Questionario cicloproustiano di Matteo Bianchi

Il tratto principale del tuo carattere?
Mi definisco un po' fissato con l’ordine e la precisione. In molte situazioni mi reputo un calcolatore, per il fatto che penso molto a ciò che devo fare e programmo tutto nel dettaglio.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La sincerità.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Con i miei amici stretti riesco ad instaurare un legame molto forte e spesso sono il fattore che riesce a riportarmi ad uno stato di calma e spensieratezza a livello mentale, specialmente nei periodi con la pressione più alta dovuta alle competizioni.

Il tuo peggior difetto?
Un po' intransigente in determinate situazioni.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Godersi una giornata all’aria aperta, che sia in montagna o al mare, in buona compagnia.

Cosa sogni per la tua felicità?
Sono già molto felice, per ora mi godo il momento.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Se capitasse qualcosa alla mia famiglia sarebbe sicuramente la situazione peggiore per me immaginabile.

Cosa vorresti essere?
Sono soddisfatto di ciò che sono adesso. Cinque anni fa sognavo di essere dove sono adesso perciò continuo per la mia strada.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Sono innamorato dell’Italia ma se dovessi scegliere un altro paese probabilmente sceglierei l’Australia.

Il tuo colore preferito?
Lo scelgo in base al mio umore.

Il tuo animale preferito?
Quokka.

Il tuo scrittore preferito?
Non ne ho uno in particolare.

Il tuo film preferito?
La ricerca della felicità.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Ernia.

Il tuo corridore preferito?
Jason Kenny.

Un eroe nella tua vita reale?
Mio padre.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia madre.

Il tuo nome preferito?
Ellesse.

Cosa detesti?
Perdere tempo.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Nessuno in particolare.

L’impresa storica che ammiri di più?
Il percorso e l’incredibile ascesa di Sinner nel Tennis.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Nibali tre cime di Lavaredo, Giro 2013.

Un dono che vorresti avere?
Nessuno.

Come ti senti attualmente?
Molto bene, concentrato sul migliorarmi giorno per giorno.

Lascia scritto il tuo motto della vita.
Qualsiasi cosa succeda, questa avviene per una ragione.


Mulinvélo, Pastrengo

Il vecchio mulino di Pastrengo era lì, fondamenta ben salde nel terreno, incurante dei secoli che passano, bastione possente su cui il cielo rovescia pioggia, vento, neve d'inverno e cappa di aria calda, canicola soffocante, d'estate. Dal 1800, anno della sua costruzione, erano duecento anni di intemperie e volti e voci che solo ciò che è di pietra e resta nel tempo può conoscere. Dagli inizi del 1900, quando, effettivamente, iniziò a macinare farina finissima e finemente curata era già trascorso quasi un secolo e, per la parte di produzione, quel mulino era inattivo da un buon periodo. All'interno, vi lavoravano le figlie del proprietario: curavano una piccola porzione relativa alla vendita di farine che, altrove, non si rintracciavano. Il resto della struttura non era visitabile dai più, la meraviglia della sua artigianalità, dei suoi segreti, nascosta proprio da tutto il tempo che era ormai trascorso, come una fotografia, protetta dalla copertina, in un album.

Sulla sponda orientale del lago di Garda, a pochi chilometri da Verona, i cittadini di Pastrengo conoscevano quel mulino, come i quattro forti austriaci racchiusi in poco più di un chilometro e mezzo, il vecchio telegrafo e l'aeroporto per velivoli super leggeri: sapevano della loro esistenza per sentito dire, per qualche transito su quella strada, al mattino presto o alla sera tardi, per caso. Così accadeva anche a Massimo Gaiardelli, mentre, dapprima, lavorava in un'azienda di elettronica e, successivamente, in bicicletta accompagnava le persone in Toscana oppure sulle Dolomiti: era una delle prime guide in sella, qualcosa che precorreva i tempi e che lo portava lontano da casa per molte, forse troppe, settimane. A ben guardare, qualcuno che aveva visto oltre, seppur per quello stesso caso, c'era ed era proprio a casa sua: si trattava di Antonella, la sua compagna, in un giorno in cui cercava della farina di Kamut, non così diffusa agli inizi degli anni 2000. La porta dello spaccio per la vendita, poi, il resto che manca e quelle ragazze che le aprono le stanze abbandonate. La copertina dell'album è tolta, la fotografia è esposta. «Dovresti vedere quanto è bello, peccato sia in parte abbandonato»: frammenti di conversazione tra Massimo e Antonella. Parole che fuggono via, almeno per quel momento.

La realtà è che Mulinvèlo ha radici in quel dialogo e casa in quel vecchio mulino abbandonato. Massimo Gaiardelli gestiva un negozio di biciclette, a Sant'Ambrogio, divenuto ormai piccolo e con una comunità di persone sempre più grande a frequentarlo, l'idea era di un nuovo luogo in cui porre le fondamenta. Nel frattempo, un cartello su quel mulino, con la scritta "in vendita", un passaggio in auto su quella strada, a cinquecento metri da casa, un sabato pomeriggio a visitarlo e l'acquisto per trasferirvi tutte le biciclette ed il fulcro del mestiere di Massimo e Antonella. «La maggior parte dei lavori sono fatti a mano, con l'intenzione di mantenere e, se possibile, proteggere l'anima del mulino. Ecco la tramoggia, guarda i tubi che portavano su e giù la farina, l'officina, invece, era un vecchio bunker della guerra. Puoi toccare il sasso, sentirne l'antichità, ammirare gli accessori realizzati con materiale recuperato dalla vecchia struttura del mulino, osservare la cantina, l'interrato sotto, il bianco ed il nero, la sala macchine, attraverso i vetri, le malte colorate che, da gennaio del 2023, hanno dato sostanza alla ristrutturazione di questo gioiello dimenticato». Oltre a questo, vi sono spazi appositi dedicati all'abbigliamento, alle collezioni di bici, fino ad una sorta di appartamento, un luogo intimo, in cui accompagnare il visitatore, bere un bicchiere del pregiato vino della Valpolicella e fare un aperitivo, a pedali fermi, a ruote immobili, dove, comunque, la bicicletta resta lo sfondo, l'idea generatrice. Proprio al movimento delle ruote si riallaccia il nome: nei mulini è tutto un ruotare ed il verbo "mulinare" per riferirsi al rapido girare dei pedali mentre si corre in bicicletta deve avere qualche legame con queste antiche strutture. "Vélo", invece, è bicicletta in lingua francese, ma non solo: ha lo stesso suono di velocipede e di velocità, un binomio affascinante sin da quando si è bambini. Gli stranieri che giungono a Pastrengo si guardano attorno incuriositi e si chiedono se davvero può esistere un mulino pieno zeppo di biciclette.

La risposta potrebbe fornirla un signore coi capelli bianchi che, pur avendo sempre pedalato, ora inizia ad avere mal di schiena, a far fatica in quella posizione, eppure, al pensiero di rinunciare alla "sua" bicicletta si sente più vecchio che mai e gli occhi diventano lucidi: «Quando un signore gentile e canuto arriva qui, ho la chiara percezione della bellezza del poter risolvere un problema per qualcuno, del sentirsi utili. Poi li rivedi quei signori: forse faranno solo il tratto da casa all'edicola in bicicletta, ma, grazie al consiglio giusto, alla posizione corretta, a una piccola modifica sulla bicicletta potranno continuare a farla e allontanare di qualche tempo l'idea della vecchiaia e la sua malinconia».

Massimo Gaiardelli ha vissuto ogni minima sensazione su una bicicletta, in anni e anni di pedalate controvento, come in quelle che continua a fare oggi, la domenica oppure il mercoledì mattina, quando il mulino è chiuso, per questo conosce perfettamente qualunque piccolo fastidio che può provocare questa esperienza: dalle scarpe strette, alla sella, al soprasella, alla posizione del collo e della schiena. «Il gesto della pedalata mette assieme molti movimenti e molti fattori per cui è sufficiente davvero poco perché da qualcosa di piacevole, pur nella fatica che si sperimenta, a un momento di fastidio e sofferenza. Credo che il nostro compito sia quello di predisporre tutto affinché le persone stiano bene in bicicletta». Le persone, sì, le donne e gli uomini a cui si rivolgeva già quando vendeva i primi cellulari, i vecchi portatili a valigetta, gli stessi che, quando lo incontrano, gli ricordano che il primo telefono mobile gli venne consigliato proprio da lui: «Decisi di abbandonare l'elettronica proprio quando capii che, per come si erano messe le cose, avrei dovuto lasciare da parte la mia attenzione per il lato umano: non avrei mai potuto. Resta, però il fatto che, in ogni caso, si parla di un qualcosa più "freddo" rispetto alla bicicletta: il ciclismo permette tutta una contestualizzazione, sin dal primo momento in cui ci si conosce, pur essendo estranei. Questo avviene perché si svolge all'esterno, nella natura, ci si può chiedere da dove si proviene, dove si abita, qual è il luogo in cui ci si reca quando si vuole osservare un panorama, magari scoprirlo. Bastano queste poche domande per sentire di avere qualcosa in comune, no?».

Si spazia dalla disciplina su strada, al gravel oppure alla mountain bike dove è necessaria anche una base tecnica e qualcuno che ne illustri i dettagli: Gaiardelli si muove attraverso dei video per registrare gli allenamenti e, successivamente, mostrarli a chi si sta cimentando in quella pratica, affinché, rivedendosi, possa prendere coscienza degli errori commessi e cercare di migliorarsi, sempre attraverso il dialogo, il confronto, evitando a priori l'informazione calata dall'alto che non mette a proprio agio chi la ascolta e vuole assimilarla.

La bicicletta mette sullo stesso piano, sullo stesso livello, quello della strada, del sacrificio, della velocità e del vento, Gaiardelli cerca quel piano attraverso un invito a pedalare assieme, a guardarsi, a commentare quel che si vede e le sensazioni che si provano, le emozioni di quando dallo stupore per quel che c'è «quasi ti butti per terra e piangi», persino a prendere la sua bicicletta e a mettersi in gioco, prima di qualsiasi giudizio, perché la missione della bicicletta, unica pur in tante declinazioni, è, fra le altre, per Gaiardelli, dare il giusto tempo ed il giusto ritmo al tempo ed alle cose: allora il mulino a cinquecento metri da casa non è più normale, ma speciale, vale anche per i forti austriaci e per il telegrafo, vale per i profumi e per i sapori, di cui la zona di Pastrengo è ricca. Libertà, esperienze assieme, viaggi, borse da preparare: ecco gli ingredienti che, dopo tanti anni, sono antidoto all'abitudine e stimolo costante per l'entusiasmo anche in Gaiardelli stesso, che è stato maestro di sci ma la "goduria" di un giro in bicicletta non sa dove altro scovarla. Se di fronte ad un anziano signore il bello è risolvere un problema, permettere la continuazione delle pedalate, di fronte ai più giovani la sfida è suscitare interesse, lasciare un seme, che saranno, poi, loro a coltivare. La costante è la tematica legata alla sicurezza, connessa a una filosofia ben precisa: «Sento diverse persone che non usano la luce o non mettono il casco e si nascondono dietro al fatto estetico. La mia idea è netta: io ti procuro la luce più bella che c'è, il casco più bello, più comodo, ma tu lo indossi. Così togliamo alibi. Poi ognuno deve fare la propria parte e gli utenti della strada sono molti».

