Storia di Elisa

La storia, in fondo, è nell'attimo in cui Elisa Balsamo vede con la coda dell'occhio Marianne Vos partita lungo le transenne. La storia è così, ci sei dentro ma per accorgertene davvero devi guardarla di sbieco, quasi da fuori e poi pensare a cosa fare. Partire, andare, sviluppare velocità, pura velocità, dimenticarti che i tuoi polmoni più di tanta aria non tengono. Davanti hai Marianne Vos, sai che l'hai già superata, giusto qualche mese fa, e ti sei messa addosso la maglia di Campionessa del Mondo, sai che superare Marianne Vos è sempre difficile e, anche se è già successo, in fondo, potresti non farcela. Serve coraggio per quella fatica, per quel vento, per quella storia, per partire e per partire serve sempre coraggio perché in volata non puoi tornare ed è sapere di poter tornare ciò che rassicura quando parti. Serve anche paura perché, se non avessi anche quella, non partiresti proprio.
Elisa Balsamo, di paura e di coraggio, è partita con la maglia verde addosso, per la prima volta in una volata al Giro d'Italia Donne. La prima volta eppure quante volate le abbiamo già visto fare? Ma in bicicletta si riparte e sono le prime volte a tenerti a terra. Elisa Balsamo di prime volte parla molto perché da lì passa la sua umiltà, quel sentirsi sempre uguale anche se le cose attorno cambiano. Quel sedersi davanti a un bar, da sola, ad aspettare di sapere chi ha vinto. Dopo quella rincorsa, dopo quel colpo di reni, quei secondi veloci che non finiscono più: per chi corre e per chi guarda. Perché le volate che sono tanto veloci, se ci pensate, sono molto più lunghe nella sensazione di chi osserva, di chi aspetta.
Lì, sul gradino, dopo aver fatto un altro testa a testa con Vos. Lì, su quel gradino soli, come si è soli quando ci si volta e ci si accorge che, per cambiare la tua storia, piccola o grande, devi partire. Anche se puoi avere tante persone accanto. Poi vinci, ti alzi gridando e abbracci chi arriva. Il ritorno, in una volata, è questa cosa qui. La prima volta è questa cosa qui.
La prima volta di una ciclista italiana che vince una tappa del Giro in maglia iridata e conquista la maglia rosa. Che è poi anche la storia. Tortolì, in fondo, sembra una parola da bambini, quelle parole dal suono quasi profetico, magico. Quelle parole che fanno accadere tutto in un attimo, solo perché lo vuoi.
A ventiquattro anni, sai che non funziona così e per la tua storia devi avere tutta la paura e il coraggio che servono. Lo sai, ti volti, guardi, parti e torni. Comunque sia andata; oggi è andata bene, oggi è storia.


