Attimi di gioia tra il dolore

Oggi forse non era il giorno migliore per appassionare qualcuno al ciclismo, ma che ci vogliamo fare: ogni Giro ha i suoi riti e i suoi appuntamenti fissi, e la Modena-Cattolica rappresenta bene l'interminabile brusio del gruppo compatto fino alla volata finale.

Almeno hanno scelto un bel posto con il mare e la spiaggia, per una di quelle giornate dove si stacca un po', ma dove devi tenere gli occhi sempre aperti, soprattutto perché il finale cittadino ha i suoi tranelli e poi succede come a Sivakov, Dombrowski e Landa che cadono e si fanno male - e speriamo bene, perché Landa non pareva proprio conciato benissimo.

Ricordo quella volta che mi innamorai delle due ruote e dei pedali, e di quel manubrio così strano quanto poi diventato evocativo: c'era Chiappucci che voleva conquistare il mondo provando imprese in salita, c'era Bugno che vinceva, c'erano la Marmolada e il Pordoi al Giro, ma c'erano anche quei pomeriggi estivi con un caldo che pareva definitivo e che non ti si sarebbe mai più scrollato di dosso.

Era il Tour e aspettavi la volata e avevi decine di tappe come quella di oggi. Aspettavi Cipollini e Abdujaparov, uno maestoso ed eccentrico, l'altro il suo perfetto alter-ego, sempre al limite, a volte anche oltre, goffo da vedere ma simpatico, almeno per quel nome esotico che trovavi scritto in mille modi differenti.

Eterni piattoni passati a fare zapping senza una vera ragione tra Antenne 2 (all'epoca si riusciva a vedere nella provincia di Milano, non ricordo il perché) e Raitre; stavi in ansia per la cadute e che quasi sempre coinvolgevano un uomo di classifica, guardavi il gruppo spuntare dietro campi di girasole, o ridicole coreografie con trattori travestiti da leader delle varie classifiche, biciclette giganti, tifosi coi trampoli e, forse già all'epoca, tra la folla c'era quello vestito da diavolo e diventato poi una sorta di icona delle estati francesi.

Oggi, anni dopo, l'attesa di una volata al Giro è più simile all'agonia che a un gioco per ragazzi incantati davanti alla tv. Stamattina scriveva Gabriele Gianuzzi: "Il piattone viene in soccorso dei lavoratori e li lascia tranquilli. Liberi di lavorare senza l’assillo del “chissà cosa starà succedendo”. Perché la risposta è molto semplice: non sta succedendo assolutamente niente. " Difficile dargli torto.

Difatti per oltre tre ore non succede nulla, derubricando il timido tentativo di Marengo e Tagliani prima e di Pellaud, Gabburo e Gougeard poi, a uno stiloso esercizio di gambe che girano, con sponsor ben in vista. Ma ieri han preso freddo e pioggia e sono saliti, oggi c'è il sole e fanno un giro verso il mare con vista sulla spiaggia di Cattolica: pareva dovuto.

Prima dello sprint, che vince Ewan (e sono 4 al Giro) su Nizzolo (e sono 11 podi senza vittoria) e Viviani, oggi perfettamente pilotato da Consonni, ma svuotato di energie dopo ieri, la caduta di Landa che ci lascia in apprensione. Tra i dolori nella gioia finisce il suo Giro, per una carriera che si arricchisce degli ennesimi "se e ma".

E domani si torna a salire, dove più che le cadute potranno fatica e distacchi.

Foto: Luigi Sestili


Come la terra del Friuli

COME LA TERRA DEL FRIULI
[Giro Alvento - Giorno 6]

Alessandro De Marchi l'aveva detto qualche tempo fa, in un'intervista a Bidon: «Al Friuli e ai friulani devi entrarci dentro, conoscerli bene. Una volta che sei dentro hai una visione completamente diversa». Non vale solo per la terra, vale anche per gli uomini e la fatica, vale per gli attaccanti ed i gregari. Vale per lui che è uomo di terra, di fatica, attaccante e gregario. Tutto assieme.

Così c'è molto altro oltre quello sguardo indiavolato sulla «salita dei matti», impastato di lentiggini e sudore, oltre quel ghigno di rabbia e di sofferenza, a denti stretti, a pochi metri dal traguardo di una tappa d'altri tempi tra Piacenza e Sestola. Ci pensava dal mattino De Marchi, pensava che sarebbe potuto succedere ma così no, così non l'aspettava. Perché? Perché tante volte non era andata bene ed «alla fine ti abitui anche a quello». Ha avuto paura perché quando le cose te le immagini, rinunciarci è sempre più difficile. «Temevo che franasse tutto, temevo di restare a mani vuote come tante altre volte».