In una realtà in cui le grandi aziende dominano ed il prodotto, anche la bicicletta, è sempre più depersonalizzata, c'è un ritorno di fiamma per l'artigianalità, per quel che è su misura, un vestito pensato per la persona e la bicicletta è un mezzo che ha bisogno di questo adattarsi a chi dovrà salire in sella e pedalare. Allo stesso modo, il mulino di Mulinvèlo è un'esperienza, oltre ad essere un locale, un negozio, sulla scia di esperimenti simili a Girona, a Londra, con l'innovazione data, proprio, dall'essere un mulino, da tutti gli anni che ha trascorso a produrre farina, dal caso di quel giorno in cui vi è capitata Antonella, dalla ristrutturazione, dall'ospitare biciclette. Soprattutto dall'essere sempre stato il posto giusto, al momento giusto. Una sorta di magia realizzata dagli esseri umani.


Il ritorno dell'(ex) cittì: intervista a Davide Cassani

Si sono emozionati in tanti quando è uscita la notizia che sarebbe tornato alla telecronaca non solo per il Giro d’Italia, ma anche per il Tour de France e i Giochi Olimpici di Parigi 2024. Ho provato lo stesso anche io, che la sua voce l’ho scoperta solo recentemente da video di altre gare, altri tempi, su consiglio di amici. Mi dispiace non aver vissuto i suoi anni a fianco di Auro Bulbarelli, le ricognizioni delle tappe del Giro d’Italia e delle salite più famose. Dopo 28 anni dal Giro di Sardegna, la sua prima gara commentata a fianco di Adriano de Zan, dopo poco più di 10 da quel giorno in cui, a casa di Alfredo Martini, gli fu offerto il posto da ct della Nazionale maschile su strada, ho finalmente modo di recuperare il tempo perso: Davide Cassani è pronto infatti ad indossare di nuovo le cuffie e a prestare la sua voce al ciclismo.

Ho pensato che non potesse esserci Virgilio migliore per continuare il mio viaggio all’interno di questo folle mondo su due ruote. Per questo, in punta di piedi, un caldo pomeriggio primaverile gli ho rubato del tempo che presto sarà occupato da chilometri e chilometri di fughe, salite, piccole e grandi imprese. Volevo riflettere con lui sui miei e i suoi nuovi inizi, sull’amore per questo sport, sul ciclismo che vorrebbe raccontare, sull’importanza del passato, sulle sembianze di questo presente e su quelle che avrà il futuro.

Sono passati più di 10 anni dalla sua ultima telecronaca, anche se nel frattempo non ha mai abbandonato del tutto il piccolo schermo ciclistico con le partecipazioni al “Processo alla tappa” o il Giro d’Italia in bicicletta elettrica. Come si sente per questo ritorno?

Mi sembra ieri quando ho fatto la mia ultima telecronaca nel 2013 al Giro di Lombardia. Invece sono passati 11 anni, sono tanti. Nel mezzo ci sono stati anche gli 8 da commissario tecnico. Cerco di capire se tutto questo è stato reale, se non è invece stato un sogno. Ma sembra decisamente tutto vero. Sono ben contento di tornare in telecronaca: sono sicuramente più maturo, non so se riuscirò ancora a fare bene questo lavoro (ride), però l’entusiasmo è quello di sempre.

C’è qualcosa che le è mancato della telecronaca in questi anni?

Sinceramente no. Anzi, devo dire che è un distacco che mi ha fatto bene, perchè dopo 18 anni sentivo il desiderio di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso. Quando ascoltavo le telecronache di altri, non provavo nessun risentimento, ero contento di ascoltarle e di non farle. Quando però mi hanno chiesto di tornare qualche settimana fa, mi sono sentito dentro la voglia di dire sì, perché mi è sempre piaciuto fare questo lavoro e torno a farlo con piacere.

Campionati del Mondo Copenaghen 2011 - Road World Championship Copenhagen 2011 - Rudersdal 168 km - Under 23 - Francesco Pancani - Davide Cassani - BettiniPhoto©2011

Ad aspettarla c’è già il Giro d’Italia, a fianco di Francesco Pancani. Che Giro è pronto a raccontare e cosa ne pensa del percorso di quest’anno?

È un percorso come al solito impegnativo: ci sono due cronometro, c’è già un arrivo in salita al secondo giorno. Con la presenza di Pogacar, c’è un solo uomo da battere. Sarà uno contro tutti e non credo sarà affatto facile riuscire ad avere la meglio su di lui. Il percorso, comunque, è bello e se sarà appassionante o no, questo sarà tutto merito o colpa dei corridori.

C’è una tappa che la incuriosisce più di altre?

Sarò curioso di commentare la tappa di Prati di Tivo perché arriva dopo una settimana di gara, dopo una cronometro: sarà una tappa importante per capire tante cose.

Come ci si dovrebbe avvicinare, da neofiti, al ciclismo e coltivarne poi la passione anche da spettatori?

Con la curiosità di andare alla scoperta di qualcosa di nuovo. La bicicletta è tua: sei tu che ci pedali sopra, sei tu che decidi dove andare, con chi andare. È una bellissima scoperta, perché hai la possibilità di esplorare il mondo, però lo devi fare con l’accortezza giusta. È come quando si va a scuola: devi cominciare dalle elementari, l’università è lontana ma la puoi raggiungere. L’importante è cominciare con gradualità, non dare nulla per scontato. La bicicletta devi saperla guidare, ci sono delle insidie, dei pericoli. Quindi bisogna affrontare tutto con la massima attenzione e soprattutto cercando di dedicarsi ad una pedalata alla volta. Gli spettatori che, invece, guardano il Giro d’Italia non lo fanno solo perché hanno una passione per il ciclismo, ma soprattutto perché si rendono conto di vedere qualcosa di particolare. Il Giro non è una semplice corsa in bicicletta, fa parte della nostra Storia e della nostra cultura. Ci dà la possibilità di vedere tutto quello che circonda un gruppo di ciclisti. È importante poi andare a cercare di approfondire quello che si vede e che si sente, anche dai telecronisti: per uno spettatore curioso c’è l’occasione di imparare molte cose, sia tecniche che culturali.

Se lo ricorda il momento in cui si è innamorato del ciclismo?

Precisamente. Avevo 7 anni e mio padre mi portò a vedere un Campionato del Mondo vicino a casa mia. Rimasi così tanto affascinato da quella corsa che decisi che da grande avrei fatto il corridore e non ho più cambiato idea.

Tour de France 1998 - Jan Ullrich (T-Mobile) - Marco Pantani (Mercatone Uno) - BettiniPhoto©2010

Le chiedo un altro ricordo: Alessandra Giardini nel documentario “Il cielo del Pirata” dice parlando di Marco Pantani: “Quello che noi cerchiamo in fondo, quando andiamo a vedere uno spettacolo, come è lo sport, è qualcuno che sia in grado di cambiarti la vita con un gesto“. C’è nella sua memoria ciclistica da corridore, commentatore e poi tecnico, un momento che assomiglia a qualcosa di simile?

Mi sono subito reso conto che il ciclismo era il mio sport, che la bicicletta sarebbe entrata prepotentemente nella mia vita, perché il primo giorno che sono salito in sella e sono arrivato sulle prime colline mi sono sentito come Cristoforo Colombo. La bicicletta mi ha dato la possibilità di scoprire il mondo, di sentire quello che provavo dentro. Questa sensazione è rimasta intatta nonostante siano passati più di 50 anni da quel giorno. È stato un amore a prima vista. Mi sono divertito moltissimo anche nella tappa del Tour de France in cui Marco Pantani è riuscito a conquistare la maglia gialla, scattando sul Galibier e riuscendo a sconfiggere un Jan Ullrich che sembrava imbattibile. Quella è stata veramente una bellissima telecronaca. Per giunta se penso a lui, a quel giorno, penso anche ad Adriano de Zan, che è stato il mio primo maestro. Fu emozionante.

Quanto è importante, secondo lei, per capire il ciclismo di oggi, conoscere e aver vissuto anche quello del passato?

Il passato, per quanto mi riguarda, è arrivato di conseguenza perché amavo così tanto quello che facevo che volevo sapere da dove arrivava. Allo stesso tempo, una persona che scopre la bici a 40, 50 o addirittura 60 anni non è importante che conosca il passato, è importante che capisca cosa la bicicletta o il ciclismo gli sta trasmettendo in quel momento.
Il ciclismo è bello anche per questo: c’è chi corre per vincere, chi corre per stare insieme ad altri, chi va in bicicletta per vedere luoghi, chi vuole conquistare una montagna senza guardare il tempo ma solo per arrivare in cima. Ognuno ha delle ambizioni, dei progetti, delle imprese da compiere e dunque trova la bellezza in quello che fa.

Ci sono due temi che ho visto particolarmente accesi in questo inizio di stagione, ma se sulla sicurezza si è già pronunciato sui suoi profili social e speriamo possano essere fatti dei passi avanti, mi chiedevo invece cosa ne pensasse dell’altro: il dominio dei più forti che per alcuni rischia di rendere noiose le gare. Il ciclismo corre veramente questo rischio?

C’è questo rischio, però chi ama lo sport apprezza sempre quelli che riescono a fare imprese del genere. Il problema era presente anche negli anni ‘70 quando c’era un certo Eddy Merckx. È un tema che si ripete, ma non credo che la gente si annoi se Sinner vince tutti i tornei di tennis, né se le corse vengono vinte sempre dagli stessi corridori. È naturale che il ciclismo, come qualsiasi altro sport, diventi più interessante quando ci sono dei duelli, delle sfide che sono incerte. Per questo quando vediamo una sfida tra Pogacar e Vingegaard o tra van Aert e van der Poel è molto più accattivante. Sì, il ciclismo rischia di diventare più noioso se qualcuno riesce a dominare nettamente, però c’è l’apprezzamento dell’impresa, che rimane sempre una cosa straordinaria.