Aveva indosso la Maglia Rosa

Non riusciva nemmeno a scendere dalla bici. Chi era lì in zona ha raccontato di averlo sentito urlare e pareva più dal dolore che dalla gioia. Forse un crampo, una contrattura, qualcosa che sarebbe poi passato qualche ora dopo. Dopo aver capito anche che razza di impresa si era inventato.
Dolore in tutto il corpo; quello che ti rende anchilosato e come un tutt'uno con la tua bici che hai portato a spasso, si fa per dire, per oltre cinque ore e per quasi cinquemila metri di dislivello. Come se in quelle cinque ore ti fossero passati sopra con un treno o avessi preso una malattia che non ti dà tregua.
Non ci credeva, all'arrivo, nonostante un modo di esultare che inizialmente hanno scambiato per presunzione, poi per fatica, quando semplicemente gli è uscito dalle braccia quel poco che gli era rimasto e aveva pensato di fare una specie di inchino.
Aveva indosso la maglia rosa conquistata poche ore prima grazie a un'azione in contrattacco, quella che ormai abbiamo imparato a conoscere dopo aver visto i primi successi in carriera. Che non sono mai stati banali.
Una Liegi Bastogne Liegi, ad esempio, quella in versione Under 23, si capisce, perché stiamo parlando di Leo Hayter, fratello minore di Ethan Hayter, nome già decisamente più evocativo alle orecchie di chi segue il ciclismo; Leo Hayter è invece il protagonista di questa storia; Leo Hayter che di anni ne deve ancora compiere ventuno e che nel giro di due giorni ha cambiato i connotati al Giro d'Italia dedicato ai ragazzi della sua categoria, ha ribaltato le gerarchie che vedevano in testa - sulla carta - i francesi Grégoire e Martinez; ha modificato il modo di narrare e raccontare di chi prova a mettere per iscritto le sensazioni di una gara come quella di ieri senza scivolare in facili entusiasmi ed esclamazioni tipo: "Incredibile!" oppure "mai vista una roba del genere"!".
Perché così è andata quando Hayter, dopo aver tenuto il ritmo di van Eetvelt sul Guspessa, coperto alla sua ruota insieme a Grégoire e inseguendo Lenny Martinez che pareva volare verso la vittoria di tappa e probabilmente l'ipoteca sulla classifica finale del Giro, insomma così è andata: Hayter, dopo il Guspessa, versante terribile che porta in cima al Mortirolo, verso la fine della discesa prima dell'ultima ascesa, ha lasciato la compagnia degli altrettanto giovani avversari, per inseguire Martinez. Gli ha recuperato i circa 2'30'' che aveva in cima e gliene ha rifilati altri 5'50'' in poco meno di 40 km che porteranno al traguardo, andando a vincere a Santa Caterina Valfurva in una maniera che ha pochi precedenti.
L'altro ieri, dopo aver vinto la tappa con arrivo a Pinzolo scriveva sui suoi canali social, in italiano, "Una bella giornata in Italia". Ieri, quando è arrivato, racconta la cronaca di Carlo Malvestio, inviato di Tuttobici, Leo Hayter ha esclamato qualcosa che si potrebbe riassumere in "P***a t****a, non ci posso credere" quando gli hanno detto che distacco aveva preso il secondo (Grégoire, 4'55'').
"P***a t****a, non ci posso credere" , davvero, espressione che accomuna chiunque abbia seguito una delle azioni più - qui aggiungete voi il termine - mai viste nel ciclismo giovanile.


Contava far parlare la bici

Primož Roglič: far parlare i fatti. Che sarebbe vederlo in bici sempre composto, agile, gli occhi che, man mano si sale e aumenta la fatica, gli diventano sempre più piccoli tra le orbite e con una forma che definiremmo a mandorla.
Citiamo il palmarès dello sloveno nelle corse a tappe perché più concreto di un elenco del genere resta poco per aiutarci a capire di chi e cosa stiamo parlando: 3 Vuelta, 2 Paesi Baschi, 2 Romandia, 1 Parigi Nizza, 1 Tirreno, 1 Delfinato (quello vinto ieri), 1 Uae Tour, mettiamoci dentro anche 2 Slovenia, visto che è la corsa di casa sua.
I fatti sono che arrivava al (Criterium del) Delfinato con più di un punto interrogativo per un problema fisico, qualcosa tra muscolo e ginocchio, qualcosa che ci faceva dire: non è lo stesso Roglič delle ultime stagioni, ma se qualcuno avesse avuto dei dubbi, quei dubbi sono stati fugati.
Ciò che contava era far parlare la bici, la cadenza a tratti assurda di pedalata in salita, il controllo totale da parte della sua squadra in corsa. Nelle ultime due frazioni di un Delfinato francamente bruttino e niente di più che di preparazione al Tour, Roglič cercava risposte; le cercava dal suo fisico, le cercava da dare a se stesso, perché poi è questo che conta principalmente; risposte da dare alla sua squadra perché c'è quel diavolo di un danese che spinge forte.
Verso Vaujany, mentre Carlos Verona si involava verso la prima vittoria dopo una lunga carriera spesa a essere gregario (quasi) di lusso, o fugaiolo in appoggio ai capitani, Roglič attaccava (seppur tardi per lo spettacolo, ma tant'è); attaccava tanto quanto bastava per farci temere un'altra situazione Roglič-Mäder, attaccava tanto quanto bastava per farci capire. Attaccava per leggersi dentro: ci sono, avrà pensato. Non al meglio, ma ci sono. Sono in crescita e al Tour ci sarò come volevo esserci. E così via.
Ieri verso il Plateau de Solaison di nuovo Vinegaard e Roglič a completare una giornata super di una vecchia conoscenza come Kruijswijk che in pochi chilometri si conquistava un posto tra gli Jumbo-Visma per il Tour, e non è che sarà una cosa di poco conto esserci visti gli altri sette a completare la squadra, oltre appunto al buon vecchio e caro corridore che in Francia chiamano "Le Cintre", ovvero l'appendiabiti, la gruccia. Corridore che trasmette simpatia amplificata ripensando a quella caduta in maglia rosa al Giro di qualche anno fa, in mezzo alla neve.
Beh, dopo l'opera kruijswijkiana, andava via la coppia sloveno-danese, così diversi, ma che saranno uniti dall'obiettivo di provare a battere l'altro sloveno sulle strade del Tour. «Io ci credo, proverò a vincere il Tour. Se ripenso al Ventoux del 2021 quando staccai Pogačar... so che posso farcela» ha detto Jonas Vingegaard a fine tappa ieri, dove per un attimo, forse qualcosa in più, misurabile in diverse centinaia di metri verso il traguardo, è parso persino rallentare per non mettere in difficoltà Roglič. «Al Tour partiremo alla pari» ha aggiunto.
Una prova di forza della squadra che sarà uno dei temi fondamentali fra qualche settimana: «Per quello che abbiamo fatto vedere qui, meritiamo di essere la squadra favorita in Francia», ha aggiunto il vincitore della maglia gialla ieri. E forse grazie a questi due e alla Jumbo Visma la corsa potrebbe restare aperta. La corsa potrebbe essere bellissima.


