Tramonto e Polvere

È successo talmente tanto tra le 15.14 e le 17.15 di oggi, su quelle strade grigie che poi diventavano bianche, che a un certo punto eravamo a metà tra il dire basta e chiederne ancora.

Schmid vinceva la sua prima corsa tra i professionisti a 21 anni, nel giorno meno indicato. Si fa presto a dimenticare: ahilùi l'attenzione era tutta a quello che succedeva poco dietro, a qualche chilometro di distanza, dove la strada cambiava effetto da asfalto a sterro come fosse un gioco perverso. Dove la classifica cambiava a ogni metro, a ogni curva, a ogni grida di tifoso, a ogni ombra riflessa da ulivi e cipressi a bordo strada.

A una certa non ne avevamo abbastanza. Avremmo chiesto persino di più a Bernal, Ganna e Moscon: padrone, dinamitardo e perfido manovratore di questo Giro.
Avremmo mai chiesto di più a Buchmann? Anticipava l'attacco della maglia rosa arrivando - più o meno - assieme a lui, e riaccendendosi in un Giro fin qui passato nell'ombra, passato soffrendo il gelo.

Avremmo voluto dire "basta, ti prego" guardando la volata di Covi che stringeva i denti. Gli occhi sembravano fuoriuscirgli dalle orbite, pareva potesse superare Schmid, ma poi si incartava: di più non poteva. Così come gli altri della fuga, con Kluge che attaccava e si staccava, De Bondt che voleva essere il primo campione nazionale belga a vincere al Giro dai tempi di Maertens, Vanhoucke che avrebbe voluto conquistare una corsa e dedicarla al suo amico Lambrecht che purtroppo non c'è più.

Oppure quel Gavazzi che non è un ragazzino, sa che il tempo sfugge e allora si rende ogni giorno protagonista. Cosa avremmo potuto chiedergli di più?
Avremmo potuto mai chiedere di più a Bettiol vedendolo andare così forte, su ogni terreno, come non succedeva da tempo? E a Nibali che guidava il gruppo sugli sterrati nonostante qualche settimana fa si sia rotto un polso?

Avremmo voluto spingere Ciccone mentre si staccava per la prima volta al Giro, abbiamo detto basta vedendo la sofferenza di Evenepoel, sudato, umano, tenero nella sua difficoltà; gli avremmo dato una pacca sulla spalla e avremmo voluto dire ad Almeida di fermarsi un po' prima per aiutarlo. Avremmo voluto captare il segnale radio per sentire cosa si sono detti tra ammiraglia e corridori in quel momento.

Ci siamo esaltati nel vedere Caruso rimontare dopo essere rimasto dietro nel primo settore sterrato, per poi emergere col baffo impolverato ogni qualvolta la strada s'impennava.

Abbiamo avuto male alle gambe per loro, in quelle due ore in cui tutto si ribaltava tranne Bernal. Dove Vlasov resta l'osso più duro, Yates cresce e Carthy si conferma. Avremmo voluto essere nell'espressione di Foss e Bennett che provavano ad attaccare, ma dietro Moscon, con gambe di bronzo e cosparse di terra, li respingeva.

Avremmo voluto essere in Carboni che per qualche minuto ha pedalato con Evenepoel in salita. Avremmo chiesto “pietà, per favore”, per Bardet che era davanti, persino bellino da vedere, se solo avessimo visto l'attimo in cui scompariva.
Abbiamo visto sprofondare Formolo e ci siamo immaginati saltare Martin. Abbiamo visto calare Valter e imprecare Taaramae.

Abbiamo visto il sole nascondersi tra le nuvole per poi riapparire e illuminare la polvere. E poi tramontare su una giornata entusiasmante, di un Giro entusiasmante, che non dimenticheremo presto. Forse mai.

Foto: Luigi Sestili


La forza di ripartire: intervista a Franco Pellizotti

Il Giro d'Italia della Bahrain Victorious non è di certo iniziato nel migliore dei modi. Nel discusso finale della quinta tappa, a Cattolica, la caduta con conseguente ritiro di Mikel Landa ha stravolto ogni piano. Franco Pellizotti, direttore sportivo della squadra, quella sera ha dovuto parlare agli atleti. «Sono situazioni difficili, ma quando parti per una corsa a tappe di tre settimane sai che possono capitare. Il punto su cui ho fatto leva è stato uno: Mikel Landa aveva fiducia in questa squadra perché composta da ciclisti di valore. Questi ciclisti cosa vogliono fare? Vogliono affrontare tutto il Giro a testa bassa perché la sfortuna ha colpito Landa? Non credo sia una buona idea. Il Giro continua in ogni caso, a questi uomini l'opportunità di dimostrare quello che valgono». Sì, perché Pellizotti non ha dubbi: ogni situazione difficile può essere affrontata e risolta con successo. Tutto dipende da ciò che si sceglie di guardare.

