Per lo sguardo di un momento

Su un paradosso si basa il ciclismo. Da una parte è uno sport che crea, plasma e rifornisce la propria mitologia grazie all’anzianità, al frequente ripetersi di cose molto simili. Per questo paragoniamo i campioni di diverse epoche cercando di rivedere il vecchio nel nuovo («il baby Merckx») e nel commentare la corsa ci riferiamo a dinamiche già viste, muovendoci in un solco tracciato.

Dall’altra parte, il ciclismo - e in particolare le corse a tappe di tre settimane - attende impaziente il climax, il momento di massimo stupore. Una sorta di taglio di Fontana di quella tela che è la normalità, la ripetizione di cui sopra. Improvvisamente, guardando attraverso quello squarcio, routine e cliché subiscono un’alterazione. Ci si trova coi piedi all’aria, smarriti: l’unica possibilità, a quel punto, è cercare di capire dove si è, cosa si sta facendo e cosa si sta guardando.

È la sensazione che ha vissuto, credo, gran parte delle persone accorse sul Monte Lussari ieri. E io con loro. Mi guardavo attorno e non riuscivo a smettere di ridere: gente che cantava, gente che ballava, gente che voleva godersi un momento storico. Ho sentito il collega di podcast (oggi esce l’ultima puntata di GIRONIMO!) Leonardo Piccione, sempre equilibrato nei giudizi, con una voce piena d’emozione e adrenalina. Daniel Friebe, che presenzia a tipo 100 giorni di corsa in bicicletta l’anno, ha scritto che è stata «una delle giornate più memorabili in 23 anni che mi occupo di ciclismo».

Ogni tanto capita, insomma, di essere parte della storia mentre accade, di vedere tutto da posizione privilegiata. Si riesce a dare un’occhiatina, fugace e presbite, dentro allo squarcio della tela. Non sono sicuro di aver capito cosa ci sia dall’altra parte, e non vorrei rifare questa esperienza domani, perché il bello, in questo caso, sta nel raro. Ma è per quel singolo momento che seguiamo una cosa assurda e brutale come il Giro d’Italia.


Nel giorno in cui tutto si decide

Forse, il giorno in cui si decide tutto è un giorno come oggi. Un giorno normale, in cui lassù, sul Lussari, si può guardare il paesaggio, sdraiarsi su un prato e, con un panino in mano, pensare che oggi c’è il Giro e domani è domenica. Un giorno ordinario in cui qualcuno si alza dal letto più leggero e qualcun altro, invece, sente un peso e non capisce da dove viene. Un giorno in cui ci si chiede se sia più difficile rischiare di ottenere quel che si è sognato a lungo, sempre vicino ma mai completamente vero, oppure rischiare di perderlo, dopo averne fatto realtà per tanti giorni. Perderlo proprio nel giorno in cui tutto si decide.

Da una parte Primož Roglič, dall’altra Geraint Thomas. Il giorno in cui tutto si decide nasce da una notte in cui ancora tutto è sospeso, in cui ancora tutto è possibile. Da una notte come le altre per i più. Ma le notti del giorno in cui tutto si decide sono solo nostre, come ogni notte e ancora di più. Nel giorno in cui tutto si decide si vede qualcuno che ride, che fa colazione, che sbriga un’attività come le altre, che parla con qualcuno accanto alle transenne, mentre aspetta. Tutto normale, come gli altri giorni al Giro d’Italia, ma se è il giorno in cui tutto si decide quei gesti sembrano diversi, avvolti in una strana ansia. Qualcosa che ricorda la più grande felicità e la più profonda delusione.

Nel giorno in cui tutto si decide la strada sale, ripida, aspra, pungente. Il sudore cade ritmato, la pelle brucia, il respiro palpita, i muscoli fremono. Le gambe lottano. Perché è il Lussari, perché è il concetto di verticale, di salita, di montagna, di cima, di vetta. Perché è tanto difficile per Thomas lasciare un sogno che ha vissuto e a cui creduto per molti giorni, quanto per Roglič rischiare di ottenere quel sogno. È avere a che fare con i sogni, grandi o piccoli che siano, che è difficile, questa è la realtà. La fregatura è che basta un sogno e un poco ci si crede. Non è vero che i sogni sono cose lontane, immateriali, nebulose, di un altro universo. Se lo sono, lo sono solo per qualche istante. Poi sono così vicini che basta intravederli per crederci. E i ciclisti questo lo sanno bene.