Tre carte

Nel ciclismo, si potrebbe scrivere molto sulle partenze. Non solo di un viaggio o di una tappa. Si potrebbe scrivere molto sulla partenza dei ciclisti quando, come in ascolto di un richiamo ancestrale, aumentano la velocità e cercano di segnare un varco su chi li segue. Ci si potrebbe chiedere, e in un certo senso ce lo chiediamo, quale sia l'esatto momento in cui l'istinto faccia scattare il desiderio e quanti millesimi di secondo ci vogliano perché dal pensiero si passi all'azione.
Pensiamo a Elisa Longo Borghini allo Women's Tour in questi giorni. Quell'istinto, tramutato in desiderio e poi in levata sui pedali e scatto, partenza, lo ha ben messo in mostra e guardandola viene da chiedersi quanto prima parta nella mente lo scatto che tutti poi vediamo. Certe volte è bello provare ad indovinarlo prima che si manifesti nella realtà. Quasi a dire "Adesso parte" e vedere che, sì, parte proprio adesso.
Non diciamo indovinare a caso, lo diciamo perché l'ordine d'arrivo di oggi alla Black Mountain e di ieri a Welshpool assomiglia a quel gioco delle tre carte, in cui bisogna indovinare dove si trovi una precisa carta scelta: al centro, a destra o a sinistra. E per indovinarlo devi affidarti a ciò che vedi, oppure, quando la mano è troppo veloce, a ciò che pensi. Quelle mani che muovono le carte, somigliano alle gambe dei ciclisti, al loro rimescolarsi in gruppo, all'abilità, all'equilibrismo e persino alla fortuna. Quelle mani sono l'istinto delle gambe che fanno girare i pedali e delle braccia che dirigono il manubrio.
Ieri Elisa Longo Borghini aveva mosso quelle carte, in una tappa che non avrebbe dovuto muovere la classifica generale. Aveva svegliato la corsa, era poi partita decisa con Grace Bown e Kasia Niewiadoma. Troppo presto, forse. Brown, Niewiadoma, Longo Borghini aveva detto l'ordine d'arrivo. Oggi, nel verde della Black Mountain, lo ha rifatto, partendo convinta, sui pedali, come ieri, e con una strada che tira all'insù. Come quella mano: destra, centro, sinistra e poi ancora sinistra, centro e destra. Dritta fino in fondo, fino al traguardo, poi braccia in alto, velocemente e ancora giù: Longo Borghini, Niewiadoma e Brown.
Quanto tempo prima è partita quella partenza, nella sua testa? Ora, riguardando il video, sembra quasi possibile intuirlo, per un movimento, una sensazione. Ci proveremo ancora nei prossimi giorni, nelle prossime gare. Quel che conta è che oggi tutto è stato perfetto, come le mani di chi getta le carte o, fuor di metafora, il ciclista che parte. Elisa Longo Borghini ha vinto.