«Credo sia fondamentale la chiave di lettura con cui si fronteggia ciò che accade. L'incidente a Landa poteva essere un alibi dietro a cui nascondersi per giustificare un Giro infruttuoso, incolpando tutto e tutti, oppure la spinta per reagire e portare ognuno a fare ancora di più. Ciò che ti arriva addosso e sembra farti solo male, spesso è anche portatore di grinta, coraggio e volontà. Certo non bisogna piangersi addosso. La squadra è ancora qui, si cambia tattica e si prosegue». Queste cose, il direttore sportivo della Bahrain le ha ripetute anche domenica, dopo lo spaventoso incidente di Mohorič, che fortunatamente ora sta bene. Anche se, continua Pellizotti, in questo secondo caso le cose sono state diverse.

«Un conto è ciò che dici, un conto ciò che accade. Per fidarsi di te, la squadra deve vedere che ciò che hai detto è vero. Che se fa in un certo modo, si può far comunque bene, seppur non puntando alla classifica generale ma alle tappe».

In questo senso, fondamentale è stata la vittoria di Gino Mäder ad Ascoli Piceno, la tappa successiva alla caduta di Landa. «Lì c'è stata la svolta. Avevo detto ai ragazzi di pensare alla Ineos Grenadiers che, l'anno scorso, dopo la caduta di Geraint Thomas ed il suo ritiro, ha costruito la vittoria del Giro. Loro hanno messo in pratica il tutto con un capolavoro tattico. In quel momento è tornata la fiducia: hanno visto ciò che possono fare. E Mäder ha trovato quella vittoria che gli sfuggiva da troppo tempo».

Franco Pellizotti è un direttore sportivo giovane e, quando si parla di esperienza, fa leva su quella accumulata da atleta. «Dirigo, ma in realtà mi sento sempre su quella sella, mi sento sempre un ciclista. Capisco bene quello che può passare nella testa in queste occasioni». Così va nelle camere degli atleti e parla singolarmente con ciascuno. «Quando accadono queste cose è giusto parlare a tutta la squadra, ma anche avere un approccio individuale. La direzione da prendere è generale, ognuno però ha un proprio carattere ed una propria sensibilità. Ciò che sprona un ragazzo, può ferirne un altro. Bisogna considerarlo».
Per farlo è imprescindibile la conoscenza. «Nella vita di ogni atleta ci sono molteplici spigolature. Quello che l'atleta è, come si comporta, non dipende solo da quello che vive nel ciclismo. Se conosci bene gli uomini con cui lavori, sai su che aspetti far leva, sai cosa hanno passato e di conseguenza che parole dire e che modi usare».

Foto: Luigi Sestili


Quando scatta Ciccone

Qualche mattina fa, alla partenza di una tappa del Giro, Giulio Ciccone si è accostato all'ammiraglia di Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani-CSF-Faizanè. Ciccone è cresciuto ciclisticamente con lui, così Reverberi si è sentito di dargli un consiglio. «Gli ho detto che deve stare tranquillo, di non perdersi per la foga di far troppo. Bernal ha una squadra molto forte, credo che la Trek-Segafredo non debba prendere in mano le sorti del Giro d'Italia. Ciccone può attendere e provare ad approfittare di un momento difficile del colombiano».

Chi conosce bene l'abruzzese spiega, infatti, che potrebbe essere proprio l'istinto ad ingannarlo. Giulio Ciccone ha sempre ottenuto buoni risultati nelle corse a tappe a cui ha partecipato ed al Giro, dove è già riuscito a vincere due tappe, nel 2019 ha anche conquistato la speciale classifica degli scalatori, senza naufragare nella generale, sedicesimo nell'occasione. Non facile, in quanto per difendere quella maglia servono scatti a ripetizione per far punti in vetta alle salite, rischiando di rimanere a secco di energie. Ciccone, che per Reverberi può centrare il podio, non può correre in quel modo, affidandosi solo alla voglia di fare. Deve programmare.

Sappiamo che studiare la tattica è una delle sue passioni ed è ciò che ha sempre preferito del passaggio al professionismo, perché ogni corsa si attaglia ad una tattica diversa e mettere in campo la tattica giusta è ciò che fa di un corridore un buon corridore. Chi ci ha corso assieme racconta che è minuzioso nell'analisi di ogni dettaglio, anche per quanto riguarda la bicicletta. Lo sanno i suoi primi meccanici. «Capitava di discuterci perché in ogni occasione voleva rivedere tutto. Quando è tutto pronto, è inutile continuare a mettersi in discussione».

