Domani finisce il Giro

Comunque vadano le cose tra oggi e domani, il Giro fra poco più di ventiquattro ore sarà terminato. Spiace perché, alla fine, al Giro vanno tutti appena se ne presenta l'occasione, perché nel Giro si ritrovano tutti pur non conoscendosi e magari non condividendo nulla fino all'istante prima. Forse intendeva questo chi disse che ad una corsa ciclistica puoi anche andare da solo, ma, in fondo, non sarai comunque solo.
Noi, però, oggi vogliamo parlarvi delle persone a cui forse spiace di più. Vogliamo parlarvene perché ieri, a Scopello, osservavamo spensierati il fatto che tre settimane siano passate in fretta, quando un signore, guardandoci, ci ha detto: «Forse voi non vi rendete conto di cosa significa tutto questo. Forse non capite quanto sia importante per molte persone». Effettivamente non abbiamo capito subito quello che intendeva, ma sono bastate poche parole perché tutto fosse chiaro. «A me il Giro ha sempre fatto questo effetto, mi ha sempre fatto dimenticare tutto ciò che non andava. Forse devo sottopormi ad un'operazione, nulla di particolarmente grave, ma pensarci è inevitabile. Fino ad adesso ho avuto la certezza che per qualche ora al pomeriggio ho potuto far finta di niente. Da lunedì non più. Quando me lo hanno detto, ho pensato: “Vedremo dopo il Giro!”. Ora che il Giro è passato dovrò pensarci seriamente. Non potrò nemmeno più dire: “Lasciami finire di vedere la tappa e poi ne parliamo”. Sì, forse non avete la percezione di quanto sia importante per tante persone».
Chissà, forse davvero non lo avevamo capito, oppure, semplicemente non lo avevamo mai visto così chiaramente perché nessuno ce lo aveva parato davanti agli occhi con tanta lucidità. Ma, in effetti, è proprio così. Il Giro, per molti, è solo l'occasione buona per dimenticare qualcosa, per non pensarci per qualche istante o semplicemente per una boccata d'aria fresca. Già, perché poi gli esempi sono tanti e tutti diversi, ma in queste tre settimane di storie così ne abbiamo incrociate molte.
Pietro Algeri, giusto qualche giorno fa, ci diceva che la cosa che più lo sorprende, anche dopo quaranta Giri d'Italia resta la pazienza della gente che aspetta ore per vedere qualche secondo. E quell'attesa, ci ha spiegato Algeri, è, in realtà, la cosa che più piace del ciclismo perché non possono essere solo quei dieci secondi a rendere felici tante persone, deve essere quello stato di euforia che le butta giù dal letto di prima mattina il giorno in cui passa il Giro, anche se mancano ancora ore e potrebbero continuare a riposare. Lo fanno perché stanno aspettando qualcosa che arriverà e questo le rende così serene da essere in grado di lasciare da parte i problemi fino a che quella scia non sia passata.
Perché sai che il tuo bar, dopo tanti mesi di chiusura, tornerà a essere come una volta, come quando «di lavoro se ne aveva anche troppo».
Perché l'infermiera dell'ospedale ti ha accompagnato in sala dove tutti stanno guardando la corsa ed a te è sembrato di essere ancora a casa. Perché col passare degli anni tutte le case si svuotano un poco e bastano quelle voci in televisione per tornare a immaginarle piene, con i bambini che giocano nel prato. Perché maggio è sempre stato così, sin da quando andavi a scuola e rimandavi lo studio della storia o della geografia al termine della tappa e poi finivi a studiare di notte.
Sono loro le persone a cui pensiamo stamani, quelle che temono la fine del Giro perché non gli è rimasto più nulla da aspettare. Perché aver qualcosa da aspettare può davvero aiutarti. Che sia un'altra tappa o un altro Giro.