Per questo, nel giorno in cui tutto si decide, un addetto alla sicurezza, applaude Roglič e poi Thomas. Li fissa cercando di capire qualcosa in più di quel che passa quando passa la loro bicicletta. Perché, forse, lunedì sarà per quell’addetto il giorno in cui tutto si decide. Almeno uno, capita a tutti. Spesso più di uno. Il giorno in cui tutto si decide è un giorno in cui ci si crede e si smette di crederci decine di volte. Come quando cade la catena a Primož Roglič, dopo una buca, e il giorno in cui tutto si decide diventa una condanna, diventa il peggior incubo che hai avuto, diventa la tua paura di sempre. Come quando Roglič ha ancora vantaggio, sempre più e la realtà persa di Thomas è il suo sogno realizzato. La maglia rosa è sua.
Il giorno in cui tutto si decide è un giorno come oggi. In cui tutto sarebbe potuto restare uguale invece cambia. In cui Roglič è a pochi chilometri dalla conquista del Giro d’Italia. L’ultima tappa è quasi sempre una passerella, ma c’è. C’è un altro giorno, anche nel giorno in cui sembra si sia deciso tutto. Lo diciamo per Thomas. C’è un altro giorno, non per cambiare le cose, magari, ma per andare avanti. Anche dopo il giorno in cui tutto si è deciso.


Contenti da cima a fondo

Gran parte dei giornalisti era già radunata nel truck. Il truck viene chiamato così per semplificare, ma in effetti è una specie di autotreno (un camion? un furgoncino grosso, quindi furgoncione?) che si apre e al cui interno entrano ogni giorno il vincitore di tappa e la maglia rosa. Per salire e scendere, una ripidissima scala da cinque o sei gradini, particolarmente pericolosi soprattutto se bagnati, diventa, per schiere di giornalisti, un ostacolo ben più temibile del foglio bianco.

Eravamo in tanti, insomma, lì dentro. Nei dintorni del rifugio Auronzo, sul lato un po’ più brutto delle Tre Cime di Lavaredo, faceva freddino e almeno stare al chiuso di avrebbe riparato dal vento. Ben più di mezz’ora è passata da quando Roglič e Thomas hanno sprintato per rosicchiarsi qualche secondo a vicenda. Da dentro la sala stampa si sente forte e chiaro un urlo che indica a quale punto della corsa siamo: «C’è Cavendish!».

Mi interessava vedere l’arrivo degli ultimissimi, guardare in faccia la fatica di chi ha impiegato sei ore e mezza a concludere una tappa con oltre cinquemila metri di dislivello. Così arrivo sul traguardo che sta sopraggiungendo un quartetto della Bahrain-Victorious. Da sinistra a destra ci sono Arashiro, Sütterlin, Milan e Pasqualon. La maglia ciclamino deve aver sofferto tantissimo per portare la bici al traguardo, ma sono tutti sorridenti perché, ormai quasi un’ora prima, ha vinto un loro compagno di squadra.

Diversi minuti prima era arrivato anche Edoardo Zambanini, incaricato invece di aiutare Damiano Caruso in salita. Il ragusano è andato forte, approfittando della giornata no di Eddie Dunbar per salire al quarto posto in classifica. Non sono riuscito a origliare cosa dicesse Zambanini, ma anche lui aveva un gran sorriso stampato in faccia. Una squadra, almeno, ieri era contenta da cima a fondo.