Qualche anno fa, diceva che avrebbe voluto assomigliare a Vincenzo Nibali per essere un corridore da corse a tappe. L'anno scorso, dopo la vittoria al Laigueglia e la dedica alla madre, una stagione sfortunata a causa del Covid-19, quest'anno è tornato al Giro ed i più lo davano al servizio di Nibali, mentre ora le cose potrebbero invertirsi. «Non è un male. Anche per questo dico- prosegue Reverberi- che la Trek non deve “fare” la corsa e mettersi in testa a tirare nelle tappe decisive. Se lo fa, induce pressione e di conseguenza lo porta a sbagliare. A Ciccone serve la mente libera».

Ma Ciccone è anche l'uomo dei contrasti. Come uno scalatore puro che sente il fascino delle classiche, la Liegi-Bastogne-Liegi la sua preferita, e si ispira a Purito Rodrìguez per inventiva e voglia di gettarsi all'attacco. Uomo dei contrasti come il suo profilo che emerge dalla foschia, dal freddo e dalla pioggia del Mortirolo in quella tappa del 2019, come un uomo solo al comando verso Sestola ed il gruppo che non lo recupera. Come Giulio Ciccone che domenica sullo sterrato è stato uno dei pochi a reagire all'attacco di Bernal ed è arrivato secondo. Ciccone che, nel primo giorno di riposo, sa che il Giro è appena cominciato.

Foto: Luigi Sestili


Capitani coraggiosi

Se qualcuno pensa davvero che il ciclismo non sia uno sport di squadra, fatto di registi, faticatori, rifinitori e finalizzatori, si riveda il finale di ieri. Moscon che tira e sgranocchia la coda dell'avanguardia è la scena madre. Lo scatto di Bernal è l'atto decisivo per andare a riprendere gli ultimi superstiti della fuga.
Se qualcuno pensa davvero che il ciclismo non sia uno sport di squadra si riveda gli ultimi 40 chilometri di oggi. Salita "normale" nel menù, che può far male, ma solo se piazzata al decimo giorno di un Grande Giro, e solo se davanti una squadra la mette giù dura per favorire un capitano coraggioso, e per sfavorire gli altri.

Oggi i capitani erano i velocisti. Tutti tranne uno, Ewan, che un paio di giorni fa ha deciso di ritirarsi non senza polemiche («mancanza di professionalità» e «poco rispetto verso la corsa» il pensiero dei Merckx, padre e figlio). Oggi la squadra era la BORA, il capitano coraggioso, Sagan.
Se pensate che una squadra unita e compatta non possa influire sul risultato di una corsa in bici, allora meglio che non vi facciate vedere dalle parti di Aleotti. Stavolta è lui al centro della scena madre: un lungo piano sequenza che lo ritrae davanti e il gruppo in fila alla sua ruota sul Valico della Somma. Aleotti quel gruppo lo trascina fino a 5 dall'arrivo mandando all'aria Groenewegen e Merlier, circondati dalla squadra, e poi Nizzolo.

Se pensate che una squadra, o anche solo un compagno, non sia importante, non ditelo a Nizzolo. Primo piano su di lui: si sfila in cima, resta con Campenaerts che lo aiuta tirando a tutta nel falsopiano. Non ce la fa, Nizzolo, e molla, sbuffa, scuote le gambe. Poi ringrazia Campenaerts con un colpetto sul collo e un sorriso amaro in mondovisione.

Se pensate che una squadra non sia importante allora siete fatti di pietra: ricordate Pinot tra le lacrime al Tour? E tutto intorno pioggia e grigio, con i compagni che vanno del suo passo. Lo incitano, lo abbracciano. Lo aiutano finché Pinot ne ha. Un film drammatico quella volta. Elogio del sentimento, come il gusto gelato crema antica.

E poi di nuovo oggi: ancora BORA. Bodnar e Oss in quel serpentone di curve e strada stretta che mettono in fila il gruppo. E le altre squadre che sbagliano scena: Molano che lancia lo sprint, ma invece di Gaviria ha a ruota Sagan; Veermersch e De Bondt che fanno la volata ognuno per conto suo; Consonni che parte a razzo, ma non c'è Viviani a ruota.

E l'atto finale è dove vince uno che si dice sia finito, o quasi, che non abbia poi molte chance ancora, che si deve inventare qualcosa per vincere, e lui qualcosa lo inventa, qualcosa lo fa. Che sembra non si diverta più e invece si diverte e vince. E trascina. Ridà al ciclismo la dimensione di sport di squadra e finalizza. Una grande squadra oggi, e lui un grande cuore. E questo, Sagan, attore protagonista, lo sa meglio di tutti noi.