C'è orgoglio visto che il “Rosso di Buja” ha iniziato a correre a sette anni, ora ne ha trentacinque e «potete immaginare cosa c'è in mezzo».
Per esempio, in mezzo, c'è quella sera in cui andò da Davide Cassani che lo aveva convocato per un ritiro della nazionale e, non riuscendo a vincere da tempo, chiese: «Cosa devo fare per essere un azzurro al mondiale?». Disarmante e disarmato con la semplicità che ti lascia l'aver sofferto. Già, perché De Marchi è passato professionista a venticinque anni e rischiava di non passare: si chiedono numeri, vittorie e lui dava spettacolo ma non riusciva a vincere. Se li ricorda quei giorni, se li ricorda bene.

Forse intendeva proprio questo quando ha detto: «Mi sento fuori posto con questa maglia». Intendeva che poi ciò che ti accade ti segna sempre e tutte le volte in cui ci hai provato e non ci sei riuscito bruciano, anche se non lo dai a vedere. Perché non è giusto, perché tanto chi non ti conosce non capirebbe.

Ne ha sentite di parole Alessandro De Marchi. «Il mondo certe volte ti chiede l'impossibile e non accetta il fatto che in quel momento non puoi riuscirci. A Filippo Ganna consiglio di fregarsene». Non che sia una dote il menefreghismo, ma è l'unica possibilità per salvarsi, talvolta.

De Marchi che ascolta Ludovico Einaudi, Bob Marley e Bruce Springsteen, che è sinfonia e rock, chitarra e metallo. Che crede nelle idee e meno nelle ideologie, che porta un braccialetto per ricordare la tragedia di Giulio Regeni, friulano come lui, e si stupisce quando gli chiedono il perché: «Non c'è nulla di politico, solo la sofferenza di due genitori che cercano la verità: da padre e marito non vorrei trovarmi in una situazione così». Lui che è padre e marito: «E la vittoria la dedico a me stesso e a mia moglie Anna».

De Marchi che da ieri è maglia rosa e dalla felicità stava quasi per piangere.

Foto: Luigi Sestili


Sogni e bevute in un'imperfetta primavera italiana

Si va all'attacco. Alla follia. Allo sbaraglio. Una tappa che pareva giocata in seconda serata. Buia, coi decadenti tratti di un'imperfetta primavera italiana. Acqua tutto il giorno, la maglia rosa che tira il gruppo, il segnale televisivo che scompare per un po' e rischia di rovinarci una tappa che per ore è un lento attendere il finale, e poi si risolve come fosse lo spettacolare arrivo di una classica, tra strappi inconcepibili, freddo cane e pioggia.

Si risolve con la longilinea fisionomia di Joe Dombrowski, uno ritenuto forte, ma troppo estroso per il ciclismo, amante delle macchine e delle bevute nei boschi con gli amici, che ha prodotto una birra dubbel invecchiata nelle botti di rum e che porta, più o meno, il suo nome: Dombrewski.

Si risolve con la faccia lentigginosa di Alessandro De Marchi che stasera farà volentieri a cambio della sua maglia color vino, con quella più appariscente Rosa. Anche lui produttore, però di vini che portano il marchio “Rosso di Buja”, il suo soprannome.

Si risolve con un Ciccone che va (forte) verso Sestola, dove si fece conoscere; con Landa che attacca e poi si attenua, con Bernal che fa le prove per vedere come stavano gambe e schiena, con un Carthy magro da far paura ma che non soffre il freddo, con le forme perfette in bici di Vlasov, che punti deboli sembra non ne abbia.

Si risolve con la cifra di Yates, oggi accorto, forse troppo: tutti lo pensavano lì davanti e invece cede il passo, seppure in modo quasi impercettibile: d'altra parte 11'', cosa sono? Da dopodomani lo aspettiamo nella versione gemello forte.

C'è la cifra di Evenepoel che è già davanti, mentre il suo compagno di squadra – ancora per poco – Almeida soccombe ai riti che lo vogliono separato in casa. C'è la cifra indecifrabile di Bettiol: mai te lo aspetteresti lì, dopo aver sofferto per tutta la primavera e oggi chiude con i migliori di classifica; o quella di Moscon, forte da non crederci, quasi da lustrarsi gli occhi.

