Fatica, illusioni, Pello Bilbao

È difficile immaginare due partenze di tappa più diverse dalla prima e la seconda del Tour of the Alps 2022: nella prima si è passati velocemente dai 670 m.s.l.m. di Cles ai 190 di Trento, un falsopiano tendente alla discesa per una quarantina di chilometri. Nella seconda tappa, invece, si parte con il Passo Rolle: 20.8 km al 5.9% di pendenza media ai quali bisogna arrivare caldissimi. Al contrario di ciò che il meteo ha predetto per settimane, è una bellissima giornata di sole e i ciclisti preparano il brusco avvio di tappa in svariati modi. La BORA-hansgrohe ha piazzato i rulli lungo il fiume e tutti pedalano assieme, Omar El Gouzi della Bardiani si aggira nel parcheggio sorridente, fermandosi solo per salutare qualcuno del Tirol KTM Cycling Team, sua ex squadra.
Quando mi avvicino a Márton Dina, ciclista ungherese della Eolo-Kometa, mi dice che già si immagina cosa sto per chiedergli: della Grande Partenza del Giro da Budapest. Mentre mi parla delle sue aspettative e della stagione, è rimasto solo nel fare i rulli. Ha il fiatone perché aumenta l’intensità fino a sudare copiosamente. Toglie l’asciugamano dal collo per passarlo sulla fronte e con rispetto mi fa capire che, se la smettessi di fare domande, sarebbe meglio. Tra poco si parte.
Parte anche il media shuttle in direzione dell’arrivo, Lana. Iniziato il Passo Rolle, una sagoma piuttosto riconoscibile si palesa tra un tornante e l’altro: Chris Froome ha deciso di scaldarsi sulla salita stessa. Caldo dalla giornata precedente, in cui la volata era valsa solo per il secondo posto, invece, era Pello Bilbao: ha messo di nuovo la squadra al lavoro e ha fermato Hermann Pernsteiner, furbo ad entrare nella fuga e a fermarsi proprio per permettere al gruppetto di Bilbao di ricucire lo strappo.
La Bahrein ha dominato la corsa, tanto che nell’ultimo chilometro Buitrago e Landa hanno lanciato la volata di Bilbao: «A Landa ho detto di andare a sinistra che io sarei andato a destra», spiega Pello in un italiano spagnoleggiante. Bilbao sembra aver raggiunto un nuovo livello: «tutti gli anni vado al Giro con l’illusione» di poterlo vincere, quest’anno magari è la volta buona.


Scappare

In “Le miniere di Primiero”, un volume curato da Sandro Gadenz, Marco Toffol e Luigi Zanatel, si racconta di tante leggende legate all’attività mineraria, che in queste valli è iniziata nel XIV secolo. Una in particolare è simile alla tappa odierna, la prima del Tour of the Alps, da Cles a Primiero San Martino di Castrozza: la notte di Natale, dice la leggenda, la montagna si apre, mostrando ai passanti inestimabili tesori. Bisogna però ricordarsi di andarsene, di scappare, prima che il ventre della roccia si richiuda al dodicesimo rintocco di campana.
Il libro è aperto alla fruizione di tutti coloro che salgono verso il Palazzo delle Miniere. Da quassù, si gode di una splendida vista sul traguardo e su Fiera di Primiero, sede di un comune che ha inglobato anche San Martino di Castrozza.

Al primo passaggio sotto lo striscione d’arrivo, due bambine vestite d’altri tempi incitano Geoffrey Bouchard, che, come insegna la leggenda, è uscito appena in tempo. Non doveva nemmeno andare in fuga («avevamo tante possibilità oggi, poi mi sono trovato in fuga e ho tirato dritto»), non era del tutto soddisfatto («Ben Zwiehoff ha dato troppo sulla prima salita, ma anch’io ho fatto alcuni errori») e non era sicuro di vincere fino all’ultimo (ha capito che non lo avrebbero più preso «solo negli ultimi duecento metri»).
È evaso dal gruppo con un po’ di fortuna, ha attaccato dal gruppo di testa al momento giusto, per una manciata di secondi ha resistito al furioso recupero guidato dalla Bahrain-Victorious.
Il tempo è una bestia strana nella vita di Geoffrey Bouchard: è lui stesso in conferenza stampa a ricordare che «da giovane non ho mai corso per la Nazionale. Ho fatto l’università, ho lavorato alla Decathlon, poi ho chiesto ai miei genitori di mollare tutto e provarci col ciclismo».