Spesso ho la sensazione che, essendo il peloton molto numeroso, si perdano delle storie minori che sono belle tanto quanto quelle dei grandi fenomeni. Come possiamo evitare che questo accada?

Bisogna raccontarle, bisogna scoprirle. Nel mio caso, ovvero attraverso la telecronaca, bisogna raccontare da dove arriva un’impresa, da dove arriva un corridore, che cosa ha fatto per arrivare a quel punto. Tante volte ci sono delle storie straordinarie, altre un po’ meno, ma comunque tutte danno un’idea di cosa sia il ciclismo, cosa sia uno sport professionistico difficile e di fatica come questo. Ogni corridore può avere una storia fantastica da raccontare, che ti fa rendere ancora più bello questo sport.

Tour of the Alps 2024 - 47th Edition - 5th stage Levico Terme - Levico Terme 118,6 km - 19/04/2024 - Antonio Tiberi (ITA - Bahrain - Victorious) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2024

Come le sembra, invece, la situazione attuale del ciclismo italiano?

Non stiamo attraversando un bel momento, perché non abbiamo un corridore da corsa a tappe, che possa prendere il posto di Vincenzo Nibali. Abbiamo dei corridori come Tiberi, Piganzoli e Pellizzari che speriamo possano crescere, così come Zana e Frigo. Qualche anno fa si stava meglio, anche perché adesso il ciclismo è diventato veramente mondiale: ci sono ragazzi che sono diventati campioni, che arrivano da ogni parte del mondo. Fino a qualche anno fa, assieme a spagnoli, francesi e belgi, avevamo il predominio nel ciclismo, adesso non è più così. Soffriamo in questo momento anche perché non abbiamo una squadra World Tour, abbiamo meno ragazzini che si avvicinano a questo sport. Abbiamo sicuramente degli ottimi velocisti come Ganna, Milan, Dainese e siamo fantastici su pista. Sono cresciute moltissime le donne, ma per quanto riguarda la strada al maschile in questo momento stiamo inseguendo.

Come se lo immagina il ciclismo del futuro?

Difficile prevederlo. Anche se sono cambiate le biciclette, gli allenamenti, le strade, le squadre, c’è sempre un comune denominatore che è la fatica, l’impegno che serve metterci per avere dei buoni risultati. Le corse importanti saranno sempre più importanti, mentre rischiano di scomparire le corse minori: il piatto forte è dato dalla partecipazione dei grandi campioni, che a loro volta non possono gareggiare sempre e dunque si concentreranno sulle corse più importanti. Anche nelle difficoltà, anche con il mondo che avanza, il Giro d’Italia e il Tour de France, così come la Milano-Sanremo o il Giro di Lombardia, rimarranno sempre nell’immaginario collettivo come grandi corse e saranno più ambite che mai. Per il momento, sono abbastanza ottimista. Certo, se vado a vedere quello che era il ciclismo 40 o 50 anni fa e quello che è adesso, speriamo di poter resistere.

In Song of Myself, Walt Whitman ad un certo punto scrive: “sono vasto, contengo moltitudini”. Quante moltitudini contiene il ciclismo?

Consiglio sempre alle persone di mettersi sulla cima di una salita e di guardare in faccia ogni singolo corridore. Ognuno di loro gli trasmetterà sempre qualcosa di sé, dal primo all’ultimo. Perché la faccia di ogni ciclista parla, soprattutto in salita. Quando poi te ne torni a casa e pensi a quelle facce, a quegli occhi, a quelle smorfie, capisci cos’è una corsa, una tappa, una salita e cosa può darti.

 


La prospettiva di un casco

I giardini di marzo si vestono di nuovi colori a Chiuduno, nei pressi di Bergamo, sull'eco di una canzone di Lucio Battisti che, chissà perché, si affaccia alla mente stamani. Pure la luce ha cambiato abito: la vetrata che riveste la parete alla sinistra del tavolo attorno a cui stiamo dialogando con Angelo Gotti, fondatore e CEO di Kask, proietta un chiarore differente, ombreggiando e rischiarando, pittrice esperta, i contorni delle sue mani mentre ruotano in ogni direzione un casco, indicando le linee e le asole, accarezzando con l'indice la rivestitura interna e stringendo e allargando il regolatore, con un cenno lieve di soddisfazione, al modo dei timidi.

 

«È necessario osservare il casco da ogni possibile prospettiva, rotearlo, inclinarlo, indossarlo e continuare a muoverlo sulla testa. Non devono emergere blocchi, in un punto o nell'altro: la sua reale essenza non è raccontata dall'apparenza di uno scaffale, ma dall'esperienza di mani artigiane che imparano a conoscerlo ed esplorarlo». Quello che intende Gotti l'abbiamo intuito pochi minuti prima, transitando da un piccolo laboratorio in cui un ragazzo dell'ufficio tecnico, muovendosi fra varie calotte, accanto a scansie ed attrezzature specifiche, ricerca le soluzioni migliori per plasmare il prossimo casco. Sembra di tornare indietro nel tempo, quando per fare il casco si partiva solamente da un pezzo di legno pieno che, colpo di scalpello dopo colpo di scalpello, iniziava ad essere scontornato sulle linee laterali, poi scavato, a cercare l'anima del disegno già impresso sui fogli, in uno schizzo e nella mente. Un processo che, in parte, resta costante tutt'oggi, anche se la tecnologia ha portato le elaborazioni in tre dimensioni, ma «il casco non è, se non nelle mani e sulla testa e – prosegue Gotti – la conformazione della testa è simile per tutti, ma in realtà molto differente nelle sfaccettature.

Il casco, prima nelle mani, ora è tornato, per qualche istante, ad essere poggiato sul tavolo, con gli occhi che ancora lo cercano, lo scrutano, fino a che si fermano sui pois rossi che lo macchiano, ricordo del pomeriggio del 17 luglio 2007, a Briançon, al Tour de France. Era la prima volta che Angelo Gotti respirava dal vivo l'atmosfera della mirabolante carovana gialla: se ne stava dietro una transenna, a pochi metri dal traguardo, dove non c'era nulla se non un grande schermo, non aveva niente, in fondo, nemmeno una bottiglietta d'acqua, eppure sentiva di avere scoperto una terra nuova. Le immagini continuavano a trasmettere Mauricio Soler all'attacco, i suoi pochi secondi di vantaggio, che solo qualche minuto prima parevano troppo pochi, quasi inutili, ora si sapeva, si sentiva, sarebbero bastati per vincere. «Osservavo il nostro casco a proteggere un ragazzo nel mezzo di un'avventura folle. Non capivo più nulla, ma ricordo distintamente che, dopo la linea bianca dell'arrivo, non lo tolse: era il mio punto di contatto con lui, un segno di riconoscimento dall'alto, mentre camminava verso il podio o si recava alle interviste. Se penso da dove sono partito, alle notti sveglio, nel buio, per fissare ogni dettaglio. Se penso come era grande quel casco nel megaschermo, il primo realizzato da Kask nel ciclismo».

Gli occhi diventano lucidi, liquidi, una risacca di ricordi: l'azienda in cui iniziò a lavorare a sedici anni e i caschi per l'equitazione, poi Mistral, dal nome di un vento, il maestrale che spira da nord ovest, il casco da ciclismo che lo fece discutere con il suo principale, dice così Gotti, «l'avevo progettato in maniera differente da tutti i caschi che già esistevano, ma gli esseri umani sono fatti da idee e istinti a preservarle. Non si rinuncia a un'idea per conformarsi agli altri». Fino ad un giorno in cui in un ufficio, simile a quello in cui stiamo conversando, calò il buio: Gotti vuole lasciare l'azienda, la nuova direttrice lo convoca. «Mi sono seduto che fuori era ancora giorno, sono uscito che era sera e il buio era anche dentro il locale perché, intenti a discutere, non avevamo nemmeno acceso la luce. Me ne andai». Il 18 marzo 2004, a Chiuduno, fra altri giardini di marzo, nasce Kask. Un paese dove tutto è a portata di bicicletta: made in Italy, dicono, made in Bergamo, sottolinea Angelo Gotti, che i primi caschi da lavoro li fece provare a un suo fratello, «il classico muratore bergamasco». Tutta la produzione qui, a portata di mano, per controllare ogni passaggio, per eseguire, se possibile, controlli aggiuntivi: «I caschi andrebbero battuti, in gergo, in due punti al momento del test, per verificarne la resistenza. Noi li battiamo ovunque: sono l'unico dispositivo di sicurezza che indossa un ciclista, se il punto fragile fosse il terzo? Non possiamo permetterci di affidarci alla fortuna, la coscienza non ce lo consente».

 

Ci sono voragini che Angelo Gotti rivive ancora adesso: l'incidente di Fabio Casartelli al Tour de France del 1995, quello di Andrej Kivilëv alla Parigi-Nizza del 2003 e quel «se il casco fosse già stato obbligatorio» che fa male. Ci sono lettere di ringraziamento con foto di caschi rotti nell'impatto di una caduta e frammenti di caschi spezzati conservati, «perché resteranno delle cicatrici, ma queste famiglie hanno ancora un figlio, un padre, un fratello». Allora ogni elemento del casco deve essere declinato nella prospettiva della sicurezza: dal polistirolo interno, ancora la miglior soluzione in termini di protezione dagli impatti, al comfort, «quel non sentirlo addosso», che accresce le possibilità che le persone lo indossino, all'aerazione e, per gli atleti, anche all'aerodinamica. «Si sono fatti passi enormi in questo senso: nel 1996 ricordo dei test in galleria del vento in cui su una pedana era posizionata una falsa testa e l'aria veniva sparata su dei cordoncini di cotone per verificarne il flusso. Si credeva che il casco dovesse essere allungato, ora sappiamo che è meglio sia corto e compatto e copra le spalle. C'era un casco unico, ora abbiamo caschi da pianura, aerodinamici e veloci, leggeri e areati da salita, polivalenti per tappe miste e ancor più aerodinamici per la cronometro. Ma un casco nasce dalla parte interna, proprio perché senza la sicurezza non ha senso di esistere».