E c'è la cifra di un Giro che regala sogni arditi: ieri a Taco, oggi a Taaramäe, che prova a scacciare gli incubi della Vuelta 2009 quando si piantò in salita dopo essere stato tutto il giorno in fuga (come oggi). Verso Sestola sbaglia i tempi, quella volta sbagliò a montare i rapporti fermandosi in lacrime a bordo strada.

C'è la cifra di Fiorelli che sfiora un sogno a 27” dal vincitore, lui che battagliava il secondo giorno tra i folli delle volate, e oggi arriva dove nessuno se lo sarebbe mai aspettato. C'è quella di Nibali, eterno lì davanti, quelle deludenti di Buchmann e Sivakov, e un po' sottotono di Masnada.

E poi di nuovo ecco la cifra del vincitore, Dombrowski, uno di quei tanti passati professionisti con la fastidiosa nomea del ”predestinato”, tanto che fu il Team Sky a prenderlo. Vinse il Giro dei giovani, conquistò Gavia e Terminillo, e alla prima serata con la squadra inglese non sfuggì al rito di iniziazione: ubriaco, fu costretto a inscenare uno spogliarello. Oggi per lui prima vittoria in carriera lontano dalla sua America.

Alla salute, Giro. Da domani altre storie.

Foto: BettiniPhoto


Tutta la determinazione di Giovanni Aleotti

Se di Ponomar (il più giovane al via del Giro con i suoi 18 anni) ne abbiamo parlato, e Remco Evenepoel lo abbiamo intervistato per #Alvento15, scorrendo i nomi dei (giovani) partecipanti al Giro non si può non far caso a quello di Giovanni Aleotti.

Passato professionista pochi mesi fa in maglia BORA-hansgrohe, il classe '99 di Finale Emilia non spreca tempo e, un po' a sorpresa almeno per chi scrive, pronti-via fa il suo esordio al Giro. Con i suoi 22 anni da compiere nell'ultimo giorno di riposo della corsa rosa 2021, Aleotti è il più giovane italiano in gara.
«A me invece non stupisce vederlo subito al Giro» ci risponde così Renzo Boscolo, uno dei suoi tecnici quando Aleotti correva con la maglia del Cycling Team Friuli, ormai negli ultimi anni fra le più importanti squadre a livello giovanile, e che può contare in gara in questi giorni su altri tre ragazzi usciti da lì: De Marchi, Fabbro e Venchiarutti, in rigoroso ordine anagrafico. «Con noi ha fatto tanta esperienza internazionale in questi anni, e la BORA-hansgrohe ha visto in lui un ragazzo che, seppure passato professionista da poco, si dimostra già affidabile, solido e che si ritaglia il giusto spazio grazie alla sua concretezza».
Parlando con Boscolo di Aleotti ne viene fuori il profilo di un ragazzo tagliato per sfondare nel ciclismo: «Metodico e determinato: lui è unico in questo senso» continua Boscolo. «E la sua capacità di fare gruppo, di mettersi a disposizione ne fa un leader nato». E basta pensare alla tappa di ieri per capirlo: ancora lontani dal traguardo, Aleotti si è speso totalmente per la causa di Peter Sagan, ha tirato il collo al gruppo in salita, lo ha scremato, e con la sua andatura sono saltati diverse ruote veloci. E già nei prossimi giorni la scena si ripeterà quando Aleotti sarà chiamato a fare il ritmo per Buchmann, e chissà, forse anche per Fabbro.

Tra le mani - o davanti agli occhi, dipende dal punto di vista - ci si ritrova così un corridore magari ancora poco conosciuto ma che potrebbe togliersi diverse soddisfazioni in futuro.

Corse a tappe o corse di un giorno? Ancora non lo sappiamo: il suo motore è in evoluzione e lui in passato tra gli Under 23 (secondo al Tour de l'Avenir e quarto al Giro Under 23, ma anche protagonista in diverse corse di un giorno del calendario internazionale) si è dimostrato corridore a tutto tondo: resistente, forte sulle salite brevi e su quelle corte, veloce anche in uno sprint ristretto al termine di gare impegnative. «Per come si gestisce in corsa e allenamento, per la curiosità che ha, la voglia di migliorarsi, di conoscere tutto quello che lo circonda e la testa che si ritrova, lui è il prototipo del corridore moderno» afferma sempre il suo ex diesse.

