L'iride Gravel

È stata una lunga fuga quella di Gianni Vermeersch e Daniel Oss. Loro due, segnati da quei cognomi onomatopeici, quasi a simulare il rumore delle ruote nella terra, se ne sono andati dopo appena quaranta chilometri, durante la prima edizione del Campionato del Mondo Gravel, e nessuno li ha più rivisti, almeno fino al traguardo. Eppure andare via così presto è spesso un azzardo, una follia, un gioco ad alto rischio: a Vermeersch e Oss, ieri pomeriggio, non interessava. Qualcosa di simile al rock 'n roll il loro gesto e il gravel somiglia al rock perché unisce sonorità, possibilità, strada e terra, idee e desideri.
Il gruppo naufraga: quattro minuti, cinque minuti, ad un certo punto anche sette minuti. La nazionale italiana e quella belga sono perfette, Mathieu van der Poel, che pur tutti aspettavano, si trova imbrigliato, in una trappola, in una tela, non può far nulla se non affidarsi al gruppo che questa volta, diversamente da tante altre volte, nulla può fare, nulla riesce a fare. Ad un certo punto, davanti, Vermeersch si accorge che Oss perde qualche metro, poco, ma è un segnale, un segnale che l'avversario, appena coglie, cerca di portare all'esasperazione. Accelera Vermeersch, belga con un nome che più italiano non si può, qualcosa di caratteristico perché non è il primo.
Oss cede, prima qualche metro, poi sempre più. Le mura di Cittadella non sono poi così distanti. È pomeriggio ma si avverte l'arrivo della sera: i tramonti qui sono una lunga attesa, mentre i raggi di luce sfumano sulle pietre, sui mattoni, sui loro colori e, proprio qui, il gravel fa ciò che meglio gli riesce. Creare qualcosa di nuovo, di inaspettato. Gianni Vermeersch vince, diventa il primo Campione del Mondo Gravel: è felice, come non esserlo, forse ancora di più perché questa è una possibilità che avrebbe potuto non esserci anche per lui che si trova a proprio agio nel terreno in cui corre una bicicletta gravel. Gianni Vermeersch ha rischiato di non poterlo proprio dire: «Sono Campione del Mondo Gravel». Da ieri può dirlo.
Racconta molto di Vermeersch quell'oro e racconta altrettanto di Daniel Oss il suo argento. In assoluto l'argento è meno pregiato dell'oro, ma il valore non è il prezzo, il costo, il listino. Il valore è ciò che l'essere umano riconosce, assegna, percepisce. Così per Oss è una giornata speciale, un momento importante, un sogno, mentre sceso di sella va verso le premiazioni e batte il cinque al pubblico che lo chiama. Una giornata speciale è anche per chi ha scelto di stare a guardare, di cercare il luogo giusto per vedere spuntare da una curva i ciclisti o per sentire le loro ruote quasi traballare sul pavè del centro di Cittadella. Una festa, un'altra.
Terzo arriva Mathieu van der Poel, a seguire Greg Van Avermaet e, fra gli azzurri, Alessandro De Marchi e Davide Ballerini. Anche De Marchi è rock o, se preferite, gravel. Per come si butta in ciò che fa, per il fatto che solo sabato fosse in fuga sulle strade del "Lombardia" e poi di corsa in Veneto. Settimo sul traguardo.
Essere gravel è questa cosa qui. Essere gravel è divertirsi e far divertire, è il buon umore della fatica, della sfida che è anche prova, novità. Essere gravel è rock, è un centro storico e una birra, è la prima volta delle cose importanti.


Creare ricordi in bicicletta nei luoghi della Prima Guerra Mondiale

I luoghi sono stati quelli della Prima Guerra Mondiale, l'Altopiano di Asiago, il Monte Grappa, il Pasubio e il fiume Piave, luoghi che tutti ricordiamo per ciò che hanno significato. Se il Memory Bike Festival, svoltosi proprio lì, si è chiamato così, però, è soprattutto perché ha voluto provare a dare un nuovo significato al concetto di memoria, di ricordo. Federico Damiani, del collettivo Enough Cycling, organizzatore dell'evento, interpreta diversamente il verbo "commemorare": «Crediamo che troppo spesso l'idea del ricordare sia un'idea associata a una eccessiva serietà, talvolta a tristezza, malumore. Si può ricordare anche in maniera allegra, associando il ricordo a qualcosa di bello, di entusiasmante, qualcosa che resta in memoria proprio per questa capacità di divertire, di fare stare bene».
Andare in un posto in bicicletta, in compagnia, è qualcosa che aiuta la costruzione del ricordo, di un ricordo con radici forti, di quelli che non si dimenticano e che suscitano benessere quando riaffiorano. L'1 e il 2 ottobre, all'Altopiano di Asiago si provava a costruire questo. «Di fatto è un concetto sociologico. L'uomo tende a soddisfare diversi bisogni, dai primari, più semplici, fino a quelli più complessi, in una struttura piramidale. Normalmente a quei bisogni primari non pensiamo nemmeno, a sfamarci, ad esempio, a dissetarci, perché li diamo per scontati e continuiamo a cercare di soddisfare i più complessi. In bicicletta, ma in generale durante la fatica, lo sforzo, quei bisogni semplici ritornano e con loro cambiamo anche noi, diventiamo più veri, lasciando da parte tutta una serie di strutture imposte dalla società». Ecco spiegato perché i posti che visitiamo pedalando restano in memoria in maniera differente.

