Alex Dowsett c'è riuscito lo stesso

Abbiamo visto Alex Dowsett provarci. Era quel ciclista velocissimo e appallottolato ieri notte dentro una divisa rosso vinaccia e nera, che girava e girava dentro il velodromo di Aguascalientes, Messico. Lo abbiamo visto andare oltre la prestazione di Victor Campenaerts per 150 giri, con un picco iniziale di 56,9 km/h e poi una bella media record che si assestava intorno ai 55,2.
Lo abbiamo visto calare, quasi all'improvviso, in quello sforzo assurdo dove le gambe fanno così male che te le strapperesti di dosso, la vista e i pensieri sono come nebbia burrosa, le spalle iniziano ad ondeggiare, ti fai domande, non ottieni risposte, hai la bocca spalancata perché i polmoni che bruciano richiedono ossigeno, ti guardi attorno e non dovresti, e iniziano a mancarti le forze.
Lo abbiamo visto, Alex Dowsett, percorrere 219 giri e chiudere in 54,555, nuovo record personale e britannico (se si può consolare e lui si ritiene, giustamente, soddisfatto) a mezzo chilometro dalla migliore prestazione mondiale di Victor Campenaerts (55,089 km) .
Lo abbiamo visto scendere dalla bici, Alex Dowsett, distrutto, aiutato dalla moglie e dal suo allenatore, ma con l'idea di averci provato. E per noi c'è riuscito.
Lo abbiamo visto farsi intervistare e dirsi orgoglioso della sua prestazione, ma in generale di tutto quello che ha fatto in questi anni, in queste settimane: «Il messaggio più importante che voglio inviare è che chiunque abbia l'emofilia, chiunque abbia una condizione rara, chiunque stia affrontando qualsiasi tipo di avversità, beh, dico solo: provateci. Perché il più grande fallimento oggi sarebbe stato non essere qui».
Abbiamo visto Alex Dowsett sensibilizzare l'opinione pubblica su una malattia che lo affligge dalla nascita ma che contro ogni idea non gli ha precluso di diventare un ciclista molto competitivo. «Grazie all'aiuto della mia famiglia non solo siamo riusciti a trasformare in positiva una condizione negativa, ma abbiamo ottenuto il meglio assoluto».
Lo abbiamo visto raccogliere fondi per la sua campagna mirata a sostenere i giovani con disturbi emorragici e a supportare le loro famiglie (nel momento in cui scriviamo ha raccolto oltre 30.000 sterline quando l'obiettivo era di raccoglierne 15.000, e il contatore sale): la vittoria più grande, forse l'unico, vero, grande traguardo di questi giorni.
Alex Dowsett, a prescindere dalla prestazione finale (che forse un po' brucia dal punto di vista agonistico, ma tant'è, e a noi non piace sentire parlare di "fallimento"), è andato forte, e noi siamo orgogliosi di raccontare la sua storia, supportare il suo messaggio, sostenere quello che sta facendo.

