Il Fauniera al contrario
«Meno cose hai, più emozioni vivi»: è questa la prima frase che ci dice Davide Rivero parlando di bicicletta e di viaggi. Sarà perché le emozioni che ha vissuto il 12 settembre del 2020 sono nate proprio da una situazione di privazione: sì, la pandemia da Covid19 aveva reso impossibile disputare la Gran Fondo Fausto Coppi, a cui Davide partecipava dal 2016, migliorando ogni anno il proprio risultato. La sera dell'ufficialità, leggendo la mail che lo comunicava, Davide l'aveva detto ad un'amica: «Sai cosa faccio? Il Fauniera, quest'anno, lo pedalo al contrario». Vi togliamo subito ogni dubbio, non era un modo di dire: Rivero intendeva proprio pedalare all'indietro tutta la salita del Colle Fauniera.
«Era un modo per comunicare la necessità di cambiare prospettiva, rispetto alla pedalata, ma più in generale rispetto a molte cose che la quotidianità ci presenta. Talvolta, l'unica via per sopportarle è leggerle diversamente da ciò che la società indica come lettura predefinita». Davide Rivero abita a Valgrana e il Fauniera è la salita di casa, quella che ha percorso decine e decine di volte, quella che, anche quella sera, è certo di conoscere in ogni metro: nel verde vivo della vegetazione e negli squarci ad ogni cambio di direzione. Prova a pedalare al contrario nel cortile di casa, come faceva da bambino, dalla nonna, e vede che ne è ancora capace, che dovrà allenarsi, ma si può fare. Ne parla con gli amici e l'entusiasmo viene declinato in varie forme: nella curiosità, nell'interesse, nella sorpresa e anche nell'incredulità.
Fino al giorno in cui ad ascoltare questo progetto è il suo preparatore, un giorno che avrebbe dovuto essere come tanti, invece, è stato il più difficile e, allo stesso tempo, il più facile di tutti gli altri: «Mi ha messo davanti al fatto che non sarebbe stato come lo immaginavo, ha smorzato quell'entusiasmo e, per un momento, sono stato davvero vicino all'idea di lasciare perdere. Era tardi, ero nervoso, non potevo fare altro, così sono uscito in bicicletta, pedalando al contrario a Montemale, più per sfizio che per quel progetto che, ormai, sembrava allontanarsi».
Lo vedono molti automobilisti che stanno percorrendo la stessa strada, ancora oggi si chiede cosa abbiano pensato, però ci confessa che quasi nessuno gli ha suonato il clacson o si è lamentato. Lo guardano negli occhi, cercano di capire: «Credo sia il contatto visivo a impedire la lamentela. È più difficile suonare a una persona che hai visto negli occhi: quando siamo di spalle, possiamo essere chiunque, diventiamo anonimi, il volto restituisce identità e, nel momento in cui conosci l'altra persona, anche per una frazione di secondo, sei portato a fare più attenzione. Basta un sorriso per disinnescare». Questa scena si ripeterà per molto tempo, perché, proprio in quella pedalata, Davide troverà il motivo per percorrere davvero il "Fauniera al Contrario".
Si tratta di Luca Cucchietti che, quel giorno, incontrandolo, gli dice solo: «Ma che fai? Sei folle?». I due già si conoscevano: Luca pedala in handbike, dipinge, ha molte passioni e un'idea: «Davide, vengo io con te sul Fauniera: ci copriamo le spalle reciprocamente». Il fine sarà solidale: raccogliere fondi per diffondere lo sport tra ragazzi diversamente abili.
Sì, il cambio di prospettiva è anche qui: la visuale dell'uno, completa la visuale dell'altro. «L'unico modo che avevo per riuscire a salire era fidarmi delle indicazioni di Luca, dei suoi occhi, perché ai miei era bastato vedere il Fauniera capovolto, per non riconoscerlo quasi più». Ancora oggi, pensandoci, gli sembra assurdo: quel luogo che era convinto di conoscere perfettamente, in realtà, gli era totalmente estraneo, percorso di spalle. Si torna all'attenzione, a quello su cui la mente umana si focalizza, a quello che memorizza e restituisce. Si torna al fatto che, quando si toglie qualcosa, in realtà, si aggiunge sempre.
«Se il rapporto con Luca è ancora forte, è proprio perché, in quei momenti, essendo affaticati, stanchi, abbiamo dovuto essere più veri che mai. Quando togli le sovrastrutture, resta quello che veramente sei, stai raccontando la tua verità e la verità, può piacere o meno, ma resta». Fra le verità c'è l'attesa, la preparazione, che è la parte più forte, quella in cui si inizia a vivere la festa, intesa come condivisione. Perché, già da prima di quel 12 settembre, in città se ne parla, le persone chiedono e ognuno vede qualcosa di diverso in quell'idea: «Credo sia giusto così, sia bello così. Per me festa significa proprio condivisione. È festa quando tante persone, che non si conoscono, sono accomunate da qualcosa, e per questo si incontrano, si parlano, pranzano assieme o condividono un tratto di prato del Fauniera per aspettare. Forse non si sarebbero mai incontrate, non si sarebbero mai guardate negli occhi, invece hanno un motivo per farlo, per sentirsi unite».
Il venerdì sera, 11 settembre, piove forte, diluvia, ma il sabato non c'è una nuvola, è la classica giornata di fine estate, mentre Davide e Luca, al mattino, iniziano la loro sfida. Davide pedala su una Cinelli del 1987, la più vecchia che ha, perché non ammortizzando è più stabile. Luca è lì, a coprirgli le spalle, a raccontargli ciò che sempre aveva visto. Un viaggio che durerà più di 30 chilometri, circa 1900 metri di dislivello, due ore e quaranta minuti: il tutto in mezzo a tanti ad aspettarli, a pedalare con loro.
«In vetta eravamo stanchi, felici, ma anche dispiaciuti, svuotati. Era finita, l'avevamo fatto, restava un ricordo. Succede sempre così: l'emozione più intensa è nell'immaginare ciò che sarà, quando, invece, quel che aspetti è passato non sai più a cosa pensare, qualunque cosa non ti basta. Ad oggi, penso sia stata una delle più belle giornate della mia vita. Credo sia l'altro volto che ho dato alla bicicletta, che per me era molto legata ai numeri e alle prestazioni. C'è un prima e un dopo nel mio rapporto con il ciclismo: il "Fauniera al Contrario" è lo spartiacque».
Non è finita qui, anche se così parrebbe. Davide Rivero, oggi, corre a piedi, la bicicletta è rimasta e non potrebbe mai lasciarla, forse anche per quel giorno di settembre, ma la sua attività sportiva ha cambiato focus. Mutare prospettiva, unire due sguardi diversi, gli è servito proprio a questo: «Spesso, quando qualcosa finisce, lo copriamo con la malinconia o la dimenticanza, invece dovremmo portarlo con noi, salvandolo da tutto il resto, proprio per l'importanza che ha avuto, per quanto ci ha fatto felici. Pedalare al contrario ha salvato la mia bicicletta».