Foto: Luigi Sestili


Tutte le facce della salita

La tappa di oggi è in quel gesto dei corridori annunciato ieri sera: la decisione di devolvere i premi di giornata per sostenere le vittime della tragedia della funivia di Stresa. Azione brillante, da sottolineare.
E poi all'improvviso è tutta negli ultimi 6,5 chilometri che portano al traguardo dell'Alpe di Mera, quando Almeida la innesca, macinando il rapportino, tirando fuori la lingua come un cagnaccio assetato. Perché la salita quando è vera salita non ti permette di bluffare, ti leva la maschera, ti strappa di dosso quella corazza che fino a quel momento usavi per celare ogni sensazione.
La tappa di oggi si risolve nell'attacco di Yates, poco dopo, che riprende Almeida lo lascia lì a cercare i suoi perché e si invola verso il successo. Impassibile, col cerotto sul naso, dal busto in su pare la riproduzione in scala ridotta all'osso di un colosso di pietra. Uno dei suoi tecnici lo aveva detto: «Yates uscirà fuori nella terza settimana», una precisione così, vista di rado.
La tappa di oggi è negli sguardi di Bernal. Quando vanno via Yates e Almeida sembra finita, ma in realtà gestisce. Castroviejo e Martínez gettano litri di sudore per lui e si infiammano per aiutarlo, senza atti plateali stavolta. Bernal pare uno straccio inizialmente, poi lo sguardo si incattivisce e mira dritto verso il tornante successivo. Torna in sé fin quando, tagliato il traguardo, lancia sorrisi e occhiolini.
La faccia di Caruso è quella di chi è a due tappe da qualcosa difficile da spiegare e che non diciamo. Perché per "un gregario grande così" , come scrisse una volta qualcuno parlando di lui, quello che sta facendo è incredibile. «Ho trentadue anni e non sono così vecchio. C’è ancora qualche cartuccia da sparare» si raccontava tempo fa. Lui che sosteneva e pensa ancora che «un capitano vince soltanto se ha una squadra forte che lo aiuta, che lo scorta, che lo protegge. I gregari migliori devono andare forte quasi quanto il capitano, altrimenti nei momenti decisivi quest’ultimo rimane da solo». Lui, gregario, che si è ritrovato capitano dopo che Landa ha visto infrangere i suoi sogni sull'asfalto.
La faccia di Vlasov è quasi indecifrabile, forse sono quei tratti leggermente orientali o l'accento con inflessioni lombarde, fatto sta che, come lo leggi? Risponde agli attacchi, poi cede, poi barcolla, poi rimonta: se qualcuno ha preso i tempi negli ultimi chilometri forse scoprirebbe che alla fine Vlasov è stato persino il più veloce.
La tappa di oggi è nella prepotenza della pedalate finali di Almeida, sì sempre lui, quello delle boccacce, quello che non molla mai cascasse il mondo, quello che lo scorso anno ha vestito due settimane la rosa e che qui pareva solo in soccorso di Evenepoel. Ancora una volta maledice un traguardo che si avvicina troppo presto o forse le sue gambe che si risvegliano troppo tardi.
La tappa di oggi è in Foss che non si vede mai da doverti immaginare i suoi connotati, eppure è sempre lì, oppure in Covi, oggi 13° dopo tutto quello che di buono ha combinato al Giro a suon di fughe: il futuro per lui assume un nuovo significato.
La tappa di oggi è nella salita finale che Jacky Durand aveva descritto come simile all'Alpe d'Huez: non c'entra nulla, caro Durand, ma è sentenza vera. Perché al Giro puoi bluffare, puoi provare a nasconderti per non farti prendere, ma non puoi far nulla davanti alla forza di un'ascesa e a tutte quelle facce che ti costringe a mostrare.