Foto: Jesus Gonzalez


Le azzurre ai Mondiali di Roubaix

Vogliamo parlarvi di storia, mentre i Mondiali di Roubaix si sono avviati alla conclusione. Anzi, per la precisione, vogliamo parlarvi di storia e di storie.
Solo poche ore fa, Elisa Balsamo ha riscritto la sua storia personale nella disciplina dell'Omnium. Non era facile dopo l'Olimpiade, dopo quella caduta spaventosa nelle fasi conclusive dello scratch all'Izu Velodrome. Se ci pensiamo, rivediamo la bicicletta dell'egiziana Zayed Ahmed che le passa letteralmente sopra, mentre lei sbatte su quel legno a oltre 55 chilometri orari. Poco il danno a livello fisico, ma quella caduta ha fatto male alla ragazza di Cuneo. Ha fatto male perché l'Olimpiade era attesa, da tanto. Ce lo ha confidato un pomeriggio di febbraio, seduti al centro del velodromo di Montichiari e, si sa, più attendi, più desideri, più la delusione fa male. Così male che, tornata da Tokyo, Elisa non voleva più parlare di bicicletta, di ciclismo. Così male che, forse, nemmeno la vittoria al Mondiale delle Fiandre aveva ricucito quello strappo.
Emotiva, Elisa Balsamo. Quello stato per cui senti tutto più forte, emozioni, delusioni, felicità ma anche tristezza. Lo ha detto al termine della gara. "Dovevo superare la caduta di Tokyo. Questa medaglia è importante". Ancora di più proprio per il suo carattere che avrebbe potuto bloccarla, forse, invece è stata la spinta in più. Perché ogni cosa ha due facce, anche l'emotività. La sua si è trasformata in freddezza: quando avrebbe potuto giocarsi lo sprint con Archibald nell'eliminazione, invece ha accettato il secondo posto e ha continuato a rosicchiare punti alle avversarie. Quando c'è stata una caduta a pochi centimetri da lei ed è riuscita a tenere lontano quel ricordo, salda, ora più che mai. Persino quando Kopecki le ha soffiato l'argento a pochi giri dal termine. Avrebbe potuto innervosirsi e commettere qualche errore, invece no. Elisa Balsamo conosce la sua storia e sa che va bene così. Va bene il bronzo.
Martina Alzini, Chiara Consonni, Elisa Balsamo e Martina Fidanza conoscono anche la storia. Quella del ciclismo, quella che di tanti piccoli episodi si disinteressa, quella che parla per albi d'oro, statistiche e podi. Non quella che preferiamo, perché senza le storie, quelle singole, la storia sarebbe monca. Per questo sanno di aver fatto qualcosa di grande, qualcosa che viene da lontano, qualcosa che è testimoniato dalla storia e dalle storie. Dalla loro giovane età, dall'incredulità e anche dalla delusione che per qualche attimo ha occupato il loro volto dopo la finale dell'inseguimento con la Germania. Dopo l'argento. E anche quella delusione, del tutto momentanea, è da salvaguardare, perché le porterà a far meglio e meglio dell'argento c'è solo l'oro. Qualche anno fa sarebbe stata utopia, ora parliamo di tempi. Di una finale raggiunta con 4'11''978 contro la Gran Bretagna. Di una finale storica, del nostro miglior risultato in una rassegna iridata che resterà nella storia, quella grande, quella che tutti conoscono.
In quella piccola, invece, assieme al timore di Elisa Balsamo, resteranno le parole tra Chiara Consonni ed il fratello Simone, per farsi coraggio, perché per lei era una prima volta assoluta. Resteranno gli occhi lucidi di Martina Alzini che è riuscita anche a scherzare: "No, mi deve essere entrato qualcosa negli occhi". E Martina Fidanza che scrutava ogni centimetro del podio, quasi a memorizzarlo. Tutti ci auguriamo di ricordarci anche di questo quando fra qualche anno le elogeremo, sul tetto di mondo. Perché sarà anche questo a contare. Oltre all'argento e al bronzo che abbiamo festeggiato in questi Mondiali.


Si vince così, nonostante tutto

Cosa hanno fatto Simone Consonni e Michele Scartezzini nella Madison? È una domanda, ma anche un’affermazione. Ce lo chiediamo e lo ripetiamo da diversi minuti. Una prova entusiasmante coronata dalla medaglia d'argento, dietro la Danimarca di due colossi dell'americana, Michael Morkov e Lasse Normann Hansen, e davanti al Belgio di Kenny De Ketele e Robbie Ghys. I nostri due azzurri l'hanno fatta a nazioni altrettanto quotate come Francia e Gran Bretagna. L'hanno fatta anche alla sfortuna, perché la domenica pomeriggio non era iniziata al meglio.

Michele Scartezzini era caduto a terra a pochi giri dalla partenza e ci aveva messo del tempo per tornare in sella. Solo Consonni a girare in pista, a tutta, con gli occhi ovunque e la mente a cosa avrebbe potuto essersi fatto Scartezzini. Il primo respiro di sollievo è stato al suo ritorno in pista, il secondo quando l'abbiamo visto buttarsi negli sprint e lanciare Consonni nei cambi.

Il terzo respiro è felicità. Perché se dopo un inizio di questo tipo si ha la grinta di andare a fare lo sprint e vincerlo vuol dire che, alla fine, non è davvero accaduto nulla. C'è di più: perché la Madison di solito era terreno per la coppia Viviani-Consonni, una coppia rodata, dalla pista e anche dalla squadra che i due hanno condiviso negli ultimi anni. Non era scontato che con Scartezzini il meccanismo funzionasse. È accaduto, a riprova del fatto che c'è una formula vincente in questa nazionale che va oltre i successi: è il gruppo. Scartezzini lo disse in tempi non sospetti: "L'importante è che a Tokyo vadano i migliori. Il resto non conta".

Tenacia, resistenza e astuzia in una miscellanea esplosiva. Come esplosivo è il gesto del cambio, quella mano che prende e rilancia. Gesto di assenso e di equilibrismo, perché le sbandate sono all'ordine di ogni secondo, di ogni vibrazione d'aria. Scartezzini e Consonni che vanno in caccia per guadagnare il giro e prendere venti punti, Scartezzini e Consonni che non vogliono lasciare nulla a Roubaix, così rallentano prima di rientrare, vincono lo sprint e poi chiudono sul gruppo. Primi in classifica, sempre nel vivo della corsa, di una corsa più che mai viva, che sembra addormentarsi qualche istante e poi si risveglia con la suspence che la pista impone, soprattutto quando è sfida di eccellenze.