Vittoria Bussi: quando sull'Etna si fa sera
Appena sull'Etna si fa sera, Vittoria Bussi, dopo una giornata di lavoro in bicicletta per preparare il record dell'ora, telefona a sua madre, poi a Rocco, il suo compagno, e la prima domanda è sempre quella: «Quanti problemi hai risolto oggi?». Se lo chiedono reciprocamente, da due settimane a questa parte, da quando lei è lassù, in altura. Bussi spiega che ogni giorno incontra un problema in ciascun ambito: l'allenamento, l'equipaggio, il meteo, i contatti da tenere, le preoccupazioni di casa, talvolta il fisico messo a dura prova. A questo si aggiungono gli imprevisti: la neve, la volpe sul vialetto d'ingresso dei locali in cui soggiorna, il vento, la corrente che salta e lo scantinato in cui si cerca di ripristinarla per continuare a rispondere alle mail, a programmare viaggi e a prenotare voli. Il tutto da sola, nel silenzio, non vedendo nessuno per ore ed ore: «Starò qui ventuno giorni, perché so che mi fa bene, che serve per il traguardo che voglio raggiungere, ma l'altura, almeno durante la prima settimana, mi causa un vero e proprio malessere fisico. Confesso che, quando torno a casa, passo il primo giorno a piangere, a liberarmi della corazza che devo portarmi addosso: di donna forte, sicura, come si chiede ad una atleta».
Qui mancano i rumori di Roma, quel caos che diventa parte di chi ci vive, un suono da ricercare ovunque, ma anche Torino, dove Bussi abita, pare difficile da immaginare. Vittoria, in realtà, ha dovuto abituarsi a Torino, che sembrava una "città silenziata" rispetto a Roma: «Ho scoperto che mi piace guardare l'arco alpino. Che passo minuti a osservarlo e, se la quotidianità non incombesse, resterei ore così. Quei monti sono un punto fermo». Un punto da cui, col passare del tempo, è sempre più difficile staccarsi, andare via perché, a trentacinque anni, si è già viaggiato molto, si sono già visti molti luoghi e si sente necessità di fermarsi da qualche parte, di un ambiente familiare.
«Me ne sono andata lontana già da ragazza, per il dottorato, in Inghilterra: era necessario, ma comunque difficile. E oggi, dopo molti anni, anche quando non sono in altura, devo ancora andare altrove per trovare un velodromo in cui allenarmi: in Svizzera, in Norvegia o chissà dove. Forse per questo sento così tanto bisogno di casa. Per questo, dal giorno in cui sono arrivata, conto i giorni che mancano per tornare». Qualche settimana fa, alla dogana con la Francia, l'hanno fermata delle motostaffette della polizia francese: le hanno fatto smontare tutto, mostrare la bicicletta e i materiali che aveva. Minuti e minuti: «Non credevano che fossi una ciclista perché sostenevano che i ciclisti hanno una squadra e non fanno tutto da soli. Non credevano neppure che fossi lì per allenarmi: "Perché non si allena in Italia?". Dal loro punto di vista, avevano pienamente ragione: probabilmente quello è stato uno dei giorni in cui ho avvertito maggiormente il senso di ingiustizia per queste lontananze che devo sempre impormi».
Una lunga traversata in traghetto, poi la macchina e si sale. Avrebbe voluto chiedere a sua madre di accompagnarla, non l'ha fatto perché ha pensato che quella solitudine non le avrebbe fatto bene, ha portato solo i suoi gatti, «l'unico legame con casa che c'è qui», e, al mattino e alla sera, passa tempo a spazzolarli: «Sai che, quando parti in solitaria, tutti ti chiedono se davvero sarai solo e perché hai scelto di fare un viaggio da solo? Perché è difficile, come essere indipendenti, come diventare grandi. La prima volta in cui mi è accaduto è stato quando è mancato mio padre: non c'era più nessuna coperta a proteggermi, dovevo essere adulta e imparare io stessa a proteggere gli altri. Anche mia madre. Probabilmente impari in quei momenti a mostrarti più forte di quella che sei, a lasciarti andare quando nessuno ti vede». Spiega Vittoria Bussi che la solitudine dell'altura è fra le più difficili, quasi straniante.
Qualche sera fa, è scesa dall'Etna per andare a prendere Edoardo Frezet, fotografo del progetto, che resterà con lei per diversi giorni, e ritrovare la città, le persone nei bar e nei ristoranti, le ha lasciato una sensazione particolare addosso, nonostante la sua romanità si nutra dello stare assieme agli altri. Si è quasi sentita in imbarazzo: «Devi imparare a stare con te stesso ed è un apprendimento difficile perché ti conosci e vedi anche parti di te che non ti piacciono. Quassù non ho molte convenzioni sociali da seguire, ma quando ritrovo le persone mi chiedo se sarò a posto, se andrò bene». Sorride e racconta di quando Edoardo stava iniziando a fotografarla sui rulli, in una giornata di brutto tempo: «È stato un flash: "Aspetta, io non mi sono depilata". Sembrava un problema, non lo era e voglio che le foto di questo record siano vere, restituiscano l'immagine di una donna nella quotidianità e dei giorni in cui non c'è tempo, dei giorni in cui facciamo tutto di corsa e a sera siamo stanche e spettinate. La realtà di una donna e di un'atleta è anche questa».
Le giornate di Bussi iniziano alle otto e mezza: riscaldamento, attivazione e verso le dieci si esce a pedalare. Non sopporta la neve e quando la trova ghiacciata, sul vialetto che percorre con la bici in spalla. Si sfoga, parlando da sola in romanesco e quasi si vergogna, quando qualcuno la sente: «Anche questo, forse, molti non lo direbbero. Lo dico perché sono casereccia, sono così, e mi piacciono le cose naturali. Sto detestando questa neve, la cancellerei se potessi, e gliene dico di tutti i colori, come con le cose che non sopporto». In camera ci sono sempre libri e fogli perché sull'Etna si scopre il proprio corpo, i propri muscoli, come reagiscono. Il primo ritiro non va mai bene, il secondo meglio, il terzo, di solito, è quasi perfetto. Complicato, però, spiega Bussi, essere una sportiva ha anche questo significato: «Non accettare ciò che altri ti dicono passivamente, voler scoprire perché le tue gambe fanno più male oggi di ieri, sapere perché hai dolore, sapere come variare l'allenamento in base all'altitudine. Essere ciclista significa esplorare quell'indipendenza a cui le circostanze, talvolta, ti obbligano e vederne il lato buono, quello che ti fa andare avanti e ti cambia. Se diventa questo, essere ciclista è un atto estremo di libertà».
Come crescono le persone, anche se già adulte, così fanno i progetti. Ora c'è un periodo preciso per tentare il record, l'autunno, e anche il velodromo in cui si proverà si sta definendo. La prima opzione è in Argentina, la seconda in Norvegia, in un velodromo di nuova costruzione che vorrebbe iniziare la sua storia con il record dell'ora di Bussi, la terza in Svizzera, a Grenchen, ma, per quest'ultima, il costo è eccessivo, quindi è necessario pensare ad altro.
Nel bar, in città, in cui Vittoria ed Edoardo si sono collegati per questa intervista, inizia ad arrivare gente, le voci si mescolano e Bussi, guardando l'ora, progetta le prossime cose da fare, i prossimi problemi da risolvere in vista di quel giorno. Sì, in realtà, il record dell'ora inizia molto prima di quell'ora.