Foto: BettiniPhoto


Dopo la fine c'è sempre un nuovo inizio

Nella vita di un corridore sono più i giorni tristi che quelli felici, si dice spesso, lo raccontava ieri anche Davide Cassani. Sono più le cadute che la gloria, le sconfitte che le vittorie, e una corsa di tre settimane è un compendio di rinascite e cedimenti, ascese e tonfi, di insegnamenti, motti e morali. È un viaggio che, quando giunge al termine, ne fa iniziare un altro. È una tappa che riparte, una nuova corsa che ti aspetta in calendario, una nuova idea da far diventare aspirazione.
Arrivi in fondo e c'è una fine che ti spinge verso un nuovo inizio: quando termini un cammino, vedi la luce in fondo al tunnel, completi un progetto, giungi in cima a una salita; persino quando raggiungi uno scopo e ti poni altri limiti. Quando spingi e vedi la linea del traguardo e poi la tagli sai che il viaggio al termine del giorno ti darà altro a cui aggrapparti, poi altro ancora. Ciclo della vita, sequenza da decifrare. Per ripartire, per provare a rinascere.
Per Remco Evenepoel e Giulio Ciccone ieri, il viaggio al Giro 2021 è terminato: non c'è stata una diciottesima tappa. Una curva a gomito il giorno prima con corridori che si disperdevano sull'asfalto, e giù per terra Ciccone, sul guardrail Evenepoel.
Questo Giro per loro è stato l'inizio, idea di ascesa verticale verso la gloria, un traguardo dopo l'altro da tagliare, fatica mascherata da proclami, gioie che si mescolavano a dolori, dopo un 2020 di quelli da strapparne le pagine e dargli fuoco. Infortuni gravi, drammi familiari, e sulle strade italiane la convinzione che la loro ricerca sarebbe ricominciata.
E Remco filava a questo Giro. Filava nei primi giorni tanto che c'è stata una tappa, quella con arrivo ad Ascoli, dove tutti pensavamo che il ragazzino belga dal motore che scomoda paragoni indicibili, avrebbe persino vestito la maglia rosa - semplice errore di calcolo. Poi a Campo Felice qualche pedalata da dietro, a Montalcino la crisi nervosa, sullo Zoncolan gli scricchiolii, poi Giau e infine Passo di San Valentino, martirio e dolore.
La caduta in discesa: sofferenza in un gomito gonfio come una mela acerba; il dolore: nessuna frattura per fortuna e la tappa portata a termine perché Remco non è solo sacro talento, ma un leone che si batte fino alla fine. Volevano fermarlo già il giorno prima, ma lui è ripartito, testardo, cosciente dei propri mezzi, voglioso di rinascere. L'altro ieri una sorta di oblio rotto solo da quell'immagine che lo vedeva tagliare il traguardo con una smorfia che esprimeva dolore fisico, palesava quello dell'anima. «Lo abbiamo spinto fino al traguardo - racconta Keisse, che di anni ne ha 18 in più e divideva la stanza con lui a questo Giro - aveva così tanto dolore che non riusciva a tenere stretto il manubrio». La prima vera batosta di una carriera che sin qui lo ha visto brillare come un genio delle arti a cui tutto riesce così bene. E ieri Remco non è partito, così come Ciccone.
È salito sul palco firme, Ciccone, poi nulla da fare. Anche l'abruzzese i primi giorni fulgeva, saltellava con quelle gambe nervose e tirate, sorprendeva scalando la classifica, poi una brutta botta, la febbre e una notte insonne. Infine il ritiro. Per entrambi tutto si è fermato tra Sega di Ala e Rovereto. Per entrambi tutto ripartirà con una nuova convinzione.
Per entrambi una fine anticipata in corsa, espiazione di chissà quale peccato. Ma negli occhi una scintilla. La prossima corsa arriverà presto e con quell'aria da leoni che entrambi si portano dietro è facile immaginarceli presto già di nuovo competitivi, o comunque in sella, per una rinascita che sa di rivincita. Perché a ogni fine fa seguito sempre un grande inizio e questo Giro d'Italia gli ha insegnato qualcosa anche (o soprattutto) nell'amarezza della sconfitta.

