questo ci permetterà di pensare in grande per il futuro.
A livello organizzativo questa crescita si è già intravista, dopo l'Europeo 2019, fra pochi giorni ci sarà una prova di Coppa del Mondo in Val di Sole.
La gara in Val di Sole sarà soprattutto uno spot importante per tutto il movimento a livello globale (anche se purtroppo giorno dopo giorno arrivano importanti defezioni tra diversi nomi di punta NdA) e poi l'idea interessante è quella di far correre con la neve che se non ci sarà verrà sparata artificialmente. L'obiettivo è capire (e far vedere) se un domani il ciclocross potrà diventare uno sport olimpico. Perché eventualmente questo potrà fare tutta la differenza del mondo sotto tanti aspetti, di investimenti e visibilità.
Quali argomenti si usano per convincere una famiglia e un ragazzo a scegliere il ciclocross, in Italia?
Sicurezza, innanzitutto: corriamo sempre in luoghi sicuri e “al chiuso”: parchi, campi, sterrati dove è molto più semplice non trovare traffico. Però ora scelgono da soli senza tante argomentazioni: la bici in strada è pericolosa. Se io avessi dei figli ci penserei su prima di fargli fare attività su strada, inutile girarci attorno. E poi l'aspetto tecnico e formativo del cx: è una base importante anche per chi corre su strada.
L'UCI nel frattempo spinge sempre di più nel promuovere eventi Gravel. Ci sarà persino un mondiale.
Vediamo come saranno le norme, ora è in fase embrionale. Io, però, credo che possa andare a braccetto con la nostra disciplina e si potrebbero fare anche tante cose interessanti assieme. C'è da capire come l'UCI svilupperà idee e regole. Siamo solo all'inizio.
Parliamo un po' invece di questo inizio di stagione: podio europeo di Paletti e poi podio in Coppa del Mondo di Venturelli sono già i primi segnali del vostro lavoro?
È troppo presto per dirlo. Noi sicuramente abbiamo portato una sferzata di novità; li supportiamo in ogni cosa e a chi arriva in Nazionale non gli manca niente. Ci interfacciamo con loro, con le loro squadre, per fare un programma condiviso per arrivare al meglio agli appuntamenti clou. Per esempio appena sono stato nominato, quando c'era il Giro d'Italia femminile, le ragazze sapevano già dove sarebbero andate a correre in autunno. La programmazione è fondamentale.
Abbiamo visto finalmente ottimi segnali da parte di Toneatti, corridore che oltre al ciclocross potrebbe dire la sua anche su strada: emblematico il fatto che da febbraio correrà con l'Astana Development.
Negli Usa è andato forte, purtroppo all'Europeo è mancato nel momento clou, ma è giovane e ci sta. Poi ci sono anche Bertolini e Dorigoni, tra gli élite, e anche loro, rispetto al passato, non navigano più nelle retrovie, anzi. A Tabor sono finiti entrambi nei 10: un gran risultato da sottolineare. E Dorigoni è andato molto bene anche all'Europeo. Il livello delle corse è alto e ciò che stanno facendo non è scontato. Poi sicuramente interessanti Paletti tra gli junior e Venturelli che citavi prima, ma anche Corvi, ma sarei ingiusto a nominare qualcuno sì e altri no. Ma vorrei dire una cosa: c'è tanto materiale su cui lavorare, soprattutto tra i giovani, anche tra quelli che sono passati ora allievi. Io sono convinto che verranno fuori ragazzi su cui investire e che in futuro ci daranno grosse soddisfazioni.
Tra i nostri migliori talenti c'è Lorenzo Masciarelli, famiglia di corridori di un certo spessore, da un po' di tempo vive e corre in Belgio seguito da uno dei tuoi grandi rivali, Mario de Clercq.
È partito bene, poi purtroppo un guaio fisico lo ha rallentato: quando non sei al 100% nessuno ti regala nulla e a quell'età fai ancora più fatica. E poi attenzione al contesto: parliamo di un corridore giovanissimo: quando siamo andati a correre negli Stati Uniti qualche mese fa era ancora minorenne e ha disputato la gara tra gli élite difendendosi bene (28° nella prova vinta da Quinten Hermans NdA) contro corridori di spessore e esperienza.