Foto: Edoardo Frezet
La gioia che garantisce il talento
Non sappiamo di chi sia stata l'idea di questa foto. Forse di Annemiek van Vleuten, probabilmente di Puck Pieterse, magari, semplicemente, di qualcuno che, vedendole vicine, in Piazza del Campo, ha pensato che in un'immagine così potessero essere racchiuse molte cose. Semplici quasi quanto il gesto dello Shaka che fa la mano di Pieterse: un gesto tipico della cultura hawaiana, che è un saluto, una forma di gratitudine, un modo di vivere il momento e trasmettere felicità, anche un poco rock, se vogliamo. Il loro modo di correre in bicicletta, alla fine, è tutto questo e avere la stessa visione (intesa non solo come ciò che si vede, ma come quello che si pensa) in fatto di bici e in ogni altro campo, permette di riconoscersi e di parlare un linguaggio comune, oltre ogni altra differenza.
Vogliamo dire che Van Vleuten e Pieterse, in quella Piazza, sarebbero state vicine anche se nessuno le avesse fotografate, anche se non si fossero fermate a parlare. Pieterse avrebbe potuto dire, e forse lo ha detto, a van Vleuten: "Sai che, quando scatto, non penso a nulla? Sento qualcosa dentro di me e vado" e van Vleuten avrebbe potuto rispondere solo che anche a lei accade lo stesso. Allora Annemiek avrebbe potuto raccontare, e forse ha raccontato, a Puck che, per andare forte in bicicletta, lei ha sempre spinto, a tutta, senza paura e Puck avrebbe potuto rispondere che per lei è proprio così. Forse Puck Pieterse, allora, avrebbe chiesto se, con il passare del tempo, non cambiano queste sensazioni. Sì, perché van Vleuten ha quarant'anni, Pieterse solo ventuno. La Campionessa del Mondo avrebbe forse risposto che il ciclismo la affascina ancora come a vent'anni e nella sua mente è lo stesso, raffinato dalle esperienze: il passare degli anni cambia solo il tempo che serve per allenarsi e per ottenere risultati, la fatica che si fa, ma lo spirito del ciclismo è sempre quello. Avrebbero potuto dire e forse hanno detto molte altre cose, compreso il fatto di essere entrambe olandesi, di essere entrambe dotate di un talento importante e di come si affronta la quotidianità con questo talento fuori dal comune. Forse van Vleuten è più abituata a questo, Pieterse si abituerà.
Poi c'è la cosa più importante di cui avrebbero potuto discutere: di come si fa ciò che si fa e del perché si decide di farlo. Pieterse ha saputo che avrebbe potuto correre sulle strade sterrate della Toscana solo pochi giorni prima della gara: ha accettato perché era un'opportunità da non lasciarsi scappare. Sarebbe stata contenta di arrivare nelle prime trenta, è arrivata sesta e ha corso con padronanza, con attenzione, incarnando l'istinto che la contraddistingue. Anche van Vleuten ha sempre posto particolare attenzione all'opportunità, al piacere di essere in corsa, anche quando non ha vinto: è tornata a lavorare, a potenziare, perché vuole vincere come d'abitudine, ma sabato, nel dopo gara, ha continuato a focalizzarsi sul piacere di aver corso e, ancor di più, sul piacere del gesto atletico di altri, quello di Puck Pieterse ad esempio.
In quella foto, in quel gesto dello Shaka, è racchiuso il racconto di come arrivano, il più delle volte, le cose belle, le più grandi vittorie, di come si fa qualcosa di grande. Certo attraverso l'impegno, la dedizione, la fatica, il sacrificio ma pure attraverso il piacere, la gioia, che è, poi, la molla affinché ci siano tutti gli altri comportamenti di cui abbiamo parlato. Per Pieterse era una prova su strada importante, perché era una gara importante e perché il talento si manifesta nel mettersi alla prova, si scopre, si disvela, trova nuove forme. Più di tutto era importante perché era una possibilità di divertirsi, di improvvisare sul tema, e di quel divertimento porta traccia ogni muscolo. Lei è legata al fango, alla terra del ciclocross, al pensiero di una medaglia olimpica in Mountain Bike: non sa se e quando ci sarà una continuazione su strada.
Nonostante spesso si dimentichi, il punto è proprio che non sempre c'è un motivo, un disegno nel proprio procedere, e il bello, tante volte, si fa solo perché piace. Per fortuna. Probabilmente è così che si vive un talento come quello di Pieterse e van Vleuten nella vita di tutti i giorni. Certamente è così che in quella Piazza sarebbero state vicine, anche lontane.
Tra le storie della SD-Worx: intervista a Elena Cecchini
«Ho abbracciato Demi, poi ho cercato Lotte tra la folla dell'arrivo. "Lotte, sei felice?" le ho chiesto e lei mi ha risposto sinceramente: "Sì, Elena, sono felice". Credo fosse importate quella domanda, di certo importante è stata la risposta». Elena Cecchini parte da Piazza del Campo, a Siena, alla Strade Bianche per raccontare la sua squadra, SD-Worx. Ancora meglio, parte da quello sprint a due, tra Vollering e Kopecky, vinto proprio da Vollering.
Ci spiega di Lotte Kopecky, della sua introversione e di tutte le volte che, l'anno scorso, la cercava con gli occhi al traguardo, dopo una volata: «Facevo fatica a vederla felice, soddisfatta, a meno che non vincesse e, dentro di me, pensavo che fosse il mio lavoro il problema, che non fosse abbastanza. Nel tempo, abbiamo parlato e ho capito che Lotte aveva esattamente il mio stesso timore: non riusciva ad essere pienamente serena perché temeva di aver deluso la squadra». Non è un inverno facile per la belga: la notizia dell'arrivo di Lorena Wiebes, indubbiamente, l'ha fatta pensare, le ha messo dubbi, quasi come si sentisse sostituita, «poi ha compreso di non essere una velocista pura e che Lorena poteva solo aggiungere qualcosa, non togliere. Ma è da comprendere, chiunque avrebbe reagito così». Una timidezza con cui non è facile convivere per Kopecky, soprattutto da quando la sua popolarità è esplosa dopo la vittoria del Fiandre. Quella sera, non è potuta rientrare a casa perché la sua abitazione era letteralmente assediata da fotografi e giornalisti e con questa fama deve fare i conti ogni giorno e la squadra allestisce conferenze stampa apposta per lei, per raccogliere lì tutte le domande.
«Mi spiace che l'impressione generale sia stata che io e Demi non fossimo soddisfatte di com'era andata la gara. Eravamo solo spaesate perché non ci eravamo parlate prima» ha confessato Kopecky a Cecchini, in pullman, in una riunione post gara. L'accordo era che Vollering avrebbe attaccato prima e Kopecky successivamente, ma che le due avrebbero collaborato fino alla fine. Danny Stam, uno fra i direttori sportivi di SD Worx, la sera prima era tornato a parlare con Vollering: «Ma se io sono davanti- aveva detto lei- non ha senso che Lotte attacchi, non ti pare?». La risposta era stata pronta: «Ha senso, perché sole non resterete comunque e, se non collaborate entrambe, la gara la vincono le altre». Ed, in effetti, chiosa Elena Cecchini, Faulkner è andata davvero vicino alla vittoria. Sta di fatto che, quell'impressione sbagliata avuta dalle persone, stava rovinando l'atmosfera. Cecchini è intervenuta per questo: «Non state male perché non vi siete parlate. Avete fatto qualcosa di straordinario, andate oltre».
