L'istinto di un'azzurra a Tokyo
Giorgia Bronzini, direttore sportivo della Trek-Segafredo, è certa che, per spuntarla domani, la carta vincente sia anticipare i tempi: «Non so cosa hanno preparato le azzurre, ma se fossi in ammiraglia inizierei a muovere le pedine in anticipo, in modo da essere nel centro della corsa quando la situazione esploderà». Il tracciato della prova olimpica femminile in linea è ingannevole. I 137 chilometri previsti hanno più il sapore di una classica, magari delle Ardenne, e l'altimetria non rende giustizia alla reale durezza del percorso. «Parliamo di 2700 metri di dislivello. All'inizio c'è una valle, logorante, e alla fine arrivano gli strappi, ripidi». Bisogna aver studiato bene il tracciato per evitare di sottovalutarne alcune parti che possono apparire più semplici. Le ascese saranno Doushi Road e Kagosaka Pass, nel mezzo il tracciato fiancheggia il lago di Yamanaka, poi la lunga discesa verso il Fuji International Speedway.
L'ostacolo principale dovrebbe essere il caldo che in questa parte del Giappone somiglia a colla che imprigiona. «Alcune atlete vengono da zone in cui queste temperature non si raggiungono quasi mai, altre semplicemente soffrono il caldo». Importanti saranno i punti di ristoro perché l'acqua non va solo bevuta ma gettarsela addosso è un consiglio prezioso in queste circostanze. «Considerando più o meno quattro ore di gara, penso che con queste temperature si berranno circa tre borracce all'ora. Più di dieci borracce svuotate entro fine gara con differenze fisiologiche personali». Idratarsi bene anche nei giorni precedenti, sottolinea Bronzini, non è meno importante. La possibilità di pioggia, invece, sarà un elemento cruciale soprattutto in vista della discesa sul finale.
Senza dubbio, anche per Bronzini, le favorite sono le olandesi, Van der Breggen in primis. «Delle quattro atlete schierate al via, Vos, Vollering, van Vleuten e van der Breggen, tutte possono ambire a vincere il titolo. Alcune anche stravincere. Noi siamo subito a ruota e dobbiamo essere la loro ombra». Altri nomi da tenere d'occhio li aggiungiamo noi: Niewiadoma, la polacca sempre sugli scudi, Brown e Cromwell, coppia palpitante in casa australiana, Rivera, che proprio al Fiandre 2017 incorniciò una prestazione superlativa e Cecilie Uttrup Ludwig, che quest'anno ha vinto la prima gara World Tour, affiancata dalla pericolosa Emma Norsgaard che, se resisterà alle ascese, sarà un cagnaccio di cui diffidare.
In casa Italia, Bronzini ha parlato in questi giorni con Elisa Longo Borghini. «Le ho detto che è una gara come tutte le altre e così deve gestirla. Le atlete avvertono da sole la pressione degli appuntamenti importanti, non serve qualcuno che la rimarchi. Spero che corra d'istinto, seguendo la regola d'oro. Se fai qualcosa e sbagli, puoi rimediare all'errore. Se non fai nulla, al rimorso non c'è rimedio».
La Colombia è lontana
Le gambe di Sergio Higuita sono cavalli pazzi, nervi scoperti. Quasi nessuno si è sorpreso vedendolo all'attacco ieri in una tappa, tra Carcassonne e Quillan, che del nervosismo ha fatto il piatto principale, nell'avvicinamento ai Pirenei di oggi. Non molto tempo fa, Jonathan Vaughters, dirigente della Education First ha raccontato a Cyclingtips che in Higuita c'è un qualcosa di irrefrenabile. «Nelle corse in Cina non ci sono grossi strappi, anzi spesso sono dei tracciati piatti. Lui, però, partiva ad ogni cavalcavia. Faceva quasi sorridere perché vedevi questo scalatore minuto fare azioni impensabili su terreni improbabili».