Tende per dormire fra i primi sussulti dell'autunno, tante biciclette, colazione tutti assieme perché così iniziano le giornate in viaggio e tre percorsi fra cui scegliere, nessuna gara, solo il gusto di percorrerli. «Durante le pedalate è stato possibile fermarsi a leggere, a vedere, a scoprire, magari a imparare qualcosa della Guerra Mondiale che ancora non si sapeva. Non tutti lo avranno fatto allo stesso modo, qualcuno avrà letto di più, qualcuno di meno, ma quel ricordo, quel bel ricordo farà sì che anche a casa avranno voglia di capire, di guardare». Poi si festeggia, con musica e Dj, divertendosi dopo la stanchezza e la fatica, il sudore.

Insieme a tutte le età. Tanti partecipanti giovani, tante gravel, anche qualcuno più avanti negli anni che, fra sentieri e strade, salita e pianura, lunghi drittoni, curve dolci e antiche strade militari, si è sentito incluso, parte di un gruppo. Da qui l'idea di tornare l'anno prossimo alla seconda edizione di questo evento che quest'anno ha cambiato pelle ma non vuole fermarsi qui. «Stiamo già vedendo i percorsi per il prossimo anno: qualcosa resterà uguale, qualcosa cambierà, anche nel nome dell'evento. Proveremo a fare in modo che la memoria possa essere costruita attraverso più vie, qualcosa di nuovo per manifestazioni di questo tipo. Piano piano scopriremo tutto assieme». Sì, attraverso la potenza di un ricordo e la felicità di quei pedali che girano è davvero possibile custodire passato e futuro assieme.