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Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol

Come brillano i muscoli di Bettiol quando sul traguardo leva le mani dal manubrio, sorride, li mostra, ci crede, occhi nascosti dagli occhiali che riflettono la luce del sole che abbaglia Stradella.

Ci crede, sì, ma fino a un certo punto. Ci ha creduto, pareva non arrivasse più questa vittoria, in una giornata dura, da fuga pazza, da finale a tutta, chiama all'appello il pubblico che risponde, e quel punto esclamativo davanti al suo nome scritto sugli appunti si cerchia di rosso.
Un gladiatore, Bettiol: gettato nell'arena mostra i pericoli delle sue zanne. Infligge ferite: chiedete a Cavagna. Ripreso sull'ultima salita esplode per tenergli la scia come se davanti alle sue ruote la forza di Bettiol emanasse vapore bollente.

Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol. Finalmente Bettiol, ci vien da dire. Vittoria cercata e arrivata, suggerita da ogni angolo del globo ciclistico. Dopo aver mostrato di andar forte ovunque a questo Giro, pure in salita, Hugh Carthy se lo è tenuto stretto. Bettiol vicino a lui, una guardia, una coperta in inverno, con tutto il freddo che hanno preso. Francobollato alla sua schiena, Carthy, come se dalla linfa di Bettiol prendesse forza. Come se i suoi muscoli bastassero per due.

E non poteva esistere, in un mondo fatto di ruote, grasso e catena, che uno così avesse vinto solo due corse in carriera. E non poteva esistere che in un gruppo di bei nomi come quelli oggi in fuga, uno come Bettiol non fosse tra i favoriti.

E non poteva scegliere tappa migliore. Infinita da non sembrare vero con i suoi 231 km al diciottesimo giorno di corsa. Da attaccanti, da lunghi rapporti in salita che lui spinge con la naturalezza di un animale nato per vincere oggi. Salite spacca gambe che ispirano il talento, discese più che pennellate affrontate in sicurezza. Uno scenario da cartolina da mandare a casa e scrivere: "Ciao mamma, oggi ha vinto Bettiol!" e di fianco una faccina sorridente, un cuore scarabocchiato, un altro punto esclamativo di fianco al suo nome.

Occhialini tricolori e casco rosa: apoteosi della partigianeria in salsa Giro. È uno strano animale da corsa Bettiol, a volte te lo aspetti e non arriva, oggi lo vedi lì, frizzante, ma quando parte Cavagna pensi di nuovo all'occasione sfumata.

Invece appare calcolato: animale razionale che usa finemente il cervello, sfrutta muscoli d'annata, e una pedalata, oseremmo dire, da giorni migliori. Da giorni forse mai visti. Quei giorni che un paio di anni fa gli permisero di staccare altri animali, quelli da pavé al Fiandre.
Quel giorno come oggi dove tutto fila liscio come l'asfalto dell'Oltrepò Pavese che si insinua seguendo curve e controcurve, dove la pianura cozza con la collina.

E così ha vinto Alberto Bettiol. Scattando a Cigognola, sgasando a Broni, sfogandosi a Canneto Pavese, traduzione maccheronica di quel Oude Kwaremont che lo ha reso grande.
Cavallo di razza, estroverso e simpatico, coinvolgente, con quell'accento toscano, lui che sogna la Strade Bianche, ma vince il Fiandre e una tappa al Giro. Speciale come ogni animale ciclistico e col merito di averci fatto urlare oggi: Alberto Bettiol!