Medellín è sempre stata troppo lontana per un ragazzo che voleva fare il mestiere del ciclista. Troppo lontana per conoscere l'Europa e anche per farsi conoscere. Non è un caso se Rigoberto Urán, quando gli chiesero un parere su questo ragazzino, disse: «Non l'ho mai sentito nominare. Non so chi sia». Per chi viene da quella terra, la bicicletta, all'inizio, può essere un'idea, forse un mezzo di spostamento. Higuita probabilmente non poteva neppure immaginare che, per fare il ciclista, avrebbe dovuto misurare i millimetri della sella o del manubrio.
Il suo era istinto puro. Quando disputò la sua prima gara in Europa arrivò con più di venti minuti di ritardo dal vincitore. Non un esordio facile, insomma. Lui non ci pensò molto. «Volevo fare il ciclista, ma volere non basta. Devi combattere per quello che vuoi». Tra l'altro, quella volontà Higuita la maturò per puro caso, dopo che un insegnante lo iscrisse a una gara del paese e da lì, quasi per evitargli altre strade, qualcuno gli consigliò di andare al velodromo per incontrare Efraín Domínguez. In fondo, è grazie a lui se Higuita è il ciclista che è oggi, se attacca, un po’ alla maniera dei barodeur, un po’ a quella degli scalatori, per non lasciare che la corsa passi nella noia. Perché Higuita attacca anche quando potrebbe aspettare, quando forse gli converrebbe. Soprattutto è grazie a Domínguez se Higuita non ha paura delle discese e scende che è un piacere, dote rara per i colombiani.
Solido, sicuro, convinto di ogni decisione. Con lui le apparenze ingannano. Ne sono testimoni i compagni che lo hanno accolto all'arrivo in Europa. Alla prima riunione, arrivó con vecchie scarpe al limite dell’inutilizzabilità e con vestiti non proprio da ciclista. Qualcuno chiese. Higuita, consapevole del materiale di pregio che avrebbe trovato in Europa, aveva lasciato le cose più belle che aveva ai ragazzi di Domínguez. Sembra che quella non sia stata l’unica volta, sembra che Sergio Higuita continui a mandare del materiale a quei ragazzi. Perché la Colombia è lontana, ma scordarsela è impossibile.
Tra il pubblico
Ogni volta che la nostra macchina passa fra le roventi strade del percorso del Tour de France, qualcuno, guardando la targa, esclama ad alta voce: «L'Italie, l'Italie». Sembra che Alfredo Martini dicesse che il ciclismo è amicizia. Forse, di sicuro è conoscenza.
Di Rafael, ad esempio. Un signore incontrato a Saint-Paul-Trois-Châteaux che ci ha raccontato di conoscere Azzurro, la canzone di Adriano Celentano che l'altra mattina era trasmessa al villaggio di partenza e, quando ha capito che eravamo italiani, si è avvicinato a noi provando a canticchiarla. In realtà, inizialmente, voleva solo sapere se la sua pronuncia fosse corretta, successivamente, però, ha ammesso di essere da sempre un appassionato di musica e di avere sentito quella canzone per la prima volta a Roma nell'estate del 1971.
Jacques, invece, intento a bagnare i suoi fiori, su un balcone di una vecchia casa di Carcassonne, ci dice che se pensa all'Italia gli vengono in mente i Trulli di Alberobello. Spiega che gliene hanno sempre parlato tutti, ma lui non è mai riuscito ad andarci. In Puglia è stato solo una volta, era su un pullman turistico che si è guastato in mezzo ad una strada di campagna. «La strada non era male, ho pensato fosse una fermata».
Conoscenza perché ti incontri per caso, ma raramente vai via senza aver detto qualcosa. Una famiglia in albergo a Beziers vuole che raccontiamo qualcosa del Giro d''Italia. Loro del Tour ci dicono che, un anno, hanno seguito tutta un'edizione in camper. «Il momento più difficile è stato quando siamo rimasti senza energia elettrica. Lì ci siamo davvero chiesti come facessero tanto tempo fa e abbiamo capito quante cose non sappiamo più fare».