Studia Scienze Motorie all'Università, e ancora oggi il suo meglio non lo abbiamo visto. Il Giro 2021 è l'occasione giusta da cogliere per mettere il muso fuori dal gruppo; magari provare a vincere una tappa in prima persona è progetto ambizioso, ma d'altra parte se Aleotti è arrivato velocemente sin qui, un motivo ci sarà.

Intanto con la Piacenza-Sestola al via tra poco, si passerà dalle sue zone di origine, e che lui ovviamente conosce molto bene; il ciclismo regala storie che non smettono mai di scriversi da sole, e oggi potrebbe essere uno di quei giorni per un nuovo capitolo da ricordare.

Foto: Luigi Sestili


Guido Bontempi, l'uomo di radio informazioni

Quante volte avete sentito parlare di Radio Informazioni nell'ambito di una corsa ciclistica? Ma, in realtà, cos'è Radio Informazioni?
Tutti ricorderete Guido Bontempi come ciclista, magari in maglia Carrera, non tutti saprete che la persona più adatta per raccontare il funzionamento di Radio Informazioni è proprio lui, visto che ne fa parte. «Se non ci fosse una diretta- spiega- saremmo noi gli occhi degli organizzatori, dei direttori sportivi e di tutte le persone, in corsa o agli arrivi, che necessitano di notizie fresche».
Nella pratica la faccenda è più complessa. In corsa ci sono due moto della “radio di gara” e le informazioni vengono dapprima trasmesse a un'auto e successivamente a una jeep. Il motivo è presto detto: la frequenza radio. Le nostre frequenze non hanno un segnale così potente da raggiungere l'arrivo, per questo è necessaria una mediazione.

Le due moto scelgono come posizionarsi: una starà sulla fuga ed una sul gruppo. «Non si può programmare, si vede che piega prende la gara e si agisce di conseguenza. Si decidono degli stop, ovvero dei rilevamenti, ed in quei punti si prendono i tempi. Può avvenire in coincidenza dell'ingresso in una città o in altri luoghi, di certo avviene con scadenze più ravvicinate sul finire di corsa. La prima moto segnala dove prendere il rilevamento e la seconda agisce di conseguenza. Da qui discendono anche le mosse dei direttori sportivi che, quando ricevono le nostre informazioni, decidono le tattiche di gara».
Il tutto coordinati dai regolamenti di gara, perché stare in corsa in moto è complesso e tutte le vetture devono attenersi a regole ferree. «Credo che una persona che non sia stata nel mondo del ciclismo, di più, che non abbia mai corso in bicicletta, non riuscirebbe ad affrontare un lavoro di questo genere. Serve attenzione estrema, la sicurezza di tutti è la priorità. Tra l'altro la situazione, in una gara professionistica, cambia molto velocemente e questo rende tutto più difficile. In linea generale le moto della polizia, della direzione e dei regolatori devono sempre stare a sinistra, le altre, ad esempio i fotografi, sempre a destra. Questo per evitare incidenti».

Alcuni cambi sono ammessi, ma solo in situazioni particolari ed in ogni caso vengono comunicati prima tramite una serie di collegamenti radio tra le vetture in gara. «Io sono collegato con l'auto a cui passo informazioni e sento radiocorsa, in questo modo la direzione informa anche noi di tutti i dettagli tecnici della strada, strettoie, curve pericolose od ostacoli. Le altre moto sono collegate sia a radiocorsa che alla direzione, mentre i fotografi solo a radiocorsa».
Bontempi è arrivato da poco in hotel quando gli telefoniamo, è sceso dalla moto ma la giornata non è ancora finita. Sta aspettando di visionare i comunicati ufficiali riguardanti la frazione del giorno seguente. «Una volta presa visione degli orari di partenza della gara noi decidiamo quando muoverci anche in base al tratto di trasferimento. Al mattino lasciamo i nostri bagagli a un furgone che alla sera li porta nell'albergo in cui alloggiamo. Se ci cercate, ci trovate già sul posto circa due ore prima della partenza della tappa».