Foto: Fabio Ferrari/BettiniPhoto


La speranza di Arturo

Sono una manciata le persone appostate nella parte alta del borgo di Villalago per vedere il passaggio del Giro d'Italia. Per arrivare quassù non si contano gli scalini e le pietre dissestate, i balconi con steso qualche panno e le mollette accumulate in sacchetti appesi accanto alle persiane. Ogni insegna da queste parti sa di mani artigiane e di antico. Chi si siede fuori dalle case, arroccate in viottole, spesso senza uscita, lo fa su vecchie sdraio a righe, con una sedia di vimini accanto per poggiare gli attrezzi, per maneggiare il legno o il ferro. Sì, perché qui la gente lavora anche la domenica.

Se ci fosse qui Arturo saprebbe spiegare molto meglio di noi cos'è questo borgo. Così ci dice Maddalena, la nipote di Arturo: «Noi non abitiamo più qui, siamo solo della zona, ma per mio zio non ci sono storie che tengano. La sua città è questa. Vi racconterebbe di certo di quel gradino di pietra che è davanti ad una vecchia casa salendo qui, del fatto che pesi circa cinquecento chili. Poi vi chiederebbe, secondo voi, come hanno fatto a portarlo qui più di cinquecento anni fa. Credo non lo sappia neanche lui ma, sin da quando ero bambina, mi parlava di quel gradino. Come mi raccontava di tutto il pavimento di una casa da queste parti, pietre di venti chili che un signore ha posizionato personalmente perché “sono artigiano e le mani le ho per usarle”.»

Arturo che è cresciuto qui, quando per queste vie c'erano ancora i pollai e qualche gallina libera che arrivava all'uscio di casa, quando qui passavano ancora i muli con il loro carico e giù, accanto alla strada sterrata, si vedevano i pastori d'Abruzzo pascolare le pecore. Arturo che è appassionato di ciclismo e quelle strade le percorreva con Maddalena quando lei era ancora bambina. «Gli altri bambini raccontavano dei loro eroi, io sentivo zio che mentre pedalava per andare in campagna cantava “vai Girardengo, vai grande campione” e immaginavo chi fosse questo Girardengo». E poi tutte le rivalità che Arturo le ha raccontato. «Mio zio non ha un carattere semplice, sa essere freddo, duro, ma raccontare gli piace. Forse, per chi ha fatto la sua vita non può essere altrimenti. L'Abruzzo è una terra stupenda, ma aspra. Gli alberi scompaiono in un attimo e vedi le rocce, le pietre. Qui gli inverni sono lunghi, per quello c'è quella legna ancora accatastata».

Del ciclismo, spiega Maddalena, Arturo rispetta la fatica. «Ora che ha una certa età si commuove quando il gruppo passa e la gente applaude. Dice che fino a quando qualcuno starà ad aspettare una persona in bicicletta che sale da una montagna, sudata e malmessa, anche chi ha la sua età può sperare».
Lui sostiene che fino a ieri non si era mai perso un passaggio del Giro d’Italia nella sua terra. Maddalena dubita ma «lo dice così sicuro che contraddirlo dispiace anche. E poi si arrabbierebbe, se non gli credessi». Ieri non c’era perché un mese fa, cadendo, ha rotto il femore ed il recupero è lungo. Al mattino Maddalena è passata da lui, prima di salire al borgo, ma non gliel’ha detto, temendo di ferirlo. «Mi ha fissato e mi ha rimproverato: “Faccio finta di non sapere dove stai andando. Guarda che al Giro tornerò anche io, cosa credi? Il femore si sistema. Anzi, ti conviene sperare succeda in fretta perchè voglio tornare al borgo e, se non ci riesco con le mie gambe, vi toccherà portarmi in spalla”. Cosa volete farci, quell’uomo è fatto così».


Un libro e tre figure impresse

Senza timore di smentita la tappa di oggi ha promesso tanto, almeno inizialmente, ma a conti fatti ha dato poco in termini di distacchi in classifica, e si riassume in un libro e tre figure che restano ben impresse.

Il libro è “Il Miracolo di Castel di Sangro”, citazione dovuta visto che si parte dal piccolo paese abruzzese, meno di diecimila anime, e che oramai diversi anni fa visse un indimenticabile sogno chiamato Serie B.