L'arrivo

L'ammiraglia della Bahrain-Victorious, con alla guida Franco Pellizotti, che si affianca a Santiago Buitrago, mentre il colombiano già vede Derek Gee, a pochi metri, porta un messaggio ben preciso: salire del proprio passo, tenere Gee di riferimento, lasciare da parte la foga, la voglia spropositata di essere da solo, in testa, il sogno degli scalatori. Pellizotti potrebbe dirlo anche all'auricolare, probabilmente l'avrà anche fatto, ma, così, da un finestrino aperto, dalla voce che deve sforzarsi per arrivare, è diverso: basta uno sguardo e ad entrambi è chiaro quanto si creda a quello che si sta dicendo o facendo. Ci hanno sempre detto che un direttore sportivo è sincero a tutti i costi, perché il corridore sa, capisce quando le parole sono di circostanza. Quel finestrino è uno squarcio sulla realtà di entrambi, sullo sfondo le Tre Cime di Lavaredo.

Se Santiago Buitrago, su un tornante, riesce a riprendere Gee e sul tornante successivo riesce a sorpassarlo, se Santiago Buitrago riesce a vincere la sua seconda tappa al Giro, dopo quella dell'anno scorso, è per un insieme di motivi, la capacità di tenere il proprio passo, però, è uno di questi. Ma il proprio passo non è solo il proprio ritmo, quello di Buitrago, è anche la propria predisposizione, quell'idea che si infila nella mente e insiste: «Fai così!». Pensiamo allo scatto di Ben Healy, con una fuga già avviata, a circa cinque minuti, per conquistare punti per la maglia azzurra della classifica scalatori. Pensiamo a Thibaut Pinot che si riporta sotto, al gruppo che reagisce temendo l'insidia Pinot in classifica generale, a chi, come Healy viene ripreso, gli dice qualcosa, scherza, ride. Al fatto che, dopo poco, Healy ci riprovi.

Sono comprensibili le reazioni del gruppo, certamente. Come lo scatto di Healy tatticamente è difficilmente comprensibile, con queste modalità. Eppure, non vi ha appassionato? Non vi ha fatto restare lì, con curiosità, con interesse. Magari sorridevate pure voi oppure vi chiedevate cosa stesse facendo, ma, con quello scatto, Healy è arrivato. Non al Gran Premio della Montagna, ma a chi guardava. Quello è, forse, il suo passo, la sua idea.

Derek Gee, con oggi, totalizza il suo quarto secondo posto in una tappa. Quello che crediamo in molti abbiano provato, quando Buitrago lo ha superato, quel dispiacere, quell'immedesimazione, non dipende solo dall'ennesimo secondo posto, dipende da questo suo essere sempre nel vivo dell'azione, questo provare, in preda, quasi, a una visione, a qualcosa che è talmente chiaro nella sua testa da essere visibile a tutti, pur se non si è ancora realizzato. Anche Gee è arrivato, non primo, secondo, ma Gee è arrivato soprattutto a chi guardava. Come Warbasse, e ci piacerebbe leggere qualcosa scritto da lui su una giornata come questa, alle Tre Cime di Lavaredo, come Cort Nielsen, come Hepburn, come tutti coloro che hanno fatto qualcosa che la ragione, probabilmente, non avrebbe suggerito. Eppure l'hanno fatto e, quando si manifesta il proprio passo, la propria indole, qualcosa, dall'altra parte, arriva sempre. Perché quella fatica non è imitabile, perché è unica.

Mentre tutte le biciclette dei tifosi, appoggiate alle rocce, parevano altri spettatori, parevano proteggere le montagne, come una rete, qualcosa che tiene unito e vicino, Roglič, Almeida e Thomas si sono affrontati con sottigliezza, in equilibrio sull'abisso tra il guadagnare e il perdere. Forse anche con un pensiero a domani, al Lussari. Roglič guadagna tre secondi su Thomas, Almeida ne perde rispettivamente venti e ventitrè. Il loro passo, la loro indole, non può disgiungersi da quel traguardo che, giorno dopo giorno, è sempre più vicino: Roma, il Giro d'Italia. Anche per loro è questione di arrivare. Domani, lassù, sul Lussari, resteranno da soli, ognuno con le proprie forze e la propria indole. Più in alto, l'arrivo.