A pochi chilometri dalla sede principale, in un capannone, operaie e operai, in piedi accanto a un lungo tavolo, eseguono ognuno una piccola operazione: chi toglie la sottile pellicola che riveste il casco, chi posiziona all'interno le protezioni prima riscaldate su un forno, chi sistema il regolatore e chi, con cura e un panno, pulisce la superficie dopo tutti questi passaggi. Operazioni di precisione e di mani pazienti. Ci si ferma ad osservare, ci si avvicina per vedere bene, e di fronte allo stupore per tanta attenzione di noi intrusi viene spontaneo esclamare: «No, niente, è solo bello vederti lavorare». In un altro capannone scopriamo i fogli da cui, attraverso l'arte della serigrafia, si sviluppa il casco vero e proprio. Saranno quei fogli a essere inseriti in una macchina, una sorta di demiurgo, che, attraverso degli stampi e il calore, li restituirà in pochi secondi con la sagoma perfetta del casco vero e proprio. Diego Zambon è il General Manager dell'azienda: alla stretta di mano, si è subito raccomandato sul fatto che «qui tutti si danno del tu, non è il lei a trasmettere il rispetto. Qui tutti visionano i caschi, danno un parere, partecipano, insomma, al lavoro di squadra. Parlo di Ineos, ma anche del contabile». Più tardi, davanti ad un caffè, ha confessato di essere abituato a parlare di numeri, di cifre, ma, in fondo, scaldato da ben altro. Dal pensiero che nonno, già agli inizi del Novecento, usava la bicicletta e, per lui, andava bene qualunque casco, bastava fosse della taglia corretta, tuttavia «se gli esseri umani non avessero questo desiderio di sperimentare, di guardare da altre prospettive, anche a costo di sbagliare, saremmo ancora lì e, chissà, forse non useremmo nemmeno più la bicicletta. Fare un casco ti ricorda che basta un passo di lato per vedere le cose in maniera differente e quel passo dobbiamo compierlo, anche se rischia di stravolgere tutte le convinzioni a cui ci aggrappiamo».

Il nostro giro ci porta verso un'esposizione di caschi, tra cui notiamo subito quelli usati da Chris Froome e, poco più in là, quello di Filippo Ganna, indossato al Mondiale a cronometro. Da qualche parte deve esserci anche quello del Record dell'Ora: noi indaghiamo con lo sguardo, finché veniamo avvertiti: «Angelo, ogni tanto, scende, ne prende qualcuno e lo porta nel suo studio. Sarà lì, senza dubbio. Quel signore che non dorme la notte ha questo vizio». La precisazione di Zambon suscita ilarità, è lui stesso a riprendere il filo del discorso, come dopo un respiro profondo che alleggerisce: «Froome non stava mai fermo in sella, continuava a muovere la testa, al contrario, Kiryenka era immobile. Noi siamo imperfetti, non possiamo farci nulla. Il casco è un oggetto e deve essere studiato anche per rimediare le imperfezioni umane. Nel momento in cui un atleta lo indossa, entra in rapporto con i suoi movimenti, con il body, con le condizioni meteo esterne. La performance risponde a questo equilibrio». Già, il lato umano: Froome che, non appena riceve il casco da Laura Butera, addetta alla comunicazione in azienda, a Monaco, resta qualche secondo a osservarlo «come fanno i bambini, ed era felice, davvero felice», oppure Filippo Ganna che, dopo il Record dell'Ora, restituirà quel casco all'azienda, mentre Gotti si raccomanderà «la visiera è sporca di sudore, guai a chi la lava». Pare sia uno dei caschi di cui va più orgoglioso: la visiera è dotata di alettine che favoriscono uno scorrere dell'aria più rapido. Le due componenti combinate hanno migliorato di 15 watt la prestazione, dieci per il casco, cinque per la visiera. Fino ad Alex Zanardi e all'unico contratto che non esiste: solo una stretta di mano e una telefonata a Gotti, in Sardegna, il giorno in cui vinse ai Giochi paralimpici.

 

Saliamo le scale, Angelo Gotti apre la porta del suo ufficio, sulla scrivania diversi caschi, altri sono posizionati su un mobile, lì dietro. «Ora mi rimetto al lavoro», afferma. La porta del suo ufficio si chiude, noi ci voltiamo verso la scala che ci accompagna all'uscita, sicuri che, prima di continuare a progettare, Gotti, almeno per qualche secondo, starà osservando uno di quei caschi, roteandolo, esponendolo alla luce, fino a dirsi, a bassa voce, rimettendolo al proprio posto, che fare i caschi gli piace ancora, come il primo giorno.

Foto: Eloise Mavian / Tornanti.cc


Dieci nomi da seguire alla Liegi-Bastogne-Liegi

Ultima grande classica di questa primavera prima di tuffarci con pensieri e parole direttamente sul Giro d’Italia. Liegi-Bastogne-Liegi: la corsa delle côte che sorride a scalatori o comunque a una certa tipologia di corridori che hanno confidenza con salite di media lunghezza, e grangiristi, ma che spesso trova un punto di incontro con quei cacciatori di classiche in grande forma. Quest’anno ce n’è uno in particolare che ha la maglia iridata e che vorrebbe compiere un’impresa mai riuscita a nessuno nella storia - vi roviniamo la sorpresa: sarà molto difficile per lui, se non impossibile.

Per questa Liegi-Bastogne-Liegi abbiamo scelto 10 nomi, ma li abbiamo suddivisi in diverse categorie: abbiamo i tre favoriti, tre alternative, ma ne restano fuori altri molto interessanti, tre outsider e infine un corridore italiano il quale, probabilmente, è il più accreditato per ottenere un risultato in una classica che ci ha visto, fino a un decennio fa, autentici dominatori. Chiudere con uno o due italiani nei 20 sarebbe grasso che cola.

TRE FAVORITI

Tadej Pogačar

Il Lombardia 2023 - 117th Edition - Como - Bergamo 238 km - 07/10/2023 - Tadej Pogačar (SLO - UAE Team Emirates) - Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Partecipazioni: 4
Miglior risultato: 1°nel 2021
2023: DNF

Una volta sul podio, poi una l’ha vinta, infine ha iniziato ad accumulare credito con la sfortuna. Lo scorso anno cadde e si ruppe il polso. Stona come nemmeno in questo 2024 vedremo la sfida più attesa contro Remco Evenepoel, il vincitore delle ultime due edizioni. Alcuni già si domandano se stravincerà o si limiterà semplicemente a vincere, altri già fanno pronostici sul momento in cui attaccherà. Noi, per lo spettacolo, speriamo in una corsa aperta, ma tanto dipenderà da lui.

Mathieu Van der Poel

E3 Saxo Classic 2024 - 66th Edition - Harelbeke - Harelbeke 207,3 km - 22/03/2024 - Taaienberg - Mathieu Van Der Poel (NED - Alpecin - Deceuninck) - Foto Nico Vereecken/PN/SprintCyclingAgency©2024

Partecipazioni: 1
Miglior risultato: 6° nel 2020
2023 -

La sfida la si cercherà con Mathieu van der Poel. Ora, sulla carta, non è che il campione del mondo sia proprio del tutto portato per vincere una Liegi soprattutto considerata la presenza di Pogačar, però se c’è un corridore di classe e in forma per provare a dare fastidio allo sloveno quello è proprio lui.

Tom Pidcock

Ronde van Vlaanderen 2023 - Tour des Flandres - 107th Edition - Brugge - Oudenaarde 273,4 km - 02/04/2023 - Tom Pidcock (GBR - INEOS Grenadiers) - photo POOL Dirk Waem/SprintCyclingAgency©2023

Partecipazioni: 2
Miglior risultato: 2° nel 2023
2022: 103°

Ogni tanto vive giornate in cui tutto gli riesce bene, e fa anche divertire. L'Amstel di qualche giorno fa ne è la dimostrazione. Con la Liegi più che un conto aperto ha dimostrato di avere un certo feeling. Già sul podio nel 2023, ne prenota uno anche quest’anno.

TRE ALTERNATIVE

Marc Hirschi

Amstel Gold Race 2024 - 58th Edition - Maastricht - Berg en Terblijt 253,6 km - 14/04/2023 - Marc Hirschi (SUI - UAE Team Emirates) - Tiesj Benoot (BEL - Team Visma - Lease a Bike) - photo POOL Dario Belingheri/SprintCyclingAgency©2024

Partecipazioni: 5
Miglior risultato: 2° nel 2020
2023: 10°

Indecifrabile Marc. Non sai mai com’è posizionato in gruppo, lo trovi in coda nelle fasi calde, poi accade che sta bene e scatta. Ha fondo, ma a volte sembra gli manchi la cattiveria e questa è forse la corsa che più gli si addice in tutto il calendario. Sulla carta è in squadra con Pogačar, ma spesso ci pare corra come un isolato dei tempi che furono.

Ben Healy

Giro d'Italia 2023 - 106th Edition - 8th stage Terni - Fossombrone 207 km - 13/05/2023 - Ben Healy (IRL - EF Education - EasyPost) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2023

Partecipazioni: 2
Miglior risultato: 4° nel 2023
2022: DNF

Non c’è dubbio: il Ben Healy visto finora in questo 2024 è lontano da quello che dodici mesi fa, tra aprile e maggio, ci aveva fatto sognare e spesso pure saltare dalla sedia. All’Amstel ha deluso, alla Freccia ci ha provato per poi lavorare per Carapaz, qui per chiudere degnamente un trittico ardennese che lo scorso anno lo vide protagonista assoluto.

Dylan Teuns

Amstel Gold Race 2024 - 58th Edition - Maastricht - Berg en Terblijt 253,6 km - 14/04/2023 - Dylan Teuns (BEL - Israel - Premier Tech) - photo Dion Kerckhoffs/CV/SprintCyclingAgency©2024

Partecipazioni: 8
Miglior risultato: 6° nel 2022
2023 -

Alti e bassi, ma non tragga in inganno il ritiro alla Freccia Vallone. Anzi teniamolo per buono: è andato forte al Brabante, così e così all’Amstel, ritirato per l’appunto alla Freccia, in una corsa, dura, per fondisti come lui, ricca di dislivello e salite più lunghe di quelle affrontate finora nelle gare di un giorno del calendario primaverile. Si prevede freddo e pioggia e quindi può dire la sua.

Tre Outsider

Kévin Vauquelin

Strade Bianche 2024 - 18th Edition - Siena - Siena 215 km - 02/03/2024 - Kévin Vauquelin (FRA - Arkea-B&B Hotels) - Footo Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2024

Partecipazioni - 
Miglior risultato -
2023 -

Chi scrive stravede per il corridore francese, ma allo stesso tempo non pensava mai che il salto di qualità già visto nelle gare a tappe quest’anno (10° alla Tirreno e 8° ai Paesi Baschi) lo portasse a essere uno dei grandi protagonisti del trittico delle Ardenne. In fuga all’Amstel, secondo, a un passo dal successo, alla Freccia Vallone, Vauquelin è corridore che tiene bene sulle salite medio lunghe e ha spunto veloce. Incognita? Potrebbe pagare alla distanza come successo in Olanda.