Non c'entrano santi né strane pozioni dietro quel titolo: il libro è la storia raccontata da un saggista e giornalista americano, ormai scomparso, Joe McGinniss, che passò di fianco alla squadra tutta quella stagione, e ne tracciò un'opera ormai introvabile (se non a prezzi assurdi) e fuori catalogo, e che ogni appassionato di sport (e non solo) dovrebbe leggere. Un'opera che costò all'autore persino una condanna per diffamazione.
Dai piedi fatati a quelli sempre in movimento sui pedali, e la prima figura che resta impressa oggi serve per ritornare direttamente al Giro: Mohorič. Mentre scriviamo è cosciente in ospedale, ma vederlo carambolare con la testa sull'asfalto in quella maniera ci ha fatto temere il peggio.
L'incidente è decisivo per gli esiti di una tappa che alla fine si risolve quasi in un nulla di fatto, se non nell'intensa sgasata finale di un Bernal in stato vanderpoeliano sullo sterrato, e che porta a compimento il lavoro fatto da un rigenerato Gianni Moscon, migliore in campo – se vogliamo rubare il gergo al calcio, visto l'incipit - oggi.

Decisiva la caduta, dicevamo, perché la Bahrain si mette in testa, trascinata dagli eventi, di risolvere la giornata proponendo un faccia a faccia d'altri tempi quando all'arrivo mancano ancora tre ore e circa 120 km. Mohorič, Mäder e Caruso (Bahrain), insieme, tra gli altri, a Masnada (Deceuninck) e Martínez (Ineos), stanano il gruppo verso Passo Godi, ma dopo la caduta dello sloveno, la tappa che porta verso Campo Felice assume un'identità decisamente più lineare, con la solita incontrollabile baraonda dei girini per portare fuori la fuga di giornata.
La seconda figura è quella di Geoffrey Bouchard: elogio alla caparbietà per l'ex commesso di Decathlon. Attacca e contrattacca insieme ad altri sedici, fra cui Ulissi, Mollema, Guerreiro, Edet, Fabbro, insomma, un bel gruppetto di qualità; attacca e contrattacca per prendere più punti possibili sui vari Gran Premi delle Montagna, in una giornata dove al grigio sempre più plumbeo del cielo, fa da contraltare il variopinto verde della selva abruzzese. Verrà ripreso soltanto a 400 metri dal traguardo da Bernal che nel frattempo stacca tutti gli altri contendenti alla maglia rosa. La figura di Bouchard al termine della tappa si tingerà d'azzurro.

La terza figura è proprio quella che si ritaglia intorno a Bernal, non poteva essere altrimenti. I suoi mettono a ferro e fuoco un finale meno duro di quello che ci si aspettava, mentre il colombiano con il suo attacco lascia tutti dietro.
Sotto la sua ruota asfalto, sotto quella degli altri un grossolano terriccio che rallenta e provoca spasmi. La figura di Bernal al termine della tappa si tingerà di rosa.

Bene Ciccone, sospinto dal pubblico, sempre più sorprendente a questo Giro e che gli arriva a ridosso lasciandolo andare via solo prima dell'ultima curva verso il traguardo. Con Ciccone arriva Vlasov, silenzioso candidato a un podio finale.
Evenepoel lascia per strada qualcosa, almeno inizialmente, ma sul finale rimonta e chiude insieme a Martin. Cresce Almeida, dopo la giornataccia di Sestola, che arriva a una dozzina di secondi con il resto dei migliori - Formolo, Yates, Carthy, Bardet, Soler, Caruso e Martínez.
La maglia rosa Valter è un po' più indietro, ma quanto basta per diventare ex. Sorprende ancora Bettiol che chiude insieme a Nibali, male, ma ormai non è una novità, Hindley, inspiegabile l'ennesima débâcle di Bilbao che solo poche settimane fa volava al Tour of the Alps candidandosi come uno degli outsider più accreditati a questo Giro.

Domani volata, poi riposo prima della tappa chiave verso Montalcino. Se gli dèi del Giro soffieranno tempesta ci sarà da divertirsi.