Sembra un bel finale

Sembra, insomma, che il 106° Giro d’Italia sia una questione per tre. Uno tra Joao Almeida, Geraint Thomas e Primož Roglič vincerà, non si scappa. Tre possibili vincitori che, per motivi molto diversi tra loro, sarebbero degli ottimi vincitori: Almeida vivrebbe un battesimo del fuoco, una consacrazione (sempre che questi due sacramenti siano conciliabili); Geraint Thomas diventerebbe il più anziano vincitore del Giro (al momento il record è di Fiorenzo Magni nel ‘55, quasi 35 anni); infine, quanto sarebbe romantico se Primož Roglič riuscisse a ribaltare il Giro (e tutta quanta la sua narrativa) vincendo all’ultima cronometro?

Sembra ieri che ci strappavamo i capelli per le dipartite anzitempo di Evenepoel e Geoghegan Hart. Con loro il Giro sarebbe stato più bello, certo, ma due arrivi in salita della terza settimana - Bondone e Val di Zoldo - hanno riscattato alcune tappe mosce (Gran Sasso e Bergamo), distribuendo le carte per un finale elettrizzante sulle Tre Cime di Lavaredo. Senza accorgermene, ieri ho fotografato tutti e tre: Almeida alla partenza, con un polpaccio marmoreo guizzante fuori dal calzino; Roglič, subito dopo l’arrivo: con la maglietta aperta gli si contano pure le costole; Thomas, in conferenza stampa, poco prima che risponda a una domanda sui biscotti da thé gallesi e che ricordi a tutti di avere «37 anni, dovrei essere in spiaggia anziché qua».

Sembra che dica così, Thomas, per auto-convincersi di avere il cuore leggero. L’altro giorno gli hanno chiesto se conosce la leggenda delle Tre Cime di Lavaredo, un traguardo storico del Giro, dove hanno vinto in passato Merckx (1968) e Nibali (2013, sotto la neve). No, è stata la sua risposta. «Cos’è, la salita finale? Non la conosco, magari guarderò qualcosa su YouTube stasera».

Sembra, insomma, che oggi ci divertiremo.


Quanto se la meritava

Quanto se la meritava questa vittoria Filippo Zana. Quanto se la meritava e non è una domanda, ma un'affermazione, perché lo sappiamo, perché lo sapete. L'abbiamo visto fare di tutto in questo Giro d'Italia: mettersi al servizio di Michael Matthews, andare a chiudere sugli scatti per favorire la volata di "Bling", l'abbiamo visto terzo a Fossombrone, nel giorno di quella bellissima follia di Ben Healy, andare in fuga quando la strada sale, rallentare, prendere fiato e, poi, profondersi in un ultimo sforzo, da lasciare senza parole, per Dunbar, l'abbiamo visto in fuga verso Val di Zoldo, nel primo pomeriggio, di forza, e, istintivamente, abbiamo pensato che potesse essere il suo giorno. Forse l'abbiamo sperato e, nello stesso tempo, ci siamo detti che, chissà, «forse verrà fermato per aiutare Dunbar». Non poteva essere, non doveva essere, ma non si sa mai, non è matematica, non è equazione. Non ci sarebbero delusioni, se lo fosse. Ma non ci sarebbe nemmeno la meraviglia. Converrebbe? No, per come la vediamo noi assolutamente no.

Allora ci siamo tenuti quel dubbio e, mentre pensavamo, dubitavamo, guardavamo quella maglia tricolore, guardavamo la brillantezza con cui Filippo Zana teneva la ruota di Thibaut Pinot, mentre gli altri accusavano il colpo, cedevano, zigzagavano. Che qui, in certe rampe, anche spostarsi da un lato all'altro è difficile, perché la strada è stretta, tutta all'insù, tocca continuare e subire, senza respiro. La certezza che sarebbe potuto succedere, ad un certo punto, è arrivata: sì, sono solo loro e Zana pedala così bene da cambiare il concetto di fatica, da far venire voglia di far fatica, di mettersi alla prova, anche se non si è al Giro d'Italia, anche sulla salita più vicina a casa. Però la mente accetta subito le paura, fatica ad accettare le cose belle, l'idea di felicità, allora altre domande, altre parole silenziose che si infilano in testa.