Racconta Cecchini che l'anno in cui Demi Vollering è arrivata in SD-Worx, condividevano la camera e, da subito, lei l'aveva soprannominata "la Principessa": «Sì, perché era molto giovane e l'aiutavamo molto, anche nelle cose più semplici. Anche nel portare i vestiti in lavanderia. Ricordo che detestava quel soprannome. Il nostro rapporto è cresciuto anche così e con questo è cresciuta anche Demi». Una ragazza semplice, genuina, molto emotiva che piange per le vittorie e nel tempo libero fa yoga, meditazione oppure va nella natura, sta in montagna e fa lunghe passeggiate. «Il primo anno, con Anna van der Breggen come capitana, per lei è stato il più semplice, dopo ha dovuto prendere la squadra sulle spalle e assumersi molte più responsabilità. Per molti è diventata "la rivale" di van Vleuten e, ogni tanto, me lo dice: "C'è chi sta aspettando che Annemiek lasci, perché non avere più una rivale come lei cambierà molto. Io voglio che resti, voglio che sia forte e batterla mentre è forte». Demi può farlo, ne sono certa". Elena Cecchini fa una pausa, noi stiamo per formulare un'altra domanda, ma lei riparte, per una precisazione.
«Capisci perché non c'è stata decisione dall'ammiraglia? Se un direttore sportivo avesse indicato un nome piuttosto che un altro, il timore era quello di rompere un equilibrio di fronte a due campionesse di questo tipo perché l'una o l'altra avrebbe potuto avvertire come ingiusta la decisione per il lavoro fatto. Ti assicuro che basta davvero poco, quando ci sono situazioni di forte pressione, per creare una frattura». Cecchini racconta di quanto creda nel valore del dialogo e di quanto parli sempre molto con le compagne di squadra: «Quello che facciamo, e quindi il risultato che otteniamo, è strettamente connesso al modo in cui ci sentiamo, a quello che pensiamo di noi stessi o alla considerazione che gli altri hanno di noi».
In questo, la presenza di Anna van der Breggen in ammiraglia è un punto fondamentale perché anche la campionessa olandese sta continuando a crescere in ammiraglia. Spiega Elena Cecchini che l'anno scorso, quando si trattava di fare rimproveri o osservazioni, van der Breggen era più restia, si sentiva ancora molto ciclista, molto compagna di squadra, quest'anno ha preso sicurezza in ogni cosa, anche nella guida dell'ammiraglia: «Difficilmente sarà Anna a venire a dirti qualcosa, ma perché fa parte del suo carattere: parla poco e al momento giusto. Se, però, chiedi un consiglio, puoi essere certo che il suo punto di vista non mancherà e sarà dritto al punto, schietto». Come prima della Strade Bianche, quando van der Breggen ha parlato alla squadra.
«Arrivate agli ultimi quindici chilometri, vi sentirete sfinite, penserete di non farcela più, in quel momento, dovete pensare che anche le vostre rivali stanno così. Resistete, perché è l'unica cosa da fare e perché anche le altre stanno resistendo». Poche parole e un'attenzione costante: lasciare sempre fuori la campionessa che è stata e rapportarsi con un ruolo nuovo. «Ho sempre avuto la sensazione che dietro la sua tranquillità, ci fosse la visione chiara che il ciclismo fosse una parte importante della sua vita, non il tutto. Oggi il suo ciclismo ha ancora un'altra forma, una forma che sta conoscendo giorno dopo giorno».
Si arriva così a Lorena Wiebes, l'altra punta di diamante del team: Cecchini la definisce semplicemente "uno spasso". Wiebes praticava ginnastica artistica prima di arrivare al ciclismo e la sua conformazione fisica lo racconta. Anche qui la parola d'ordine è "genuinità": «Fuori dalle gare, la trovi a guardare serie televisive, film, ha sempre un modo molto naturale di porsi, ma, in quanto allo sprint, è molto competitiva e può insegnare tutto». In SD-Worx l'apporto di Wiebes ha riguardato soprattutto il lead out, il lancio delle volate, qualcosa in cui Cecchini ammette che la squadra doveva perfezionarsi.
Lorena Wiebes parte dalla linea d'arrivo e torna indietro, fino all'ultimo chilometro, per descrivere il lead out: «Se ai 150 metri devo essere a questa velocità, in un determinato tratto, vorrà dire che ai 400 metri la velocità e la posizione dovranno essere queste». E così via: con sicurezza e fiducia nella ruota che la precede, ma anche con l'idea di mettersi alla prova, di "cavarsela" se la squadra non può fornire interamente il proprio contributo.
In tutto questo, c'è Elena Cecchini, gregaria, a disposizione. «Mi è successo di chiedermi se riuscissi effettivamente a soddisfare tutte le aspettative della squadra. Ci sono momenti in cui puoi mettere tutta te stessa, ma le gambe non girano come vorresti, cosa puoi fare? Dirti che più di così non potevi proprio dare, che meglio di così non potevi prepararti. Bisogna dirselo spesso e, magari, invece di chiedersi se si è pronti, dirsi: "Sì, con quello che ho fatto, sono pronta per forza. Vada come vada”».
Per Faulkner è ancora tutto possibile
C'è un momento, sulle pendenze arcigne di via Santa Caterina, alla "Strade Bianche", dopo oltre trenta chilometri di fuga solitaria, in cui per Kristen Faulkner è ancora tutto possibile. Lo sguardo è fisso in avanti, per immaginare Piazza del Campo, e per terra, per restare focalizzata su ogni metro, senza lasciarsi distrarre troppo da quel pensiero, non si volta quasi mai, anche se sente che, dietro di lei, la situazione è esplosa. Prima lo scatto di Demi Vollering, poi quello di Lotte Kopecky: il duo della SD-Worx va via troppo veloce, si avvicina sempre più e, se rientra sulla testa della corsa, su Faulkner, è evidente a tutti che non ci sarà molto da fare per l'americana.
L'ultimo momento in cui tutto può accadere è proprio quello in cui Kopecky e Vollering la braccano da vicino e Faulkner, pur davanti, percepisce che ne hanno di più, che possono superarla in qualunque momento e far scoppiare la bolla di un desiderio che è sospesa nell'aria da minuti e minuti. Sente le loro ruote che macinano strada e mangiano metri, secondi. Non ci si può voltare, il Campo è sempre più vicino. Le serve una forza di volontà incredibile per non girare la testa e non pensare di dare respiro alla fatica, anche quando è certa che, ormai, non ci sia più nulla da fare per la vittoria.
Succederà l'inevitabile, mentre l'acido lattico le morde i muscoli. Eppure Faulkner, terza al traguardo, continuerà con lo stesso sguardo, come se quel desiderio fosse intatto. Ed, in un certo senso, è intatto. Sì, i desideri spazzati via sono desideri da riprendere per mano per accompagnarli "alla prossima volta". Parlare di Faulkner, oggi, significa parlare di questa cosa qui: delle volte in cui abbiamo la forza di continuare a credere alla nostra pedalata, l'unica possibile, mentre gli altri ci passano in tromba e se ne vanno.