Quel traguardo che sembrava non arrivare mai

Ce lo dicano che si sono inventati un giochino per rendere appassionanti le tappe da volata: procrastinare il tentativo di chiusura sui fuggitivi; fare finta di nulla fino a quando ci si accorge che quelli davanti possono arrivare davvero, e da lì iniziare ad accelerare mettendo magari davanti pezzi da novanta come Ganna e poi cercare di rientrare sul rettilineo finale.

Ce lo dicano perché così sappiamo di tenerci liberi anche quei pomeriggi da passare all'apparenza con il volto disteso, invece di stare qui a digrignare i denti con le pulsazioni a mille perché vorresti vedere arrivare la fuga, ma in realtà ti piacerebbe anche vedere lo sprint del gruppo. E tutto questo ti manda in confusione.

Va così (anche) oggi al Delfinato, ma sembra ormai la nuova routine: gruppetto in fuga, vantaggio che non cresce mai a dismisura, ma quando i chilometri alla fine diminuiscono il vantaggio è tale e quale a prima, anzi a un certo punto aumenta.

Alla fine si sono dovuti mettere giù a tirare pancia a terra Ineos - Ganna, De Plus e Kwiatkowski - e una mano pure dalla Jumbo con Kruijswijk finché ha potuto, e poi Benoot, per riprendere i quattro.

Prima di quel finale pirotecnico: van Aert che sembrava non partire più, lanciato da Laporte, ma poi parte lanciato per fermare Thomas (Tomà) a 100 metri dal traguardo come a dirgli "qui comando io", e quel traguardo che sembrava non arrivare mai fin quando alle sue spalle si è materializzato Meeus, colosso in maglia BORA, e allora all'improvviso la linea è apparsa sotto le ruote dei corridori.

E van Aert ha vinto. Fatto non banale visti i secondi posti di questi giorni, fatto che va ad aumentare una statistica ormai vanaertiana: circa 2 corse su 3 chiuse sul podio in questo 2022. 5 vittorie in 19 giorni di gara, e al Delfinato: 1°,6°,2°,2°,1°. Semplicemente roba da van Aert, in giallo limone con quel casco di un altro colore che lo fa sembrare quasi pittoresco.


Una fuga sul promontorio

A riassumere la quarta tappa dell’Adriatica Ionica Race ci ha pensato uno spaesato Emil Dima all’arrivo: «abbiamo andato forte tutto il giorno e abbiamo rimasti in pochi molto presto». Il giovane fuggitivo rumeno usa il verbo avere per qualunque forma verbale e non sa se secondo e terzo classificato debbano andare sul podio. Lo vorrebbe chiedere a qualcuno della sua squadra ma non nota nessuno. Sul volto si scava una smorfia di disappunto, infantilizzata dall’apparecchio ai denti e dall’evidente voglia di salirci, su quel palco delle premiazioni, perché è «la prima volta che vado sul podio in Italia, un paese che mi ha dato tanto».
Sul traguardo di Sirolo, tra la chiesa di San Nicolò da Bari e la terrazza vista Conero, un marchigiano d’adozione mastica amaro. Stava benissimo oggi e «forse il problema era proprio quello», rivela Antonio Nibali tenendo lo sguardo basso. «Ho esagerato un po’ e gli altri ne hanno approfittato» rimugina, mentre gli torna il sorriso solo parlando di Filottrano, comune in cui si è trasferito più di quattro anni fa: «È stata un’emozione unica. C’era mia figlia, l’ho salutata. Proprio bello».
Come buona parte delle tappe marchigiane, anche questa ha spezzato presto il gruppo e la strada ha imposto selezione. Un finale mosso tra Recanati, Camerano e Sirolo è stato teatro di attacchi continui sia davanti – i fuggitivi sono arrivati uno a uno – che dietro, dove i tre tenori della classifica generale – Zana, Tesfatsion e Pronskiy – sono arrivati assieme dopo diverse mazzate.
A spuntarla per la vittoria di tappa, alla prima volta in una corsa professionistica, un venticinquenne che professionista vorrebbe tanto diventarlo: Riccardo Lucca ha già un palmarès ricco, è stato stagista alla Gazprom l’anno scorso, ma corre ancora tra i dilettanti.
Oggi in fuga è riuscito a battere veterani di lungo corso come Nibali e Battaglin e quando gli chiedo se questo dà un sapore speciale alla vittoria parla del lavoro fatto per arrivare a giocarsela («sono stato in fuga tutto il giorno e non mi sono mai tirato indietro dal collaborare») e del momento in cui i fuggitivi diventano l’uno avversario dell’altro («fa parte della tattica anche questo»).
È arrivata la fuga sul Conero, ma ad alzare le braccia al cielo è sempre e solo uno.