Foto: Luigi Sestili


Il profumo della pioggia nelle Langhe

A Samuele Zoccarato guardarsi intorno interessa quanto basta. Se lo fa è per scegliere la fuga giusta, per attaccare, e per lui la fuga non è solo portare in giro lo sponsor, o farsi bello davanti alle telecamere. No, per lui è istinto, fame, distinzione.
Se Zoccarato si guarda intorno non lo fa per vedere case e monumenti, tifosi bizzarri che giocano a chi fa il più bizzarro; interminabili filari, colline impregnate di alberi, o il vento che si diletta con il verde dei campi dando il via a spettacolari giochi di onde. Zoccarato si guarda intorno per cercare la fuga giusta.
Tempo fa raccontò di sentirsi un guerrafondaio in bicicletta, uno di quelli che se va a picco si rialza: “fare watt” è una frase che usa spesso e quei watt non li usa mai a sproposito.

Al Giro ci sono due dei suoi punti di riferimento: De Gendt e De Marchi. Come loro sceglie la fuga per vivere meglio, che poi sia quella giusta lo imparerà strada facendo, d'altra parte lui è qui per la prima volta, perché solo da pochi mesi pedala nel ciclismo dei grandi.
Stamattina alla partenza era convinto: un po' di tensione prima del via.
Si è scaldato in maniera intensa, la sua azione era tattica concordata sin dalla sera prima.

Stamattina alla partenza piove: scrosci violenti che non lasciano spazio a nessun malinteso ma che via via daranno tregua ai corridori. Zoccarato indossa una giacchetta ciclamino, si lancia in fuga e la alimenta come se le sue gambe fossero la materia prima di cui si compone l'avanguardia.
E si porta dietro un gruppo di guerrafondai come lui. C'è lo svizzero di Colombia Pellaud, che alla fuga dedica la sua vita. C'è il viaggiatore naïf van der Hoorn, che non indossa mai gli occhiali nemmeno sotto la pioggia violenta o con il sole che brucia gli occhi.

C'è il più giovane di tutti, Ponomar, che galleggia, sbaglia curve, poi sarà il primo a staccarsi: fatica che tornerà utile in futuro.
C'è Rivi con il compagno di squadra Albanese, anche loro si dedicano alla fuga, ma con uno scopo ben preciso: la maglia azzurra che Albanese indossa da ieri e che indosserà anche stasera. C'è Van den Berg, chiamato al Giro all'ultimo per sostituire Pinot, e infine Gougeard.
La fuga va, ma sulla carta non fa paura, appare segnata: il gruppo li tiene a tiro con Sagan e i suoi seguaci (ottimo Aleotti) che sgranano il gruppo e rosicchiano secondi su secondi ai battistrada come una goccia provoca uno stillicidio.

Velocisti saltano – Nizzolo, Ewan, Merlier – altri si aggrappano a ogni speranza mentre il cielo resta triste ma non piange e il gruppo si infila nella coreografia della Langhe. Li riprendono? Sì, li riprendono.
Restano in cinque, molla Albanese, poi lascia van der Berg. Restano in tre. Poi salta Zoccarato, mentre da dietro avanzano con uno schioppo Gallopin e Ciccone.

Restano in due: van der Hoorn e Pellaud. Resta da solo van der Hoorn. Non lo riprendono? No dai, lo riprendono sul traguardo.
Lo spingiamo virtualmente: 45'', 30'', 20'' ecco l'ultimo chilometro. Taco è lì, il gruppo lo vede. 15'', 10'' quando mancano duecento metri ormai è fatta. Taco vince, come quando qualche stagione fa batteva van Aert.

A Zoccarato, invece, stasera faranno male le gambe («ho avuto i crampi sull'ultima salita» dirà), resterà sulla sua pelle impresso l'odore delle Langhe. L'umidità, una leggera nebbiolina, e poi si guarderà di nuovo intorno e penserà a domani, a un altro giorno in cui andare in fuga, magari sarà di nuovo quella giusta, magari sarà il suo giorno, come oggi è stato quello di van der Hoorn.
Foto: Luigi Sestili


Il mondo capovolto di Taco van der Hoorn

Chissà se qualcuno se lo ricorda quel 27 agosto del 2018. Schaal Sels, divertente semiclassica estiva belga nei dintorni di Anversa. Vinse un ragazzo di nome Taco van der Hoorn, alla sua prima vittoria, nella sua prima vera e propria stagione tra i professionisti.

Arrivò a braccia alzate con la faccia sporca di fango, dopo aver superato pavé e sterrati, e dopo aver beffato sul traguardo un certo Wout van Aert. Al terzo posto si classificò Tim Merlier in rimonta.

Il mondo si è poi capovolto: Taco ha faticato, è passato nel World Tour senza mai un vero acuto, mentre van Aert diventava van Aert e Merlier quel velocista capace di vincere ieri al Giro.