Foto: Luigi Sestili


Riuscirci comunque, crederci sempre

Qualche giorno fa, Cyclingtips ha scritto che meno dello 0,02% delle persone che vivono nei Paesi Bassi si chiama Taco: nei Paesi Bassi vivono circa 17,5 milioni di abitanti, il conto è presto fatto: 1300. E si chiama Taco proprio il vincitore della terza tappa del Giro d'Italia. Pensate che questo ragazzo, solo pochi mesi fa, avrebbe voluto smettere di correre in bicicletta. Già, pochi fronzoli per la testa e tanta serietà: serve un lavoro, se non può esserlo il ciclismo, si cercherà altro. Il suo mito è Graeme Obree, uno scozzese che è riuscito a battere il record dell'ora correndo su una bicicletta costruita con vecchie parti di lavatrici. Nulla a che vedere con quella di Taco e con i suoi studi sull'aerodinamica che lo hanno portato a vincere a Canale con soli quattro secondi di vantaggio sul gruppo.
Il motivo per cui siamo partiti da lui è semplice: perché la sua storia ciclistica avrebbe potuto finire ed invece continua che è un piacere. La sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux di storie simili ne conosce tante. Come non parlare di Rein Taaramäe, ad esempio. Lui è nato in Estonia, a Vandra. Oggi, quando si parla di Taaramäe si pensa ad uno scalatore. Peccato che nella sua nazione la cima più alta scalabile sarebbe una passeggiata anche per un velocista. Taaramäe ha fatto come molti suoi compagni tra Estonia, Lettonia e Lituania, si è spostato in Francia ed ha iniziato a correre lì, con le categorie amatoriali, pur di poter diventare un ciclista.

Forse anche la sua storia avrebbe potuto non esserci, ma lui ha creduto al contrario ed è qui, al Giro. Spesso in fuga.
Riccardo Minali, a fine novembre dello scorso anno, era ancora senza squadra e non sapeva spiegarselo. Diceva che, alla fine, è ben strano questo mondo. Magari quando sei in giornata buona non ti vede nessuno ed invece quando ti stacchi e non riesci a muovere i pedali sono tutti a guardarti. Lì si fanno un'idea su di te e poi fargliela cambiare è quasi impossibile. Anche perché cambiare idea costa fatica e l'essere umano è conservatore per indole. Poi la squadra l'ha trovata, in Belgio. Sì, perché anche Minali è in Intermarché.

Vi potremmo parlare di tanti altri, ma vi parliamo di Andrea Pasqualon. Lui che ci ha sempre creduto, più di chiunque altro. Qualche tempo fa diceva: “Se fossi un direttore sportivo scommetterei su di me”. Difficile restare così sicuri quando le cose non vanno. Lui ci è riuscito. Pasqualon lo ha fatto con il ciclismo e quando, nel 2017, è tornato a vincere, dopo due anni di digiuno, piangeva come un bambino. Lì ha capito che fermarsi sarebbe stato un errore.
E via, avanti così perché qui le storie si somigliano tutte e hanno a che vedere con la fame, la voglia di riscatto. Hanno a che vedere con ciò che provi quando rischiano di strapparti via ciò in cui credevi mentre stavi crescendo.

Valerio Piva, direttore sportivo della squadra, spiega che in Wanty si fa così perché non c'è altra possibilità, perché non c'è un uomo di classifica. Noi vorremmo dire che il mondo non si divide fra chi può far classifica e chi no. Il mondo, forse, si divide tra chi ha già lasciato perdere e chi non smette di provarci. Loro non hanno smesso ed alla fine ci sono riusciti.

Foto: Luigi Sestili


Storie di uomini semplici

Il racconto di oggi non è soltanto quello di una tappa. È il racconto di chi si sveglia al mattino con le gambe indolenzite, tanto da fare fatica a scendere le scale per andare a colazione, e poi c'è la riunione tattica, una bici da prendere, casco e mascherina, ci sono tutti i riti scaramantici e propiziatori, c'è da fare un giro per vedere che aria tira, e se c'è un po' di sole come oggi sopra Foggia al via, beh: respiro di sollievo.

La storia di oggi è quella di 177 corridori che partono verso Guardia di Sanframondi e si danno battaglia come non mai: dicevamo di quel respiro di sollievo?

Lo stradone che da Foggia porta a Campobasso è, appunto, uno stradone. Largo largo che il gruppo potrebbe viaggiarci di traverso, ma un leggero vento di fianco induce ai cattivi pensieri da subito.

Una storia semplice quella di oggi: come quella che vede Bernal davanti nei ventagli a 165 chilometri dall'arrivo, gli dicono di fermarsi: "oh ma che ci fai qui?", forse non sanno che Bernal nei ventagli ci sta meglio di altri, e lui lì si è trovato non per caso o per dispetto, ma per vocazione.
Stuzzica il gruppo quell'azione, e ci vogliono settanta chilometri prima che gli animi si plachino e la fuga, quella giusta, riesca a partire.

E la tappa di oggi diventa così un racconto che scorre veloce, scritto sulla strada da nove corridori che, visto com'erano andati i primi chilometri, sembrano spaesati lì davanti. È il racconto di un Dante su una bici rosa nascosto dietro una curva, di cani senza guinzaglio lungo la discesa di Bocca della Selva, di case con le pietre sulle tegole, di nuvole scure in cima alla salita, di un gruppo che tira i remi in barca dopo aver esagerato con l'ultraviolenza per oltre un'ora, rimandando a domani l'appuntamento con la gloria.