Quel finale a suo modo iconico

Chissà che faccia avrà fatto Taco van der Hoorn, primo ieri alla Brussels Classic, vittoria ottenuta picchiando sulle spalle come fosse un vecchio batterista tutto muscoli, sudore e boccacce, quando gli hanno detto di essere diventato fonte d'ispirazione per i corridori in gruppo.
Oggi, nella seconda tappa del Critérium du Dauphiné, è arrivata la fuga e chi ha vinto ha dichiarato proprio di aver pensato a lui e a quel finale a suo modo iconico. Il gruppo ha dormicchiato e sbagliato i calcoli, forse per sopravvalutazione dei propri mezzi, vuoi perché in vena di regali (si dice spesso così, mah...), vuoi perché chi sta davanti all'aria ha la capacità di gestirsi e mezzi atletici importanti e spesso le differenze stanno nei dettagli. E spesso quei dettagli sono così impercettibili che la differenza tra inseguitori e inseguiti è minima. Ci sono altri motivi, ma non ci interessano.
Ci interessa che quei cinque sono arrivati e Alexis Vuillermoz, uno di quelli lì davanti, ha superato e battuto Le Gac che provava la sparata ad anticipare coloro che avevano anticipato il gruppo 150 km prima.
«Ero convinto che saremmo stati ripresi, e poi quando è scattato Le Gac pensavo di averla persa. E allora ho iniziato a pensare a quel corridore della Intermarché, in quella gara di ieri. Lui non si è mai arreso: perché avrei dovuto fare lo stesso io? È andata bene». Benissimo.