Foto: Sprint Cycling Agency
Partite, senza paura: racconto di un viaggio in Patagonia
Quando Mario Conti, guida alpina, Ragno di Lecco, ha chiamato Stefania Valsecchi, ha detto solo poche parole: «C'è un viaggio che fa per te». Di fatto, Stefania ed Eleonora Delnevo si sono conosciute in questo modo e, da quel momento, sono diventate Steppo (Stefania) e Lola (Eleonora). Il viaggio di cui parlava Conti era, per l'appunto, il viaggio pensato da Lola Delnevo, anche lei alpinista, anche lei Ragno di Lecco, fino ad un brutto incidente nel 2015, proprio mentre scalava, che le ha fatto perdere l'uso delle gambe. «Il contatto con la natura è la cosa che più mi è mancata in questi anni. Le mie amiche, sapendo del mio legame con la montagna, hanno provato a spingere la mia sedia a rotelle anche nei sentieri fra i monti, ma io ho sempre voluto riprendermi la mia libertà. Volevo vivere quei posti in autonomia. All'handbike sono arrivata così». Sì, proprio lei che ammette di aver usato ben poco la bicicletta nella sua vita, più che altro per andare a scuola, è arrivata al ciclismo nel momento in cui di una bicicletta aveva più bisogno.
Il punto è che, avendo viaggiato molto per il mondo, con quell'handbike non ha pensato a un viaggio semplice, ma ad uno dei più complessi, come quello sulle strade della Patagonia. «Non sapevo come sarebbe andata, però, troppo spesso, ci si ferma ai dubbi, a quel che si ha il timore di non riuscire a fare, non volevo finisse così quest'idea. Ora lo so per certo: meglio partire, in ogni caso». Stefania, in quel viaggio, l'ha accompagnata, con un'idea ben precisa: affiancarla mentre quella fantasia diventava realtà. «Ho viaggiato tanto in bicicletta e mai ho iniziato a pedalare solo per pedalare- spiega Stefania- ho sempre voluto che il viaggio avesse un senso, qualcosa in grado di restare anche al ritorno a casa». Negli anni, Stefania ha attraversato l'arco alpino in omaggio al periodo in cui Lecco era città alpina dell'anno, con tante cartine, sola all'inizio, in compagnia alla fine «perché, quando sei in bicicletta, qualcuno incontri sempre, qualcosa condividi sempre», ha unito Monte Bianco, Gran Sasso ed Etna tra bicicletta e camminate, per una promessa fatta al medico che la operò dopo un incidente, proprio mentre era in sala operatoria, è andata sull'Olimpo nel 2020, l'anno in cui si sarebbero dovute tenere i Giochi Olimpici di Tokyo, poi rimandate a causa della pandemia ed il primo gennaio 2023 è partita con Eleonora per la Patagonia: in programma 1500 chilometri per attraversarla, 1200 in bicicletta.
Patagonia vuol dire steppa, arbustelli spinosi, paesaggio inospitale, a tratti monotono, e, soprattutto, un vento forte che sposta anche le macchine che, all'interno, talvolta hanno incudini per fare peso, per ancorarle a terra. C'è il colore caffè e latte e il profumo dell'asado, la carne tipica argentina: «Quando arrivavamo in un villaggio, magari dopo giorni senza nemmeno la possibilità di comunicare per la mancanza di rete, respiravamo quel profumo e quasi ci sentivamo in famiglia. Basta poco quando si è lontani». Eleonora scopre dal basso quella natura che era abituata a vedere dalle rocce, una prospettiva invertita: «Non è stato facile tornare a prendere contatto con le montagne dopo l'incidente, ma il viaggio è la mia dimensione. Il mio modo di stare bene e ritrovare la portata umana che stiamo perdendo, sciolta nella velocità, nella liquidità di ogni cosa». A questo valore da ricercare, Delnevo aggiunge una precisazione: «Spesso, quando c'è una disabilità, si pone attenzione alla persona e a ciò che fa in quanto disabile, non in quanto persona. Il viaggio è anche un modo per ricordare di interessarsi e di parlare sempre e solo delle persone. Poi ci sono vari modi di fare le cose, ma il modo si trova, si cambia. La persona è il punto fermo».
Si segue la rotta della "Ruta 40", da El Chaltén, El Calafate, le Torri del Paine, il parco Nazionale connesso, la Bahía Inútil, il Lago Fagnano e via. Talvolta si devono usare mezzi pubblici, pullman, perché non è proprio possibile pedalare ma anche in quelle occasioni il fatto di essere in bicicletta è un modo di riconoscersi. Stefania racconta: «Quando due ciclisti si incontrano, si fanno la festa, si spostano dall'altro lato della strada a salutare, si abbracciano, si commuovono talvolta. Fare lo stesso viaggio, vuol quasi dire conoscersi: è significativo». Forse per questo motivo due ragazzi portoghesi che stavano percorrendo la "Ruta" con delle motorette, non hanno esitato a dare delle bottigliette d'acqua a Steppo e Lola che, quel giorno, erano quasi rimaste a secco. Forse per questo Monica, una automobilista, il secondo giorno di viaggio, ha trasportato le borse di Stefania, danneggiate da un incidente, al villaggio più vicino, per ripararle con fil di ferro, nastro adesivo e fascette, permettendo a Stefania ed Eleonora di pedalare più agevolmente in un vento particolarmente insistente. Certamente per questo, ancora oggi, Delnevo e Valsecchi sono in contatto con i viaggiatori incontrati in quei giorni: «Non importa che lingua parli, in un modo o nell'altro ti capisci, ti fai capire». Viaggiatori che vengono da tutto il mondo, che, ancora oggi, stanno continuando i loro viaggi e chissà dove arriveranno. Nel ricordo, anche il sorriso con cui gli abitanti di quelle terre accolgono, la costante voglia di rendersi utili, di ascoltare ogni domanda e di rispondere con gentilezza anche alle più scontate.
Quando in Patagonia era l'alba, in Italia era mezzogiorno e i bambini della scuola elementare in cui Stefania insegna erano in aula: un collegamento via internet, uno schermo e quei bambini ascoltavano quelle due viaggiatrici raccontare la loro giornata, spiegare la geografia e la storia. Chiedevano, guardavano, si interrogavano ed esercitavano la curiosità, via maestra per imparare. In questo modo, la Patagonia è restata nelle loro menti e, anche oggi, ne parlano.
Venticinque giorni di viaggio, diciotto effettivi di pedalate, una conoscenza che continua e si intensifica col passare dei chilometri, con l'adattarsi alle reciproche esigenze che sono, poi, la cifra di un viaggio condiviso: Stefania che in bicicletta non si ferma mai, nei tratti più difficili aspetta Eleonora, torna indietro, “a prenderla”, quando la sua handbike rende più difficoltosa la percorrenza, Eleonora che non dubita nemmeno per un momento del fatto che ce la faranno, che arriveranno, che spinge con in quelle braccia una forza assurda e che, per ogni problema, vede solo la soluzione. Eleonora e Stefania, due donne in viaggio, che, alle Torri del Paine, si sentono immerse in un quadro: il verde acceso della vegetazione, il blu cobalto del cielo e il ghiaccio così bianco da sembrare una meringa.
Anche il ritorno a casa è una scoperta, anzi, una riscoperta: delle proprie comodità, delle proprie piccole abitudini, che ora hanno ancor più valore, proprio perché si è vissuto altro, si è appreso altro.
Eleonora sorride, ride di gusto e riprende a parlare: «Partite, senza paura. Solo provandoci, scoprirete quanto è bello sapere di esserci riusciti». Quella bellezza che prende il nome di stupore, di meraviglia.