E così c'è tempo per conoscere Gaviria, in fuga chissà, un po' per caso - la sua squadra oggi poteva puntare su altri - lui, velocista, qualche stagione fa sembrava dovesse dominare. Invece fa fatica, non vince più e cerca altre vie per il riscatto. Quando attacca su un tratto di leggera salita e poi cade due curve dopo in discesa, sembra di ritrovare nel mucchio la foto esatta che ritrae un lungo periodo in cui non gliene va dritta una.

E così conosciamo la storia di Arndt, veloce, ma non abbastanza per essere un velocista, forte sul passo ma non abbastanza per essere il più forte tra i passisti, ma che al Giro ha già vinto ed è uno spesso letale in fuga. La storia di Oliveira, per molti il favorito tra questi nove, di Gougeard che avrà attaccato cinquanta volte, di Campenaerts che il suo pezzo di storia, con il record dell'ora, l'ha già scritto, di Goossens, da Baal come il suo mentore Sven Nys, il più giovane davanti: negli anni ha superato ostacoli di ogni genere, fratture, problemi alimentari e che prende appunti dai maestri della fuga per ritagliarsi un giorno anche lui un posto nella storia.

Come Gavazzi che trascina con la sua esperienza la squadra e che in carriera vinse una tappa alla Vuelta ormai dieci anni fa: oggi, secondo, arriva a tanto così da un sogno.

La storia semplice di Carboni, che da Under 23 era uno su cui puntare, poi ha faticato a emergere, ma ha vestito per un giorno la maglia bianca al Giro. Racconta che la bici è sofferenza, che è divertente quando vinci «altrimenti può essere una brutta bestia». Non ha mai vinto, e oggi c'è mancato poco.

E infine c'è quella di Lafay, vincitore incredulo e incredibile, con quella faccia da bambino, il naso fine e le guance rosse. Va in bici da quando è nato, e dice che uno dei momenti più brutti della sua vita è stato quando ha passato cinque mesi senza toccarne una.

Il racconto di oggi si chiude così, con questi uomini che andranno a dormire con le gambe indolenzite, con le ferite sul corpo di Gaviria e la tristezza di Carboni, il sogno sfiorato del vecchio Gavazzi, quello realizzato dal giovane Lafay. Storie di uomini semplici in bicicletta come solo la bicicletta sa raccontare.

Foto: BettiniPhoto


Ultimo uomo

Per Fabio Sabatini, quello iniziato sabato scorso a Torino è l'undicesimo Giro d'Italia. Eppure, a pensarci bene, di uguale non c'è praticamente nulla. «Sarebbe come paragonare il giorno alla notte. Il mio primo Giro è stato nel 2007, in Milram. Posso citarti ancora il treno a memoria: Petacchi, Velo, Sacchi e Ongarato. Il clima era diverso, c'erano ancora i treni dei velocisti. Ad oggi non c'è più una squadra che ne abbia uno definito. Forse è anche perché la dinamica dei punti UCI costringe le squadre a frazionare i compiti al loro interno. Noi eravamo al Giro solo per Petacchi. Ora, in Cofidis, ma vale per ogni squadra in realtà, ci sono tre uomini a supporto di Viviani per le volate e gli altri quattro che si giocano le altre tappe. Il treno che partiva ai tre chilometri dal traguardo non è nemmeno lontanamente replicabile».
Il lavoro di questi giorni al Giro, spiega Sabatini, è lavoro di esperienza per mettere il velocista nella migliore posizione. «Io tiro sempre le volate. Una volta lo facevo di potenza, ora di esperienza. Per Viviani ci sono io e c'è Consonni, per Gaviria ci sono Richeze e Molano. Solo la Deceuninck - Quick Step ha ancora un treno ben definito per Bennet ma perché loro lavorano così. Ricordo quando correvo lì, i meccanismi erano talmente fissati che era quasi impossibile sbagliare. La squadra partiva ai due chilometri, io ai quattrocento metri e mi spostavo ai duecento. Poi potevi vincere o perdere».
Un punto fisso resta: la fiducia. Non si diventa “ultimo uomo” dopo pochi anni di professionismo e questo è importante perché «puoi perdere il picco di potenza, quello che hai imparato, anche sbagliando, non lo perdi». Anzi, nel tempo, provi a metterlo a disposizione degli altri. «Simone Consonni è molto bravo ed essendo un ragazzo davvero intelligente capisce al volo ciò che c'è da fare, forse gli manca ancora un poco l'occhio. Non ci sono segreti particolari. Consonni, venendo dalla pista, è molto scaltro e riesce ad infilarsi in ogni varco del gruppo. Va bene, però non deve farlo quando pilota un velocista altrimenti lo costringe a fare continue volate per tenergli la ruota e, all'ultima volata, le gambe non ci sono più. Ma è giovane ed impara in fretta».
Anche la volata di ieri, aggiunge Sabatini, è stata basata sul riuscire a scegliere le scie giuste per essere nelle prime posizioni all'uscita dall'ultima curva. «Ora si lavora sempre più sull'anticipare la volata e per farlo è questa l'unica via». Crede che Viviani sia uno degli uomini più completi con cui gli è capitato di lavorare e, se pensa al passato, chiosa: «Gran parte di quello che ho imparato lo devo ad Alessandro Petacchi. Lui e Mario Cipollini erano maestri in tema di volate. Sono quegli atleti unici, inimitabili».
Quando gli chiediamo se sia soddisfatto del lavoro svolto sino ad oggi al Giro, Sabatini non ha dubbi: «Noi siamo venuti qui con l'idea di lavorare bene e credo che questo, per quelli che sono i nostri mezzi, lo stiamo facendo. Ci manca la vittoria, solo quello. Si sa, però, che, quando la cerchi troppo, non arriva. Magari, poi, incappi in una circostanza fortunata, ti sblocchi e da lì tutto scorre. Ogni giorno è il giorno buono. Ricordiamocelo sempre».