L'ultimo giorno al Giro

L'ultimo giorno è proprio ciò a cui pensi quando parli di ultimo giorno. Un misto di gioia e malinconia. La gioia di chi vince, della sua squadra, la gioia di chi due anni fa aveva perso il Giro d'Italia proprio all'ultimo, Jai Hindley. Oggi aveva un vantaggio tale da non avere più paura. Nemmeno degli spettri che ti possono prendere la notte quando cerchi di prendere sonno.
L'ultimo giorno è la gioia di chi finisce per una sera di far fatica, sapendo che domani mattina potrà dormire qualche ora in più. Vale per il gregario e per il capitano. Vale per chi porta avanti il gruppo e magari vorrebbe fermarsi a bordo strada. Per chi si guarda dentro mentre pedala e chi trova la forza di fermarsi a fare l'occhiolino a un piccolo tifoso come fa Dries De Bondt in piena fatica sul Passo Fedaia.
È l'ultimo giorno di Jakko Hanninen, finlandese, non è il più giovane al via, ma se lo vedi ti verrebbe qualche dubbio. Dice di aver apprezzato questo Giro in particolare per il caldo: «Anche se arrivo dalla Finlandia e allora tutti pensano che mi piace il freddo. Ma per me il caldo è come stare in una sauna. E io amo la sauna».
L'ultimo giorno è la malinconia: di e per Vincenzo Nibali. Viene quasi un groppo in gola a pensare che non ci saranno più altri Giri d'Italia; un po' per lui, un po' per noi. Il ritiro di un corridore del quale si è vista tutta la parabola. Il segno di un momento che finisce. Delle rughe che avanzano e degli acciacchi che aumentano. Ha fatto un'epoca Nibali, ha dato spettacolo e ribaltato. Oggi - salvo ripensamenti – è stato il suo ultimo momento al Giro. Dura da scrivere.
L'ultimo giorno è la gioia ripensando a van der Poel su queste strade: non si è mai sottratto dall'idea di dare spettacolo. L'ultimo giorno è quello che riempie Verona di transenne, di gente e colori nonostante il grigio del cielo; riempie l'Arena di musica tamarra e urla a ritmo, c'è pure quella macchia gialla sudamericana che se ne frega e allora è tutto un grido: “Carapaz! Carapaz! Carapaz!”
L'ultimo giorno è quel misto di sentimenti: la gioia di chi torna a casa, ma con quella punta di malinconia che prende sempre al termine di un viaggio: corridori, massaggiatori, autisti, cuochi, fotografi, giornalisti, addetti stampa, chi da dietro si muove per portare a buon fine il circo e a portare in giro il Giro con tutto il suo baraccone.
L'ultimo giorno è quello del podio: Hindley, lo abbiamo detto, smetta di avere paura del buio, questo è il suo giorno e di tutta la BORA-hansgrohe che si traveste di rosa in mezzo al pubblico dell'Arena. Per il suo ultimo giorno c'erano la famiglia e la sua ragazza in mezzo al pubblico. Scavalca le transenne, mentre l'Arena ribolle, e va da loro dopo aver appena concluso la sua prova. È l'ultimo giorno di Carapaz, mai troppo brillante, ma tornerà e vincerà quando vorrà nuovamente giocare di fantasia come in quel 2019. L'attendismo non è roba che gli appartiene. L'attendismo è roba che è appartenuta troppo agli uomini di classifica in questo Giro.
L'ultimo giorno è quello di Sobrero che aspettava da tempo una vittoria così; è quello di Verona, di nuovo, che al tramonto della corsa smonta le transenne e domani non le rimetterà da nessuna parte. Oggi è stato davvero l'ultimo giorno del Giro.


Un ananas al gusto punk

Ieri avevamo visto Dries De Bondt lungo la strada che portava in cima al "Menador". Erano passati diversi minuti da quando il suo capitano van der Poel finiva di dare spettacolo. Lo abbiamo fotografato mentre mostrava fiero e divertito un'ananas che gli aveva passato un ragazzo che si fa chiamare "il cuoco in bicicletta". Scontato dirlo: segue il Giro vestito da cuoco e sale su in bicicletta.
Oggi Dries de Bondt ha mostrato il petto sul traguardo di Treviso. Ieri un'ananas, oggi il mondo, parafrasando o forse meglio dire omaggiando in qualche modo i Ramones. Per via del gusto punk con cui la Alpecin (van der Poel, Oldani, De Bondt: tre successi al Giro per loro e tanto spettacolo anche fuori dal contesto gara) sta condendo la Corsa Rosa edizione 2022. Avanguardisti più che elementi di rottura, proiettati, a livello di comunicazione, nel futuro.
De Bondt è esattamente uno di noi. Si ferma a parlare alle transenne per decine di minuti con i tifosi; lo trovi in cima al Menador che porta in giro un'ananas come fosse un amatore e il giorno dopo va in fuga e vince.
Nei giorni scorsi Filippo Cauz ci raccontava di aver visto il corridore belga - corridore di grande livello - al termine della sua fatica nell'ultima tappa del Giro 2021, dall'altra parte delle transenne: si era messo al tavolino di un bar a chiacchierare.
E Dries De Bondt chiacchiera e poi lo vedi in fuga, come oggi, con Affini che al termine della tappa si va a congratulare con lui che lo ha battuto di un niente nonostante si possa dire come, se la fuga è arrivata al traguardo, una percentuale di merito è del corridore della Jumbo Visma, che quando tirava, dilatava il tempo tra i fuggitivi e il gruppo.
Va in fuga De Bondt, le fughe senza speranza, senza una ragione. L'altro giorno sembrava andare via così per fare, è stato ripreso a 700 metri dall'arrivo. Era da solo: «le fughe delle cause perse» le ha definite.
Oggi quella fuga è andata in porto e Dries ha vinto. Con quel sapore punk e la mente che va subito a quella foto di lui con un ananas in mano che è già simbolo del Giro 2022.