Il secondo posto è tutto da guadagnare perché si lotta su ogni centimetro. Scartezzini e Consonni sudati, stanchi, con l'acido lattico fin sopra i capelli, che digrignano talmente forte i denti da arrossire di dolore. Scartezzini e Consonni che sulla scia della Danimarca si prendono un altro giro e vanno a sprintare sul finale. Un finale sospeso, come sospesa è la pista, luogo in cui rette e angoli lasciano spazio a linee e curve. La curva, il momento della paura, della perdita di equilibrio, del cambio, talvolta del sorpasso per questi funamboli dei pedali.

Scartezzini e Consonni che salvaguardano il secondo posto. Consonni che a Tokyo aveva avuto problemi prima di questa gara, si era parlato di ansia, di panico. Non stava bene, ma volle scendere in pista. Come andò, lo ricordano tutti. Da oggi, ricorderemo meglio com'è andata questo pomeriggio. Nonostante la caduta, nonostante i ricordi, nonostante la coppia non fosse la solita. Forse proprio per questo. Perché gli esseri umani inseguono la perfezione nei velodromi, ma sanno bene che è utopia. Si migliora, si insiste e poi si vince. Si vince così, nonostante tutto.


Tutta la determinazione di Elia Viviani

Probabilmente non è stato un Omnium perfetto per Elia Viviani. Il valore di quella medaglia di bronzo è tutto in questa affermazione. Certamente non lo è stato se pensiamo che, alla vigilia della corsa a punti, ultima delle quattro prove previste, la sua posizione era più complicata di quanto ci si potesse aspettare. Eppure, la partenza era stata buona: terzo nello scratch, solo ottavo nella tempo race che abbiamo capito essere la prova più ostica per il veronese, Elia era quarto prima dell'eliminazione, perfettamente in linea con le aspettative di medaglia.
Ma l'imprevisto è una tappa ineliminabile nella vita di ogni sportivo e i fuoriclasse sono coloro che riescono a fronteggiarlo al meglio, senza alibi, senza scuse. Lo abbiamo detto più volte: basta poco per essere eliminati, l'eliminazione è una gara che tesse tranelli e li nasconde fra le pieghe del gruppo. Per Elia il tranello scatta per una questione di posizionamento, non di gambe, non di mancanza di condizione. Certo, non è Ethan Hayter che si mette in testa al gruppo e lo trascina per tutti i giri. Ma nessuno glielo chiede. Se la pista è diventata ciò che è diventata per l'Italia, è anche merito suo e di quell'oro a Rio, ormai cinque anni fa. Quasi inumano il britannico, per la forza e la freddezza che lo fa spostare a quattro giri dal termine, accettando un'eliminazione anticipata, che a molti sembra uno spreco, a lui la scelta più intelligente, tanto ha forza nelle gambe. Ma torniamo ad Elia.
Il segreto è lasciarsi un varco per poter sprintare liberamente sulla linea ed evitare di transitare per ultimo. Elia non può farlo perché è chiuso, imbottigliato. Non è padrone del proprio destino, deciso dagli altri che accelerano e lo superano, eliminandolo. Quelle bici, poi, non hanno freni. Solo nono. Ci si poteva aspettare di più? Certamente. Serve qualcosa di eccezionale per tornare sul podio, qualcosa che a tutti sembra lontano. Basterebbe pensare a Tokyo e a come si è preso quel bronzo che rischiava di essere argento. Ma di fronte alle difficoltà tendiamo a scordarci di ciò che è già accaduto. Forse perché non lo crediamo più possibile, forse perché temiamo la smentita o, più banalmente, perché non crederci è più facile che crederci.
È la determinazione che fa la differenza per Viviani. Chi vede quella determinazione si pregusta l'attesa. Non si può sapere se andrà come tutti si augurano. La certezza è che Elia Viviani proverà qualcosa. Lo ha sempre fatto nella sua carriera. Forse a Tokyo stava per rinunciarci e allora serviva Villa. "Cosa sta succedendo, Elia?" e Viviani ha ritrovato le risposte che da tempo non si dava più. Anche ieri Villa gli avrà detto qualcosa, non molto, perché non serve, ci ha confessato il tecnico. Avere fiducia, invece, è indispensabile: intendeva questo Ganna quando ha ringraziato il tecnico per averci creduto anche quando le finali si vedevano da casa, sul divano. Pazienza se qualcuno, nella notte, ha rubato venti biciclette agli azzurri, non ne sapeva niente di fiducia e comprensione, è inutile stare a spiegare.
Villa ci crede, Viviani ci crede. Quando un corridore parte all'attacco nella corsa a punti e conquista un giro, si usa dire che va in caccia. Non ce ne intendiamo di caccia, sappiamo che è anche mimetismo, silenzio, soprattutto attesa. Questa è la corsa a punti di Viviani, che dapprima si vede poco, appare e scompare. Sempre di più, fino a quando battezza la ruota giusta e parte. E quando parte non c'è nulla di diverso da cinque anni fa, siamo tutti ai bordi di quel velodromo, a voltare la testa come bambini increduli quando riprende il gruppo e torna in zona podio oppure quando, a due giri dal termine, si prende la posizione migliore per la volata e sono gli altri a faticare a tenere la sua velocità. Qualche secondo e la certezza: il portoghese Leitão non ha fatto punti, Viviani è bronzo. Ancora sul podio. Ancora nell'omnium.
Hayter è imprendibile, vince per questioni di matematica, ancora prima di vincere. Aaron Gate no e senza quell'errore nell'eliminazione Viviani poteva essere argento. Non crediamo sia questo a fare la differenza. A fare la differenza è il fatto che, ancora una volta, Elia ha dimostrato che fino all'ultimo si può cambiare qualcosa. È vero, non crederci è più facile. Crederci, però, fa la differenza. La fa preferire ciò che può cambiare qualcosa a ciò che lascia tutto uguale. Per questo ci sono i ciclisti, per questo ci sono le biciclette. Per cambiare.