Wout Poels

Wout Poels, qui in maglia INEOS, sarà uno dei capitani della Bahrain. Foto: ASO/Pauline Ballet

Partecipazioni 10
Miglior risultato 1° nel 2016
2023 42°

La vittoria di Poels alla Liegi appartiene a una vita fa: sua, della sua vecchia squadra, il Team Sky, della stessa Liegi che negli anni ha modificato il percorso - una volta resisi conto che la gara diventava sempre di più una lunga attesa verso il finale, hanno avuto coraggio di cambiare. In Bahrain, nonostante le quasi 37 primavere, Poels si dimostra atleta solido e affidabile, sta bene, come dimostrato al Tour of the Alps di questi giorni e in caso di gara selettiva lui è nome da tenere d’occhio.

Tiesj Benoot

Strade Bianche 2023 - 17th Edition - Siena - Siena 184 km - 04/03/2023 - Tiesj Benoot (BEL - Jumbo - Visma) - Attila Valter (HUN - Jumbo - Visma) - photo Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2023

Partecipazioni: 5
Miglior risultato: 7° nel 2023 e 2021
2022: DNS

Una garanzia di risultato come pochi, Tiesj Benoot, dopo essersi ben difeso sulle pietre, come ogni stagione si piazza anche sulle Ardenne. Terzo all’Amstel, nono alla Freccia nonostante si sia staccato più volte, si sia congelato le mani, abbia rischiato di tutto pur di riuscire a mettersi i guanti nelle fasi clou della gara. Se cercate un corridore per una top ten, fate affidamento sul simpatico belga.

Un italiano

Davide Formolo

Itzulia Basque Country 2024 - 63rd Edition - 6th stage Eibar - Eibar 137,8km 6/04/2024 - Davide Formolo (ITA - Movistar Team) - photo Miguel Ena/SprintCyclingAgency©2024

Partecipazioni 5
Miglior risultato 2° nel 2019
2023 -

Tempi di magra, forse il peggiore della storia del ciclismo italiano, ma non è certo colpa di Formolino. 24° alla Freccia, anche lui è uno di quelli da conto aperto alla Liegi dove spesso si è saputo esaltare chiudendo pure sul podio nel 2019. Anche lui, in caso di corsa dura, magari resa ancora più complicata da pioggia e freddo, può dire la sua per un piazzamento nei primi dieci.

Foto in evidenza: ASO/Maxime Delobel


Questionario cicloproustiano di Gaia Masetti

Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Carisma.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Rispetto.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità.

Il tuo peggior difetto?
Permalosità.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Giocare-coccolare i miei cagnolini.

Cosa sogni per la tua felicità?
Che i miei più grandi sogni si realizzino.

Quale sarebbe per te la più grande disgrazia?
Ad oggi, che un qualche incidente non mi permetta più di pedalare.

Cosa vorresti essere?
Nient'altro, sono fiera di essere quella che sono.

In che paese/nazione vorresti vivere?
L'italia mi piace molto, anche se dopo il TDU mi sono innamorata dell'Australia.

Il tuo colore preferito?
In assoluto, nero.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Non ho uno scrittore preferito.

Il tuo film preferito?
Top Gun.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Coldplay.

Il tuo corridore preferito?
Non ho un corridore preferito.

Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.

Il tuo nome preferito?
Non ho un nome preferito, il mio mi piace molto, è abbastanza particolare?

Cosa detesti?
Il menefreghismo della gente.

L’impresa storica che ammiri di più?
La storia non è mai stata una mia amica.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Probabilmente l'impresa di Pantani nel '98 a Montecampione.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Uno dei 2 grandi giri a tappe - Giro e Tour.

Un dono che vorresti avere?
Immortalità - rimanendo fissa sulla fascia d'età dai 22 ai 27 anni, i migliori.

Come ti senti attualmente?
Sto bene, sono felice.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
PER ASPERA AD ASTRA - che significa, attraverso le asperità sino alle stelle.


Nations' Cup: ultima tappa prima di Parigi 2024

Si è appena conclusa la Nations’ Cup 2024, la riformata Coppa del Mondo introdotta dall’Uci nel 2021. A differenza delle edizioni passate, spesso poco partecipate, quella di questa stagione ha assunto una particolare importanza in vista dei Giochi Olimpici di Parigi. Infatti, le tre tappe di Nations’ Cup non sono solo state un’occasione per guadagnare gli ultimi punti in chiave qualificazione, ma anche per preparare corridori e materiali prima delle Olimpiadi.

UCI 2022 Track World Championship Day 2 - Saint-Quentin-en-Yvelines - France - 13/10/2022 - Men Scratch Race - Dylan Bibic (CAN) - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2022

Le danze si sono aperte nei primi di febbraio in Australia, dopo il Tour Down Under. Ciò ha permesso la partecipazione di molti stradisti, ma gli specialisti si sono trovati a dover scegliere tra la prima prova di Nations’ Cup e gli Europei di Grenchen, corsi pochi giorni dopo, per questo motivo la nazionale neerlandese ha deciso di non volare in Australia. Gli occhi degli addetti ai lavori erano puntati sulla squadra di casa, soprattutto nelle discipline veloci maschili, ma Richardson (che nei 200 metri lanciati ha fatto registrare uno straordinario 9.499, a dimostrazione del suo stato di forma) e compagni hanno trovato sulla loro strada un Giappone straordinario. Gli australiani hanno trovato il successo solamente nella velocità olimpica, poi solo sconfitte: da Kaiya Ota nella velocità individuale al malese Awang nel keirin, il quale ha preceduto i due nipponici Shinji Nakano e ancora Ota. Per il Giappone, guidato dall’ex sprinter francese Benoit Vetu, i successi non sono finiti lì perché al femminile Mina Sato ha conquistato l’oro nel keirin e l’argento nella velocità individuale. Però, a vincere più medaglie d’oro di tutti è stata la selezione neozelandese, trainata da Aaron Gate e Campbell Stewart (vincitori della madison maschile), Bryony Botha e Ally Wollaston. Quest’ultima, dopo il successo nell’inseguimento a squadre, ha prevalso nell’eliminazione e nell’omnium avendo la meglio su due certezze della pista come la statunitense Jennifer Valente e la britannica Katie Archibald, la quale, non a caso, ha vinto la madison, in coppia con Elinor Barker. Al maschile, il canadese Dylan Bibic ha messo in scena una prestazione analoga a quella della neozelandese. Il classe 2003, già campione del mondo nello scratch nel 2022, ha trionfato prima nell’eliminazione e poi nell’omnium, battendo allo sprint finale, decisivo per rompere il pareggio, Elia Viviani. Viviani ha partecipato anche al torneo di inseguimento a squadre assieme a Filippo Ganna, Davide Boscaro, Franceso Lamon e Manlio Moro. Gli uomini di Villa purtroppo non hanno ottenuto il risultato sperato: dopo la sconfitta in semifinale contro i padroni di casa (poi sconfitti dalla Gran Bretagna di Tarling) si sono dovuti accontentare della medaglia di bronzo, contro un parterre in cui mancavano Danimarca e Francia. Non hanno brillato neanche i velocisti azzurri. La promettente velocità olimpica non ha superato il turno di qualificazione ed è stato lo stesso per Mattia Predomo e Daniele Napolitano nel torneo della velocità individuale. Neppure Miriam Vece ha brillato, ottenendo l’undicesimo posto nel keirin e l’eliminazione agli ottavi nella velocità individuale per mano di Katy Marchand.

UCI 2023 World Championship Glasgow - Track - Day 5 - Women Elite Madison - 07/08/2023 - Yuri Kajihara (Japan) - Tsuyaka Uchino (Japan) - Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Un mese più tardi, il circus del ciclismo su pista si è riunito ad Hong Kong, dove hanno brillato nuovamente gli atleti giapponesi e stavolta non solo nella velocità. Kaiya Ota ha fatto doppietta nel keirin e nella velocità individuale, la velocità olimpica maschile ha perso solo alla finale per l’oro, lo stesso per il quartetto maschile che si è dovuto arrendere ai campioni del mondo della Danimarca, ancora doppietta nell’omnium femminile con Yumi Kajihara, vincitrice anche dell’eliminazione, e Tsukaya Uchino, oro nella madison femminile con Maho Kakita, e infine i bronzi maschili con Naoki Kojima nell’omnium e Kazugishe Kuboki e Eiya Hashimoto e quello dell'inseguimento a squadre femminile. Una prestazione corale - dieci medaglie con undici atleti diversi - che fa ben sperare in vista delle Olimpiadi di Parigi, dopo i fallimentari Giochi di casa dove arrivò solo un argento. Tra tutti gli astri nascenti della nazionale giapponese, il più talentuoso è lo sprinter Kaiya Ota, che a soli 25 anni è già un idolo in patria grazie ai suoi successi nel keirin, che in Giappone è una religione e viene corso ogni domenica in velodromi all’aperto. A sorprendere, però in negativo, è stata anche la spedizione neerlandese. Gli oranje, per la prima volta dopo anni, sono rimasti a secco di medaglie nelle discipline veloci, pur schierando la miglior squadra possibile. Dunque, a fare la Lavreysen di turno ci ha pensato Emma Finucane nella velocità femminile. La classe 2002, già campionessa mondiale, ha vinto la medaglia d'oro nella velocità olimpica, con Sophie Capewell e Katy Marchant, nella velocità individuale e nel keirin, in cui si è verificato il ritorno di un’atleta russa su un podio internazionale, ovvero Alyna Lysenko (3ª), la quale ha gareggiato come atleta neutrale. Invece nell’endurance maschile il plurivittorioso è stato Aaron Gate, trionfante nell’omnium e nella madison assieme a Campbell Stewart.