Il mondo di Taco van der Hoorn è sempre stato capovolto e un po' bizzarro: quest'anno lo vediamo correre senza occhiali, sempre; un paio di anni fa ha girato per un'estate intera con un furgoncino Volkswagen del 1982, battendo le strade delle classiche del Belgio e di quelle italiane. «L'ho fatto per imparare, prendere appunti, più avanti sarò troppo impegnato tra corse e allenamenti», raccontava.

Lo abbiamo visto provarci, quest'anno, con una nuova luce negli occhi. Spesso in fuga, lo abbiamo visto provarci anche alla Sanremo.

Lo abbiamo visto tentare oggi, gestirsi bene mentre i suoi compagni d'avventura si arrabattavano tra scatti e controscatti e traguardi parziali.
Lui ha tenuto duro, se n'è infischiato di maglie azzurre o traguardi estemporanei e li ha staccati - per ultimo Pellaud - ma sembrava segnata la sua fine come quella degli altri sette, col gruppo da dietro che rinveniva e tutti noi a spingerlo idealmente, urlando "Taco", a soffiare sullo schermo, a imparare bene quel suo nome, a ricordarci dove già lo avevamo sentito nominare.

Oggi 10 maggio 2021, quasi quattro anni dopo quel successo vicino Anversa davanti a van Aert e Merlier, Taco ha capovolto il mondo, regalando così la pietra più preziosa alla sua carriera e a quella della sua squadra, che fino a pochi minuti fa non aveva ancora conquistato un successo in stagione. Ogni tanto le fughe possono arrivare e se vince uno come Taco, il ciclismo ci piace ancora di più

Foto Dario Belingheri/BettiniPhoto


Tornare a guardare

Tornare a guardare. Sì, basterebbe questo per raccontare quello che abbiamo visto ieri sulle strade tra Stupinigi e Novara. Per parlare della fame che c'è in ogni persona che incontri qui al Giro. Vedere, sapere, conoscere ogni dettaglio di quelle biciclette che si riversano in strada. La stessa fame di chi, per molti giorni, ha dovuto accontentarsi della fantasia, dell'immaginazione, che è grande cosa, ci mancherebbe, ma l'essere umano ha anche bisogno della realtà, non può vivere solo nel ricordo, altrimenti, prima o poi, lo assale la paura che quella sia solo una scusa e che aspettare sia inutile perché le cose non torneranno più come prima. Ed invece no, perché le cose possono cambiare, si possono aggiustare ed in ogni caso si possono sempre migliorare.

Non serve spiegarlo a quella signora che era seduta sul bordo di una rotonda ad aspettare il passaggio della fuga, lo stesso bordo su cui sedevano altre persone e, ad un certo punto, ha detto: «In fondo basta fare più attenzione e sembra quasi la vita di prima». Certo, con qualcosa in più. Perché adesso ci stupiamo e prima, forse, avevamo perso questa abitudine.

Adesso, anche alle gare di ciclismo, restiamo qualche secondo in più a guardare quell'operaio di una ditta meccanica che esce in strada a vedere il passaggio con le mani ancora annerite dal grasso. Quel signore che sta sudando da ore sotto al sole ed ha l'ombra a pochi passi ma da lì non vede bene ed allora si accontenta di farsi ombra con il braccio e resta a sudare. Per non parlare di quella coppia di anziani che voltano il viso nello stesso preciso momento al solo sentire l'aria spostarsi. Perché il ciclismo è aria che sposta, vento che ti prende a pugni. Oppure quella ragazza che ha fame ed essendo distante da ogni negozio recupera dallo zaino un pacchetto di cracker sbriciolato e non sapete che fatica fa a mangiare quelle briciole, perché c'è un leggero vento e deve già tenere in mano lo striscione e quelle briciole o cadono a terra dal pacchetto aperto male o volano via come il polline.

Già il polline, perché ieri c'era anche qualcuno con gli occhi arrossati ed il naso da cui quasi non passava più l'aria, maledetta allergia. Eppure è stato accanto alla transenna, non ha mollato di un centimetro. «Se si richiudesse tutto, un momento così lo rimpiangerei a vita. Tanto di allergia non si muore». E c'è chi ti ringrazia solo perché gli hai spiegato perché le moto in corsa stanno a sinistra: «Non me lo aveva mai detto nessuno». Che non è una frase scontata come può sembrare. Ha un peso importante.