La crescita e l'orgoglio

La giornata era iniziata con una mezza delusione perché, diciamocelo, ci aspettavamo Filippo Ganna in finale per l'inseguimento individuale. Magari in una finale tutta italiana con Jonathan Milan, ve la immaginate? Ma, alla fine cosa puoi dire a Ganna? Qualcosa si può dire: non toccategli l'orgoglio per quella finale mancata, perché si inventerà qualcosa di assurdo. E assurdo, parlando di Ganna, significa incredibile, bello. Basta guardare la prestazione che ha tirato fuori nella finale per il bronzo. Ha raggiunto Claudio Imhof, ha vinto e avrebbe tirato dritto per ribadire che stamattina è stato un errore ma lui, su quei tempi, non si batte. È stato fermato dalla giuria, mentre i compagni al centro della pista invitavano il pubblico alla standing ovation, altrimenti chissà che tempo avrebbe realizzato. Non ufficiale certo, ma è una gran bella risposta. Della classe nemmeno parliamo perché sarebbe scontato.
Erano in attesa Ashton Lambie e Jonathan Milan. Trenta anni contro ventuno, Usa contro Italia, Nebraska contro Friuli Venezia Giulia. I baffoni americani contro i 194 centimetri del ragazzo di Buja. Quei baffi che sembrano uno scherzo all'aerodinamica, quei centimetri che sembrano inconciliabili con l'armonia che Milan mostra su quella sella mentre spinge sul parquet.
I tempi parlavano chiaro: Lambie era favorito. Ex meccanico di biciclette, l'americano, che a forza di averle fra le mani si è deciso a provarle. Era partito con la gravel, poi ha provato la pista. Dalla polvere al velluto del velodromo, lisciato dopo ogni impatto che potrebbe rovinarne la superficie. Si prende la scala per lisciare il legno, perché l'inclinazione è tanta, perché a piedi non sali.
Milan è lì. Ieri ha lanciato il quartetto, oggi si è lanciato, forse anche troppo veloce nelle fasi iniziali. Villa glielo ha detto subito. È rimasto lì, perdeva qualche centesimo ma non naufragava, denti stretti, saldo in sella. Si è scomposto solo nel finale, quando ormai Lambie era lanciato verso l'oro. Si potrebbe dire che ha perso l'oro, vogliamo dire che ha vinto l'argento. Non era facile. Non era facile perché c'era Lambie, non era facile nemmeno a livello psicologico essersi guadagnati quel posto, sostenere la tensione di quella finale in cui tutti aspettavano Ganna. Alla fine, però, è così che si cresce: affrontando ciò che sembra più grande di te e che momentaneamente, magari, lo è anche. Lanciandosi nel velodromo e portando a casa l'argento mondiale.
Ashton Lambie sorride sotto i baffi, si avvolge nella bandiera americana. Ad agosto, in altura, aveva frantumato il record sui quattro chilometri, scendendo sotto il muro dei quattro minuti. C'è qualcosa in sospeso con Ganna, una sfida lanciata. Come, dopo oggi, c'è qualcosa in sospeso con Milan e chissà che nei prossimi anni la sfida non si ripeta e sia Milan a spuntarla. C'è la fantasia di una finale italiana e che bello sarebbe. Ci sono un argento e un bronzo in più nel medagliere ma non finisce qui. Nei velodromi, ogni sfida è un preambolo di altro che verrà, una motivazione, un pungolo di quelli per costruire qualcosa di migliore. E se le premesse sono queste...