Alvento a Scuola

Tutto è iniziato vedendo la copertina di Alvento18 e guardando quel sasso, quello di Roubaix, quello vinto da Sonny Colbrelli, conquistando la Parigi-Roubaix. Massimo, insegnante di scuola dell'infanzia, l'ha vista con suo figlio e quel bambino ha iniziato a porsi e a porre domande su quel sasso. «Un sasso è per un bambino piccolo qualcosa di pesante che non bisogna lanciare, si chiedono subito come possa diventare un premio, un regalo. Il compito di un adulto è provare a spiegarlo». Da quel momento, Massimo ha avuto la certezza che le domande di suo figlio sarebbero in realtà state le domande di molti altri bambini. Alla scuola dell'infanzia "Clorofilla" di Milano sono arrivate così alcune copie di Alvento.
«Basta appoggiare una rivista per terra o su un tavolo e lasciare che i bambini la sfoglino. A quel punto saranno le immagini a evocare qualcosa su cui i più piccoli si interrogheranno. Noi seguiamo questo modello nell'insegnamento: cosa dice quella foto, quel disegno, quel colore? Che storia c'è dietro? Da queste domande, si impara». Sì, perché per spiegare la storia di quel sasso serve viaggiare con la mente, arrivare "nell'Inferno del Nord" e spiegare di quelle biciclette che "vanno sui sassi" per poi entrare in un velodromo e sfidarsi in velocità. «Non solo, bisogna parlare di materia, di tatto: di quanto sia pesante quel sasso, del suo essere ruvido o lisciato dalla pioggia. E se un sasso è duro, il fango è morbido e cosa si prova a toccarlo, a pedalarci o camminarci dentro? Qualcuno lo sa, altri vogliono capirlo».
Gli adulti parlano, spiegano, raccontano, i bambini si avvicinano a quelle foto, avvicinano tutte le mani e indicano anche i dettagli minori. «Si arriva a parlare di velocità, di equilibrio, del come faccia una bicicletta a restare in piedi, a non cadere e di cosa facciano i ciclisti per scalare una montagna o per curvare in discesa». Allora i bambini si confrontano tra loro: c'è chi va in bicicletta con i genitori, chi sta imparando, chi sa fare qualcosa che gli altri non sanno fare. L'equilibrio stupisce sempre, come ogni storia: «Il gioco è immaginare dove stia andando una persona in bicicletta, cosa farà una volta arrivata, quanto tempo ci metterà per arrivare, chi incontrerà. Si tratta del concetto di possibilità che la mente dei bambini esplora di continuo. Qualcosa che forse crescendo si rischia di perdere».
Ad un certo punto, si guardano le immagini della Parigi Roubaix femminile, qualche bambino chiede: «La bicicletta è per bambini o per bambine?» e la risposta se la danno loro stessi: «La bicicletta è per tutti, non vedi le foto?». Per tutti e anche, soprattutto, per i più piccoli: basta tornare indietro di qualche pagina e proprio all'inizio della rivista tutti fissano l'immagine di una bambina che va in bicicletta. «Allora si parla dell'essere grandi. Qualcuno spiega che è già grande e adduce a motivazione il fatto che va già in bicicletta, altri si chiedono cosa significhi diventare grandi, adulti, altri ancora aggiungono che si è grandi quando si può andare in bicicletta da soli». Mentre gli adulti si confrontano, anche i bambini si confrontano, così crescono.
Il concetto è quello di autonomia. Cosa accade quando un adulto insegna a un bambino a fare qualcosa? Ad andare in bicicletta, ad esempio. «La nostra idea è che, poi, adulto e bambino siano sullo stesso piano. Certo, l'adulto ha imparato prima, il bambino dopo, ma ora che entrambi sono capaci che differenza c'è?». Questo vuol dire dialogare e ascoltare: «Serve fiducia e disponibilità: “Ora che hai imparato, decidiamo assieme dove andare, cosa fare”. Si parte così ed allora i più piccoli propongono, si mettono in gioco, magari sbagliano. Stanno imparando». Non c'è più solamente una guida e qualcuno che impara, ci sono due persone che stanno esplorando un bosco, un sentiero, una strada. «Credo sia vero che le strade di oggi sono pericolose, non sono, purtroppo, il luogo ideale per giocare o correre in bicicletta, ma per cambiare tutto questo abbiamo un solo modo. I bambini devono conoscerle, raccontare ciò che li diverte e ciò che li spaventa. Fare domande, interrogare quel mondo che non sembra a misura di bambino. Da qui può nascere il cambiamento». Se gli adulti ascoltano, se gli adulti hanno coraggio.
«Consegniamo ai bambini la loro autonomia, consegniamola a piene mani e lasciamo che possano viverla. L'esperienza di pedalare da soli, senza più nessuno che tiene una mano sulla loro spalla, è straordinaria. Sono felici, ridono, gridano, perché stanno scoprendo cosa sanno fare, cosa possono fare. Mentre lo scoprono continuano a interrogare la loro immaginazione e si proiettano in altri mondi, in altre strade, in altre possibilità. È un esercizio difficile ma importantissimo». Un esercizio che può partire da un'immagine, da una bicicletta e portarli chissà dove. Nel loro diventare grandi, a partire da un'aula di una scuola dell'infanzia in una mattinata di ottobre.


I giorni dopo Erratico Gravel

Il giorno dopo è il giorno delle idee, dei pensieri. Così è accaduto anche per Erratico Gravel e tutto ciò che è stato quel fine settimana di inizio ottobre nel Canavese non sta nelle parole. Paolo Ciaberta e Simone Bracco, fra gli organizzatori dell'evento, hanno voglia di raccontare, una voglia che, in realtà, appartiene a tutti dopo giornate così. «Vengono e ti dicono semplicemente che sono felici- spiega Paolo- poi ti spiegano la loro giornata, i momenti più belli e quelli più difficili». Simone nota che questa è una forma di condivisione, come tante altre: «Guardate le storie sui social: è come spartirsi un poco di acido lattico. Spesso le persone non si aspettano queste cose da una bicicletta, rimangono stupite e, quando rimangono stupite, fotografano, spiegano, raccontano. A chiunque».

Già, una delle tante forme di condivisione perché già solo ritrovarsi tutti assieme e pedalare significa condividere. «Fotografando- osserva Paolo- li guardavo quei volti. Era incredibile: più aumentava la fatica, più la terra e il fango addosso, più la fatica, più aumentava la felicità». Perché? È una domanda spontanea. «Perché siamo molto abituati a una fatica mentale che logora e prendere una bicicletta, scegliendo di faticare, quasi purifica, risana, cura. Un'ora, due ore, e le cose prendono un'altra dimensione, quella giusta. Vivibile». Tutti assieme, che significa campioni, esperti, profani e chi ha iniziato a pedalare da un anno, talvolta da meno. Simone parla del rugby: «Il terzo tempo nel rugby è una delle parti più belle. In un evento come questo, il terzo tempo è ovunque: in un ristoro, in quelle chiacchierate, anche nelle paure, nei dubbi. Alla fine, a tavola, si sta tutti assieme e stare a tavola assieme è unico: non importa quello che sai fare, quanti watt sviluppi, quanto tempo ci metti, si pranza assieme».