Foto: Luigi Sestili


Per raccontare Egan Bernal

Per raccontare Egan Bernal, forse, basterebbe raccontare ciò che ha detto ieri in conferenza stampa, in un giorno difficile, in un giorno in cui avrebbe anche potuto non avere voglia di parlare. Ha detto che, in fondo, per le persone che amano il ciclismo è meglio così, perché il Giro è più aperto, perché non si sa mai cosa aspettarsi, perché, se gli attacchi continueranno, sulle strade ci sarà spettacolo e la gente si divertirà. Non è facile dirlo, non è facile quando hai perso, quando sembravi poterti fermare da un momento all'altro su quella salita.

Poi, per raccontare Bernal, si potrebbe o si dovrebbe raccontare Daniel Martínez, il suo compagno di squadra, colui che ieri l'ha incitato fino alla fine mentre perdeva le ruote. «Mi diceva di resistere, mi diceva “Pensa che vinci il Giro”. Dani è un amico». E pure quell'inciso sull'amicizia è tutt'altro che scontato. Perché si potevano usare le solite parole: compagno di squadra, gregario, scalatore. Invece no, Bernal dice “amico”. Soprattutto Bernal dice.

Ce lo hanno spiegato Santiago, Mariana e Mateo, colombiani come Egan e Daniel, quanto sia importante. «Martinez non avrebbe fatto nulla di male se non si fosse voltato e non lo avesse incitato. Un gregario non deve necessariamente voltarsi ed incitare, per quello ci sono i tifosi. Ma lo ha fatto ed in quel farlo probabilmente c'è anche la Colombia. Tutti pensano alla povertà come ad una mancanza di cose, la povertà è anche mancanza di parole. Delle tue e di quelle degli altri. Perché in certi casi le persone non sanno cosa dirti e tu non hai nemmeno il coraggio di chiedere. C'è anche questo nel nostro essere solari, nel nostro accogliere, invitare ed incitare».

Per raccontare Egan Bernal non si potrebbe non raccontare del rapporto con la sua famiglia. «La maglia rosa ti toglie tanto tempo, sei l'ultimo a tornare in albergo e, sei vuoi mantenerla, devi riposare bene, quindi devi andare a letto presto e non hai molto tempo. Però, per parlare con mia madre, mio padre e la mia ragazza quel tempo me lo ritaglio. Sono loro la mia motivazione». Umile, per nulla egocentrico perché «in casa non ho foto mie in bicicletta, nemmeno miei ritratti. Ne ho una di Marco Pantani e mi basta».

Bisognerebbe raccontare della sincerità di Egan Bernal. «Sì, forse sarebbe stato meglio andare a vedere la salita di Sega di Ala. Forse avrei fatto meglio. Come, probabilmente, a me il giorno di riposo ha fatto male ed è anche per questo se ho pagato. Ma non si possono nemmeno prendere queste scuse. Yates mi avrebbe staccato comunque perché era più forte oggi. Bisogna dirlo e basta». Ed ancora bisognerebbe raccontare di tutto ciò che non ritiene scontato e della fame di esserci, di essere lì, di non sparire. Qualche anno fa lo disse: «Non voglio essere uno di quei corridori che appaiono a ventidue anni e di cui a ventisette non si ricorda più nessuno». Chissà, forse Mateo, Mariana e Santiago direbbero che pure qui c'è la Colombia e tutte le cose che in quelle terre non hai. Anzi, direbbero certamente così. Lo decidiamo noi.

Per raccontare Bernal bisognerebbe andare nella sua terra ed osservare per qualche minuto un bambino che lo guarda mentre attacca, un padre contadino che si asciuga la fronte dal sudore per vederlo ed un anziano che chiama la compagna per tifarlo assieme. Bisognerebbe andare in quella terra per capire cosa significhi per loro Egan Bernal. Bisognerebbe andare in quella terra perché, per raccontare Egan Bernal, bisognerebbe soprattutto raccontare la loro speranza.