È passato professionista nel 2018, a 26 anni; fino ad oggi contava zero vittorie. Ci era andato vicino tante volte, anche vincendo due classifiche di miglior scalatore in Grandi Giri (Vuelta ’19, Giro ’21): oggi, dalla miniera del gruppo, è scappato al momento giusto.

 


La bellezza di una giornata all'inferno

La bellezza, per definizione, è qualcosa di soggettivo. Il fascino, l'eleganza, attraggono osservatori e ammiratori che ne rimangono colpiti. La Paris-Roubaix di oggi, soleggiata e polverosa, quasi perfetta, è un brutale inno alla bellezza, ma non c'erano dubbi. Parlavamo di definizioni: questa corsa pare abbia intriso nel suo significato il concetto di bello.
Emblematico il suo vincitore: Sua Eleganza van Baarle, per quel modo che ha di pedalare e muoversi in gruppo, di stare in bicicletta. Un tutt'uno armonico, affascinante, cadenzato. Preciso, nato insieme al suo mezzo.
Quando lo vedi accelerare rimani a bocca aperta. Appare tranquillo. Alto, ma aerodinamico, potente, ma leggero. Quando attacca, oggi, e lo fa più di una volta prima dell'azione decisiva che lo porterà a conquistare la corsa, sembra rallentare - a un certo punto sembrava avesse forato - e invece spinge e stacca chi, alla vigilia, partiva con l'idea di entrare prima di lui nel velodromo di Roubaix. Spinge e non lo rivedono più.
A rendere riconciliante la bellezza di una corsa che di suo non avrebbe bisogno di aggiunte di alcun genere, ci ha pensato la sua squadra. Quando pensi di aver visto Roubaix di ogni tipo, la Ineos ti ricorda che si può osare. Si possono aggiungere altri ingredienti rendendo 5 ore e 37 minuti di corsa una caduta in apnea.
Attacca, la Ineos, quando mancano 210 km all'arrivo, quando al primo settore di pavé un'ora e mezza. Davanti tirano a turno Turner (menzione speciale: primavera fenomenale la sua), Sheffield, Ganna, Rowe, Wurf; van Baarle ogni tanto dà qualche cambio, gestisce insieme a Kwiatkowski, e lo vedi, pulito nell'azione, come all'arrivo, pulito ma con la faccia impolverata. Senza ombra di dubbio il più forte oggi, come spesso è stato il più bello da vedere.
E forse a qualcuno può restare l'amaro in bocca per non aver goduto di una sfida epocale tra van Aert - prima o poi riuscirà a superare senza un problema Arenberg? - e van der Poel che raschia il barile, ma non è il solito van der Poel. A qualcuno può restare l'amaro in bocca per non aver celebrato Ganna fino alla fine, dopo averlo visto -Arenberg compreso - domare le pietre come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Il messaggio di Ganna è chiaro: tornare qui e provare a vincere. Oggi è stato messo qualche tassello.
La bellezza, tremenda, brutale bellezza, oggi è in Davy che è il primo a cadere, e col corpo tumefatto dà una mano ai suoi compagni di squadra nel tentativo di ricucire sui primi. È Askey, il più giovane all'arrivo, che va avanti e chiude 42° nonostante le ginocchia insanguinate.
È Mohoric che coglie ogni attimo possibile per provare ad anticipare e vincere una corsa che sembra non amare i padroni. In Lampaert che sfiora un tifoso e cade non c'è alcun tipo di bellezza, ma ci ricorda che questa è la Roubaix e fatti di questo genere sono dietro ad ogni curva. Pichon e Devriendt sono la bellezza di una corsa che, quando si è capaci di cogliere il momento, può donarti una giornata indimenticabile.
La bellezza, ovvero, la Paris-Roubaix. Perché non c'è corsa più fuori dal mondo. Se poi ci regala quasi 6 ore così, non si può davvero chiedere altro a questo Inferno.


Uno splendido giro in bicicletta

Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio in cui Elisa Longo Borghini decide di accelerare e andare via da sola. Mancano trentatré chilometri all'arrivo e nella sua testa un progetto folle: arrivare, da sola, nel velodromo di Roubaix.