Il ritorno di Letizia Paternoster

L'eliminazione ovvero il timore di quella luce che si accende sul casco, il tabellone che indica il tuo nome, la tua nazionalità, la ruota posteriore che taglia la linea bianca del velodromo in ultima posizione, l'atleta che scende a bordo pista: gara finita. Ogni due giri una spada di Damocle che pende su una ciclista. Nel mezzo la lotta per limare, per essere nella posizione giusta, per non stare nelle retrovie e dover continuare a rilanciare, ma anche per non stare troppo esposti, sempre davanti, evitando il timore, sprecando troppo e rischiando di restare svuotati quando è il momento di sprintare. Già, perché non ci sono storie: da ventuno si resterà in due e lì vince chi è più veloce, più scaltro.
C'era tutto questo, poco dopo le 21:00 di ieri, nella testa di Letizia Paternoster. Lei che aveva lasciato a Chiara Consonni il posto nel quartetto, per andarsi a giocare la propria possibilità, una possibilità a cui pensava dall'Europeo e forse anche da prima. È stata impeccabile Letizia: nelle posizioni buone del gruppetto, apparentemente senza alcuna fatica, qualche rilancio, ma con facilità, con leggerezza. Il brivido, il timore di quella condanna non ci ha sfiorato quasi mai.
Scendono a bordo pista Canada, Messico, Gran Bretagna, più avanti Giappone, Kazakistan, Spagna e Svizzera, poi il momento delle condanne eccellenti, quella della Francia, ad esempio. Sì, perché basta un attimo, una distrazione e chiunque può cadere in trappola. Diminuiscono le atlete e aumenta il rischio. Eppure Paternoster è sempre lì. Cinque, poi quattro e infine tre. Qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, il podio c'è, che una medaglia c'è. Nella testa di Paternoster c'è altro: ci sono due anni difficili, tentativi a vuoto di ritornare quello che era, quello che è sempre stata ed è ancora. I momenti no accadono. Paternoster ha ventidue anni, anche se non sembra per quell'elenco di vittorie e di medaglie così ampio. Verrebbe da dire che si può sbagliare sempre, a ventidue anni forse ancora di più, perché c'è tutto il tempo. Spesso per gli atleti non è così, un continuo rimpallo dalle stelle alle stalle, anche per il minimo errore. Non è giusto, ma accade e non è il caso di imbastirci tante storie. Saperlo sì, rifletterci sì.
Jennifer Valente scende dalla pista. Restano Paternoster e Kopecky, Italia e Belgio. Letizia controlla, poi parte. È la più veloce, una velocità costante e rilanciata, che la proietta su quella linea bianca in prima posizione. Alza le mani, grida, guarda lo staff e poi piange. A dirotto. Dentro a ogni abbraccio, a ogni complimento. Le salviette asciugano gli occhi e le lacrime che tornano a scendere. Probabilmente Paternoster di qualche anno fa non sarebbe scoppiata in quel pianto, lei così forte, lei abituata a vincere su tutto e tutte. Ieri sì.
La sofferenza degli altri non si può capire, si può rispettare e forse intuire pensando alla propria sofferenza. Di certo bisogna sapere che la forza è fatta di fragilità e anche di debolezza. Per questo Kopecky la cerca e le dà una pacca sulla spalla. Letizia Paternoster che vince l'oro nell'inseguimento a squadre è più forte di prima. Perché ha visto e ha capito. "La dedico alla mia squadra, alla mia famiglia: solo loro mi sono restati accanto, tutti gli altri se ne sono andati in questi due anni". A queste condizioni non è facile tornare. Mai e a ventidue anni ancora meno, perché sei giovane, perché a certi tagli non sei abituato. Lei è tornata. Con quell'oro ha fatto felici tutti quelli che sono sempre restati lì ad aspettarla ma soprattutto si è fatta felice. Ed è questo l’importante.