Qualcuno si chiede se l'Italia vincerà l'Europeo e scherza: «Dopo il blu francese, il vostro azzurro è il mio colore preferito». Qualcuno non chiede nulla, non dice nulla, se non “benvenuto” quando capisce che non sei di qui, che è poi un linguaggio universale. Perché c'è un senso di appartenenza particolare al Tour. «Sulle strade del Tour c'è tanta gente a cui del ciclismo non interessa nulla» dice Monique. «Scende in strada perché può fare festa e stare insieme. Pensare che qualcuno venga da un altro paese alla tua festa è più bello, no? Sì, perché non si trova lì per caso, ci arriva apposta e lo fa solo per vedere la tua festa».
Alaphilippe non è cambiato
È possibile andare in fuga senza avere un obiettivo, un traguardo preciso? È possibile farlo addirittura nella tappa della doppia ascesa al Mont Ventoux? Ha senso una scelta di questo tipo? Julian Alaphilippe lo ha fatto e non ha rimpianti.
Difficile da spiegare, soprattutto usando la ragione che ha come prerogativa l'associazione di causa ed effetto. Per trovare una risposta bisogna andare oltre. A tutti i ciclisti interessa la vittoria, Pinot se l'è addirittura tatuato quel significato, “solo la vittoria è bella”. Ci può però essere un piacere particolare che con la vittoria non ha nulla a che vedere. Qualcosa di tanto più importante, quanto più sei arrivato in alto.
Alaphilippe veste la maglia di campione del mondo e apparentemente non può chiedere altro. In realtà quell'arrivo al traguardo di Malaucène e le successive dichiarazioni sono una richiesta e insieme un messaggio. «Volevo attaccare e l'ho fatto da subito. Per me oggi c'era un Ventoux di troppo. Perché ho attaccato? Perché ne avevo voglia, non basta? Non punto alla maglia a pois, vesto già una maglia molto bella ed è sufficiente. Però raramente mi sono sentito bene come mentre attaccavo, anche se sapevo che difficilmente saremmo arrivati al traguardo. Mi sentivo libero, qualcosa di speciale».
C'è la contentezza per essere passato per primo sul Ventoux alla prima ascesa, ma non solo. Soprattutto c'è un avvertimento: forse, a forza di vincere, di diventare importanti, si perde quell'istinto che, in fondo, è stato il primo a farti salire su una bici, quello che ti faceva fare gli errori più grossi nelle categorie giovanili perché sembravi uno scriteriato e probabilmente lo eri. Quello stesso che preservava la tua voglia di svegliarti alle sei la domenica mattina e di andare a letto alle nove il sabato. Quello che ti faceva pensare che, con una bici in mano, avresti potuto fare di tutto. Buttare via tutto questo solo perché sei “diventato”? Forse è così che si spengono i migliori talenti, sotto il peso di ciò che devono fare perché lo chiedono gli staff, gli sponsor o il pubblico e non di ciò che vorrebbero fare. No, non si può.
Molte cose sono cambiate attorno ad Alaphilippe da quei giorni. Lui no, non si è fatto cambiare e ogni attacco ne è la prova tangibile. Questa è la storia da raccontare, questa la bella notizia.
Salvarsi dal Ventoux
Quando gli ultimi corridori iniziano ad arrivare sul Ventoux, le urla si trasformano in applausi, nel silenzio della terra che, spostata dall'elicottero delle riprese, si infila anche sotto il casco dei motociclisti. «I primi vanno incitati - ci spiega un signore - mentre gli ultimi vanno incoraggiati».
Resta la strada che quassù è matrigna: ti inganna con la bellezza del paesaggio e poi ti prende a schiaffi. Il traguardo fa lo stesso: lo vedi, è lì, ma non lo superi mai, sembra un miraggio. Raphaël Geminiani lo disse a Ferdi Kübler quando lo vide partire, quasi in preda a un'ossessione, sotto il caldo di quel pomeriggio di luglio del 1950. «Attenzione Ferdi, il Ventoux non è una montagna come le altre». E quello, assetato di successo: «Nemmeno Ferdi Kübler è come gli altri».