Lo ha notato anche Patrick De Lorenzi, ironman che ha partecipato a Erratico Gravel: «Lui che con il fisico può fare qualunque cosa, che non ha problemi di resistenza o fatica, ha scritto che Erratico è stata "un'esperienza brutale e meravigliosa". Crediamo renda l'idea, crediamo basti per raccontare la scoperta di una terra attraverso due giorni di divertimento». Qualcosa di simile si può narrare anche passando dal velodromo Francone di San Francesco al Campo.
Simone dice che gli addetti del velodromo, inizialmente, apparivano quasi perplessi, certamente dubbiosi da questa forma di ciclismo "nuova" che poi nuova non è, che affonda le sue radici nelle basi di quello che è una bicicletta. «A loro faceva strano non parlare di podi, di tempi, di classifiche, di barrette energetiche e gel, ma di ristori con cibo tipico e, perché no, un bicchiere di vino. Eppure, alla fine, erano incuriositi, interessati e chiedevano, facevano domande. C'è stato uno scambio e questa essenza del ciclismo li ha colpiti». Probabilmente, chiosa Paolo, il gravel ha aiutato, questa disciplina a metà strada che permette nuovi viaggi, nuove esplorazioni, certamente ad attirarli è stata un'altra questione.

«Spesso, quando pensiamo al ciclismo, pensiamo al ciclismo professionistico e va bene così perché lì cerchiamo l'epica, la straordinarietà delle gesta, qualcosa che non ci faccia sentire tutte le fragilità e le debolezze di cui siamo fatti. Il punto è che come uomini e donne, spesso, siamo distanti da quelle gesta, non siamo capaci di fare certi numeri e dobbiamo ammettere che questo non è un problema. Anzi, è bello anche andare lentamente in bicicletta, fermarsi, non competere con nessun se non con te stesso, se vuoi. Prima o poi, arriviamo tutti a questa scoperta: continuano a emozionarci le gesta dei campioni, ma ci emozionano anche i nostri piccoli miglioramenti, il nostro crescere». Di quella lentezza è fatta, ad esempio, l'osservazione del territorio di cui, a forza di correre, si rischia di non rendersi conto.
«Il Canavese è una terra straordinaria, bosco, sottobosco, natura e strade da scoprire ogni giorno, perché c'è ancora tanto che non si conosce. Ci piacerebbe che questa terra si volesse un bene maggiore, riconoscendo la sua bellezza e andandone fiera. Perché chi passa da qui, anche se distratto, resta meravigliato. Sempre».


