Metempsicosi
In quella che appariva un'azione fine a se stessa, e poi lo era. In quella che sembrava essere la classica fuga già segnata, e poi lo è stata. In questo e in altro, nell'apparente inutilità della fatica, nel timore di rendersi quasi ridicoli agli occhi del mondo, oggi Houle e Van Der Sande hanno voluto dimostrare come nel ciclismo non conta solo vincere.
Perché attacchi per attaccare, per essere il primo a prenderti gli applausi del pubblico, perché c'è sempre qualcosa da trovare: d'altra parte andare in bici che cos'è se non ogni giorno una meravigliosa scoperta? Sarà capitato anche a voi di correre vicino casa e di vedere svelati ogni volta nuovi dettagli. Ed è così oggi per Houle che è canadese, ma queste parti le conosce molto bene. E a Valence, dove si arrivava, è praticamente di casa.
Pare fosse, non che c'interessi troppo per la verità, ma tant'è, la giornata mondiale del bacio, e se davvero vuol dire qualcosa, allora assume un significato per Hugo Houle. Ogni giorno pensa a suo fratello, a Pierrik, con il quale da bambini passavano il tempo guardando il Tour, perché nel paesino da dove viene non c'era altro da fare; Pierrik, nove anni fa mentre si allenava, fu investito e ucciso da un ubriaco, e proprio Hugo lo trovò sul ciglio della strada agonizzante. Corre per lui, ogni giorno, come se sentisse il suo fuoco dentro, perché «quello che gli è successo mi ha distrutto ancora prima di aiutarmi, ma oggi mi spinge: voglio provare a vincere una tappa al Tour per lui».
Oggi, Hugo Houle è uno dei pochi canadesi del gruppo e lo trovi spesso all'attacco. Tosh Van Der Sande, invece, è uno dei tanti belgi ed era venuto qui al Tour per aiutare Ewan. A Tignes, due giorni fa, è stato fotografato mentre cercava di mangiare qualcosa, ma appariva totalmente stravolto dalla fatica da non riuscire nemmeno a mandare giù il boccone. Nemmeno 48 ore dopo ed eccolo lì, all'attacco, per una sorte già segnata, per scoprire, farsi vedere, fare fatica.
In quella che appariva un'azione fine a se stessa e poi lo è stata, Houle ha voluto regalare un bacio a suo fratello, perché da quel 2012 non può più. E anche se non è arrivata la vittoria non importa, ci riproverà, glielo ha promesso. Van Der Sande, invece, ha voluto scrollarsi di dosso la fatica, facendone altra. Anche lui ci riproverà: è il destino di ognuno.
E in una giornata così chissà se si aspettava un bacio quella ragazza con le treccine che reggeva un cartello con su scritto "Sagan: I Love You". Mentre dopo il traguardo Cavendish dedica effusioni alla sua squadra che lo ha consegnato alla terza vittoria in questo Tour, a un passo da Merckx che fa quasi ridere a dirlo. Un Cavendish reincarnato in qualcosa di completamente diverso rispetto a pochi mesi fa. Un tipo davvero tosto, il Cav.
À la bonne franquette
Ad Albertville, sui tavolini dei bar all'aperto, ieri pomeriggio, si sfogliava L'Equipe. In realtà, L'Equipe, durante il Tour de France, la si trova ovunque, persino nei cestini di qualche bicicletta da passeggio, aperta sull'altimetria di tappa. Due imbianchini, intenti a riverniciare un pub, a pochi passi da noi, ci hanno fatto il cappello, arte umile e antica. Quel locale, in piena ristrutturazione, è addobbato con ghirlande gialle, verdi e a pois del Tour e loro, pur di non toglierle, fanno acrobazie per spostare la scala. «À la bonne franquette», ci dicono.
Sì, poche parole e molti significati. Perché «à la bonne franquette» per un francese significa semplice, umile, franco, ma non solo. «Noi siamo à la bonne franquette perché domani intravederemo il passaggio della corsa con il secchio di vernice in mano e, al massimo, una birra appoggiata sull'ultimo gradino della scala». In realtà, spiegano, per un francese dal Tour si va proprio così, “à la bonne franquette” perché «il ciclismo stesso insegna a metterti sulla strada come e quando capita, senza troppe complicazioni».