Elogio al Vanderpoelismo

Ci risiamo e non ce ne voglia nessuno: gli altri pedalano, mentre Mathieu è il ciclismo. Tempo fa qualcuno lo definiva vanderpoelismo. Abbiamo esagerato? Esageriamo volentieri.
Lo state vedendo a questo Giro? Attacca ogni giorno. Non vince? Chi se ne frega. Oh Mathieu, Mathieu, scusaci per la confidenza, ma quanto ci stai facendo divertire?!
Oh Mathieu, Mathieu, oggi più passavano i chilometri e più prendeva forma una cosa che pareva impensabile. Al diciassettesimo giorno di gara, che poi fanno praticamente venti, stavi per vincere una tappa di montagna. Non avrai mica tra le tue doti persino il recupero? Non avrai mica strane intenzioni per il futuro? Provocazione che arriva da diverse parti: e se un giorno disegnassero un Giro per te (e van Aert)?
Oggi non hai vinto? È come se avessi vinto.

Ma che motore hai? Stai facendo ricredere gli scettici, quelli del "ma tanto viene qui, vince una tappa e torna a casa". Non è nel tuo stile, quello che ti ha insegnato nonno Poulidor. Come invece è nel tuo stile concederti sempre nelle interviste prima e dopo la gara; fermarti alla partenza a firmare autografi e a sorridere ai tifosi. L'altro giorno dopo la tappa di Torino abbiamo visti due ragazzini inseguirti letteralmente dietro le transenne. Correvano in ciabatte e urlavano "Mathieu, Mathieu!". Ti sei fermato. L'altro giorno sul Santa Cristina hai avuto la lucidità di impennare e sorridere. La gente dopo il passaggio dei primi aspettava quel momento.

È nel tuo stile prendere il manubrio e strapazzarlo. Generoso in fuga – pure troppo- oggi la rinfrescata arrivata sin dalla sera prima sul percorso sembrava farti volare sulle salite. Tu, un ciclocrossista, un cacciatore di classiche, con quei dorsali e quel peso, sembravi all'improvviso come fatto per scalare le montagne. Hai rischiato in discesa, dove hai costruito parte della tua tappa e dove hai rischiato di chiudere anzitempo la giornata. Hai salvato quell'errore in curva, ma non si capisce ancora come.

Oggi hai attaccato, scusa volevamo dire, anche oggi hai attaccato. Era una tappa di montagna e pensavamo rimbalzassi all'indietro. “Indovinate chi c'è in fuga anche oggi?”. Ormai il ritornello all'ora di pranzo quando si cerca di capire chi è scattato e chi è davanti. La tua maglia verde con casco bianco e l'inconfondibile sagoma è sempre lì a prendere vento in testa al gruppo. Pensavamo fosse un altro dei tuoi tentativi "tanto per dare spettacolo". E invece.
Hai dato spettacolo, ma hai rischiato pure di portare a casa la tappa. Mica una qualunque. C'era una salita col nome fantasy, Menador, con una vista impagabile sul lago, Caldonazzo, c'erano le rocce che sfioravano la testa dei corridori e ammaccavano i camper dei tanti tifosi saliti fin su.
Ci hai provato e ti sono mancati pochi chilometri, ma chi se ne frega, dai.
Al traguardo erano tutti senza parole, un gruppo di giornalisti sudamericani si è scaldato quando ha visto partire Buitrago, degno vincitore oggi, eppure anche dentro di loro è rimasto quel piccolo rimpianto per non averti visto davanti a tutti sul traguardo. Oggi, Mathieu, non hai vinto. Domani, Mathieu, cascasse il mondo, ci riproverai.