Cape Epic: questione di autenticità
Keegan Swenson è certo che, in bicicletta, serva solo essere quel che si è, fino in fondo. Potremmo dire che Swenson creda alla verità di una bicicletta o, forse, che creda alla verità che ogni persona può raccontare: in sella oppure giù dalla sella. Lachlan Morton dice qualcosa di simile: quando racconta che l'idea di correre la prossima Cape Epic, dal 19 al 26 marzo, con Swenson, lo ha preoccupato, innervosito perché "Keegan è un fuoriclasse e io non sono sicuro di esserne all'altezza". Di più: Lachlan Morton spiega di aver avuto timore e proprio il fatto che lo ammetta fa parte di quell'autenticità che Swenson cerca. Importante è soprattutto che, facendo leva su quel timore, su quella paura, considerando quello stato d'animo, dandogli valore, Lachlan Morton abbia accettato la proposta di Keegan e, in Sud Africa, correrà al suo fianco.
Quella di cui parla Morton è una sorta di proprietà della paura che, se riconosciuta e fronteggiata in un certo modo, può diventare un moltiplicatore di bellezza: "Ho detto sì proprio perché mi sembrava una prospettiva scoraggiante, perché ero nervoso e preoccupato". Perché, aggiungiamo noi, dietro questi timori c'è la possibilità di provare ancora qualcosa di nuovo, addirittura di inesplorato: essere messo in difficoltà come via per andare più a fondo, per scoprire un'altra profondità in quello che si fa. Questo è il significato di quello spontaneo: "Non ero mai stato così nervoso prima di una gara, è bello".
Gli ultimi mesi di duri allenamenti del duo Morton-Swenson si sono mossi in questa prospettiva, con sullo sfondo il Sud Africa: rocce, polvere, sabbia, terra, una vegetazione diversa da conoscere, con cui entrare in sintonia per riuscire a conviverci, per arrivare fino in fondo e fare bene. Il meglio possibile. Si parla di podio e, quando si parla di podio, neanche troppo velatamente si parla di vittoria, almeno di una o due frazioni. Sarà certamente una fra le coppie da attenzionare: pare che Lachlan apporterà le proprie conoscenze tattiche e Keegan la propria esperienza. Dal canto loro, quando potranno, rivolgeranno l’ attenzione alle altre coppie sul percorso, soprattutto a quelle meno note e, ancor di più, a coloro che saranno lì con il solo desiderio di completare la prova, di arrivare al traguardo. Anche questo ha a che vedere con la verità di una bicicletta, con la verità di chiunque pedali: può essere bella, talvolta ancor più interessante, pure la storia di chi non chiede altro che provare e serve molta autenticità per questo.
La stessa dell’essere sfatti dalla fatica, dalle energie che non si recuperano, dalle cadute e dagli errori che, comunque vada, alla Cape Epic faranno tutti. Vincere non sarà questione di mancanza di errori, sarà, semmai, questione della capacità di riparare agli sbagli, propri e del proprio compagno. Swenson e Morton ci faranno divertire.
Mettersi in gioco: intervista ad Arianna Fidanza
All'orario prefissato, quando le telefoniamo, Arianna Fidanza è in aeroporto dopo la caduta nei chilometri conclusivi di Le Samyn des Dames: sta per tornare a casa per accertamenti riguardo una possibile frattura del setto nasale.
«Te la senti? Possiamo rimandare, se vuoi».
«No, no, chiacchiero volentieri».
Partiamo. Vorremmo parlare subito di domenica, della sua azione alla Omloop van het Hageland, ma il pensiero va per forza di cose alle cadute: «Per fortuna, non so perché, ma quando sono in corsa non ci penso, altrimenti credo che le cadute, soprattutto negli ultimi anni, mi avrebbero bloccata a livello psicologico nelle volate. Quando pensi, perdi l'attimo. In ogni caso, a ventotto anni, nonostante si sia ancora giovani, non si sprinta come a diciotto: me ne sto rendendo conto». La giovinezza di Arianna Fidanza sta tutta in quel "mettersi in gioco" che ripete diverse volte durante il nostro dialogo.
«Vuol dire essere disposti a fare scelte "scomode": la fuga di domenica, ad esempio. Vuol dire non sedersi nelle situazioni: il cambio di squadra. Forse sarebbe stato più facile rinnovare con BikeExchange, perché abbandonavo qualcosa che conoscevo per qualcosa di completamente nuovo. Vuol dire essere disposti a ricominciare “senza se e senza ma". Vuol dire, soprattutto, cercare di vedere chiaramente quel che si vuole e non farsi spaventare dalla fatica aggiuntiva, in termini fisici e mentali, che serve per raggiungerlo. Non rinunciare». Già, la fuga di domenica. Fidanza non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, tuttavia un cambio di programma all'ultimo e gambe che stavano particolarmente bene, l'hanno portata a seguire l'azione di Allison Jackson. Una fuga a due, difficile, per cui ripartirebbe subito: a costo di spingere a tutta, come ha fatto e come bisogna fare in queste occasioni.
Ad un certo punto, lei e Jackson si parlano, Fidanza le mette una mano sulla spalla: «Vedevo che sugli strappi faticava. Sapevo che l'azione l'aveva promossa lei e ho voluto parlarle: "Stai tranquilla, non cerco di staccarti. Andiamo assieme all'arrivo, poi vediamo cosa succede”. Lei ha capito, mi ha ringraziato. Da qui la mano sulla sua spalla». La fuga è stata ripresa, «forse avrei potuto aspettare la volata, ma Wiebes è più veloce di me. Ho voluto prendere in mano la situazione, non subirla. A prescindere dal risultato». Ha aiutato anche l'ambiente, il Belgio: una nazione che ha conosciuto bene quando correva in Lotto Soudal e per cui prova un'istintiva affinità. Una terra in cui sogna di poter vincere una gara importante.
In tutto quello che è cambiato, qualcosa è rimasto e non era scontato. «Ho sempre avuto una forte sensibilità e, nonostante tutto, le difficoltà non l'hanno scalfita. Anche in corsa: provano a dirmi di "spendere di meno", ma non ce la faccio. Sento di voler fare e, per come sono fatta, devo fare, altrimenti non sono a posto con me stessa». Quella stessa sensibilità che, dalla nascita della sorella Martina, l'ha portata a dirsi che avrebbe voluto proteggerla "dalla sofferenza che si prova". Oggi, dice che in molti casi è stata proprio Martina a proteggere lei, ma l'intenzione è sempre la stessa: «Quando siamo in corsa, mi chiedo sempre: "Dov'è mia sorella?". Ora corriamo in un'unica squadra, ma accadeva anche quando eravamo in squadre diverse. Se hai una sorella in gruppo, la cerchi. Hai preoccupazioni doppie, per ogni dettaglio, ma anche doppio sostegno. Negli ultimi anni, Martina ha vinto più di me, qualcuno mi ha chiesto se ci fosse gelosia, invidia. No, anzi, dirò di più. Lei ha uno spunto veloce migliore del mio: vorrei mettermi a sua disposizione per aiutarla a vincere».
Un legame forte, come quello con la famiglia. E, proprio con la famiglia, ha a che vedere, quella che definisce, la cosa più difficile del suo lavoro: partire quando a casa qualcosa non va. In quei momenti, vorrebbe scordarsi di essere una ciclista. Cosa di cui, racconta, non si scorda praticamente mai, perché non è un lavoro di cui ci si possa dimenticare, neppure per poco, nemmeno in vacanza, forse.