Promesse

Quel numero di dorsale poteva sembrare una promessa: uno. E l'uno, stamattina, a Carpi, nel primo giorno di ottobre, lo aveva Elisa Longo Borghini. Lei che, appunto perché conosce il valore delle promesse, le tratta con cura. Dire troppo, sbilanciarsi troppo, significa generare attese e, se poi le gambe ti lasciano, le peggiori delusioni per chi è lì a guardare, a guardarti, vengono proprio da lì. Dalle promesse, da ciò che, ascoltando le tue parole, aveva immaginato. La sua promessa è, da sempre, il suo lavoro. Il lavorare duro, il non cedere nulla nemmeno in autunno, il non dimenticare nulla nemmeno a fine stagione. Ed è questa, in fondo, l'unica cosa che si può promettere: volerci essere. Fare il possibile per esserci.
A Bologna, i portici della salita di San Luca sembrano fuori dal tempo. Li abbiamo visti in primavera, promessa di maggio, in estate, intermezzo di frescura, in inverno, riparo dall'aria tagliente, in autunno, con le mani nelle tasche della giacca nelle giornate più aspre. Elisa Longo Borghini li conosce bene, come ben conosce quella salita, perché quell'uno è anche passato, quello delle due volte in cui qui ha già vinto. Promettere di fare il possibile vuol dire guardare avanti perché promettere è fissare un punto nel futuro e credere di andarci, vuol dire stare su una bicicletta che ha poche certezze e quella di andare avanti è una di queste, vuol dire scattare in salita, anche se sei stanca, anche se è più difficile.
Elisa Longo Borghini ha fatto così ancora oggi ed è stato uguale e diverso da tutte le altre volte. Qualcosa che colpisce, che resta in mente, perché non è solo il risultato, è il modo: una sorta di presagio che abbiamo quando alcuni atleti fanno qualcosa di straordinario in modo normale o qualcosa di normale in modo straordinario. È questo il capovolgimento che attira, che calamita. Un segreto, forse.
Seconda Veronica Ewers, terza Sofia Bertizzolo. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, della sua fatica, dell'ultimo strappo del mondiale di Wollongong, e guardatela oggi, mentre è lì a giocarsela che è un piacere. Il discorso non è molto diverso, sempre di promesse si parla: di quelle fatte agli altri e di quelle fatte alla propria persona.
Una ciclista sa che non si può illudere chi aspetta per ore un passaggio di qualche secondo, sul San Luca anche qualche secondo in più tanto è duro, ma una ciclista sa anche che ha il dovere di promettersi qualcosa di grande, di molto grande, quasi essenziale, per andare avanti.
Pensiamo a Marta Cavalli che proprio oggi è rientrata dopo la caduta al Tour de France Femmes ed è arrivata sesta. Vogliamo immaginare cosa sia stato per lei questo giorno, dopo tutti i risultati della stagione, dopo la crescita di questi anni. Questo giorno è stato quello che si era promessa dopo essersi rialzata dall'asfalto francese, costretta a tornare a casa. Promettersi il giorno del ritorno significa avere la pazienza di aspettare e il coraggio di dire no pur volendo dire sì. Significa credere al fatto che arriverà. Anche per Marta Cavalli è stato un sabato uguale e diverso dagli altri, un giorno da cui non si aspettava nulla e in cui chiedeva a tutti di non aspettarsi nulla perché è meglio pedalare leggeri in salita. Il suo essenziale era pedalare in gruppo, risentirsi in quel caos del plotone. Le promesse sono promesse e bisogna averne cura. Tutto qui.


Una meraviglia che non grida: Canavese Erratico Gravel

Le terre del Canavese sono silenziose e in quel silenzio si può vedere molto a patto, però, di scoprirlo. Perché la meraviglia, lì, non urla, parla a voce bassa e bisogna ascoltare per riconoscerla. Erratico Gravel (www.erraticogravel.it) nel fine settimana del 1 e 2 ottobre, proverà a mettersi in ascolto di questa meraviglia timida: «La bicicletta è, in primis, un modo di scoprire, le sue radici sono nella scoperta: una via, un sentiero, un modo per arrivare dall'altra parte di una salita o di una discesa. Il fatto che il Canavese non sia così conosciuto fa sia che sia un luogo ideale per pedalare».
Ci spiega così Paolo Ciaberta, tra gli organizzatori di questo evento, e aggiunge qualcosa che, anche se detto a bassa voce, grida, tanto è giusto, importante: «Crediamo che ogni sentiero, ogni traccia, ogni mulattiera o strada militare di questo paese debba avere un evento ciclistico off road dedicato per permetterci di conoscerlo e poi magari tornarci o portarci gli amici».

Due giorni, tre percorsi, rispettivamente di 83, 132 e 216 chilometri. Gravel e Mtb, per il più lungo è possibile scegliere il bikepacking e percorrerlo in due giorni. «Si può andare da soli in ogni luogo e può essere avventuroso. Andarci insieme restituisce una sensazione diversa: c'è qualcuno che ti accompagna in un posto, che te lo mostra, prova a raccontarti cosa c'è in quel castello, fra quelle case, fra quei campi. Magari ti fa assaggiare un prodotto tipico e ti spiega come viene cucinato». Andare in bicicletta sui sentieri del Canavese, in quei giorni, sarà soprattutto questo.
Guardare la Serra Morenica che sembra affettata con un coltello tanto è delicata, quasi fragile, e pensare che, una volta, qui c'era il mare. Si chiama Erratico Gravel proprio in ricordo dei massi erratici, di un bacino marino, del ghiaccio. Oggi c'è la natura: laghi, campi, vegetazione folta che cambia più volte mentre si pedala. Il verbo allora diventa condividere: «Un bicchiere di Erbaluce, un vino bianco di queste zone, i torcetti, il salampatata, i formaggi della Val Chiusella o i baci di dama: in tutti i casi, dopo la fatica, si cerca un sapore, più o meno conosciuto, per ritrovare energie». Poi si parla, si ride, si scherza, davanti a un piatto di pasta, un alimento che parla di bicicletta, di sudore, di una terra e della sua storia.
L'autunno sarà appena iniziato e quei colori che cambiano, nel silenzio interrotto dal rumore delle ruote che girano e dei pedali che frullano, ricorderanno ancora una volta a tutti perché stare in sella fa stare tanto bene.