2024 UEC Track Elite European Championships - Apeldoorn (Netherlands) - Day 1 - 10/01/2024 - Team Sprint - Jeffrey Hoogland (NED) - Harrie Lavreysen (NED) - Roy van den Berg and - Tijm van Loon (NED) - Foto Davy Rietbergen/CV/SprintCyclingAgency©2024

La Nations’ Cup di Hong Kong ha rinviato gli ultimi verdetti in chiave qualificazione olimpica alla tappa di Milton (Canada), l’ultima occasione per strappare un ticket per Parigi. Tra le squadre che dovevano chiudere i conti qualificazione c’era il fortissimo quartetto inglese maschile, ancora penalizzato dalla caduta di Tanfield agli scorsi campionati mondiali, che ha reagito doppiando la Svizzera nella finale dell’oro. La Gran Bretagna ha centrato il successo nell'inseguimento a squadre anche con il quartetto femminile, che ha rifilato sei secondi e mezzo all’Italia seconda classificata. Nei giorni seguenti hanno portato tre medaglie d’oro a Londra anche la madison femminile, con Katie Archibald e Neah Evans, e l’omnium sia femminile che maschile, con la solita Archibald - davanti a Letizia Paternoster - e Ethan Hayter. La scozzesse non è stata l’unica atleta a collezionare una tripletta di ori in questa tappa della Nations’ Cup, infatti Harrie Lavreysen è tornato sugli scudi dopo il passo falso di Hong Kong vincendo nella velocità a squadre, con i fedeli Roy van den Berg e Joeffrey Hoogland, nel keirin e nella velocità individuale. Va però sottolineata l’assenza degli australiani e dei giapponesi, che in questa stagione hanno dato filo da torcere agli oranje. Al femminile, le competizioni veloci sono state più equilibrate, con i Paesi Bassi che hanno vinto la velocità a squadre, la neozelandese Ellesse Andrews che ha vinto il keirin in maglia iridata e la francese Mathilde Gros che è tornata alla vittoria nella velocità individuale. Buone prestazioni anche da parte della velocità italiana. Con un sesto posto nella velocità individuale e un nono nel keirin, Miriam Vece ha ufficialmente strappato il ticket olimpico per Parigi, in entrambe le discipline. Vece diventa così la prima sprinter donna a qualificarsi ai Giochi Olimpici per l’Italia dal 1988, quando Elisabetta Fanton partecipò all’edizione d’esordio della velocità femminile. Arrivò alla qualificazione anche la allora diciottenne Elisa Frisoni nel 2004, ma la veronese fu costretta a dare forfait a causa di un infortunio. È invece svanito il sogno olimpico della velocità olimpica maschile, sebbene mancasse solo l’ufficialità. Tuttavia Stefano Minuta, Mattia Predomo e Matteo Bianchi, guidati da Ivan Quaranta, hanno chiuso con un promettente quarto posto finale, anche se sarà molto difficile riconfermare un risultato del genere nei palcoscenici più importanti nel prossimo futuro. La vittoria nella finale per il bronzo contro gli azzurri è valsa al Canada la qualificazione in zona Cesarini, bissando dopo poco più di un’ora la velocità olimpica femminile che, racimolando gli ultimi punti nel velodromo di Milton, ha estromesso dalle Olimpiadi le padrone di casa della Francia.

Il prossimo appuntamento per i pistard sarà quello più importante del quadriennio: i Giochi Olimpici di Parigi. Questo inizio stagione ha mescolato le carte in tavola e al velodromo di Saint Quentin-en-Yvelines nessuna gara sarà scontata, dalla velocità, contesa tra britannici, australiani, neerlandesi e giapponesi, all’endurance, in cui si potranno rivivere emozioni simili a quelle di tre anni fa. L’appuntamento è fissato al cinque agosto.

Foto in evidenza: 2024 UEC Track Elite European Championships - Apeldoorn - 10/01/2024 - Inseguimento a squadre femminile - Vittoria Guazzini  - Elisa Balsamo - Letizia Paternoster - Martina Fidanza - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2024


Lost Road, Ferrara

Nelle campagne della Vallonia, in Belgio, vicino alle fattorie dove lavoravano i braccianti, intorno al 1700, i contadini dell'epoca preparavano la birra con ogni tipologia di cereale a disposizione in quei territori, non solo l'orzo, anche l'avena e la segale. Quella bevanda, caratterizzata da una modesta gradazione alcolica e da un gusto che non stancasse, doveva servire a dissetare i lavoratori agricoli nel caldo e nel sudore delle loro fatiche: l'acqua, a quel tempo, era meno salubre della birra che, post ebollizione, veniva depurata da batteri e microrganismi. La birra Saison, infatti, nasce in questo modo. Altrove, precisamente in Boemia, nella città di Plzen, in Repubblica Ceca, la birra Pilsener, abbreviata in Pilsner o anche semplicemente Pils, vedeva la propria origine ed il proprio peculiare sapore da un'acqua povera di sali minerali: non c'era alcuna lavorazione per ottenere l'effetto che tutti conosciamo, solo la terra le conferiva queste qualità. Birre chiare e birre scure: le seconde sono state, a dire il vero, in alcuni luoghi, le prime in ordine cronologico, in quanto ancora non si sapeva come cuocere l'orzo a temperature tali che non lo imbrunissero così tanto, consegnando, poi, il suo colore alla bevanda. Allo scendere delle temperature è corrisposto l'ingiallire della birra, le cosiddette bionde. Storie di terre e popoli, di culture? Ne eravate a conoscenza? Noi no, non così dettagliatamente almeno e la ragione per cui, ora, possiamo narrarle ha essenzialmente a che vedere con l'ignoto, le strade che si perdono, che si scelgono nel vuoto, al posto di quella battuta, in cui già ci si orienta perfettamente, portandosi dietro il dubbio, la paura, ma pure il coraggio e l'entusiasmo di quel che si può ancora inventare.

La nostra scoperta è partita da uno spazio difficilmente catalogabile, a Ferrara, in via del Mercato 6: l'osservazione scorge un bancone, dei dischi in vinile, molte lattine appese, un telefono ed una televisione vintage e diverse biciclette appese al soffitto. Si tratta, come aggiungerà Michele Massellani, di uno spazio unico, non di un birrificio, ma di un birraio itinerante, che ha studiato, progettato e costruito autonomamente ogni singolo dettaglio dell'arredamento di quei locali, fino ai tavolini dove ci si siede, appoggiando un boccale di birra, in attesa del primo sorso. "Lost Road" è il nome di questa struttura, anche se, per tutto ciò che c'è dietro quelle due parole in inglese, potrebbe essere il titolo dato a una storia, quella di Michele, in primis, quella di chiunque voglia ispirarvisi, in secundis. Fino a quattro anni fa, Michele Mascellani era lontano da qui. Aveva studiato economia all'università e, successivamente, era stato assunto in banca in qualità di consulente fiscale e normativo: giacca e cravatta, uno stipendio certo e un futuro già delineato. «Per dieci anni, quello era il mio mondo e, almeno all'inizio, credevo potesse esserlo per sempre. Ero un esecutore: mi veniva detto ciò che dovevo fare ed io agivo. Alla lunga, è diventato un peso. Dove avevo lasciato le mie idee? Dove era finita la mia creatività? Quell'incasellamento che, da una parte, era tranquillizzante, dall'altra era una gabbia che mi precludeva la realizzazione della parte più intima di me».

Da quel momento, la prima strada persa: Massellani trascorre vari giorni, vari mesi, in giro per l'Italia, frequentando corsi specializzati per diventare "birraio", al ritorno, in un piccolo impianto a casa prova a mettere in pratica tutte le nozioni apprese, qualche tempo e si licenzia. Perde tutto, raccoglie solamente la buonuscita che gli spetta per legge e, con quei fondi, inizia ad ideare quel locale che vi abbiamo descritto. «La prima reazione di chi si ha accanto, in questi frangenti, tira in ballo la follia di un cambiamento simile, senza alcuna certezza, senza alcun appoggio su cui cadere se non dovesse funzionare. I miei genitori, mia sorella, anche alcuni amici: "Hai studiato per questo, cosa ti salta in mente?". La volontà e l'idea sono difficili da capire per chi non sta vivendo quel che vivi tu, però, chi ti vuole bene può capire la motivazione, la spinta interiore che ti porta ad un salto nel vuoto di questo tipo. Chi ti vuole bene, alla fine, appoggia questa spinta». Qui il discorso si amplia ed esplora il termine cambiamento: spiega Massellani che, in fondo, tutti subiamo il fascino del cambiamento e tutti, almeno una volta, abbiamo pensato di stravolgere la nostra vita e ripartire da capo, in maniera differente. Poi, spesso, ci siamo fermati: «Normale, umano, direi. Gli esseri umani tendono a essere conservatori, anche se non stanno bene nelle loro scarpe. Lost Road è un invito a perdere la strada, ad accettare il rischio di perderla per ritrovarsi».

Sì, da quella "follia" la creatività ha continuato ad espandersi. Dapprima negli assaggi casuali in tutta la sua esperienza, che «permettono una memoria su cui fare affidamento per scegliere come strutturare la tua ricetta, dagli assaggi nella cucina della nonna, da bambini, noi riconosciamo le spezie, i profumi», all'osservazione della birra nel bicchiere, «quanto rimane la schiuma, se la sua grana è fine o pannosa», alle note olfattive, all'assaggio, «lì comprendiamo se ci sono sapori assonanti o dissonanti, coerenti rispetto al profumo», sino al lato tattile, «se lascia la bocca pulita, se restituisce pienezza, se è vellutata o acquosa», il tutto nell'introspezione di un momento di solitudine e silenzio in cui sono coinvolti tutti i cinque sensi: questa è l'arte di un birraio. Prendiamo in mano una lattina ed il suo design, all'improvviso, ci riporta al ciclismo, all'epoca di Coppi e Bartali, più avanti di Merckx, a tante imprese, al ricordo delle maglie storiche: saranno le due bande colorate e lo sfondo bianco, l'eco della maglia Bianchi, ad esempio. Le due bande cambiano colore a seconda della tipologia di birra, nello spazio bianco, invece, una scritta a raccontare come siano i lunghi giri in bicicletta a Ferrara, nella grande pianura e nei luoghi più sperduti, accanto allo scorrere del Po, alle sue acque, a ispirare birre «fresche, equilibrate e pericolosamente facili da bere». Il legame tra le birre di Lost Road e la bicicletta è stretto e ricco di sfaccettature: si nota non solo per la cargo bike di Michele Massellani, il mezzo che usa per le consegne, sempre parcheggiata davanti alla vetrina, vicino alla distesa di tavolini, non solo per la vecchia Cinelli appesa all'interno del locale, ma si definisce bene anche in relazione alla città, a Ferrara, che, da sempre, dedica una particolare cura alla ciclabilità e alle persone che pedalano, oppure in relazione a tutti i ciclisti che, di tanto in tanto, si fermano qui a bere una birra, mentre prendono fiato e leggono un giornale, una rivista. I giri in bici di cui parla l'etichetta sono quelli di Michele che, sin da ragazzino, ha conosciuto la città attraverso i pedali.