Venti chilometri dopo, lo trovarono agonizzante a bordo strada, il sudore ovunque, il respiro finito. Qualche anno più tardi, nel giorno del suo ritiro, disse: «Ferdi è vecchio, è stanco, ha male. Ferdi si è ucciso tanti anni fa. Il Ventoux lo ha ucciso». Non c'è pietà qui, la strada non ha pietà. Al massimo qualche ricordo, per Tommy Simpson, ad esempio. La figlia, Joanne Simpson, proprio ieri ha raccontato a “L'Equipe” che solo un ricordo si salva da questo dolore. «Quando tornava a casa dagli allenamenti, apriva il frigorifero, prendeva il latte e lo beveva dalla bottiglia. Tutte le volte che vedo una bottiglia di latte mi viene in mente».
Tutto quello che puoi sperare, puoi sperarlo dalla gente, dai tifosi forse. Che hanno portato decine di biciclette vicino all'osservatorio e si siedono accanto ai sacchi a pelo. «Tu es le même que toujours» grida una tifosa a Geraint Thomas che passa attardato e scuote la testa. «Sei lo stesso di sempre» che non è vero, non può essere vero, se uno come Thomas arriva con minuti di ritardo al primo passaggio sul monte calvo. Ma Virenque ha raccontato che, quando sentiva i tifosi urlare il suo nome in salita, aumentava di due denti il rapporto rispetto agli avversari, perché “è doveroso“. Magari Thomas ha fatto lo stesso o quanto meno l'intenzione della tifosa era quella e va bene così. A prescindere da verità o bugie.
Soprattutto, però, sul Ventoux ti salvi da solo, come su qualunque altra strada della vita. Wout van Aert ci è riuscito ieri e quando ha dovuto spiegarlo ai giornalisti è stato molto chiaro. «Se ci provi e ci riprovi, è sicuro che prima o poi ci riesci. Se, al primo ostacolo, ti fermi, è altrettanto certo che non ce la farai mai». Non perché tu non ne sia capace, ma perché non ci stai più provando.
Non abbiamo bisogno di eroi
«Alcune sere ti chiedi: ma come devo fare a ripartire domani mattina? Non è possibile». L'ha ammesso Benoît Cosnefroy in un'intervista qualche giorno fa. Al francese dell'Ag2R Citroën facevano male la gambe lunedì. Peggio: gli facevano talmente male che già sapeva che anche il giorno dopo sarebbe stato lo stesso, forse anche peggio. «Sai che passerà questa settimana, ne verrà un'altra e poi un'altra ancora. Sai che andrai comunque all'arrivo e, un giorno dopo l'altro, arriverà anche Parigi. Forse va tutto talmente veloce che finisci per abituarti a questa fatica cronica». Cosnefroy è ripartito anche ieri mattina e ben pochi, forse nessuno, ha immaginato tutto ciò che gli è passato per la testa in tanti di questi giorni.
Sono dubbi che spesso non escono da una camera d'albergo, ma sono ben presenti in molti. Dubbi che spesso non si raccontano nemmeno perché da un ciclista tutti si aspettano che sia addestrato alla fatica e che la affronti con disprezzo. «La stessa cosa vale per i medici e il dolore» ci dice Marie, dottoressa presente a Valence con cui iniziamo a parlare per puro caso e apparentemente di altro.