Foto: Luigi Sestili


Il grido di Ewan

Per tutto il giorno non abbiamo fatto che aspettare sonnacchiosi questa benedetta volata: un po' per il vento, un po' per una giornata di moderato (e anche meritato, dopo tutto il freddo preso ieri) relax in gruppo, e sembrava non arrivasse più.

Si parte sotto un lisergico cielo fatto di ombrellini rosa. Non c'è Pozzovivo e ce ne dispiace: ieri caduto e arrivato in ritardo, oggi si è svegliato con male al braccio.

SI prosegue e il cielo imita l'elettrica danza dei corridori: azzurro intenso al via e poi grigio, con le nuvole che si caricano di pioggia mano a mano che il gruppo “aumenta” la velocità.

Si parte dall'Abruzzo e si arriva in Molise: da Notaresco a Termoli. Il mare, specchio blu, sta perlopiù a sinistra, le montagne, verde scuro, sono una cornice a metà che delimita il contorno. Perlopiù a destra.

Fuggono dalla golconda del gruppo tre corridori di squadre Professional che timbrano puntuali il loro cartellino: Marengo, Pellaud e Christian. I primi due, habituè oramai della fuga in questo Giro, li conosciamo bene, come personaggi ben caratterizzati di un fumetto a cui ci siamo affezionati. Il terzo, invece, è un ragazzo inglese che arriva dall'Isola di Man. Su pista ha vinto diversi titoli nazionali nella madison in coppia con Kennaugh, prima, poi con Rowe e persino con Simon Yates, quest'ultimo qui per vincere il Giro, mentre Christian è qui per dare esperienza ai suoi giovani compagni, della giovane EOLO-Kometa. «L'età si avvicina di soppiatto» raccontava tempo fa. «Ieri avevo vent'anni, oggi trenta e mi pare assurdo tutto ciò».

Peter Sagan, non bada all'età, ma pensa all'estro e giocherella per qualche punticino al traguardo volante. Poco dopo cincischia rilassato con gli occhiali mentre scambia due chiacchiere con l'ammiraglia in favore di telecamera. Disteso più che affamato, non riuscirà a fare la volata che sognava.

Quando i tre vengono ripresi, inizia la battaglia delle posizioni tra le squadre del gruppo: capitani di classifica contro uomini di tappa, velocisti contro scalatori, gregari contro gregari, a riparare dal vento, a cercare spazi. L'entrata a Tremoli è come un liquido che si infila in un imbuto, il gruppo si allunga e si assottiglia prima della sparata finale.

Ci prova Albanese, ma chiude Oss, mentre Gaviria si ricorda di aver avuto movenze feline e tenta la sorpresa. Poi spunta Ewan come fosse un urlo cacciato da lontano, spara a tutta, si leva di ruota Cimolai, Merlier, Moschetti e Pasqualon che gli finiranno, nell'ordine, alle spalle, adagiati come possono alla ruota del piccolo australiano, respirando il fumo del suo motore.

Sgasa furioso Ewan, e nessuno lo può passare: mulina le gambe, e il suo urlo si propaga fino al traguardo: fanno due a questo Giro. Tappa e maglia (ciclamino). E se deciderà di arrivare fino a Milano, si fa dura per Nizzolo (oggi 12°), Sagan (14°) e Viviani (15°) provare a strappargliela.

Foto: BettiniPhoto