E ci siamo noi, che dovremmo essere abituati a tante situazioni perché il ciclismo lo viviamo, perché di ciclismo viviamo. Invece, in macchina, ci voltiamo l'uno verso l'altro e gridiamo: «Guarda là!».
Sì, perché tutte queste cose le abbiamo sempre viste, ma solo quando ci sono state negate, siamo riusciti a tornare a guardarle. Questo è il bello di questo Giro, che si guarda, non si vede solamente.

Foto: Luigi Sestili


Arance ad orologeria

Certo, doveva essere volata: volata è stata. Certo, doveva essere fuga iniziale da lasciare a tiro: non ci si è spostati di un millimetro da questa legge scritta. Una tappa dallo svolgimento arcinoto e lineare come la forma di uno sbadiglio. Fino all'epilogo: veloce, incerto, convulso.

Si parte col cielo grigio: l'oscurità impregna visi e contorni, e le facce dei corridori si distendono, paradossalmente, solo dopo il via. La partenza ha un nome e un numero: Wouter Weylandt – 108. Dieci anni esatti da quel tragico 9 maggio 2011, giusto ricordarlo anche con poche righe. Oggi, idealmente, la mano a formare una “W”, come fece il suo amico fraterno Farrar nella sua unica vittoria al Tour. Era il 2011 e arrivò a due mesi da quella tragedia. Oggi, mentre Wouter non c'è più, Tyler si dedica agli altri come pompiere.

Si parte con uno in meno: Krists Neilands. Ricordate la vittoria di Nibali alla Sanremo? Nibali fu attirato dall'attacco del corridore lettone, che resta impresso nell'immaginario per quel giorno, ma sarebbe ingiusto non rammentarlo anche per altro. Ha vinto poco, ma l'ultima volta, nel 2019 al Gp de Wallonie, fu un colpo superbo; piace Neilands, per la provenienza atipica, la Lettonia, la stessa di Skuijiņš che non perde mai occasione per ricordare come la cioccolata e la birra fatta dalle sue parti sia la più buona del mondo. Piace, Neilands, perché completo. Qui al Giro poteva togliersi il gusto di qualche fuga, magari vincente, e invece entra nei record di questa edizione per essere il primo corridore a lasciare il Giro. Il come poi, bizzarro, quasi irritante: cade rientrando in albergo dopo la cronometro. Fine della storia? No, fine della corsa per lui: portato in ospedale con la clavicola rotta.

Si parte da Stupinigi, nome buffo, e si attraversa uno scenario di vita rurale che poi si susseguirà per tutta la tappa, tra rotonde con gente che banchetta, verde intenso un po' ovunque che si alterna alle risaie; uccelli che volano rasenti al suolo, preti vestiti di rosa, cani che inseguono il gruppo, mucche dipinte, asini mascherati: sembra un felliniano tuffo nel passato, come una pellicola grottesca che ostenta sprazzi di colore alternandolo a immagini in bianco e nero. Da una parte il borghese caos del gruppo, dall'altra la quieta anima contadina tra cortili e aie, trattori e galline.

Si parte, e dopo il ricordo, lo sguardo volge al futuro. La fuga va e nessuno accenna nemmeno ad annusargli la ruota. Albanese, Marengo e Tagliani, protagonisti. Tre corridori, tre maglie, tre storie. Quella di Albanese parla di un ragazzo talentuoso che sembrava potesse diventare qualcosa in più. Vinse tra i professionisti che era ancora dilettante e poi tra i professionisti non ha più vinto. Dice di aver perso quattro anni, e che ora è arrivato il momento di mostrare chi è. Un problema meccanico lo costringe ad abbandonare la fuga prima degli altri.

Tagliani: ieri dilettante, oggi al Giro. Ieri primo a partire e terz'ultimo al traguardo, oggi primo assoluto a muoversi, ultimo a mollare. Quella di Marengo è un'altra storia di corridore che da giovane faceva incetta di traguardi, veloce quanto gli bastava. Oggi si cava il suo spazio in fuga e se non altro le telecamere indugiano sul suo elegante stile di pedalata. Lo scorso anno, in tempo di lockdown, Marengo si è messo ad aiutare gli altri consegnando cibo in bicicletta.