«Quei dubbi li capisco bene. Durante la pandemia non ho contato le sere in cui sono tornata a casa e chiamando mia madre ho detto: “Mi spiace per il denaro che tu e papà avete speso per l'università, ma voglio lasciare tutto. Cerco un altro lavoro, questo non fa per me”. Dopo ogni telefonata la promessa: “se domani sera sto ancora così male, lascio”. Dall'altra parte sua madre ad ascoltare, senza dire una parola. E poi c'erano quelle voci, quelle che le dicevano che i medici, quelli “veri”, sanno reagire e ogni mattina si alzano dal letto e vanno in ospedale orgogliosi di provare a salvare vite. Lei, forse, le dicevano, era troppo fragile per essere dottoressa.
«Questi dubbi li hanno tutti, i medici come i ciclisti, perché non ci sono superuomini e, un giorno o l'altro, capita di non sentirsi all'altezza. Il fatto è che è normale, bisogna saperlo. Quando lo capisci, vai a letto presto una sera, spegni tutto e aspetti arrivi mattina perché sai che è un momento. Ti assicuro che i medici veri fanno così. Forse anche i ciclisti». Certo e bisogna anche dirlo che è normale perché solo sapere che ciò che ti sta accadendo è nella normalità delle cose ti può dare la forza per affrontarlo. Che sia un Tour de France, come per Cosnefroy, o una vita in ospedale, come per Marie. Perché degli eroi si può anche fare a meno, se ci sono gli esseri umani.
À la bonne franquette
Ad Albertville, sui tavolini dei bar all'aperto, ieri pomeriggio, si sfogliava L'Equipe. In realtà, L'Equipe, durante il Tour de France, la si trova ovunque, persino nei cestini di qualche bicicletta da passeggio, aperta sull'altimetria di tappa. Due imbianchini, intenti a riverniciare un pub, a pochi passi da noi, ci hanno fatto il cappello, arte umile e antica. Quel locale, in piena ristrutturazione, è addobbato con ghirlande gialle, verdi e a pois del Tour e loro, pur di non toglierle, fanno acrobazie per spostare la scala. «À la bonne franquette», ci dicono.
Sì, poche parole e molti significati. Perché «à la bonne franquette» per un francese significa semplice, umile, franco, ma non solo. «Noi siamo à la bonne franquette perché domani intravederemo il passaggio della corsa con il secchio di vernice in mano e, al massimo, una birra appoggiata sull'ultimo gradino della scala». In realtà, spiegano, per un francese dal Tour si va proprio così, “à la bonne franquette” perché «il ciclismo stesso insegna a metterti sulla strada come e quando capita, senza troppe complicazioni».
À la bonne franquette, allora, è quel ragazzo che a Tignes, per proteggersi dalla pioggia, ha messo una sedia di tela sotto una galleria e invece di sedersi vi ha lasciato qualche souvernir raccolto dalla carovana. Oppure quella signora che, sotto il diluvio, ha costruito un'improbabile tenda con una giacca appesa fra due rami di un albero. Quei ragazzi che, pur di farsi sentire, agitavano il campanaccio di una mucca e quello che ha tirato fuori dallo zaino un panino zuppo d'acqua e lo ha mangiato lo stesso perché «sennò perdo il passaggio». Allo stesso modo sono coloro che da oggi sono accampati sul Ventoux fra carne grigliata e pranzi condivisi perché «qualcuno ha lasciato a casa il sale, qualcuno l'aceto e qualcuno l'olio» e allora si chiede al vicino di camper o di tenda. Ma anche chi improvvisa il dialetto, non parlando francese, e riesce a farsi capire. À la bonne franquette è pure chi sulla strada proprio non ci sarà, quel meccanico italiano che ha chiesto al principale della sua ditta di poter tenere accesa la radio e ha portato la vecchia radio di suo padre che era stato partigiano e tifava per Bartali.
À la bonne franquette come si va alle corse e al Tour de France. «Perché, con tutte le comodità a cui siamo abituati, potremmo sembrare pazzi a rinunciare a tutto e a fare quella fatica per vedere una corsa e a farlo ogni anno, a costo di spostarsi chilometri e chilometri. Eppure, quando provi, scopri che vivere “à la bonne franquette” non è così male». Perché le cose di cui hai veramente bisogno sono davvero poche. Forse tutte quelle che contiene uno zaino e una tenda arrabattata sulle Alpi o sui Pirenei. O nella sala di casa, quando da bambino, pur avendo tutto lo spazio, portavi i tuoi giocattoli preferiti in quell'angolo e non ti mancava nulla.