«Pinot non la perderà questa volta, è più veloce, ha già sbagliato una volta. Però che peccato! Che spreco non poter alzare le braccia dopo una giornata così, dopo un Giro così». Un Giro d'Italia che per Filippo Zana è una polifonia: più suoni e un'armonia. Eppure guardavamo in faccia Zana ed era sereno, convinto. "Mi ha tolto tanto la bicicletta, ma nonno diceva che quello che ti viene tolto, se insisti, in un altro modo, magari, però torna": l'abbiamo risentito mentre ci diceva così, in una serata accanto al mare di Spagna. Qui però siamo in montagna e la montagna stravolge le verità, fino a qualche minuto prima più solide che mai: il duello a distanza Roglič-Almeida insegna. Qualche giorno fa Almeida, oggi Roglič. Come rovesciare una clessidra. Avevamo già scritto qualche riga, avevamo deciso che, se non fosse andata come poi è andata, avremmo ricordato quelle parole a Zana, avremmo ricordato quella convinzione. Avremmo, forse, detto che, chissà, ciò che ti è stato tolto può tornare anche non sotto la forma di una vittoria, ma di grinta, di entusiasmo, di miglioramento, di crescita. Senza dubbio, è vero. Ma sembra una consolazione.

Invece no. Invece Zana è freddo, lucido, ha gli occhi della tigre, lo spunto del tempo che corre, le mani basse, a ruota di Pinot: quella maglia tricolore accelera e parte intorno ai centocinquanta metri, lo affianca, gli corre accanto, poi lo supera. Gioisce, vince. Ride, ma gli occhi sono lucidi, non è solo il sudore che cola, è un pianto sospeso. Nell'aria. Filippo Zana li libererà: al Giro d'Italia del 2020, pianse all'arrivo, pianse dedicando una fuga al nonno, una di quelle fughe che non era andata a buon fine. Oggi sì, oggi c'è una vittoria e Filippo Zana che, pur essendo lo stesso, è completamente diverso. Il destino degli uomini.

«Vedi? Avevamo ragione noi»: diciamo quasi per sfida alla mente e a tutti i dubbi. Lo diciamo alla mente e lo diciamo a noi stessi, un promemoria, per ricordarsi che anche l'istinto dice cose giuste, che va ascoltato. Il resto, viene da Filippo Zana che l'ha sempre saputo: le cose a cui teniamo possono succedere, ma, soprattutto, le cose a cui teniamo di più vanno fatte succedere. Non è detto che accada, non c'è sempre il lieto fine, siamo onesti, ma, se lo sappiamo, può essere. Le parole per Thibaut Pinot, stasera, non possono che essere queste.


Aspettare per vincere

«Ho vinto?» si chiede, sinceramente dubbioso, Alberto Dainese. Ha ancora il cuore in gola dopo uno sprint ai 70 km/h e non sa come comportarsi. Sono istanti lunghissimi per lui che non vince da oltre un anno. Sì, gli dicono, hai proprio vinto tu. Ci mette un secondo a realizzare poi urla, bacia i compagni, ringrazia Michael Matthews (che in conferenza stampa apostrofa col suo soprannome, Bling) che è venuto a congratularsi e alza le braccia al cielo.

Dainese ha vinto di mezza ruota su Matthews e di ancora meno su Milan. «Arrivare secondo sarebbe stato parecchio terribile», assicura in conferenza stampa, come se terribile e basta non rendesse l’idea. Per vari motivi non ha avuto la continuità che voleva e anche a questo Giro è sbocciato tardi: in certe tappe ha dovuto fare il gregario a Marius Mayrhofer, in altre era proprio cotto.