Difficile trovare le parole e magari aiutateci voi nei commenti, altrimenti ci facciamo supportare da qualche foto, oppure, dopo aver ripreso fiato, guarderemo e riguarderemo la corsa centinaia di volte come si usa fare con un bel film, di quelli che non vorresti mai terminare e che alla fine hai imparato a memoria.
Siamo deboli. Di cuore. Siamo inclini all'emozione. Siamo pieni di retorica. Questi sono quei momenti in cui ci concediamo qualcosa; le parole vengono fuori di getto come un'azione di Longo Borghini sul pavé. Superlativi. Eccessi di gioia e di foga. Non riusciamo a stare fermi.

Abbiamo avuto più di un sussulto. Quando Elisa Longo Borghini prendeva male quella curva dentro Camphin-en-Pévèl, settore numero 5, uno di quelli decisivi. Oppure ci si è stretto il cuore quando Kopecky da dietro faceva il forcing sul pavè e il distacco per un attimo era di poco superiore ai dieci secondi.

Difficile trovare parole quando il traguardo si avvicinava ed Elisa non smetteva mai di spingere il rapportone. Lei aveva male alle gambe? Noi avevamo male alle gambe. Lei aveva male alle braccia? Noi avevamo male alle braccia. Non riuscivamo a trovare pace. Dai, traguardo, arriva, avrà pensato lei. "Dai traguardo, arriva!" ci siamo detti noi.
Giornata blu. Cielo caldo. Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio passato a spingere Elisa Longo Borghini, partita mentre sulla sua destra il Moulin de Vertain a Templeuve era vestito con i colori della Roubaix.

Tutto intorno i tifosi spingevano le atlete che in qualche modo facevano rotolare le loro ruote sulle pietre infide della Regina delle classiche.
Siamo senza parole. Come Elisa Longo Borghini a fine gara: non ci crede o forse ci crede più di tutti noi. Tranquilla ai microfoni come dopo una bella pedalata. «E pensare che nemmeno ci volevo venire qui. Sono stata poco bene, non avevo intenzione di fare la comparsa, ma la squadra ha insistito». Vieni, attacca e vinci, le hanno detto.
Tranquilla, Longo Borghini, come dopo una bella pedalata nella storia di questo sport. Entrata direttamente dal varco che porta all'Inferno del Nord. Oggi, così polveroso da sembrare un paradiso in terra. Grazie Elisa Longo Borghini per lo splendido giro in bicicletta.


Rottura di nervi

È vero che una corsa di bicicletta, a questi livelli, non è come fare sciambola, direbbero a Milano. Divertirsi in modo sfrenato, fare baldoria. Nemmeno se sul podio in premio c'è un enorme boccale di birra. È intrinseco proprio nell'atto del pedalare dover fare fatica per vincere, o semplicemente per arrivare.
Certo, vedendo Mathieu van der Poel il più delle volte, potremmo essere smentiti, anche se oggi, dato pure il volto un po' incupito all'arrivo e le sue parole - «Abbiamo rischiato ma ci è andata male» - ci sentiamo dalla parte della ragione nel sostenere questa tesi.

L'Amstel Gold Race, poi, è tutto fuorché un divertimento, almeno per chi la corre. Un continuo e snervante susseguirsi di strappi, curve, rilanci, cadute, frenate, corridori che si arrotano, incidenti, attacchi, crolli improvvisi. Insomma, tutto il campionario che una corsa al nord si porta appresso. Pietre o salitelle, côte o berg, poco cambia.
E quindi? Proprio perché il ciclismo ha in sé tutti gli aspetti del dramma, siamo costretti a vivere finali di questo genere? Non bastava così? Per un attimo ci rivolgiamo proprio a te, ciclismo, nella fattispecie a te, Amstel Gold Race: non ci tieni proprio alla salute dei corridori e al cuore degli spettatori? L'ultimo chilometro, anche oggi come già qualche giorno fa al Fiandre, è da vivere con i nervi a fior di pelle, per chi guarda da casa che non sa stare fermo, per chi è davanti e si gioca la vittoria, perché non sa mai qual è il momento migliore per partire, o la posizione migliore, perché se rallenti dietro ti prendono, però non vuoi nemmeno favorire il tuo avversario.