«Ho bisogno di staccare, di focalizzarmi su altro, e, per farlo, mi basta davvero poco, non cerco molto. Però penso sempre al fatto che il mio mestiere è il ciclismo. Questa estate, avrò fatto dieci giorni di vacanza, forse, eppure pensavo spesso: "Avrò perso la forma? Come dovrò fare per recuperarla?". La mente mi riporta sempre lì».
Poche settimane fa, la vittoria a Costa De Almeria, parte di un percorso che le ha permesso di tornare ad alzare le braccia al cielo, perché proprio quest'anno, in Ceratizit, è avvenuto uno dei più grandi passi avanti che Arianna Fidanza si riconosce: «Mi sento cresciuta a livello atletico, soprattutto perché sono tornata a sentirmi nel vivo della corsa. Quello che volevo quando ho deciso di rimettermi in gioco».
L'aereo, il volo ed il ritorno a casa. Ma Fidanza, fra tutte le altre corse, aspetta soprattutto il Belgio perché in Belgio vuole fare realtà del suo sogno più grande.
Diario dall'Alaska: la mente ed il fuoco
Qualche giorno fa, Willy Mulonia era ancora in quel bosco di abeti neri e betulle, di quel grigio monotono che, in Alaska, torna a ripetersi di continuo, senza stacchi. Era in quel bosco di alberi, che definisce anime perse, per provare la partenza di Iditarod Trail Inviitational, con il fratello Tiziano: quarantacinque chilometri e la neve che cade incessantemente dalla mattina. Il fiato smorzato dal freddo e il ricordo che, l'anno scorso, quello stesso tratto l'aveva percorso in quattro ore, quest'anno ce ne sono volute otto. Quando Willy inizia a parlare, la prima considerazione è tagliente: «Se ci pensassi, sarebbe un disastro, una catastrofe». Ma, per fortuna, non è tutto qui e Willy Mulonia, nel tempo, l'ha compreso bene. Si tratta di un segreto nella gestione delle esperienze: «Non bisogna mai paragonare e di conseguenza mai giudicare. Un binomio fondamentale perché la mente ha un ruolo importantissimo in questi casi. L'anno scorso in questo tratto, su questa salita, stavo pedalando, ora sono a piedi e spingo la bicicletta. Quante cose sono cambiate? Più torno in Alaska, più capisco che le cose cambiano. Più passano gli anni e il cambiamento diventa una realtà con cui interfacciarsi perché, all'improvviso, impieghi molto più tempo per fare cose che, prima, facevi in velocità, naturalmente». Già, il cambiamento a cui bisogna saper dare la giusta lettura per riuscire a continuare. Willy Mulonia questa lettura la divide in tre fasi.
Si riconosce il cambiamento, si accetta la realtà modificata e, soprattutto, si cerca di far sì che questo nuovo aspetto delle cose possa giovarti, in qualche modo. «Non puoi parlare alla mente in maniera negativa, perché il cervello non recepisce questo messaggio. Se ti chiedo di non pensare ad un elefante rosso, tu ci pensi. Se all'inizio di questa salita, mi dico di scendere di sella perché non ce la faccio, mi sto parlando male. Invece devo parlarmi bene: scendo di sella per risparmiare energie. Si tratta di un dovere che abbiamo tutti». Intanto là, in fondo, c'è Tiziano che ha girato la bicicletta e sta aspettando Willy, per andare assieme alla cabin che è «posto di giubilo, di felicità, di premio, di ricompensa dopo la giornata». Nella tormenta, ci spiega Willy, si forgia il carattere, nei momenti di calma si accresce il potenziale e questo, nonostante la fatica, è un momento di calma, perché la gara non è ancora iniziata: un allenamento del genere ha permesso di ripassare i punti forti della propria capacità, delle proprie abilità. Si impara, è questo il punto: un banco di scuola in cui nessuno insegna, al massimo qualcuno aiuta ad imparare. E quel temperino, che è l'Alaska, forgia la matita che poi scriverà. La matita è sempre Willy che si parla in positivo, senza giudizio. Magari pensa al mare.
Adesso sta smettendo di nevicare, un altro premio, dopo la fatica. Piano piano si va verso l'uscita del bosco, verso Butterfly Lake: «Il bosco è spesso vissuto come groviglio, come luogo di estrema difficoltà, invece, se sai parlarti bene, il bosco è un luogo di sicurezza, perché, appena ne esci, il vento soffia forte, ti castiga, ti punisce. Nel bosco puoi ripararti, l'animale ferito va nel bosco per curarsi e l'uomo nel dolore dovrebbe camminare nella natura. Come il lupo, il bosco non è pericoloso, è, ad esempio, il luogo dove trovi la legna per il fuoco». Sì, il fuoco. Per Willy Mulonia è vita e morte, è sicurezza, calore, ma anche rischio, pericolo fuori controllo, è rinascita e distruzione. Anche la forma delle fiamme che, dalla grande base, ballano, spingendosi verso l'alto, sembra quasi una divinità.
Willy, Tiziano e Roberto si ritrovano insieme e ognuno ha un suo compito, qualcosa che gli riesce naturale, che lo contraddistingue: Tiziano si occupa del meteo, Roberto della traccia e Willy si prende cura proprio del fuoco. Anche in estate, quando è nella natura, osserva le piante, la loro corteccia, il luogo ideale per costruire un giaciglio o per accendere una fiamma, con un cerino, come gli ha sempre detto un suo caro amico che oggi non c'è più: «Dai, fammi vedere se sai accendere un fuoco con un cerino». A questo scopo, sono quattro i kit che Mulonia ha portato: quei cerini sono sapientemente protetti dalle intemperie. Uno di questi kit lo tiene addosso, «nel caso in cui la bici dovesse finire in acqua. So dove li ho, non devo cercarli. Sono una sicurezza».
L'accensione del fuoco è un rito, la prima cosa che Willy Mulonia fa, dopo essersi ben coperto, per tenere al caldo il corpo e ascoltarlo raccontare ogni gesto a tal fine è come una storia: il momento dell'arrivo, la ricerca del posto migliore, la neve che viene spostata, la pulizia della base del pino, controllando che sopra non ci sia neve, fare un tetto, il taglio dei rami, l'isolamento del luogo dove ci si sdraierà la notte e i materassini pronti. «Non troppo lontano dal giaciglio, preparo un buco nella neve, una base con dei tronchetti di medio taglio, utilizzando una catena di una motosega con due maniglie al fondo, e sopra metto la corteccia delle betulle che inseguo ovunque con gli occhi, pensando a quanta potrei prenderne per il mio fuoco». Così, attraverso la legna accumulata dal taglio e dalla pulizia delle piante secche, si nutre il fuoco. Lì, ci si riunisce, un whisky a sera, qualche parola, poi si va a dormire e il fuoco, lentamente, si spegne durante la notte. Quel fuoco, in Alaska, è, per Willy, Tiziano e Roberto, focolare domestico dove si riunisce la famiglia. Quelle fiamme ipnotizzano, come l'acqua del mare, di un fiume o la vita di un bambino che è appena nato, il suo movimento.