À la bonne franquette, allora, è quel ragazzo che a Tignes, per proteggersi dalla pioggia, ha messo una sedia di tela sotto una galleria e invece di sedersi vi ha lasciato qualche souvernir raccolto dalla carovana. Oppure quella signora che, sotto il diluvio, ha costruito un'improbabile tenda con una giacca appesa fra due rami di un albero. Quei ragazzi che, pur di farsi sentire, agitavano il campanaccio di una mucca e quello che ha tirato fuori dallo zaino un panino zuppo d'acqua e lo ha mangiato lo stesso perché «sennò perdo il passaggio». Allo stesso modo sono coloro che da oggi sono accampati sul Ventoux fra carne grigliata e pranzi condivisi perché «qualcuno ha lasciato a casa il sale, qualcuno l'aceto e qualcuno l'olio» e allora si chiede al vicino di camper o di tenda. Ma anche chi improvvisa il dialetto, non parlando francese, e riesce a farsi capire. À la bonne franquette è pure chi sulla strada proprio non ci sarà, quel meccanico italiano che ha chiesto al principale della sua ditta di poter tenere accesa la radio e ha portato la vecchia radio di suo padre che era stato partigiano e tifava per Bartali.
À la bonne franquette come si va alle corse e al Tour de France. «Perché, con tutte le comodità a cui siamo abituati, potremmo sembrare pazzi a rinunciare a tutto e a fare quella fatica per vedere una corsa e a farlo ogni anno, a costo di spostarsi chilometri e chilometri. Eppure, quando provi, scopri che vivere “à la bonne franquette” non è così male». Perché le cose di cui hai veramente bisogno sono davvero poche. Forse tutte quelle che contiene uno zaino e una tenda arrabattata sulle Alpi o sui Pirenei. O nella sala di casa, quando da bambino, pur avendo tutto lo spazio, portavi i tuoi giocattoli preferiti in quell'angolo e non ti mancava nulla.
Vietato non sognare
Si è parlato poco di Italia nel ciclismo in questi giorni (l'attenzione è tutta su altri sport), ma un po' di complimenti i due ragazzi qui in foto se li meritano. Colbrelli ieri ha corso una tappa fuori dall'ordinario. I telecronisti di Eurosport UK, ogni volta che veniva inquadrato in salita, nel gruppetto inseguitore, si lanciavano in esternazioni tra l'esaltato e lo stupito («Oh my gosh! An amazing Colbrelli!»), e infiammati lo eravamo pure noi a vedere il tricolore - per la verità coperto a lungo da una mantellina - e quella pedalata massiccia e inconfondibile.
Sì, un po' di stupore: ma non dimentichiamo come Colbrelli, oltre ad avere in questo periodo la proverbiale "forma della vita", quando sta bene (in bici) è un cagnaccio di quelli veri, che quando piove e fa freddo come ieri si trasforma e che in carriera è riuscito ad arrivare anche un'altra volta nei primi dieci di una tappa di montagna in un Grande Giro. Era il 2013, Giro d'Italia, e chiuse nono sullo Jafferau. Anche quel giorno fuga da lontano e freddo insopportabile con il finale corso sotto la neve.
E questo Sonny ci esalta. Ieri ha messo vicino un bel gruzzoletto per il sogno maglia verde arrivando terzo a Tignes. Una giornata che difficilmente dimenticheremo.
E due parole le merita Mattia Cattaneo. Se c'è una carriera particolare quella è la sua. Ultimo italiano ad aver vinto il Giro Under 23, passò come talento dal sicuro avvenire, ebbe guai fisici, deluse prima di tutto se stesso e le sue aspettative.
Ricominciò dal basso, con Savio, in maglia Androni, e si è ricostruito. Lo scorso anno il rientro nel World Tour in una squadra che mette i brividi solo a pensarla, la Quick Step.
Cattaneo è cresciuto ritornando a esprimere il suo ciclismo, forte in salita come a cronometro e, dopo il secondo posto di ieri, primo degli altri dietro un inarrivabile O'Connor, e festeggiato come una vittoria («Il secondo posto viene spesso visto come il primo posto dei perdenti, ma per me questo piazzamento vale tanto: secondo al Tour de France, mica in un posto qualunque») sale 12° in classifica. Magari, ragazzi, portiamo a Parigi 'sta forma che sarebbe una favola. Oppure un sogno, solo a pensarlo.