Oppure per chi da dietro insegue. Frena per risparmiare qualche prezioso grammo (si misurano in grammi?) di energia; sta al vento e chiede il cambio che non gli viene dato e poi parte qualcuno di lato e bisogna fare un altro sforzo per andargli dietro e così via.
Ciclismo sei crudele, Amstel Gold Race sei beffarda. Noi non vorremmo essere nei panni di Cosnefroy. Anche quest'anno, come l'anno scorso, hai deciso che il verdetto definitivo lo avrebbe scelto il fotofinish, ma c'è modo e modo, dai.

Allora ha ragione Thomas De Gendt quando sostiene che prima di assegnare una vittoria bisognerebbe aspettare il fotofinish, ma forse chi scrive la sceneggiatura di questa corsa ultimamente ha deciso di inserire pathos ulteriore a un sistema che già di suo ti manda in fibrillazione e in ansia come fosse un thriller svedese.
Noi non vorremmo avere la faccia di Cosnefroy. Dopo il traguardo la telecamera indugia su di lui come si fa col possibile vincitore. Arriva la comunicazione che dice "hai vinto". Lui, giustamente, esulta. Sarebbe la vittoria più importante di una carriera che promette bene, ma che ancora non ha preso lo slancio.
Poi c'è l'attesa. Perché non si sa mai, perché appunto c'è lo sceneggiatore a cui piace infierire e c'è la corsa crudele. Le immagini smentiscono la prima chiamata e mostrano come, per qualche centimetro, è più avanti la ruota di Kwiatowski, volpe se ce n'è una, del ciclismo contemporaneo. Corridore, se ce n'è uno, forse per motore e testa, per pacatezza e abilità, che sembra tagliato apposta per i berg del Limburgo, per quelle stradine che sollecitano in maniera esagerata nervi e muscoli. Tanto da far sacrificare quel marcantonio di Turner, Sua Eleganza in Bicicletta van Baarle, o il talento sconfinato di Pidcock.

Così alla fine abbiamo capito il perché della birra. Non c'entra nulla con lo sponsor della corsa, serve a distendere i nervi. Kwiatkowski si fa la foto con la versione gigante del boccale e si scola una versione piccola. Mentre Cosnefroy dice: «Se piangessi dopo un podio, dovrei smettere di pedalare. Riesco sempre a mettere le cose in prospettiva, questa è la mia forza. Sul podio ero emozionato, altroché. Nemmeno van der Poel è salito sul podio. Sinceramente, non c'è niente per cui piangere». Le immagini lo inchiodano, il pensiero gli è venuto dopo essersi scolato pure lui una birra piccola.


Riscrivere l'attimo

Mancavano, secondo il GPS, esattamente 1750 metri al traguardo quando Marta Cavalli ha deciso di riscrivere il significato dell'attimo. Passo indietro: che cos'è l'attimo? Si dice sia la durata tra lo scatto del verde al semaforo e il tizio dietro spazientito che suona il clacson.
Per Marta Cavalli, superato il Cauberg a ruota di sei compagne di viaggio sgranate dopo il forcing di Annemiek van Vleuten, l'attimo era quello da cogliere mentre il suo direttore sportivo dall'ammiraglia la esortava a spingere: «Vai Marta, è arrivato il momento! Parti ora: o tutto o niente!»

È scattato il semaforo verde, le altre si sono guardate, l'acido lattico poteva essere per un attimo dimenticato. È partita mentre van Vleuten, Lippert, Vollering, Niewiadoma, Garcia e Moolman-Pasio rimanevano sbigottite a guardare, vittime del tempismo altrui, dei giochi di squadra, del marcamento, delle rivalità. Di quel profondo solco che viene scavato tra tempo e spazio in una gara di ciclismo, quando al traguardo manca poco, pochissimo, ma la tua testa elabora così tanti dati da non riuscire più ad avere il senso della misura.
È partita, Marta Cavalli, e ha riscritto il significato dell'attimo. Aveva solo quel modo per vincere: resistere in una corsa matta, frenetica, restare agganciata sull'ultimo Cauberg e poi lanciarsi da dietro, approfittando del rallentamento, come se nel frattempo avesse tenuto il segno con un dito nel libro che parla dell'arte del perfetto finisseur.
Ha vinto così Marta Cavalli, l'Amstel Gold Race, riscrivendo l'attimo, da perfetta finissuer, ricordando dopo il traguardo quando l'anno scorso aveva sofferto il freddo: «Per questo ho pensato quest'anno di coprirmi meglio e restare più calda». Sorride, e racconta semplicemente così, e facendo come ogni ciclista della domenica sogna di fare dopo un bel giro in bici. Abbracciare un gigantesco bicchiere di birra e farsi un bel sorso. Sul palco.