Diventare uomini
Quando Nicholas Dlamini ha tagliato il traguardo di Tignes, il tempo massimo era già scaduto da un pezzo e questo significa solo una cosa: si va a casa. Pensare che qualche giorno fa era felice, perché era stato selezionato per le Olimpiadi di Tokyo e aveva saputo di essere stato convocato per il Tour de France; il primo sudafricano di colore a parteciparvi. «Nella mia città, a Capetown, saresti famoso allo stesso modo se avessi in tasca una pistola. Saresti più rispettato per possedere una pistola o sparare a qualcuno, purtroppo è un posto in cui fare le cose sbagliate ti porta a essere apprezzato. I giovani vogliono diventare gangster perché tutti guardano ai gangster».
Dlamini, in sella, vuole raccontare che c'è modo e modo per farsi conoscere e per farsi apprezzare e ci riuscirà lo stesso, anche se questo Tour farà a meno di lui.
Al traguardo, ieri, Nicholas Dlamini è arrivato troppo tardi. Così tardi che, tra il freddo e la pioggia, a quasi duemila metri, il pubblico proprio non te lo saresti aspettato. Invece, anche più di mezz'ora dopo la vittoria di Ben O' Connor la gente applaudiva e gridava allo stesso modo. “Bravo” ha detto una signora. Anzi, per la precisione Geraldine, questo il nome della signora, ha detto “Bravò”, perché siamo in terra francese, non dimentichiamolo. Ma sono dettagli.
Non è un dettaglio, invece, la sua risposta quando le abbiamo chiesto cosa l'avesse colpita di questo ragazzo. «Che è arrivato, che ha finito qualcosa che aveva iniziato. Tifare per i primi è facile e per i primi è anche più facile arrivare. Chi glielo ha fatto fare di arrivare? Eppure è arrivato». Quel giorno, Nicholas aveva spiegato che, ora che era stato convocato al Tour e alle Olimpiadi, quei ragazzi avevano visto che tutto è possibile. Oggi lo hanno visto ancora meglio.
Soprattutto hanno visto, e se non lo hanno visto glielo raccontiamo noi, che, nella vita, non serve essere il più forte a tutti i costi per avere qualcuno che ti stimi o ti rispetti. Che si tratti di gangster o di ciclismo, per quanto le due cose siano diverse. Non serve neppure essere il più bravo o il fenomeno di turno. Basta fare onestamente quello che si può e si sa fare, niente di più e niente di meno. E qualcuno che lo vede e si mette dalla tua parte lo trovi. Anche a costo di aspettarti, quando sei fuori tempo massimo. Nella vita o nel ciclismo.
La fantasia di Tadej
Tadej Pogačar lo aveva detto venerdì sera: «Ho sbagliato a non cogliere l'attimo quando è andata via la fuga». La sua squadra era stata isolata, la fatica raddoppiata e lui ha ammesso l'errore. Poteva essere pericoloso, un segnale di debolezza dato agli avversari, alla vigilia di due tappe alpine, con tutte le possibilità per attaccare e lasciarlo a inseguire. Non gliene è importato.
Ieri mattina, la squadra sapeva che avrebbe attaccato, il presentimento lo avevamo tutti, a dire il vero. Ha anticipato lo scatto e lo hanno visto andare via ai meno trenta, sotto il diluvio. La saggezza avrebbe consigliato di aspettare, di piazzare lo scatto secco nel finale, perché azioni del genere non sono meno pericolose di quella spietata sincerità. Invece no, Pogačar ha dato retta alla fantasia, anche se poteva costare cara, perché, perdere minuti a fiotti, mentre provi a guadagnarli, non è così raro. Ha messo alle corde gli avversari, è arrivato stremato, si è liberato dal casco e si è disteso sulla bici a riprendere fiato.