Troppo bello per non essere vero

E adesso diteci chi non ci ha pensato sin dalla qualificazione per la finale per l'oro? Chi non aspettava da questa mattina le 19:30 per vedere il quartetto scendere in pista al velodromo Jean Stablinski contro la Francia? Perché sì, eravamo più forti, lo sapevamo, ma fino a quando non sei su quel parquet può succedere di tutto.
E il momento non arrivava più, nemmeno quando li abbiamo visti posizionarsi. Tre caschi d'oro, per ricordarci ancora una volta ciò che è successo a Tokyo, quella medaglia olimpica che ci ha fatto gridare di gioia in un'estate italiana che più di così non si poteva. Jonathan Milan, Filippo Ganna, Simone Consonni e Liam Bertazzo che a Tokyo era riserva, qui invece è parte di quella scia di suono che passa e se ne va, che puoi solo immaginare fino a quando non entri in un velodromo e la senti. Insieme all'aria che si sposta, all'attrito rovente delle ruote lanciate a tutta velocità sul legno. La pista è perfezione, in ogni dettaglio. E fuori da qui c'è il velodromo di Roubaix, c'è ancora sospeso l'urlo di Colbrelli.

Ci abbiamo pensato tutti e abbiamo osservato quei centesimi scorrere, girare vorticosamente, numeri su numeri. Qui è tutto fatto di numeri. Italia in testa, poi Francia, di nuovo Italia e di nuovo Francia. Si sono superati i francesi, perché correvano in casa, perché Roubaix è un tempio a cui non puoi resistere. C'è devozione, rispetto, timore.

E poi diteci chi, guardando, non ha scandito a voce alta i nomi degli azzurri che si alternavano in testa al quartetto. A tutta, quasi senza fiato. Come Consonni a ruota di Filippo Ganna, lui che strapazza il tempo. Potenza dirompente quella di Ganna, spettacolo di cinetica e aerodinamica. Come il quartetto che si riporta sul tempo della Francia e lo sopravanza. Un gruppo, il quartetto.
Ultimi cinquecento metri, siamo in testa. Ultimi duecentocinquanta metri, la Francia si sfalda, resta con tre uomini, basta gettare un occhio dall'altro lato della pista per vederli in difficoltà. Hanno fatto il possibile ma certi tempi, certe velocità, devi averli nelle gambe e i muscoli dei nostri azzurri li conoscono, li praticano, hanno con loro un'affinità rara. Anche a costo di sentire male, di rischiare di svenire, ma devi resistere. La linea bianca del traguardo è lì.

Abbiamo gridato anche noi, un'altra volta, come quel giorno d'estate, come ieri sera, perché ora è vero: siamo Campioni del mondo dell'inseguimento a squadre. Non succedeva dal 1997, ben ventiquattro anni fa. Perché siamo veloci, lo dice il tempo: 3'47"192. Perché siamo un gruppo che va oltre i quattro atleti in corsa. Lo dicono i ragazzi che, prima di festeggiare, hanno chiamato Lamon, l'hanno voluto lì con loro, l'hanno preso in braccio e fatto saltare. O semplicemente perché era troppo bello per non essere vero. Ora è vero. Ora è oro.


E siamo solo all'inizio...

Forse basterebbe dire che Martina Fidanza, bergamasca, appena ventuno anni, ieri sera ha vinto la medaglia d'oro nello scratch ai Mondiali su pista di Roubaix. Ma noi non vogliamo fermarci qui. Vogliamo soffermarci su quanto sia bello il fatto che una ragazza di soli ventuno anni porti a casa un risultato come questo e sul bene che fa a un gruppo di ragazze altrettanto giovani che continuano a crescere e che in questi giorni sono attese da prove molto importanti. Non ci sbilanciamo, non facciamo pronostici, ma ci crediamo perché, prima del risultato, vediamo ciò che stanno costruendo. Crediamo a ciò che stanno costruendo. Da anni, non da ieri o da oggi.
La bellezza di un mondiale su pista a Roubaix, città che si intende tanto del liscio pavimento dei velodromi quanto delle pietre asimmetriche. Roubaix, città manifesto del ciclismo, come le Fiandre. Lì Elisa Balsamo davanti a tutti in linea, qui Martina Fidanza, in pista, in una gara in cui contano i nervi saldi, l'esperienza, la capacità di scegliere l'attimo. Non ci credeva Martina, non ci credeva e se qualcuno glielo avesse detto ieri sera non lo avrebbe ascoltato. Pensava di potersela giocare? Forse sì, forse nel finale, allo sprint. E già sarebbe stato un bel giocare.
Quello che ha realizzato, invece, è troppo bello per aspettarselo ed è meglio così perché chiunque veda una corsa vuole stupirsi, la pista, poi, è il regno ideale per sorprenderti perché nei metri di un velodromo c'è un universo e puoi vederlo tutto, sentirlo, viverlo tutto. Martina che a cinque giri dal termine incrocia la voce di Dino Salvoldi che le dice: «Vai a tutta». Si fida, si fida ciecamente e parte. Attacca, domina, non lascia scampo alle avversarie. Veloce, potente, inscalfibile.
Si è resa conto di quello che ha fatto a mezzo giro dal termine, quando ha visto che il gruppo più di tanto non recuperava: meglio così, perché quando fai qualcosa di questo tipo è giusto che tu abbia la possibilità di goderti il momento mentre si svolge. Non solo nei ricordi, non solo nei racconti. Come quando disegni e intuisci il risultato quando ancora mancano i dettagli. Lei di disegno se ne intende, come di pista.
Paziente, commossa, appassionata. Felice che questo oro sia arrivato dopo tanti sacrifici perché significa che è stato giusto farli, che è stato giusto crederci. Felice come era felice quando è volata a Tokyo, lì ha scoperto che non avrebbe preso parte ad alcuna specialità e le è spiaciuto, ma era felice lo stesso perché poteva essere di supporto alla sua squadra, alla sua Italia. Quella a cui ieri ha regalato un oro memorabile.
E i Mondiali, lasciatecelo dire e sperare, sono appena appena iniziati.