Diventare uomini
Quando Nicholas Dlamini ha tagliato il traguardo di Tignes, il tempo massimo era già scaduto da un pezzo e questo significa solo una cosa: si va a casa. Pensare che qualche giorno fa era felice, perché era stato selezionato per le Olimpiadi di Tokyo e aveva saputo di essere stato convocato per il Tour de France; il primo sudafricano di colore a parteciparvi. «Nella mia città, a Capetown, saresti famoso allo stesso modo se avessi in tasca una pistola. Saresti più rispettato per possedere una pistola o sparare a qualcuno, purtroppo è un posto in cui fare le cose sbagliate ti porta a essere apprezzato. I giovani vogliono diventare gangster perché tutti guardano ai gangster».
Dlamini, in sella, vuole raccontare che c'è modo e modo per farsi conoscere e per farsi apprezzare e ci riuscirà lo stesso, anche se questo Tour farà a meno di lui.
Al traguardo, ieri, Nicholas Dlamini è arrivato troppo tardi. Così tardi che, tra il freddo e la pioggia, a quasi duemila metri, il pubblico proprio non te lo saresti aspettato. Invece, anche più di mezz'ora dopo la vittoria di Ben O' Connor la gente applaudiva e gridava allo stesso modo. “Bravo” ha detto una signora. Anzi, per la precisione Geraldine, questo il nome della signora, ha detto “Bravò”, perché siamo in terra francese, non dimentichiamolo. Ma sono dettagli.
Non è un dettaglio, invece, la sua risposta quando le abbiamo chiesto cosa l'avesse colpita di questo ragazzo. «Che è arrivato, che ha finito qualcosa che aveva iniziato. Tifare per i primi è facile e per i primi è anche più facile arrivare. Chi glielo ha fatto fare di arrivare? Eppure è arrivato». Quel giorno, Nicholas aveva spiegato che, ora che era stato convocato al Tour e alle Olimpiadi, quei ragazzi avevano visto che tutto è possibile. Oggi lo hanno visto ancora meglio.
Soprattutto hanno visto, e se non lo hanno visto glielo raccontiamo noi, che, nella vita, non serve essere il più forte a tutti i costi per avere qualcuno che ti stimi o ti rispetti. Che si tratti di gangster o di ciclismo, per quanto le due cose siano diverse. Non serve neppure essere il più bravo o il fenomeno di turno. Basta fare onestamente quello che si può e si sa fare, niente di più e niente di meno. E qualcuno che lo vede e si mette dalla tua parte lo trovi. Anche a costo di aspettarti, quando sei fuori tempo massimo. Nella vita o nel ciclismo.
Equilibri instabili
Per Ben O'Connor la ricerca dell'equilibrio è una delle chiavi che aprono le porte della conoscenza. Quell'equilibrio lo cerca, coerenza costante, come quando si ammalava così spesso da perdere tutto il tempo che spendeva per la sua carriera. Quando cadeva e si faceva male, persino quando un anno fa esatto gli hanno detto che soffriva di ipotiroidismo, di certo non una passeggiata per un uomo normale, figuriamoci nella vita di un corridore, che di normale non ha proprio nulla.
Il ragazzo di Perth, con origini scouser e che vive ad Andorra, che del Tour da bambino ricorda più i castelli e la gente a bordo strada che i vincitori, ha avuto difficoltà all'inizio nell'esprimersi in francese con la sua nuova squadra, ma racconta come nei primi incontri con i suoi compagni gli bastava capirne sensazioni ed emozioni per comunicare con loro. Quando è arrivato a Brest alla partenza del Tour si è ritrovato in auto con la sua ragazza e Jack Haig fermi dietro un gruppo di cicloamatori: «Da domani le persone si ritroveranno la strada bloccata da noi: è una questione di karma» ha detto.
Volergli male sarebbe un peccato: occhi che non riescono a esprimere rabbia, né cattiveria, ma solo diverse tonalità dell'esistenza, e una pedalata sciolta che si trasforma nell'ambizione di fare tappa e maglia, in una tappa di montagna: roba da spezzare gli eroi, ma non il suo equilibrio. «Mi sono semplicemente gustato ogni singolo momento» ha raccontato a fine tappa.
Oggi il ciclismo ha rimesso, così, tutte le cose a posto: è andato in montagna mostrando il fascino del suo profilo migliore. Salita, battaglia, Alpi, pioggia, nebbia, freddo. Discese bagnate e cadute, tanta gente, ma anche diversi corridori in crisi di freddo. Ritiri e fuori tempo massimo. Un male necessario come necessario era il continuo scrollare le mani per scacciare via il gelo.