Ma la corsa cresce di interesse e velocità più ci si avvicina al traguardo di Novara: mancano 26 chilometri quando i due superstiti vengono ripresi. Poi tutto esplode come arance ad orologeria: è il caos della volata. Preparazione, treni, pulsazioni elevate. Remco e Ganna sprintano per il traguardo volante: bello e inaspettato. Il finale mescola le squadre come al campetto, soffioni grossi che sembrano borracce volano dappertutto.

Capitani e velocisti, gregari e pesci pilota: si sbanda perché tutti hanno ancora gambe piene e motivazioni al limite. La volata è caos: Molano la combina grossa, stringe il suo capitano alle transenne. Nizzolo prende la ruota giusta, quella di Merlier, ma il belga quando parte lungo è imbattibile. In primavera lo è stato in Belgio, oggi al Giro, e due anni fa era praticamente senza contratto. Al traguardo mette la mano a “W” e in sala stampa i giornalisti belgi urlano come pazzi. Dietro di lui Nizzolo, Viviani, Sagan, Groenewegen. Bravi Moschetti e Fiorelli, sesto e settimo. Doveva essere volata: volata è stata.

Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021


Aza e Filippo

La storia che vi raccontiamo oggi parte dalle vie del mercato di Torino, accanto all'Arsenale della Pace. Lì dove c'erano le armi, ora c'è un punto di ritrovo per madri sole, carcerati, stranieri, per tutti coloro che hanno bisogno di cura o di lavoro. In una piazzuola c'è un albero col tronco tinto dei colori del tramonto. Noi chiediamo il perché ad Aza, una ragazza eritrea che passa di lì. «Mia madre- ci spiega- mi raccontò che in un villaggio, da noi, si dipingevano le cose dei colori che le nutrivano, che le facevano star bene, e questo era un atto di cura. Non so, magari è successa la stessa cosa qui».
Qualche passo assieme, parlando, poi Aza fissa la bicicletta di un ciclista in ricognizione e noi le chiediamo se le piacciano le biciclette. Lei ci racconta della sua di quando era bambina: «Aveva un cesto davanti, anche qui si usa e le donne ci mettono la borsa. Il mio cestino era di vimini ed i vimini li avevo intrecciati io. Alcuni erano completamente sfilacciati e si lasciavano andare». Eppure spiega di non aver mai pensato di cambiarla e, se oggi non l'ha più, è solo perché gliel'hanno rubata.

La bicicletta di Aza non aveva nulla a che vedere con quella di Filippo Ganna, di questo siamo certi. Aza non conosce neppure Ganna e certamente neanche Ganna la conoscerà. Eppure, quando abbiamo sentito parlare la prima maglia rosa di questo Giro d'Italia, ci è tornata in mente proprio lei.
Ci è venuta in mente quando Ganna ha ricordato le polemiche dei giorni scorsi. «Ho sentito molte parole negli ultimi tempi. Ho preso tanti schiaffi negli ultimi tempi ed è giusto così. Qualche volta cedi, è normale. Sei un uomo e gli uomini si stancano, si fermano. Se non cedi mai, qualcosa non va». E poi ha aggiunto: «Certo che, quando leggi o senti certe cose, ci pensi e quando ci pensi ti blocchi, ti chiedi perché si dicano quelle cose».

Ci è venuta in mente quando Ganna ha raccontato della sua squadra di quest'anno e dell'anno scorso. «L'anno scorso ci siamo uniti quando è successo l'incidente a Geraint Thomas. Eravamo in ginocchio in quel momento e dovevamo trovare un modo per ripartire. Se non fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Siamo stati bravi a capirlo, siamo stati coraggiosi a ricominciare». E, sorridendo: «Nei momenti difficili accadono cose bellissime. Ora sono contento di questa maglia, ma venti tappe sono tante e magari verrà il momento in cui i miei capitani faticheranno e dovremo supportarci ed anche sopportarci perché quando le cose vanno male si è tutti più nervosi. Bisogna accettarlo ed imparare a fare il proprio dovere divertendosi, anche quando è più difficile».

Ed in fondo è tanto difficile da mettere in pratica ma è così logico, così naturale. Come per la madre di Aza dipingere un albero per prendersene cura, come per Aza quel cestino di vimini sfondato. Siamo noi a complicare tutto, anche questo dice Ganna. Aza non lo dice, ma dal suo sguardo si intuisce. Per questo Aza e Filippo Ganna si somigliano. Perché sanno che molte cose sono semplici e vanno vissute così, in modo genuino, leggero. Per se stessi prima di tutto.

Foto: Luigi Sestili