Le corse ribaltate che ti portano a casa

In questo sport che va avanti a pedalate, per così dire, pensare come un finale possa rispondere per forza a delle regole già scritte appare molto spesso un'idea smentita dai fatti. Prendete i due vincitori delle gare di ieri, ma soprattutto i loro modi di vincere.

In Belgio, Scheldeprijs, o Gp de l'Escaut, insomma, il Gran Premio della Schelda, volessimo per forza di cose italianizzare tutto, c'è vento, freddo, poi persino pioggia nel finale. Non un metro di salita, ma è pur sempre Belgio. Media oraria altissima e quei benedetti (per lo spettacolo) ventagli che ormai stanno diventando momenti topici delle giornate di ogni appassionato di ciclismo.
Una fuga che va via dall'inizio con dentro nomi roventi dello sprint e che gli altri, dietro, non riusciranno più a riprendere. Per vincere si va per esclusione, perché dai diciassette che sono ne rimane solo uno. C'è chi cade (Thijssen), chi fora (Bol), chi salta per i crampi (Waerenskjold), chi (Bennett), dopo essere rimasto appeso per diversi chilometri, cede sull'ultimo settore in lastricato. Ha la lingua di fuori, corsa troppo dura anche per uno come lui che in queste zone, pur essendo irlandese, c'è cresciuto.

Rimane solo Alexander Kristoff, 35 anni a luglio, la fama del duro nel senso del fondista, che qui ha già vinto, ma in volata ovviamente. Uno che "più la corsa è lunga e impegnativa e più viene fuori"; velocista, non purissimo, ma a volte sì, uno che è stato disegnato apposta per correre nelle Fiandre e in particolare il Fiandre (che infatti ha vinto), grosso da far paura.
Kristoff parte da solo sul tratto ormai reso viscido dalla pioggia di Broekstraat, quando all'arrivo mancano sette chilometri. Parte e vince. Da solo. Per distacco. E fa già notizia così. Mentre dietro Alpecin si sacrifica per nulla (Merlier forse stava meglio di Philipsen), DSM resta di stucco con i suoi giovani, BORA in superiorità numerica si affida al regolarista van Poppel. E la Quick Step? È la Quick Step al nord di questo 2022: inconcludente, remissiva no, ma senza grandi gambe, né intuito, né capacità di incidere nella corsa.

Nei Paesi Baschi, invece, ciò che ci aspettavamo lo ribalta Pello Bilbao, su quelle che sono letteralmente le strade di casa sua. Bilbao, uno che pare debba il suo nome, Pello, alla passione della madre per il cantante del gruppo pop Wet Wet Wet. Bilbao, che se lo vedi vicino pare fatto di carta velina talmente è magro.
Velocino, sì, più che altro anche lui fondista, ma uno che in volata non vince, nemmeno una volata come quella di ieri di una dozzina di corridori. Uno che preferisce la cronometro, la salita, magari persino la discesa, guidatore a volte un po' folle.

Tappa nervosa, ieri, ai Paesi Baschi, salite, strappi duri e strade strette. Restano i migliori davanti, ci si prepara per uno sprint di un gruppetto. Evenepoel di nuovo in versione pesce pilota per Alaphilippe, sulla carta il più veloce e sembra di nuovo tutto messo giù, rotative comprese, con il titolo già scritto: "Alaphibis all'Itzulia!". E invece vince Bilbao. In volata. Su Alaphilippe.
Anche questo è il ciclismo. Il suo bello. Regole scritte cancellate. Mondo ribaltato, velocisti che vincono da soli e solisti che vincono in volata. Lo si ama anche per questo, così come Bilbao ha amato vincere a casa sua. Così come Kristoff non vede l'ora di staccare qualche giorno. «Ho attaccato nel finale perché avevo fretta di tornare a casa con l'aereo dopo due settimane in Belgio».