In quella di Bergamo, per esempio, svariate persone sulla Boccola hanno riferito di averlo visto aiutarsi nella salita, aggrappandosi a ciò che poteva. Per quel che mi riguarda, meglio così. Ricordo la tappa di Napoli, quando un Alessandro Verre a bagnomaria tra fuga e gruppo usufruì del bidon collé per tirare il fiato sul valico di Chiunzi. Un giudice in modo iniziò ad annotare sul taccuino e tutti, sulla macchina in cui ero lì accanto, pensammo: «Ma che cazzo scrivi, dai!».

A costo di sembrare una trasmissione radiofonica, copio e incollo un messaggio ricevuto da un’ascoltatrice del podcast GIRONIMO. Dopo la tappa di Bergamo, Allegra mi ha scritto che le è capitato «di essere vicino alla fidanzata di Dainese e la sua preoccupazione, emozione, distruzione nel vederlo al primo e al secondo passaggio mi ha sciolto il cuore». Dainese stava così male (problemi di stomaco) che è arrivato ultimo a quasi un quarto d’ora dal penultimo.

Di queste storie di redenzione, di uscita dal tunnel della sofferenza con una grande vittoria, non penso ne avremo mai abbastanza. Per questo sarebbe bello se l’ultima tappa per velocisti del Giro, a Roma, la vincesse Arne Marit. Ieri in lacrime all’arrivo, non si dava pace per una catena saltata al momento peggiore: «This is fucking… I have no words for this». Oggi cominciano tre giorni infernali, Arne. Tieni duro che prima o poi arriva.


La storia dell'acqua

Caorle, le sue case dai colori vivaci, le sue acque, il suo eco e l'eco di Venezia, è il luogo ideale per tornare a stare bene. Caorle e il colore della sua acqua è il posto ideale per essere attesi eppure sorprendere. Lo diciamo a noi stessi, lo diciamo a voi che ci leggete, lo diciamo ad Alberto Dainese e alla sua volata, a una linea del traguardo che speravamo arrivasse in fretta e allo stesso tempo avrebbe ritardato il suo arrivo solo per continuare a guardarlo lanciato a tutta, solo per gustare ancora lo spasmo dell'incertezza e lo sfogo della felicità. Dainese, Matthews e Milan, Milan, Matthews e Dainese, Matthews, Milan e Dainese: nomi girati, rimescolati, come l'emozione prima del verdetto, qualcosa che si rigira nello stomaco. Matthews al centro, la velocità di Dainese da una parte, la potenza di Milan dall'altra. Primo Alberto Dainese, dopo una bronchite, dopo un virus intestinale, dopo aver stretto i denti, sopportato le salite, i muscoli che sono leggerezza e peso se non si sta bene. Dainese che ha rischiato di perdere ed invece no. Dainese, acqua corrente, torrente scosso dal vento, marea impetuosa.

A Caorle, in questo borgo marinaro, in questa "piccola Venezia", ci siamo resi conto che, alla fine, i ciclisti hanno molto in comune con l'acqua che oggi è l'elemento della tappa, un sottofondo, una scia. Perché i ciclisti scendono dalle discese, come le sorgenti dai monti, risalgono le montagne come fontanili. Partono e ritornano, anche se vanno lontano, molto lontano: il ciclo dell'acqua che evapora con il caldo e torna con la pioggia. Le visite a parenti di Marco Frigo e Andrea Pasqualon paiono un fiume che torna nell'alveo, che viene accolto dalle sponde, che si sente a casa e ha sul volto quel "sorriso da italiano in gita" di cui parlava Paolo Conte, raccontando di Bartali. Ci sono le gocce, ribelli, anarchiche, le fughe, quella di oggi, di Champion, Leysen, Quarterman e Sevilla, i rivoli, coloro che non tengono il passo e si staccano ma continuano a correre, cercano un'altra terra. I ciclisti hanno un loro suono, una loro musicalità che, in fondo, somiglia a un sibilo, a uno sciabordio. Le maree risentono della luna, i ciclisti del cielo e qualcosa in comune c'è: del sole che segna sulla pelle il contorno degli occhiali, della pioggia che inzuppa maglie e pantaloncini.