«La birra è una sorta di prolungamento, di continuazione di quel che si vive in un giro in bicicletta: un modo, insomma, per conservare quel che si è appena vissuto, parlandone con gli amici, davanti ad una bevanda dissetante e beverina, prima della doccia finale, al rientro a casa, magari. Una bevanda studiata appositamente per non stancare ed essere adatta a quella circostanza: non troppo corposa, non troppo alcolica, ma appagante, come un premio, una ricompensa». Michele Massellani riflette spesso sul fatto che, in Italia, non ci sia una vera e propria cultura della birra, maggiormente sviluppata, semmai, è quella legata al vino: questa mancanza, in realtà, si traduce in diversi aspetti che tutti possiamo osservare e che Massellani ben analizza: «Spesso parliamo di birra bionda o birra rossa, di "bevanda gialla più conosciuta al mondo”, parliamo di alcune caratteristiche, il fatto che sia dissetante o meno, conosciamo, forse, la zona d'origine, nemmeno sempre, ma non finisce lì. Ci sono enormi differenze tra le birre industriali e quelle artigianali, soprattutto una birra è sempre e in particolare modo legata da uno stile, ad un'interpretazione, alla cultura di un popolo, ai suoi costumi, alle sue usanze. A quel punto si apre davvero un mondo».

Accade molte volte: Michele Massellani racconta le proprie birre in eventi pubblici, con molte persone ad ascoltare, prova ad esaudire le loro curiosità. Ad esempio, rispetto alla prima birra da lui prodotta, elaborata sullo stile di quella bevuta a Colonia, in Germania, dopo vari assaggi da bevitore curioso. Al rientro a casa, ha iniziato a provare a ricostruirne il gusto, avvicinandosi sempre più, ad ogni modifica, fino al gusto che voleva sentire, quello giusto, perfetto, desiderato. Ma c'è di più, perché molte domande, molto interesse è proprio per la storia di Michele, per quella vecchia vita sicura abbandonata e per l'incertezza scelta per riprendersi la creatività e la possibilità di realizzare pienamente ogni sua capacità come persona: «Le persone vogliono sapere, si immedesimano e magari trovano il coraggio per intraprendere la loro strada del cambiamento, per avventurarsi su una via sconnessa che potrebbe accompagnarli a quel che davvero vogliono». Qualche volta Massellani si fa prendere dalla timidezza, si sente imbarazzato nel racconto, poi, pensa che è necessario, che a chi è venuto alla degustazione può servire e inizia a narrare, come ha fatto oggi, con noi. In questo spazio non definibile a priori, immerso nel fascino di quel che è necessario esplorare, nel profumo e nel sapore di una birra, nel vento e nella velocità di una bicicletta, per le strade di Ferrara.


L'oro e la maturità: ritratto di Eleonora La Bella

Fuori dalle finestre è già buio, è sera. Eleonora La Bella ha trascorso il mattino a scuola, frequenta il Liceo Classico, il pomeriggio in allenamento, in bicicletta, l'appuntamento era per le diciannove e quindici, giusto qualche minuto prima un messaggio: «Telefona quando vuoi». Scopriamo solo parlando che i suoi libri sono ancora tutti aperti, in camera: studierà dopo le venti, per le verifiche e le interrogazioni del giorno seguente. Le prime parole tornano al tennis, a Jannik Sinner, agli Australian Open, a ciò che ha detto: «Vorrei che tutti potessero avere i miei genitori. Mi hanno sempre lasciato scegliere quello che volevo. Anche quando ero più giovane, ho praticato altri sport. Non mi hanno mai messo pressione. Vorrei che questa libertà fosse possibile per il maggior numero di ragazzi». La Bella ha in mente le sue domeniche d'infanzia, quando vedeva suo padre inforcare la bicicletta, uscire dal cancello e tornare dopo tre, forse quattro, ore. Ci restava male. Papà fa il camionista di mestiere, un lavoro difficile, di fatica e rinunce, e la strada lo porta spesso lontano, a casa torna poche volte a settimana, Eleonora resta con la madre e con il fratello Lorenzo: «Ci sono i sacrifici di mio padre sul suo camion e quelli di mia madre a casa, è lei ad accompagnarmi ad ogni visita, ad aiutarmi a risolvere ogni problema. Io e mio fratello siamo cresciuti così, non ci è mai mancato nulla. Il nostro legame è fatto di una presenza costante, dei suoi messaggi quando sono via, della macchina in cui mi aspetta fuori dalla stazione, al ritorno dalle trasferte e delle volte in cui mi accompagna in palestra, delle sorprese che mi prepara. Ogni tanto mi sorprendo a pensare che mio fratello ci sarà sempre per me e mi sento tranquilla».
Suo fratello c'era anche quel giorno, nel parcheggio vicino a casa, dove un allenatore, amico del padre, aveva disposto i birilli per una gincana. Il primo ciclismo era così, con la porta di casa a pochi passi, dove fare ritorno quando si è stanchi. I treni sono arrivati dopo, da Tufano, la sua città, nel Lazio, zona Anagni verso il nord, sedersi su quel sedile all'alba e vedere le porte del treno riaprirsi a sera, in un'altra stazione.

«Qui da noi è tutto un poco diverso. Ricordo giornate a Piacenza, con il mio team manager, in BFT Burzoni Vo2 Team Pink, Stefano Solari e lui che mi spiegava "come si ragiona al nord", mentre ero intenta a ricercare ovunque quel calore che appartiene alla romanità e non lo vedevo, che mi trovassi in piena città o nella natura del Trentino Alto Adige, che pure mi piaceva, ma a cui mancava sempre qualcosa. Ho capito quest'anno cosa sia davvero il ciclismo: la lontananza dalla famiglia e lo "studio". Sì, ho studiato molto ciò che avevo attorno, a diciotto anni, ho compreso un poco di più com'è il mondo». Un anno importante, il primo da junior: dodicesima al Piccolo Trofeo Binda, decima sulla Montée Jalabert, una delle salite che ha preferito, dopo la Sgurgola, nel frusinate, per andare da nonna e il Col du Vam, all'Europeo, al Tour du Gevaudan, nona al Giro delle Fiandre, sesta al Giro della Lunigiana, seconda sia al Campionato Italiano su strada, «ma quella vittoria la meritava Federica Venturelli più di me», che a cronometro, vincitrice del Mixed Relay, agli Europei, decima nella corsa su strada. Quest'anno, il difficile sarà riuscire a riconfermarsi, il pensiero c'è, lei lo tiene a bada riflettendo sul fatto che, se sarà tranquilla, andrà tutto meglio. «In fondo- dice- in sella puoi solo dare tutto quello che hai e nel 2023 ho acquisito la certezza che, se sei capace di farlo, costi quel che costi, qualcosa accade, in qualcosa migliori». In bicicletta segue molto l'istinto, racconta che sta imparando a gestirlo, perché le energie non sono infinite e lei, con le sue doti da passista scalatrice, scatterebbe sempre, pur di non avere rimpianti. Questo è un aspetto da limare, strettamente legato al fatto che la parola delusione proprio non le piace, ma, se dovesse darle un significato e una forma, la assocerebbe alle volte in cui è rimasta bloccata per pensieri non così importanti, per la parte irrazionale che prevale e impedisce di dare tutto. «A fine gara devo sentire quel sapore di sangue che ti invade la bocca quando non ne hai più e i muscoli in fiamme. Nelle cronometro mi accade, altre volte no. Vuol dire che posso fare di più». Portare il proprio fisico al limite non la spaventa.

2023 UEC Road European Championships - Drenthe - Junior Mixed Team Relay - 21/09/2023 - Andrea Bessega - Andrea Montagner - Luca Giami - Eleonora La Bella - Alice Toniolli - Federica Venturelli (ITA) -Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Quest'anno sarà l'anno della maturità ed al Classico la versione da tradurre sarà quella di greco, lei preferisce il latino, «se impari la grammatica nei primi tre anni, la strada è in discesa», e cita Seneca, il suo autore preferito. Parla di filosofia, spiega che tutti le suggeriscono di iscriversi a Scienze Motorie all'università, ma lei pensa a Psicologia, una materia di cui ha già letto qualcosa e che vorrebbe conoscere meglio. È appassionata delle persone e del rapporto fra esseri umani: «Credo nella gentilezza. Non possiamo mai davvero sapere il momento che vivono le persone che incontriamo, però la gentilezza può cambiare qualcosa. Ne sono certa». Il ciclismo, in fondo, l'ha scelto per la sua capacità di mettere in contatto con gli altri ed il contatto più intenso è quello che si crea in squadra, anche questa è una cosa che ha capito meglio l'anno scorso, in particolare alla cronometro Mixed Relay dell'Europeo, quella in cui l'Italia ha conquistato l'oro davanti a Germania e Francia, dopo un esordio sfortunato in maglia azzurra, in primavera, con una caduta che la costrinse al ritiro alla Omloop van Borsele, in Olanda: «Se la squadra è compatta possiamo davvero fare grandi cose, il punto è ricordarcelo e mantenere questa compattezza». Dai finestrini del treno, in quel ritorno, la vista del paesaggio era oscurata dalla malinconia, dalla nostalgia per il bello vissuto e già trascorso: non sarebbe voluta tornare a casa, dove, in realtà c'era una festa per lei, con il paese ad aspettarla. «Ho i brividi»: dice solo così. Le chiediamo dove tenga la maglia di Campionessa Europea, istintivamente ci indica la sua camera, poi, ci ripensa: «In realtà, non lo so. Potrebbe essere in camera dei miei genitori o di mio fratello, non importa. Finchè è qui in casa, è al sicuro».


Si ispira a Elisa Longo Borghini e a Marta Cavalli, ricorda con piacere e con un sottile orgoglio di aver trascorso del tempo con Barbara Guarischi e con Elena Cecchini e di essersi fatta spiegare da loro come funzioni il professionismo, il mondo in cui spera di arrivare, senza cambiare. Si ispira a Pogacar e van der Poel, ma, ora come ora, vorrebbe assomigliare a Federica Venturelli, solo un anno in più di lei, che, con lei, ha vinto quell'oro. Sogna una tappa al Giro d'Italia, il Giro delle Fiandre e, ancora oggi, si morde le mani perché il nono posto dello scorso anno avrebbe potuto essere qualcosa in più con una migliore gestione della volata. Si sente cresciuta mentalmente e fisicamente, riesce a buttarsi senza timori in molte situazioni che prima la spiazzavano, ci proverà. Ora è tempo di riprendere in mano i libri, domani si interroga.