La prima (vera) di Alaphilippe

C'è il tempismo, ci sono le volate in leggera salita, c'è chi pilota, e c'è una gamba che esplode, giusto quei trenta, quaranta secondi che vanno all'insù e che ci si spara in seconda ruota aspettando il momento propizio per lanciarsi verso il traguardo.

C'è una primavera dove, tra van der Poel, van Aert e Pogačar, i più attesi avevano vinto almeno qualcosa. Mancava il suo sigillo. Nei giorni scorsi era nelle Fiandre ad allenarsi, lo si è visto passare tra i muri con il giacchettino bianco e la fascia iridiata, inconfondibile anche per stile zampettante e pizzetto. Si è persino pensato che lo avrebbero schierato la domenica alla Ronde magari con la speranza di salvare una Campagna del Nord deficitaria per il branco di lupi belga.

Sorridente, mentre superava sulla ciclabile un gruppo di pedalatori che hanno urlato il suo nome, si è fermato insieme a un suo compagno di squadra a farsi fare un paio di scatti.
Poi ha ripreso l'allenamento, è entrato sul Paterberg, si è testato, perché appunto quest'anno, tra squadra e sensazioni personali, la caduta alla Strade Bianche, la bronchite presa alla Tirreno, le cose non è che stessero andando così bene. Fino a ieri.

Poi arriva quel momento dell'anno in cui ci si sente forti, di nuovo, dopo tanto tribolare, arriva quella tappa ai Paesi Baschi che sembra disegnata perfettamente per il suo scatto. Arriva Evenepoel che lo tiene davanti e lo molla come se uno fosse Mørkøv e l'altro Jakobsen. «Julian lanciato così potrebbe raggiungere le stesse velocità di Jakobsen allo sprint» scherza Evenepoel a fine tappa.

Mancava "solo" il successo del campione del mondo per accendere ulteriormente la primavera ciclistica e lanciarci nei prossimi giorni verso la campagna ardennese - quest'anno per la verità interrotta nel bel mezzo dalla Roubaix. Anche se, come riporta la stampa francese, oltre alla gioia per il successo, la prima preoccupazione di Alaphilippe è stata quella di indossare una mascherina al traguardo: «Ci mancherebbe solo di ammalarmi di nuovo in vista delle gare della prossima settimana». Speriamo di no, va là. Abbiamo bisogno anche del prezioso ingrediente francese per esaltare il sapore delle prossime gare.


Il rumore dell'Inferno

Che rumore fa Tadej Pogačar che accelera sull'Oude Kwaremont e riprende tutti? Un suono simile a quello delle ruote che dapprima sfruttano la superficie centrale delle pietre, quella più consumata dal passaggio delle auto, per poi scorrere sulla linea laterale e, persino, sulla terra. Che rumore fa Mathieu van der Poel ancora nel gruppo, mentre alza la testa e si riporta sotto? Pensiamo al cambio che ingrana, a qualcosa che riporti a una variazione della situazione.
Un fruscio e qualcosa di più pesante. Suoni ricercati dall'orecchio e anche dalla vista, una sinestesia, una contaminazione dei sensi, perché quanto abbiamo sperato che quei due se ne andassero da soli? Quanto abbiamo controllato la posizione di Pogačar quando, poco dopo, a scattare sul Paterberg era van der Poel? Quanto abbiamo stretto i denti, quasi fossimo alla ruota dello sloveno, mentre van der Poel riusciva a stargli incollato per un sospiro al termine dell'ultimo Paterberg?
E non lontano da qui ci sono i Beffroi, le torri campanarie delle Fiandre, i loro carillon a scandire i momenti importanti per la città, i loro suonatori. Qui, invece, restano tutti i sognatori. Chi ha trasformato in un "cafè" un tronco di mulino e chi sognava di essere da solo sul Paterberg e non c'è riuscito. Poi quel numero sulla schiena di Laporte, il tredici, che dicono porti sfortuna. Alcuni lo mettono al rovescio, lui l'ha messo dritto e, nonostante la caduta in un fosso, era lì.