Si staccava, O'Connor, a ogni discesa, andava regolare senza rischi, mentre davanti Quintana e Higuita - illusione e delusione – scrivevano il più classico manifesto del modo colombiano di interpretare il ciclismo: facevano le bizze, a tratti dominavano, scappavano, venivano ripresi e poi staccati da O'Connor verso Tignes. «Amo i giorni frenetici come quelli di oggi – dirà, commosso - ma conosco anche la chiave del successo: niente panico. Perché se inizi a pensare che stai per vincere una tappa al Tour, ti verranno in testa troppe cose».
La fantasia di Tadej
Tadej Pogačar lo aveva detto venerdì sera: «Ho sbagliato a non cogliere l'attimo quando è andata via la fuga». La sua squadra era stata isolata, la fatica raddoppiata e lui ha ammesso l'errore. Poteva essere pericoloso, un segnale di debolezza dato agli avversari, alla vigilia di due tappe alpine, con tutte le possibilità per attaccare e lasciarlo a inseguire. Non gliene è importato.
Ieri mattina, la squadra sapeva che avrebbe attaccato, il presentimento lo avevamo tutti, a dire il vero. Ha anticipato lo scatto e lo hanno visto andare via ai meno trenta, sotto il diluvio. La saggezza avrebbe consigliato di aspettare, di piazzare lo scatto secco nel finale, perché azioni del genere non sono meno pericolose di quella spietata sincerità. Invece no, Pogačar ha dato retta alla fantasia, anche se poteva costare cara, perché, perdere minuti a fiotti, mentre provi a guadagnarli, non è così raro. Ha messo alle corde gli avversari, è arrivato stremato, si è liberato dal casco e si è disteso sulla bici a riprendere fiato.
Oggi, Pogačar ripartirà sapendo di essere controllato a vista. «Ora ci attaccheranno tutti- ha detto ieri Formolo- siamo la squadra da tenere d’occhio. Ma abbiamo la maglia gialla, finalmente». La gente, di nuovo sui tornanti, si è entusiasmata e non aspetta altro che la tappa di oggi, perché vuole vedere come va a finire e immagina i finali più inconsueti, utopici, devastanti. Perché, per quello che sta mostrando questo Tour, possono manifestarsi.
Accade quando usi la fantasia e ti butti come l’acrobata senza rete. Come Pogačar meno di ventiquattro ore fa. Non sai come va a finire, ma, come scriveva qualcuno, non serve saperlo. Certe volte, nella vita, bisogna dare retta alle sensazioni. Il fine non è essere impeccabili. Certo, può capitare di sbagliare: in quel momento, starai in silenzio e pagherai l’errore, la crisi e i minuti che se ne vanno. Solo in quel momento.
Tutti aspettiamo Pogačar, van der Poel o van Aert non solo perché fanno questo come ciclisti. Li aspettiamo perché rappresentano un modo di fare e di essere anche nelle piccole cose della vita quotidiana di ognuno. Un modo a cui, spesso, non ci si affida per paura. Così, quando abbiamo visto Pogačar, abbiamo pensato a cosa può accadere se solo si coglie il coraggio di buttarsi. Oggi è domenica. Domani riprenderemo la settimana con una consapevolezza in più.
Foto: ASO
Godersi ogni momento
Il Tour oggi spiega come si vive ogni momento. Lo spiega a noi, eterni "homo ludens", che godiamo nel vedere loro, fachiri attrezzati a rendere perfetto ogni spettacolo. Ce lo insegna subito, dal via, quando piove, quando le montagne sono nascoste dalla nebbia in lontananza e si fanno spettri monchi man mano che ti avvicini.
E si parte in salita e c'è subito battaglia, e sappiamo noi, spettatori, omologati nel provare certe sensazioni, che sarà una giornata tremenda, e lo capiscono loro, corridori, che quelle quattro ore devono passarle in bicicletta.
E pare ironico pensare che staccandoti subito potrai goderti anche un solo momento. Succede che Primož Roglič, oggi, forse si è tolto un peso. Ha arrancato per i dolori, si è come scrollato di dosso un senso di colpa nel gesto di levarsi e poi scuotere gli occhiali bagnati da una pioggia che oggi per lui aveva il sapore della resa. All'improvviso sì è sbloccato.
I suoi occhi sembravano trattenere le lacrime, e poi, ecco l'incanto: qualche chilometro dopo lo inquadrano sorridente. Per la concentrazione del gesto, per la corsa al successo, il limare, non lo avevamo mai visto così.