Battistella e le possibilità di sfruttare

Venezia è un pesce, scriveva Tiziano Scarpa, per raccontare la forma della città dei marinai e delle gondole. Venezia è una possibilità, all'alba della prima edizione della Veneto Classic. Può dirvelo Andrea Piccolo, che dopo un anno da dimenticare che gli ha impedito il debutto in Astana, in maglia Viris Vigevano, in questi mesi, sta cercando di riprendersi quella possibilità. A noi lo dicono le azioni di Federico Burchio e Matteo Zurlo che cavalcano i 330 metri de “La Tisa” come fossero agli ultimi chilometri, invece sono solo all'inizio di giornata. Ripida, nascosta, a tratti di paura, a tratti di sollievo, come tutte le possibilità. Quella di avere una squadra per il prossimo anno, quella di poter continuare a fare il proprio lavoro, a pedalare.
Bassano del Grappa è ancora lontana. Lì tutti fotografano un rinoceronte in acciaio fuori da Palazzo Sturm. Una signora ci affianca mentre lo ammiriamo e ci racconta una storia. Quella di un rinoceronte che nel 1515, dalle colonie orientali, fu portato a Lisbona. L'animale, legato da possenti catene, sarebbe dovuto arrivare anche a Roma: la nave, però, affondò in Liguria. Quel rinoceronte non riuscì a liberarsi dalle catene e nessuno lo vide mai. Com'era fatto, però, lo scoprirono presto tutti, grazie ad Albrecht Dürer, matematico e pittore, che da una lettera che lo descriveva trasse una xilografia. Per dire delle possibilità e di quanto, a patto di avere pazienza, non finiscano dove sembrano finire. Ve lo avremmo potuto dire con quella ragazza che sul ponte di Bassano, mentre ammirava un pianista, ha detto alla madre: «Oggi sembra impossibile, ma un giorno suonerò anche io un pianoforte come quello». Ve lo diciamo così.
Ma basterebbe andare a “La Rosina” per capire quanto in questa terra siano legati alle possibilità. Basterebbe conoscere la storia di Rosina che, in quelle vie, aprì una locanda per dare ristoro ai militari durante la guerra mondiale, quando un tozzo di pane era la possibilità. Oppure parlare con qualche ceramista della zona, per esempio con chi ci dice che la storia della ceramica è una storia di possibilità e libertà. Come quella dei pori della porcellana che lasciano traspirare il cibo: «I pori lasciano passare l'aria, per questo il cibo è più buono lì dentro».
Matteo Trentin e Samuele Battistella la loro possibilità l'hanno inventata sin dall'inizio della gara, insieme ai compagni. A Trentin non è bastato. È la legge della strada. A Samuele Battistella sarebbe potuto non bastare e ai due chilometri dal traguardo tutti avrebbero detto così perché gli inseguitori avevano aperto la caccia, quasi teso un'imboscata nel momento della sofferenza maggiore.
Per un attimo c'erano solo cento metri tra lui e gli inseguitori. Solo per un attimo. Poi duecento, poi l'ultimo chilometro. Ha vinto così Battistella. Non gli si sarebbe potuto dire nulla in ogni caso, del resto cosa vuoi dire a un ragazzo di ventitré anni che racconta di credere nel gregariato, nella necessità di partire dal niente e di fare più fatica degli altri per riuscire? Diversamente devi essere un fenomeno, ma Battistella non si sente tale. Si sente un ragazzo che crede nel lavoro e nelle possibilità. Perché ve lo dicevamo: le possibilità non finiscono dove sembrano finire. Crederci dopo le vittorie è semplice, noi, alle storie che abbiamo incrociato in questi giorni, auguriamo di essere così impregnate di libertà da crederci prima. Battistella insegna.