Un velocista potrebbe essere una risorgiva, un fontanile, uno zampillo d'acqua che trova un varco e risale, fruscia e guizza. Guardate Dainese e Milan lanciati in questo sforzo, diteci se non è così. E se un velocista è una risorgiva, la volata è un'onda, in un mare mosso, dove la spuma delle acque è il movimento frenetico di uno sprint: ogni spostamento, ogni danza impazzita sui pedali, ogni volta in cui il velocista pare quasi prendere a sberle la bicicletta, ogni urlo per dire all'ultimo uomo di aspettare, ogni gesto dell'ultimo uomo, con la mano o con la testa per indicare dove passare.

La felicità di Alberto Dainese è la felicità dell'acqua: trasparente, semplice, incredula, genuina. Dell'acqua di una terra che conosce bene, dell'acqua di casa, di quella che disseta, rinfresca, talvolta riscalda. Cara, fresca e dolce, direbbe Petrarca. Orgoglioso, fiero, perché c'è fierezza. "Com'è triste Venezia se nella barca c'è soltanto un gondoliere", risuona Aznavour. Un velocista è sempre un gondoliere solo in barca, anche se ha un treno, importantissimo, anche se vince per pochi centimetri, anche se vive nel caos e lo domina, lo interiorizza. È sempre solo, perché l'ultimo passo, l'ultima onda deve metterla in solitudine. Un velocista è solo, come Dainese, primo su quel podio. Nella piccola Venezia che oggi non è per nulla triste.


Tutto ciò che chiediamo al Giro

Oggi - così iniziamo la partita a carte scoperte - non so proprio che scrivere. La giornata di ieri è cominciata in un luogo inatteso: casa mia. Ero lì perché la sera del giorno di riposo ho partecipato al rosario di un amico, un vecchio compagno di squadra. La sua morte, inattesa e tragica, ha gettato nello sconforto me e tutti coloro - davvero tantissime persone - che gli volevano bene.

Già il giorno di riposo stranisce, ma eventi del genere srotolano dai veli in cui la Corsa rosa avvolge chiunque la frequenti. Ho dunque chiesto ai miei compagni di viaggio di raggiungere autonomamente il Bondone: io sarei arrivato nel primo pomeriggio. Sono arrivato in cima che non sapevo nulla o quasi della tappa, né mi interessava granché. Avevo la testa da un’altra parte.

Guidando per le rampe del Bondone, osservavo gli occhi delle persone che, felici, pedalavano sull’ultima asperità di giornata in attesa dei corridori. Vorrei essere chiunque di loro, pensavo. Che non fossi esattamente centrato me lo fa capire con sonore suonate di clacson il furgoncino della Bardiani dietro di me: in un paio di tornanti ho rallentato fino a far spegnere il motore e il plotoncino di ammiraglie alle mie spalle non ha gradito.

Quando sono arrivato in cima, ho sbagliato direzione per dirigermi al quartier tappa e, in un attimo, mi sono trovato a due chilometri dalla sala stampa e dal suo buffet. Poco dopo si è messo a piovere. No dai, non è possibile. La prendo tutta, afferro due panini al volo, doppia cipolla, uno lo mangio l’altro si bagna. Arrivo finalmente davanti ad un televisore che mancano dieci chilometri.

Sono stati, finora, i dieci chilometri più belli del Giro d’Italia. Senza accorgermene, la Corsa rosa mi ha portato via, tra i lupi e gli orsi del Bondone, sotto le acque del Garda, tra gli amici miei a Traversetolo. E forse è questo, tutto ciò che chiediamo al Giro: di prenderci per mano, ogni tanto, e di condurci in una delle ultime città della fantasia.