Si è goduto ogni momento, un paradosso, come per quello che andava in guerra con il simbolo della pace sul caschetto. Perché quando ti ritrovi davanti per vincere non c'è nulla da godere, lo fai solo all'arrivo, c'è la nobilitazione della fatica, il sapore ferroso del sudore, le urla inconcepibili della radiolina che butteresti via.
Sì, forse quando te lo chiedono nelle interviste improvvisi un po' e racconti di aver visto tanta gente, ma in realtà era solo calore che serviva a scaldare la tua anima e ad alleviare la sofferenza. Oggi Roglič invece, si è goduto davvero ogni momento.
La goduria del momento per Pogačar è durata un'ora, un'ora e mezza. È stata portare in là i suoi limiti, partire e andare vestito di bianco, tornare in giallo, soffrire e immedesimare la sua esistenza come lungo un fiume. Superare, stantuffare, mulinare: i momenti di Pogačar sono stati (quasi) perfetti.
Oggi il momento è stato tutto un paradosso: mentre dietro saltavano vecchie glorie (Froome), feriti (Thomas), delusioni di giornata (Latour), davanti attaccava un (quasi) velocista (Colbrelli).
E c'è stato il primo momento in cui abbiam visto van der Poel fare qualche calcolo non abboccando alle schermaglie, staccandosi sulla penultima salita e passando il gran premio della montagna da solo, quasi tranquillo, che sembrava dire: "perdo la maglia, oggi, ma chissà, un giorno, in futuro...".
C'è stato un momento in cui ci siamo spaventati quando è caduto De Bod e con lui Vingegaard che va talmente forte che è arrivato con migliori e con una spalla scorticata. Il dolore lo sentirà in un altro momento.
E poi c'è stato un momento in cui van Aert ha provato a resistere e in effetti ha resistito. Ha fiutato l'odore della maglia gialla, ma poi quell'odore è stato ricoperto da Pogačar. E poi il momento finale tutto per Teuns, vincere al Tour anche per chi ci ha già vinto, resta sempre un momento, anzi il Momento.
Lucida Follia
Chissà cosa si saranno detti per guardarsi e ridere così davanti alle telecamere. Forse avranno scherzato su quell'ossimoro che è la loro lucida follia, su come dietro non sarà andata giù la loro pazza idea di provare a far saltare il Tour in una giornata che anticipa le montagne (a proposito: oggi antipasto alpino, ma non di quelli con formaggio col miele, frittatina di erbe e tagliere di salumi, ma con Romme e Colombière) e dove, di solito, è scritto a caratteri cubitali che va via una fuga di quelle che non provocano timori né scossoni.
Ma è proprio questo il nodo: a loro di quello che sta scritto non importa nulla. Sono il punto di rottura con quello a cui eravamo abituati in questi anni.
Viene spontaneo chiederci: cosa sarebbe oggi il ciclismo senza di loro? Soprattutto: chissà cosa sarebbe stato il pomeriggio di ieri al Tour senza il loro attacco, senza le loro storie alle spalle, la loro rivalità che parte da lontanissimo - intesa negli anni. Che si sposta dal fango, alle pietre e oggi arriva fino al Tour de France. Trasformando una tappa simile a una classica in una grande classica. Certo, il ciclismo è esistito prima di loro ed esisterà anche dopo, per fortuna, ma ce li godiamo il più possibile. Finché sarà possibile.
Viene spontaneo chiederci anche: chissà cosa avranno in mente di fare nei prossimi giorni, chissà quanto in su riusciranno a spostare l'asticella.
Van der Poel che proverà a tenere la maglia gialla finché si può, altra pazza idea, van Aert che magari sarà all'improvviso l'uomo di classifica della sua squadra visti i guai di Roglič. Domani sera a Tignes avremo un quadro più chiaro della situazione.
Foto: bettini
Il divenire di Guillaume Martin
Cosa potrà fare Guillaume Martin in questo Tour? Difficile dirlo, anche perché le definizioni non gli sono mai piaciute. Nemmeno le etichette. Sia le une che le altre limitano ciò che è una persona e Guillaume non ci sta. «Si tratta di una semplificazione - spiega nel suo libro “Socrate à Vélo”- perché le persone non sono in questo o in quel modo, cambiano continuamente. Le cose che ci circondano sono in un modo o nell'altro, l'uomo diventa». I più grossi torti che si fanno agli uomini, si fanno proprio perché non si riconosce questa loro caratteristica essenziale. Così si mette un'etichetta, spesso a causa dei primi comportamenti tenuti durante la conoscenza e via.