Oggi, Pogačar ripartirà sapendo di essere controllato a vista. «Ora ci attaccheranno tutti- ha detto ieri Formolo- siamo la squadra da tenere d’occhio. Ma abbiamo la maglia gialla, finalmente». La gente, di nuovo sui tornanti, si è entusiasmata e non aspetta altro che la tappa di oggi, perché vuole vedere come va a finire e immagina i finali più inconsueti, utopici, devastanti. Perché, per quello che sta mostrando questo Tour, possono manifestarsi.
Accade quando usi la fantasia e ti butti come l’acrobata senza rete. Come Pogačar meno di ventiquattro ore fa. Non sai come va a finire, ma, come scriveva qualcuno, non serve saperlo. Certe volte, nella vita, bisogna dare retta alle sensazioni. Il fine non è essere impeccabili. Certo, può capitare di sbagliare: in quel momento, starai in silenzio e pagherai l’errore, la crisi e i minuti che se ne vanno. Solo in quel momento.
Tutti aspettiamo Pogačar, van der Poel o van Aert non solo perché fanno questo come ciclisti. Li aspettiamo perché rappresentano un modo di fare e di essere anche nelle piccole cose della vita quotidiana di ognuno. Un modo a cui, spesso, non ci si affida per paura. Così, quando abbiamo visto Pogačar, abbiamo pensato a cosa può accadere se solo si coglie il coraggio di buttarsi. Oggi è domenica. Domani riprenderemo la settimana con una consapevolezza in più.
Foto: ASO
Il divenire di Guillaume Martin
Cosa potrà fare Guillaume Martin in questo Tour? Difficile dirlo, anche perché le definizioni non gli sono mai piaciute. Nemmeno le etichette. Sia le une che le altre limitano ciò che è una persona e Guillaume non ci sta. «Si tratta di una semplificazione - spiega nel suo libro “Socrate à Vélo”- perché le persone non sono in questo o in quel modo, cambiano continuamente. Le cose che ci circondano sono in un modo o nell'altro, l'uomo diventa». I più grossi torti che si fanno agli uomini, si fanno proprio perché non si riconosce questa loro caratteristica essenziale. Così si mette un'etichetta, spesso a causa dei primi comportamenti tenuti durante la conoscenza e via.
«Tutti dicono che Alaphilippe metta molta passione in sella, quasi fosse solo istinto, e si dimenticano dei sacrifici che fa, perché solo con la passione, senza impegno e sacrificio, non si va da nessuna parte. Di Froome invece si diceva l'opposto: quasi fosse solo testa senza alcun entusiasmo. Quando, anni fa, attaccò sul Peyresourde non mi sembrò come lo descrivono» raccontava in un'intervista qualche mese fa. Del resto, è stato lui stesso a sperimentare il peso di quelle definizioni nel momento in cui tutti hanno iniziato a dire che era l'intellettuale del gruppo, come facevano con Laurent Fignon, in quel caso solo per un paio di occhiali.
«Mi sono messo a scrivere proprio per spiegare che non sono solo un intellettuale o un ciclista intellettuale. Le persone saranno sempre interessate a questo. Ora lo sopporto meglio, all'inizio facevo fatica. La realtà è che non vorrei essere ricordato solo come un ciclista-filosofo». Guillaume accetta il giudizio, anzi lo ricerca, sia quando scrive che quando pedala, purché le due cose non si confondano e si distingua il ciclista dallo scrittore.
Soprattutto Guillaume Martin non si definisce, non si fa definire e si sente libero di fare ciò che crede. Perché questa, in ogni caso, sarà la sua forza: sfuggire a ciò che il contorno gli imporrebbe per inventare qualcosa di nuovo che nessuno ancora immagina. Sfuggire a ciò che tutti vorrebbero fosse, per diventare.
Foto: Cofidis