«Ai miei tempi zera così», ovvero la Serenissima Gravel

A Jesolo, Filippo Fiorelli scherza, salutandoci: «Non mi preoccupa molto la gara. Più che altro penso a come tornare a casa se foro lontano dal tratto in cui c'è il nostro meccanico. Mi tocca andare a piedi, sennò mi lasciano qui». Passano poche ore e radiocorsa annuncia: «Segnalato atleta Cofidis in località Portegrandi. In attesa di essere recuperato da un mezzo, ha avvisato i carabinieri». Insomma, pensiamo, l'indole scherzosa di Fiorelli non c'era andata molto lontano. La realtà è che alla Serenissima Gravel, prima gara gravel italiana per professionisti del World Tour, tra Jesolo e Piazzola sul Brenta, non c'è assistenza al seguito del gruppo: le stradine strette dello sterrato veneto non lo permetterebbero neppure. La soluzione sono tubeless da 40, e giù di lattice per chiudere qualche piccolo foro, ci spiega Andrea Fedi, meccanico della Bardiani CSF Faizanè. Anche il cambio è meccanico per non rischiare malfunzionamenti causati dalle sollecitazioni del terreno. Anzi dalla terra stessa.
È bugiarda qui la terra. Al passaggio del gruppo in questi rivoli vedi alzarsi una nuvola bianca e cerchi di coprirti gli occhi. Come la nuvola si abbassa e li scopri, ti accorgi che la terra è ancora lì, si appoggia sulla pelle e brucia ai lati degli occhi.
«Ai miei tempi zera così» dice un anziano signore rivolgendosi all'amico.
«Perché te si vecio» lo prende in giro il coetaneo.
Chissà cosa avrebbe detto vedendo Jan Petelin che si portava a spasso un tubolare sulla spalla alla partenza. Le persone sono curiose, perché è la prima volta ma non solo.
«È vero che le strade sono di tutti ma è anche vero che non tutti riescono a scalare il Mortirolo o lo Stelvio. Queste stradine sterrate può farle chiunque» ci racconta un tifoso. E giura di aver visto qui qualche avventuriero in Graziella. Gli crediamo? Non è questo a fare la differenza. La differenza la fa la voglia che ha la gente di sentirsi vicina ai professionisti nel modo di vivere e di pedalare.
«Poi in queste strade ti senti sicuro: fori, al massimo rompi la bicicletta ma non ci sono auto o altri pericoli. Le sbucciature guariscono» aggiunge Fedi.
Poi è questione di prospettiva. Chi diceva che la corsa sarebbe stata tranquilla fino agli ultimi giri, perché, come in tutte le prime volte, si va alla cieca e non si rischia troppo, avrebbe dovuto parlare con Alexey Lutsenko che, mentre si passa da Treviso, parte con la lancia in resta. In fondo, con la terra funziona come con qualunque altra cosa: devi conoscerla per affrontarla con sicurezza e non sbagliare troppo. Per questo non sorprende che i primi a inseguire siano i fratelli Braidot, Dorigoni e Cribario, loro di polvere se ne intendono. Ma puoi essere anche Taco van der Hoorn e ti diverti lo stesso, perché «Anche i professionisti vogliono divertirsi» come ci hanno detto. «Passavo gran parte del tempo sul letto, con gli occhi chiusi, al buio. Ero senza contratto» aveva raccontato Taco dopo la vittoria nella terza tappa del Giro d'Italia quest'anno. Pensate quanta voglia possa avere lui di divertirsi.
«Pensa se un giorno a Piazzola arriva van der Poel?» dice una voce vicino a Palazzo Contarini, imponente, maestoso, quasi un contrasto nel giorno del terriccio, del gravel, della bicicletta che torna all'essenziale, ai tempi dei nonni e dei bisnonni, coloro che poi spiegavano quelle giornate ai nipoti e si commuovevano all'idea di aver visto Fausto Coppi. Chissà, le prime volte sono belle anche per questo, perché puoi immaginare tutto quello che verrà. Hanno il fascino del foglio bianco, prima della scrittura del pezzo. Il fascino del sentiero gravel in cui il solco devi tracciarlo tu e sperare di non sbagliare. Alexey Lutsenko, Riccardo Minali e Nathan Haas dicono queste cose qui. Chi ha creduto di portare trentasette ciclisti fra le strade selvagge del Veneto dice queste cose qui. Persino quel ragazzo, che vorrebbe van der Poel a Piazzola, dice questo. Le prime volte conoscono l'illusione, magari, non la disillusione e, nella realtà quotidiana che di disillusioni vive, è un bene. Perché da queste esperienze nasce il futuro, come ci ricorda Lutsenko. Noi ascoltiamo: un giorno in gravel, in fondo, serve anche a ricordarsi questo.