Ora ha proprio smesso di nevicare, la cabin è lì, vicina, la giornata è finita: un cerino, una striscia per sfregarlo e il suo suono. La concentrazione dell'attimo in cui bisogna far partire la prima scintilla, il primo scoppio, perché non si può sbagliare: «Se pensi ad altro, non accenderai mai il fuoco. Se vuoi dar vita a una divinità, non puoi sentirti più importante di lei. Il fuoco ti salva, il fuoco ti distrugge. Tutto qui».
Sì, tutto qui, almeno per oggi. Il 26 febbraio è partita l’avventura di Iditarod Trail Invitational e da lì, per Willy, ci saranno ancora pagine di diario da riempire.
Diario dall'Alaska: Love Joy Drive
La pelle di Willy Mulonia è una cartina geografica. I primi a scoprirlo sono stati i figli di Willy che, sin da bambini, hanno dato un altro nome alla vitiligine che ha colpito il tessuto cutaneo del padre. Così, seduti sulle sue ginocchia, abbracciandolo, esploravano quella carta geografica e, dall'altra stanza, li sentivi gridare: «Questa è la Patagonia! Questo, invece, l'Alaska!» e così via, in una geografia tutta loro. Willy, che in quei giorni stava facendo i conti con la convivenza con la vitiligine, trovava in questo gioco il modo migliore per accettarla: su quella pelle, alla fine, qualcuno poteva vedere il mondo, anche quello talmente lontano che, in una sera di alcuni anni dopo, a cena, ha fatto chiedere al figlio: "Papà, perché torni in Alaska?". Il nostro "Diario dall'Alaska" parte proprio da questa risposta, mentre lì è già mattina, Willy Mulonia si sta allenando per Iditarod Trail Invitational e dal cielo è caduto un metro di neve in appena tre giorni.
«Potrei dire che ci ritorno per un fatto estetico, perché mi piace, ma non avrei detto tutto. Ritorno, soprattutto, perché è il mio luogo nel mondo, quello in cui ritrovo me stesso. Qui non c'è la mia famiglia, eppure quando sono qui mi sembra di non essermene mai andato. Tutto riparte da capo, dal punto esatto in cui si era interrotto». Ogni volta, però, è diversa, perché diverso è il viaggiatore anche se si tratta sempre di Willy, lui che quest'anno ha avuto un timore nuovo, un nuovo dubbio: «E se l'Alaska, questa volta, dovesse spaventarmi già dai vetri dell'aeroporto?». Una domanda a cui non c'è risposta razionale, almeno sino all'arrivo, ma a cui anche i sogni della notte provano a dare tranquillità. Un sogno nuovo che lo riporta a un vecchio viaggio, quando, anni fa, in Amazzonia, una famiglia ha accolto Willy per molto tempo e, prima che ripartisse, il padre lo ha preso da parte: «Vedi questo tatuaggio che abbiamo tutti noi sul collo e sul viso? Indica l'appartenenza a questa casa, a questa famiglia. Vorremmo inciderlo anche sulla tua pelle, in modo che, ovunque sarai, saprai di appartenere anche all'Amazzonia. Pensaci questa notte, domani ci dirai». Non fu una notte facile per Mulonia che, al mattino, rispose forse nell'unico modo possibile: «Non posso, nonostante vi sia grato per questa idea. Non posso perché non starò qui ma tornerò a casa, in un altro paese lontano e le persone di quel paese non capirebbero. Nemmeno io riuscirei a spiegare tutto questo». Ancora oggi, Willy pensa a quel giorno, riflette e si chiede se abbia fatto davvero bene a rispondere così, però, qualche notte prima del volo aereo ha sognato un’accoglienza simile da parte delle persone che vivono in Alaska e, probabilmente solo allora, si è sentito davvero tranquillo, davvero pronto.
I bagagli, i voli aerei, le nuvole dall'alto in basso e di nuovo la terra, via verso una casa che, da sempre, ospita Willy, suo fratello Tiziano e Roberto Gazzoli, a dieci giorni da Iditarod. Le indicazioni portano in Love Joy Drive, dove c'è quell’abitazione: «Solo la via, con le parole amore e gioia, sembra un’apoteosi del viaggio. Anche se so cosa c'è là fuori: il freddo, il gelo, il ghiaccio, il buio e le alci che sono un pericolo da queste parti. C'è la fame, la sete, la sofferenza e il dolore. C'è anche la possibilità di ritrovarsi, di tornare avendo aggiustato qualcosa dentro». Willy Mulonia porta l'esempio del temperino e della matita: è un atto ruvido il temperare la punta, ma necessario. E le punte temperate non servono solo alle matite per scrivere, pure agli uomini per vivere. L'Alaska è il temperino e Willy è esattamente dove vuole essere. Willy e Tiziano, fratelli da sempre, che da queste parti diventano ancor più fratelli. Si guardano come non si guardano mai, si parlano come non si parlano mai, si ascoltano allo stesso modo e si dicono cose che, senza l'Alaska, non si direbbero.
Mentre parliamo, in sottofondo, la radio trasmette una canzone di Ornella Vanoni e Mulonia ci dice che è la sua musica preferita prima di eventi di questo tipo. Soprattutto quando c'è la malinconia delle cose che succedono e non dovrebbero succedere. L'altro ieri, sulle sponde del lago Shell, sul percorso di IditaRod, c'è stato un incendio. A bruciare è stato Shell Lake Lodge, un rifugio per tutti coloro che percorrono le strade dell'Alaska, un luogo dove gli "Angeli del Trail", così li chiamano da queste parti, aspettano i corridori e li assistono con molta umanità. Dove c'è Zoe, che gestisce il rifugio da molti anni: una signora che Willy e Tiziano hanno anche aiutato con dei lavori, in cucina, per permetterle di muoversi più comodamente. Una signora che oggi il pensiero non vuole non proprio lasciare: «Sarà triste passare da quelle parti e non poter entrare in quel rifugio. Però, su gofoundme, c'è una racconta di fondi per Shell Lake Lodge, tutti possono fare qualcosa affinché il brutto lasci un poco di spazio al bello della solidarietà. Quest'anno cercheremo un altro rifugio, ma a Zoe continueremo a pensare perché il dolore di una persona lungo il trail è sostenuto e compreso da chiunque, almeno una volta, sia passato di lì».
Intanto, con quella musica nell’aria, si preparano i pacchi che, entro sabato 18 febbraio, verranno inviati dall'organizzazione nei vari villaggi per i ciclisti che arrivano. «Se i ciclisti arrivano, bisogna aggiungere. Anzi, se arriveremo. Ma, anche nel caso in cui non arrivi nessuno di noi, quei pacchi non saranno stati spediti invano, perché verranno aperti dagli altri concorrenti e sarà comunque bello. Anzi, aprire un pacco che non sei stato tu a preparare è ancora più emozionante, quasi come scartare un regalo. Non sai cosa c'è dentro, ti sorprendi ogni volta».
Willy e Tiziano sono pronti, domenica arriverà Roberto, e l'Alaska sarà ancora il filo rosso che li unisce. Nell'ultimo anno, sono stati assieme, come in questi giorni, tre volte e tutte e tre le volte c'era qualcosa che aveva a che vedere con questa terra, fredda e lontana. Hanno scelto il loro nome: "Itialians". ITI come l'abbreviazione di Iditarod Trail Invitational, il resto, invece, è un richiamo all'origine, all'Italia, luogo in cui torneranno dopo che l'Alaska avrà affilato le punte delle loro matite. Sempre uguali e sempre diversi. Il viaggio è appena iniziato.