Antica bellezza

A tratti, sotto i raggi di sole del tardo pomeriggio di Wollongong, la maglia del Belgio di Remco Evenepoel ha qualcosa di antico. Quasi una cartolina d'altri tempi, spedita di domenica. Qualcosa di antico lo ha anche il ciclismo che per quanto sia cambiato negli anni, per quanto cambierà, mantiene alcuni tratti che emozionano allo stesso modo, a metà tra passato e futuro.
La solitudine di un ciclista, ad esempio. Il gesto di Remco Evenepoel emana una bellezza antica: quando sceglie come direzionare la corsa, quasi un artigiano, qualcuno che lavora alla bicicletta, al telaio, che lo rende adatto alla persona, all'uso, quando, poi, allunga quel gruppo come una corda di violino e si intuisce un suono, quasi l'accordo iniziale di una musica, quando aspetta e freme per poi andare via con Lutsenko. Non scatta da dietro, non cerca di sorprenderlo: fa il suo passo, duro, logorante e Lutsenko si stacca, stanco, non lo regge più, cerca conforto dall'acido lattico in un attimo di quiete a poco meno di trenta chilometri dall'arrivo. Davanti, Evenepoel se ne va e da solo guadagna, inesorabilmente. Senza freni, senza tregua, senza pausa.
Qualcuno racconta che alcuni pittori provano una sorta di frustrazione, di lieve dolore, perché per quanto si cerchino i giusti colori, il giusto accostamento, luci e ombre, ciò che l'occhio vede non riesce mai a essere realmente intrappolato dalla tela. Non è l'occhio a essere ingannato, è solamente il fatto che a ciò che vediamo accostiamo un sentire particolare ed è complesso mostrare quel sentire in modo che anche chi legge, chi ascolta, possa provarlo. Allora richiamiamo alla memoria ciò che avete visto, ciò che abbiamo visto e ognuno sa quello che ha provato.
Basta una frase: «È scattato Evenepoel» per innescare una serie di reazioni, di sensazioni, le stesse per tutti e a quelle ci richiamiamo, quelle resteranno quando penseremo a Evenepoel con la maglia iridata, Campione del Mondo. Questa è la bellezza antica di cui parlavamo, di una bicicletta, del ciclismo. Di Evenepoel che si porta la mano sulla bocca al traguardo, poi sulla testa, la scuote nell'aria e solo alla fine alza le braccia. Quel senso di felicità che impedisce di stare fermi, qualcosa a cui avrà pensato in tutti i chilometri in solitaria perché Remco, oggi, ha vinto il Campionato del Mondo, prima di vincerlo. Il tumulto, però, è troppo forte per gestirlo, anche più dei suoi attacchi, del suo smisurato talento. E gioisce, incontra i compagni, abbraccia Alaphilippe, quasi un passaggio di consegne, si dicono qualcosa, chissà che cosa, di sicuro qualcosa che li accomuna, perché a chi ha provato la stessa emozione non serve spiegare nulla: sa come ti senti. Poco dopo, si cerca van Aert, una mano sulla spalla, pochi gesti.
La bellezza antica del ciclismo è anche nelle parole genuine di Lorenzo Rota, che era lì a giocarsi una medaglia, poi un calcolo sbagliato dei tempi e gli azzurri si sono piazzati, ma per quel podio non c'è stato nulla da fare, nonostante una corsa vissuta nell’unico modo possibile: «Era come un dietro moto». Così il talento si riconosce, piace, provoca sollievo anche se c'è rammarico, dolce e amaro. Trentin quinto, Bettiol ottavo, Rota tredicesimo: per noi finisce così.
Sul podio, con Evenepoel, Laporte e Matthews. Finisce come finiscono sempre questi giorni, comunque sia andata. Evenepoel parla con i giornalisti, dice molte cose, una in particolare: "Sono felice". Normale esserlo, certo, dopo una gara simile. Forse più strano dirlo, perché si ritiene ovvio, quasi una frase di rito. Lo sarà, probabilmente. Ma a noi piace vederci quella antica bellezza che non trascura anche le cose più semplici e le vive fino in fondo.