«Tutti dicono che Alaphilippe metta molta passione in sella, quasi fosse solo istinto, e si dimenticano dei sacrifici che fa, perché solo con la passione, senza impegno e sacrificio, non si va da nessuna parte. Di Froome invece si diceva l'opposto: quasi fosse solo testa senza alcun entusiasmo. Quando, anni fa, attaccò sul Peyresourde non mi sembrò come lo descrivono» raccontava in un'intervista qualche mese fa. Del resto, è stato lui stesso a sperimentare il peso di quelle definizioni nel momento in cui tutti hanno iniziato a dire che era l'intellettuale del gruppo, come facevano con Laurent Fignon, in quel caso solo per un paio di occhiali.
«Mi sono messo a scrivere proprio per spiegare che non sono solo un intellettuale o un ciclista intellettuale. Le persone saranno sempre interessate a questo. Ora lo sopporto meglio, all'inizio facevo fatica. La realtà è che non vorrei essere ricordato solo come un ciclista-filosofo». Guillaume accetta il giudizio, anzi lo ricerca, sia quando scrive che quando pedala, purché le due cose non si confondano e si distingua il ciclista dallo scrittore.
Soprattutto Guillaume Martin non si definisce, non si fa definire e si sente libero di fare ciò che crede. Perché questa, in ogni caso, sarà la sua forza: sfuggire a ciò che il contorno gli imporrebbe per inventare qualcosa di nuovo che nessuno ancora immagina. Sfuggire a ciò che tutti vorrebbero fosse, per diventare.
Foto: Cofidis
Il talento salverà il mondo
Datemi il talento e salverò il mondo. Datemi una tappa così e vi farò divertire. Datemi una maglia gialla e vi assicuro che attacco da lontano. Datemi un gruppo in fuga così ricco di talento da sembrare un festival rock degli anni '70, che vi regalo una giornata da non dimenticare.
Perché va così oggi: apologia del talento. Va in scena la forza, la classe, la fantasia. Nella vittoria di Mohorič ci sono tutte le sfumature che rendono memorabile il ciclismo, prezioso il talento. Quello di Mohorič che si accende a intermittenza come quando si ricorda di essere forte, o un po' di più, e oggi è una di quelle volte che lo rendono speciale. Pazienza se ogni tanto può apparire distratto, se rischia e cade persino. Ci piace così, come quelle lacrime a fine gara, ormai un grande classico al Tour, o come quell'inglese sfoggiato ai microfoni che sembra non abbia mai parlato un’altra lingua in vita sua. E poi 86 km col vento in faccia te li fai solo se hai talento.
Datemi il talento e vi ribalto il mondo: sembra sussurrare van Aert a van der Poel, tra i pedali, quando attaccano, tirano il gruppo in fuga e all'arrivo mancano 200 km. Quando si guardano, si dicono qualcosa e per un attimo sembrano persino ridere, poi si corrono contro, poi collaborano, poi danno spettacolo. Hanno sempre fatto così da quando si conoscono e lo ribadiscono nella corsa più grande del mondo che loro, grandi come sono, contribuiscono a esaltare.
Datemi il tempismo e attacco al momento giusto: è Carapaz, il campione mondiale dell'attacco al momento giusto. Peccato (per non dire altro) che la Movistar col dente avvelenato per storie tese ancora vive tra di loro - e che francamente hanno stufato - lo vada a riprendere sul traguardo. Almeno lui ci dimostra che il Tour è ancora vivo.
Datemi la tranquillità che vi gestisco tutto io, sembra pensare Pogačar che di anni ne ha 22 ma per come corre sembrano almeno il doppio. Oggi non appariva in una giornata da bambino d'oro, ma domani chissà, potrebbe persino chiudere i conti con il Tour negando totalmente quello che abbiamo detto sopra su una corsa ancora aperta.
Ma il talento è anche coraggio, quello di Vincenzo Nibali, a proposito di anni lui ne ha davvero quasi il doppio di Pogačar ed è lì che ci prova, brilla, scatta, risponde. Che Nibali sia un perfetto esemplare di talento, non lo scopriamo certo oggi.
Il talento, già, croce e delizia di chi ne porta troppo appresso. A volte ti distrae o ti affossa, ma è talento anche saper soffrire: come accade a Roglič che oggi segna l'addio alle sue speranze di vincere il Tour. Troppe le ferite sul corpo, da stasera anche nell'anima, ma animo: tornerà anche il tuo momento. Di talento per salvare il mondo ne sei provvisto.