Bota Lume

“Bota lume”. Potremmo anche dirlo in italiano: "Accendi il fuoco!". Ma così è più diretto, più simile a quello che si potrebbe gridare mentre il freddo stringe, immobilizza, rallenta. "Bota Lume” magari gridato da Charly Gaul, a qualcuno, in quell'8 giugno del 1956, nella bufera di neve che avvolse il Bondone, mentre gli tagliavano la maglia per togliergliela di dosso, ghiacciata, come il suo corpo. Ma Gaul era lussemburghese e "bota lume" non lo conosceva. Però scappava dal freddo, scalava per lasciarsi il freddo alle spalle, scattava per andare lontano da quella neve. Chiese un bagno caldo, il suo fuoco. João Almeida, invece, conosce bene "Bota lume”, sa il suo significato. Lo chiamano così, un soprannome che è un invito, un indole. Si legge "accendi il fuoco" anche nelle linee del volto, mentre si arrampica e porta avanti uno scatto infinito. Uno scatto che inizia ben prima del momento in cui si alza sui pedali e va. Si accende così il fuoco e presto si scopre che accendere il fuoco non è solo questione di freddo.

Il 23 maggio del 2023, tra l'altro, non c'è neve sul Bondone, ma una pioggia fine, che rende lucide le strade ed i muscoli, definendo ogni spasmo. Un flash: Filippo Zana che, dopo una giornata in fuga, ripreso dal gruppetto dei favoriti, fa il ritmo per Dunbar. Spalanca gli occhi, li chiude, apre la bocca, non sappiamo se gridi, ma un doppiatore esperto potrebbe inserire un suono, un urlo, in quel frammento di immagine e sarebbe perfetto. Le smorfie, le grida, sono un modo per "mettere a terra" la fatica. Sì, c'è anche una messa a terra della fatica, prima di lasciare. E si lascia svuotati, a zig-zag: vale per Zana, per Dennis, per McNulty, per Vine e per tutti gli uomini della Jumbo Visma che hanno fatto il ritmo per Primož Roglič. Questo intendiamo quando parliamo di scatti infiniti, scatti che iniziano prima di scattare, che litigano con ogni fibra di un muscolo, omaggio alla sofferenza. Di Bruno Armirail che prova a resistere e deve arrendersi, di tutti coloro che, in coda al gruppo, non sanno più cosa sperare: certe volte, forse, nello scatto più forte, che recide il legame e qualunque forma di fiducia nel ricucire. Perché anche credere è faticoso.
Le persone avvolte in una mantellina a bordo strada oppure sotto la pioggia, le persone che hanno già visto passare il Giro in un giorno in cui non è accaduto nulla di particolare, quelle che sono a casa e lo vedranno passare fra qualche giorno o, forse, l'anno prossimo sperano in uno scatto. «Bota lume, scatta, alzati sui pedali, accendi quel fuoco»: non a un ciclista in particolare, a tutti, perché lo scatto è un gesto universale. Quel fuoco brucia dentro anche a Formolo, che tira, impaziente: lui sa cosa c'è dietro le quinte, quello che ha in mente Almeida. Ma c'è ancora il sipario.

Scena. Strada stretta. Pioggia. In testa Almeida, veloce, più veloce, un passo indietro, una pedalata più lenta, un momento di controllo e scatta. "Bota lume”. Si accende lentamente la fiamma, ma scalda, fa metri, secondi, il fuoco è così: nei suoi colori che si intrecciano, spariscono e ritornano, nelle forme, nelle punte. Così è lo scatto di João Almeida, Kuss lo guarda, cerca di mantenere un'andatura costante, Thomas riparte, si riporta su Almeida. E qui che la verità si mostra, che l'elastico, teso, più teso che mai, si spezza: per Roglič non è la giornata buona. Venticinque secondi di ritardo per lui, da Almeida che supera Thomas. Geraint Thomas: la nuova maglia rosa. Quarto Damiano Caruso.
Non c'è neve, ma c'è un fuoco acceso sul Bondone. Un fuoco che non ha a che vedere con il freddo, con le fiamme, ma con la predisposizione, con la volontà. Con il caos in cui cercare la calma, con la calma in cui trovare il caos. Con l'idea che, a forza di fare sempre meglio, sempre il proprio meglio, verrà quel giorno. Che, a forza di aspettare, verrà quel giorno. Quel giorno che per João Almeida è anche oggi.