Dietro il sorriso di Chaves

Eppur sorride. Verrebbe da dire così, incontrando Esteban Chaves in questa Vuelta a España. Eppure ovvero nonostante tutto. Nonostante la fatica che è più fatica del solito, nonostante i risultati che non arrivano, nonostante le ruote degli altri sempre più distanti. Una distanza che aumenta ogni volta, davanti a lui, non dietro. Da solo, con pochi, in coda, non in testa. Quasi che quel colibrì danzante fosse diventato un colibrì sgraziato. Leggero eppur pesante. Non una leggerezza di pensieri e azioni, di imprevedibilità e velocità, di scatto e controscatto. Una leggerezza di vuoto: quando le gambe non vanno, quando l'energia finisce.
Pensare a Esteban Chaves senza quel sorriso fa quasi strano perché il suo è un sorriso che sembra restare anche quando fatica, quando si commuove, quando non ce la fa più. Quasi un negativo di una foto, qualcosa che in controluce traspare sempre. Anche in questi giorni in cui, già fuori dalla lotta per la classifica generale, dopo aver lavorato, dopo aver preparato la corsa, far fatica sembra senza un fine, se non quello di immagazzinarla, di assorbirla, di farsene parte. Una prospettiva difficile.
Qui la leggerezza diventa davvero difficilmente sostenibile; da vivere e da trasmettere. Eppur ancora c'è, eppure ancora sorride quando può. Quel sorriso è in realtà un modo di prendere le cose, una filosofia semplice e profonda. Un fanciullino di Pascoli, qualcosa di primordiale. Primordiale, all'origine come sognare di vincere una grande corsa a tappe: così puro, così grande sognano i bambini. Gli adulti ridimensionano, talvolta nascondono quando il sogno è troppo grande. Chaves, per i sogni, è restato il bambino che era e lo ammette.
Anche se ora ha paura. Non tanto di non vincere: un ciclista sa che perdere è molto più facile, molto più probabile. Ha paura di deludere la squadra, le persone che lavorano con lui, che credono in lui. Ha paura perché sente di non poter dare quello che ci si aspetta da lui. Qui la leggerezza diventa pesante, diventa difficile. Perché anche vedere quella festa sulle strade può fare male quando non sai perché le gambe non girano, quando non ti riconosci.
Restare Esteban Chaves, restare un colibrì, che fatica a planare, ma pur sempre un colibrì, era la prova decisiva, l'ostacolo da affrontare ancora una volta. "È la vita da atleta, da professionista" ha detto Chaves. È la vita, direbbe chiunque. Chaves ci sta riuscendo.
La misura di ciò in cui crediamo è nei giorni in cui quel qualcosa, pur potendo svanire, resta. Perché lo abbiamo voluto, non solo perché è capitato. Questa è la forza: Chaves che continua a sorridere e pensa a quando quella bicicletta lo farà nuovamente felice. Davanti a tutti.


Carapaz e saudade

C'è qualcosa che richiama l'armonia in Richard Carapaz che se ne va sulle pendici di Peñas Blancas. Quasi un profumo o una sensazione che, da El Carmelo, in Ecuador, arriva fino in Spagna, e sembra proprio aria di casa. Aria di casa come uno scalatore in fuga mentre "la strada si rizza sotto i pedali" avrebbe detto qualcuno.

Ma la fuga di Richard Carapaz è partita ben prima oggi: a inizio tappa, insieme a tanti. I suoi lineamenti, talvolta, a tratti ricordano la “saudade”, la nostalgia. Quando è lontano, persino della sua prima vecchia bicicletta che i genitori recuperarono in una discarica, oggi, invece, proprio di quel sentirsi a casa in salita, del suo essere, delle sue sensazioni. Così attacca la "Locomotora del Carchi", durante la dodicesima tappa della Vuelta a Espana, il primo giorno di settembre.

Attacca per andare in fuga dopo un inizio di Vuelta complicato, dopo essere andato completamente fuori classifica, dopo giorni difficili. Attacca dopo quel maggio che, proprio in salita, sulla Marmolada, gli ha strappato di dosso la seconda volta al Giro. Hindley che parte, Carapaz che si stacca. Lo ricordiamo tutti, dopo venti giorni di gara. Il giorno prima di Verona.

Attacca e torna ad attaccare ai due chilometri dal traguardo questa volta restando solo, sui pedali, poi seduto e ancora sui pedali e ancora seduto. Sta bene così, Carapaz. È tornato a casa: ha fatto quello che sa fare, quello per cui in Ecuador lo imitano, lo cercano. Quello per cui qualche ragazzo lascia la propria terra cercando fortuna.

Ha vinto, alzando le braccia, sollevato, risollevato, rialzato. Anzi, sollevatosi, risollevatosi, rialzatosi perché nessuno tranne lui poteva farlo. Perché in montagna, perché primo davanti a tutti. E, anche se Carapaz conosce bene la vittoria, questa volta sembra ancora la prima volta.