Quali ambizioni possono avere in stagione Lechner, Realini e Arzuffi.
Realini tra le Under 23 può togliersi belle soddisfazioni. È sempre lì in zona podio ora e dopo un periodo di stacco spero che possa riprendere la brillantezza che aveva al Giro d'Italia femminile e negli Stati Uniti. Lechner e Arzuffi le conosciamo: da anni tengono alto il nome della nazionale. Ma c'è un altro nome che vorrei sottolineare.
Prego.
Silvia Persico. Sta arrivando. E quando imparerà un po' meglio la tecnica, quando imparerà a districarsi ancora meglio nelle difficoltà – cosa tra l'altro che sta già avvenendo – sarà una gran bella freccia al nostro arco.
Il Mondiale élite lo hai visto da vicino, sarà un affare tra i "soliti tre" - qualora saranno presenti tutti - o c'è spazio per l'inserimento di qualcuno?
Partiamo da una premessa, banale ma dovuta: loro tre li abbiamo lasciati come corridori superiori non di un gradino, ma almeno di tre gradini, rispetto alla concorrenza. Credo che rientreranno così e quindi sarà dura per gli altri. Poi vedremo. Il percorso del Mondiale lo abbiamo visto, sia con la pioggia che con il sole fa male, è molto impegnativo. Come Tabor: sembra che non sia dura, ma in realtà per un atleta è una delle gare impegnative: non hai un attimo di respiro.
E Iserbyt riuscirà prima o poi a batterli tutti e tre?
Ogni tanto David sconfigge Golia. A me i corridori piccolini piacciono, i lottatori, i grintosi: lui incarna bene questo spirito, è uno che non si dà mai per vinto. E poi c'è un altro corridore su cui spenderei due parole: van der Haar, fresco di titolo conquistato al Campionato Europeo. La gara però che ha vinto a Tabor per me è emblematica. Dico a tutti i ragazzi, ai preparatori e ai tecnici: guardate che gara ha fatto, analizzatela. Se vi chiedete che cos'è il ciclocross, van der Haar a Tabor vi darà tutte le risposte che cercate.
Natale in casa van Aert-van der Poel
Così come in foto ma nel ciclocross: van Aert contro van der Poel. Qui in azione ad Harelbeke, sull'asfalto, esattamente 8 mesi fa, affiancati: fra un mese li rivedremo (più o meno così) ma in mezzo al fango.
È vero, la stagione del CX ha già ripreso da un po'. C'è stata la trasferta a Fayetteville, Stati Uniti, per un assaggio del circuito che ospiterà i mondiali a fine gennaio; c'è quel folletto di Iserbyt che da settembre a oggi ne ha sbagliata una, massimo due. C'è stato il ritorno al successo dopo oltre un anno di Worst.
Ci sono gli azzurri che crescono bene sotto la nuova guida, ci sono volti nuovi e volti noti, rinascite e cedimenti, ma niente attira di più mediaticamente - ma non solo - dell'esordio stagionale dei due corridori in foto - ma certo non ci dimentichiamo che c'è anche Pidcock!
Così come in foto ma nel ciclocross, allora li aspettiamo, l'uno contro l'altro il giorno dopo Natale: rientreranno a dicembre entrambi, ma a Santo Stefano ci sarà il primo scontro diretto.
Se i loro programmi saranno confermati - e non dovrebbe essere altrimenti - saranno intanto cinque le sfide (le scriviamo per memorizzarle) a partire da Dendermonde (26 dicembre), passando per Diegem (29 dicembre), Loenhout (30 dicembre), Hulst (2 gennaio) ed Herentals, a casa van Aert, il 5 di gennaio.
Altro che Una Poltrona per Due o The Blues Brothers, altro che boxing day, o visite parenti, altro che panettoni e pandori: l'appuntamento per le vacanze di Natale sarà un nuovo capitolo della saga van Aert contro van der Poel.
Seduti sul divano con la pancia piena, oppure appena ritornati da un bel giro in bici per smaltire i bagordi natalizi sintonizziamoci per guardare come sgasano quei due. Jouissance: e chi vincerà poco importa.