Ph. Rosa per gentile concessione di Eleonora La Bella

Crazy Sport, Vittorio Veneto

Roberto Catto è sincero, spontaneo, probabilmente i suoi sessant'anni e tutte le esperienze vissute lo aiutano, così ce lo dice subito: «Non conosco una parola di inglese, non sto esagerando. Non ci capisco nulla. Mi pare, però, che "crazy" abbia un bel suono, armonico, delicato e un pizzico strano, fantasioso, veloce come una discesa e aspro come una salita, con dentro il sibilo del vento. L'ho scelto per questo, quando si è trattato di dare un nome, un'identità, a questo luogo e, alla fine, lo rispecchia perfettamente. Forse, con l'età, mi sarebbe piaciuto usare qualche termine dialettale e, magari, avessi dato vita a questa attività solo pochi anni fa, l'avrei chiamata "Sport Matt". Del resto, c'è della follia, buona si intende, in tutto questo». A Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, in via Menarè 164, si respira l'aria delle terre del Prosecco, delle sue colline, dove sfrecciano biciclette da corsa, gravel, mountain bike e dove le persone si fermano a respirare e ad osservare un panorama che è patrimonio dell'Unesco: le Dolomiti sono una cornice di neve in inverno e di frescura in estate, Venezia, le sue gondole, la sua laguna e la sua arte sono ad un passo. Fuori dalle mura tutto questo, dentro le mura tante biciclette, di ogni tipologia e sfumatura, di ogni grandezza e peso, adatte ad ogni disciplina e percorso. Dentro le mura anche una sottile incredulità: «Sono circa cinquant'anni che pedalo. Quante strade stanno in tutto questo tempo? Quanti piccoli pezzi di mondo esplorati? Credo tanti, tantissimi. Infatti la logica, la razionalità pura, dovrebbe portarmi ad avere esaurito quella voglia instancabile di disegnare un tragitto e partire all'avventura: invece no, ancora adesso io aspetto la domenica con lo stesso fervore e mi sveglio con la medesima gioia perché non vedo l'ora di arrivare in un'altra città, in un altro paese, stancarmi, sudare e prendere la via di casa con la convinzione che le strade nuove non finiscono».

Le vie di Gorgo al Monticano non sono così distanti da qui, ed è proprio da quelle parti, in un paese di confine, che è iniziato tutto per Roberto, un ragazzo cresciuto nell'officina di meccanica del padre, dove si occupava di automobili, pur sentendosi da sempre lontano da quel settore, un lavoro che «aveva a casa e, quando bisogna lavorare, ci si adatta e si fa tutto quel che serve, senza troppe storie: sono cresciuto con i miei genitori che mi dicevano così». Agli albori, nel primo negozio, circa 150 metri quadrati, c'erano non più di cinque biciclette e Catto non dormiva la notte, mettendo il piede giù dal letto al mattino con un un'unica affermazione, chiara, in mente: «Sono stufo. Ora vado là e chiudo tutto, non si può continuare così». Questa scena si ripete per più di mille giorni, circa tre anni, fino a che tutti gli ingranaggi del nuovo mestiere sembrano iniziare a girare: non è più solo una passione mista all'intraprendenza di un ragazzo che aveva fatto un salto nel buio, «quella che riempie le giornate, che non ti fa mai chiudere, anche se, a conti fatti, dovresti, perché, nonostante le tante ore, non porti a casa abbastanza denaro e con la sola passione non si mangia», è diventato un lavoro. Sei anni, tondi tondi, in quei locali, fino a che un amico d'infanzia e di biciclette gli chiede se vuole mettersi in società con lui perché c'è un'opportunità da non perdere, per migliorare, per crescere. Stiamo parlando della seconda sede di Crazy Sport, a non più di cento metri da quella attuale, diventata sede circa quattordici anni fa, di trecento metri quadrati, dove, passo passo, sveliamo questa storia. I nostri piedi sono ben piantati a terra, ma la mente segue traiettorie insondabili, disegnate da Roberto che, all'improvviso, dal nulla, ci porta in Mongolia, in un ricordo di sedici anni fa, ancora nitido come il primo giorno.

«Eravamo in uno spiazzo, con mia moglie, stavamo per posizionare la nostra tenda. All'improvviso abbiamo visto arrivare una donna, a cavallo, con il figlio, un bambino, fra le sue braccia. Ci si scambiano aiuti, ognuno fa quello che può, con quello che ha, poi, mi viene in mente di chiedere a quella signora se mi permette di fare una foto-ricordo assieme a lei. Ho cercato di farmi capire, in qualche modo: ha preso ed è andata via, senza darmi la possibilità di aggiungere altro. Sai, sono culture talmente diverse che ho pensato di averla offesa con quella richiesta, di essere stato inopportuno, insomma, fino a che, mezz'ora dopo, è tornata con nuovi abiti, quelli della festa, per concedermi la fotografia che le avevo domandato. Ho i brividi a ripensarci, è stato troppo bello. Senza la bicicletta sarei mai arrivato a scoprire questa forma di accoglienza e disponibilità? Non lo saprò mai, ma credo di no». Se quel viaggio è stato possibile e quella serranda viene alzata tutte le mattine, dopo tanti anni, il merito è certamente di Roberto ma anche di tanti gesti, all'apparenza minuscoli, scontati, che tutto sono tranne che ovvi o piccoli per chi intraprende un nuovo lavoro assumendosi rischi e responsabilità. In tutte le mattine in cui Catto pensava di chiudere c'era, infatti, sua moglie a dirgli che avrebbe dovuto continuare perché le cose sarebbero cambiate e una soluzione l'avrebbero trovata insieme: «Lei vedeva questo entusiasmo bambino a cui non riusciva a dire nient'altro se non un incoraggiamento, uno sprone. La propria passione può far bene anche ad altri, io ne ho quotidianamente le prove». Roberto Catto si riferisce a tutte le volte in cui, per strada, magari ad un semaforo, scorge qualche conoscente in sella, lo guarda e si ricorda delle prime volte in cui lo vedeva passare dal negozio: «Qualcuno non conosceva per nulla la bicicletta: si sedeva attorno alle due botti che abbiamo e che sono il centro, il punto di incontro del negozio, e stava ad ascoltare, talvolta interveniva con poche e semplici domande. Giorno dopo giorno, di settimana in mese e di mese in anno hanno acquistato una bicicletta, hanno provato, si sono divertiti e adesso almeno una parte della loro giornata ha a che fare con le ruote, i pedali ed il vento: fosse per andare al lavoro, a scuola o a fare una gita, appena l'aria si scalda, talvolta anche sotto la pioggia d'autunno. Sprigionare entusiasmo è salutare».

Crazy Sport esiste da ventitré anni, un tempo sufficiente perché molte cose cambino. Alla fine degli anni novanta ed agli inizi del 2000, racconta Catto, che era più facile fare gruppo, trovarsi e partire per una vacanza in bici, magari in venti o più persone, ora sono gli eventi a radunare grandi numeri, forse, spiega, è cresciuta l'attenzione alla bici come mezzo, a livello tecnico e meccanico e si è un poco modificato quel genuino stare insieme nato dal caso, a costo di stare stretti in un piccolo appartamento. La bicicletta, invece, non è cambiata, semmai ha aggiunto specializzazioni e forme di interpretazione: dieci anni fa, ci si chiedeva cos'altro si sarebbe potuto inventare, incrementare, oggi si ha la tentazione di farsi la stessa domanda e la certezza che le novità saranno ancora tante, alcune nemmeno immaginabili. Roberto ha voluto sperimentare tutte le varietà di bicicletta e ciascuna ha contribuito a renderlo quel che è oggi, ad arricchirlo di sensazioni ed emozioni che può raccontare ai più giovani che, entrando, lo salutano semplicemente con un "ciao" e lui ne è felice: «La bicicletta da strada ti porta allo Stelvio, ai tornanti, ad imitare i grandi campioni, il gravel per me è essenzialmente viaggio ed esplorazione, è sempre esistito, in fondo, anche quando non se ne parlava così tanto, forse, come una visione, un'idea di pochi, la mountain bike coniuga tutto questo con l'adrenalina, mentre il downhill è soprattutto adrenalina allo stato puro e la bicicletta elettrica la possibilità di un piatto di pasta, un bicchiere di vino e via, ancora in salita, fino in cima».

Il tempo è passato anche su Roberto Catto, non solo perché sono aumentati i chilometri che ha percorso in bicicletta, ma perché è diverso anche il suo approccio con chi arriva da Crazy Sport: «I primi giorni avrei voluto non essere io il negoziante, ricordo che balbettavo appena arrivava qualcuno, ero sempre preoccupato, non mi sentivo all'altezza. Di fatto, è solo questione di esperienza: oggi so riconoscere la tipologia di cliente che mi trovo davanti, capisco se è una persona appassionata di viaggi, oppure di tecnica e meccanica. Per ognuno è differente il discorso che si può fare e la profondità a cui è possibile arrivare. Le persone sono differenti ed è la bellezza di questo mestiere». Alla fine, tutto ritorna all'essere umano, al fatto che siano proprio gli esseri umani ad essere misura di quel che accade, sin da quando, da giovanissimi, mettono piede in negozio e scelgono il «loro primo vero mezzo, un passo decisivo, perché a quel punto vivranno la strada e se saremo riusciti a mettere in loro il seme del rispetto reciproco e della condivisione sarà tutto più facile».

Già dal martedì, al tavolo del negozio, Roberto progetta la pedalata che farà la domenica successiva: è un rito, un'abitudine per continuare a godersi la bici anche nel tempo libero, per non ingabbiarla, per lasciarla libera come è sempre stata e come deve essere. In mente ha una data, il 10 marzo 2031, quando Crazy Sport compirà trent'anni e lui, pensione o meno, lascerà la gestione del negozio a suo nipote che guardandolo ha preso la sua stessa passione e da tempo collabora, portando una ventata di gioventù e novità. Roberto passerà nel locale tra un giro in bici ed un altro, tra una gita in camper ed un'altra, si fermerà a chiacchierare, vicino alle botti attorno a cui si vede il Giro d'Italia, il Tour de France o le Classiche. Al nipote ha già fatto due raccomandazioni: «Prova tutte le biciclette che puoi, non lasciartene sfuggire alcuna e apri la tua mente il più possibile, come i vasti spazi che si vedono in sella: il futuro arriverà solo così». E più di questo davvero non si può dire, sulla strada delle colline del Prosecco, con le Dolomiti vicine e Venezia non lontana.