Ma Pogačar e van der Poel sfiniscono sia fisicamente che mentalmente, perché basta una leggera accelerata e gli altri sembrano fermi. Non possono fare altro, solo andare avanti, pietra dopo pietra. Meglio non guardare. Le ruote delle bici di Pogačar e van der Poel se ne infischiano delle pietre, scorrono veloci tra la gente che grida e non smette un secondo. Anche se tutto è passato. Il talento gasa, agita, come le nuvole nere sullo sfondo, nel finale, sbattute dal vento leggermente trasversale. E va via mentre inizia a piovere.
Il suono delle friggitorie, come l'olio bollente in cui tutto cuoce, sembra quasi portato via dall'aria che spostano i ciclisti. Un silenziatore, quel vento. Quasi fosse una foto, una delle tante nell'album di qualcuno. A fissare l'esatto momento in cui van der Poel, sul traguardo, capisce che è il momento di partire altrimenti è la beffa, un'altra beffa. A fissare quello in cui Pogacar resta intrappolato, dietro a van Baarle e Madouas, e finisce quarto, alzando le mani che ora pesano più di tutto e tornano a scendere come cade un peso.
Quel talento che può essere leggero o pesante. Leggero per van der Poel come per Kopecky, che hanno vinto, pesante per Pogačar come per van Vleuten che viene superata sulla linea d'arrivo, e non le capita spesso, intrappolata fra le tattiche di due compagne di squadra. La sicurezza in se stessi, certe volte, non serve a nulla. Certe volte, semplicemente non puoi. Forse avresti potuto muovendoti prima, partendo prima (ci ripenserà spesso Pogačar), forse nemmeno così. A noi viene in mente Marlen Reusser che, sotto la pioggia ghiacciata, stava quasi per andarsene, invece no. Anche la compagnia di Chapman non l'ha aiutata.
Che rumore fa tutto questo? Ora, all'Inferno, quello del Nord, sanno già la risposta, mentre i raggi di sole che spuntano dalle nuvole allungano le ombre degli atleti davanti a loro.


Siete pronti?

Buon Giro delle Fiandre a tutti, intanto. Oggi è quella giornata, la giornata. Quella che fa venire un po' di pizzicore nella pancia, quella che fa dire ai corridori che anche se sarà dura, sarà comunque uno spettacolo. Volerla fare, dire di averla fatta, sentire la folla che urla il tuo nome a pochi centimetri dalla faccia. Basta già questo.
I fiamminghi sono pronti da giorni, anzi da mesi, un rito sadico, che per loro è religione, organizzati per vedere in faccia i corridori faticare sui muri. Ci saranno fan club ovunque, tifosi da ogni parte del mondo, previste circa un milione di persone lungo il percorso, e si impazzirà per ogni essere vivente che passerà in bicicletta. Pazienza se mancherà van Aert, toglierà qualcosa alla contesa, è vero, ma quando arriverà il momento saranno grida di gioia e applausi dal primo all'ultimo. Senza distinzione.
Il tempo sarà quello di sempre, fiammingo: potrà cambiare repentinamente. Da un momento all'altro il cielo azzurra lascerà il campo a nuvole appesantite dal grigio. Le gambe saranno quelle di sempre: oliate in partenza per resistere al freddo, pronte a soffrire non appena la gara si accenderà.
Dove si accenderà? Non lo sappiamo, si faranno trasportare dal momento. Kruisberg/Hotond, Koppenberg, Taaienberg, oppure il circuito finale Oude Kwaremont-Paterberg prima di arrivare a Oudenaarde. Sarà la situazione a decidere, sarà un lampo che ispirerà i più forti.
I più forti chi sono? Tra gli uomini: Van der Poel, i Jumbo Visma (Benoot e Laporte) che senza van Aert forse saranno più liberi oppure chissà, più appesantiti dalla pressione. Pogačar, Asgreen, Mohorič, Turgis, Pidcock, Küng, Campenaerts eccetera. E tra le donne: van Vleuten, Kopecky, Longo Borghini, Vos e magari ci faremo ancora una volta sorprendere da Balsamo che da quando veste la maglia iridata sembra ancora più forte.
Bisognerà avere occhi dappertutto perché qui la strada fa paura e non ci sarà un momento in cui si potrà alleggerire la tensione. Saranno sollecitazioni ai muscoli, alle braccia, alla schiena. Sarà bellissimo, saranno le Fiandre nella loro massima espressione.
Siete pronti? Buon giro delle Fiandre a tutti. Anzi buona Ronde van Vlaanderen e che il casino abbia inizio.