Zoncolan Challenge: oltre la salita

Spesso, quando Walter Franz esce in bicicletta, con lui, nel carrellino dietro, c'è Joseph, suo figlio. Per Joseph, otto anni, affetto da una forma di autismo grave, gli oggetti attorno sono estranei: a causa di un deficit cognitivo, Joseph non comprende e non parla. Quando è su quella bicicletta, però, sorride, anzi, più la bicicletta va veloce, più sorride. Walter conosce bene la felicità che può dare una bicicletta, lui stesso l'ha sperimentata, anni fa, ma vedere suo figlio felice è più importante. Vedere suo figlio felice fa quella bicicletta più importante. Fa tutte le biciclette più importanti. La bicicletta, in quel momento, è una opportunità di cambiare qualcosa.
Zoncolan Challenge, in fondo, nasce da qui. Sabato dieci settembre, alle sedici, Walter inizierà a scalare lo Zoncolan e lo farà per otto volte, fino alla domenica alla stessa ora. Joseph non ci sarà, non nel carrellino di Walter, almeno. «Mi dicono tutti che è difficile e lo so. Lo è. Ma, nella vita, ci sono tante cose più difficili a cui non pensiamo mai fino a quando non ci capitano. Forse servirebbe un poco di cura in più. Perché il dolore di una salita finisce, altri dolori non si affrontano così. L'ho imparato conoscendo la disabilità». Walter parla delle disabilità gravi, di Joseph, delle parole che non arrivano e di quell'universo del silenzio che ribalta lo stomaco. «Un genitore soffre anche quando il figlio ha mal di denti perché lo vede provare dolore. Noi, quando vediamo soffrire nostro figlio non sappiamo perché, non possiamo saperlo, non possiamo chiederlo a lui, non possiamo chiederlo a nessuno».
Sullo Zoncolan, accanto a Walter, potrà esserci chiunque: in bicicletta, con una bicicletta elettrica, persino a piedi. Perché lo Zoncolan non si sale da soli, come da soli non si cresce, non si impara. «Imparare a nuotare, ad esempio. Non ho mai saputo farlo e un paio di anni fa mi sono iscritto a nuoto. Qual è il problema? Rinunciamo a tante cose di cui abbiamo paura, quando possiamo riuscirci benissimo. Forse dovremmo farle proprio per rispetto di chi non può farle. Di chi non potrà mai farle». Walter pensa a Joseph: «In quell'universo del silenzio c'è molto da imparare. Da quel silenzio abbiamo capito che c'è un futuro da tutelare: il futuro di mio figlio e dei ragazzi come lui. Una casa, una possibilità di essere autonomi».
Pedalando Walter ha pensato a tutto ciò che in questi anni ha capito dell'autismo chiedendo a medici, a esperti. Soprattutto in casa un ragazzo autistico grave è esposto a ogni rischio: «Ho pensato che l'opportunità potesse essere un progetto, potesse essere small-house, un prototipo di casa in cui Joseph possa vivere anche quando sarà solo. Una casa che rispecchi le sue abitudini, che si adatti a lui per non fargli male, per non fargli troppo male. Perché gli oggetti possano essere meno estranei. Con dei tablet ai muri». Walter l'ha pensata su Joseph, ma ogni bambino e ogni ragazzo è diverso. Ogni famiglia può pensare a una casa che sia davvero casa, che protegga. Insieme a questo un trust, derivato dalla legge "dopo di noi" che garantisca le possibilità economiche a questi ragazzi. Perché il loro domani passa anche da qui.
È difficile da raccontare, da capire fino in fondo. Non il progetto, la sensazione che si prova sentendosi impotenti. «Quell'idea, in bicicletta, mi ha fatto capire che qualcosa si può fare. Da quel giorno, sono ancora più legato alla bicicletta». E dalla bicicletta si può partire come ha fatto quel signore che, tempo fa, ha portato suo figlio a pedalare con Walter e Joseph. «Mi ha detto che era importante vedesse, capisse . Entrasse in contatto con una realtà diversa dalla sua. Non so se qualcuno porterà i propri figli a Zoncolan Challenge, ma lo spero. È importante che un bambino possa capire mentre si diverte, perché la bicicletta è il primo segno di autonomia, di libertà. Assomiglia a quando inizi a conoscere qualcosa. Conoscere e pedalare sono verbi similari».
All'evento sarà connessa una raccolta fondi per continuare a dare forma a questi, a queste idee. «Più volte ci siamo sentiti soli, più volte non abbiamo saputo come fare, perché non conoscevamo quasi nulla. Da soli, ascoltando, abbiamo provato a imparare. Pedalare assieme è anche combattere quella solitudine, dire: "So che succede così, ci sono passato, vivo la stessa situazione". Da lì poi nasce il coraggio per continuare a viverla e per continuare a pensare al futuro». Quella strada all’insù, quel giorno, sarà tutto questo: oltre la salita.