Foto: BettiniPhoto


Giocando col tempo che passa

"Che sport incredibile il ciclismo" è un messaggio che ricevo mentre i corridori stanno affrontando gli ultimi chilometri. E lunghi sono stati quegli ultimi chilometri, perché la relatività del tempo applicata al ciclismo trova oggi pieno significato.
È impressionante quanto il tempo sia soggettivo e risponda a leggi fatte di fatica e sensazioni, di impulsi e riscontri. Come si modifichi a seconda del soggetto che lo vive, del momento e delle emozioni.

Per Martin gli ultimi quattromila metri sono interminabili. Almeida forse avrebbe chiesto qualche centinaia di metri in più. Yates arrivava quasi sorridente al traguardo, mentre Bernal, dopo un'imbeccata di Martinez, arrancava, ondeggiava ma si salvava: oggi una giornataccia la sua, ma lo è stata per molti.
Il tempo. Quello di una corsa come oggi che parte in discesa, veloce, velocissima, bevi un caffè e loro sono già a Trento. Il tempo che si dilata salendo verso il Passo di San Valentino, duretto non c'è che dire, o verso Sega di Ala, salita dura, vera, bellissima come il disegno di una frazione fatto come si deve.
Il tempo relativo a guardarsi indietro: due settimane già volate via, tra noia e domìni, colpi di scena, fughe e sprint. Polemiche, lacrime, cadute, persino oggi e forse decisive per qualcuno. Ferite, rinascite, vittorie e sconfitte; pioggia, neve, sole e il caldo odierno, finalmente, che di sicuro esprime nuovi valori in campo. E poi vento, mare e montagna, colline e splendide vallate.

Il tempo che sfugge: fra pochi giorni saremo a Milano, e un altro Giro sarà finito. Tre settimane così maledettamente veloci e tutto questo sembra già mancarci.

Il tempo che si comprime: la tappa degli sterrati durata un attimo, quella di Verona non finiva più. Cronostasi sul Giau senza immagini che era come entrare nella Casa di Foglie di Danielewski. O come oggi: per noi è un flash ridotto a brandelli di minuti su quell'ultima salita dove succede di tutto un po'.
Il tempo che plasma, che esplode o che invecchia. Il tempo di Covi: giovane di quelli che però il tempo non lo vogliono perdere. Oggi ancora in fuga, mosso, racconta, da passioni immotivate - lo capiamo benissimo, perché è come quando ci chiedono: perché ti piace il ciclismo?
Il tempo come un inganno che vola veloce, come quello di Luis Leon Sanchez che in un attimo si è guardato indietro ed è il più anziano in fuga.
Il tempo nel ciclismo, come un gioco a cui giocare, anche se qualcuno avrà da ridire: definirlo così è roba da pazzi. Definirlo un gioco, oggi, un azzardo impensabile.

E col tempo Martin non ci gioca, esulta sul traguardo con faccia e stile da sgangherato Paul McCartney, «non ho bisogno di vincere per stare bene con me stesso - sosteneva tempo fa - Mi basta aver dato il 100%». Oggi quel tutto lo ha dato e in cambio ha ricevuto qualcosa.
Quel tempo oggi per lui è durato un attimo, oppure un'eternità. Sarà una foto che non dimenticherà mai e conserverà per sempre, magari in una di quelle giornate in cui un momento sembrerà non passare più.
Come quegli attimi finali, vividi, impressi a tratteggiare questo Giro. Che chissà, forse possono aver cambiato faccia alla corsa.
E se ci dovessero chiedere di nuovo: perché ti piace il ciclismo? Risponderemmo senza timore: perché in giornate come questa sa essere uno sport incredibile.

Foto: Luigi Sestili


Lasciare il segno: intervista ad Edoardo Affini

Al termine della cronometro inaugurale di Torino, vinta da Filippo Ganna, Edoardo Affini gli si è avvicinato e gli ha detto: «Pippo, guarda che a Milano farò di tutto per romperti le uova nel paniere». Ganna e Affini sono accomunati dalla genuinità: poche chiacchiere e pedalare, per dirla in gergo ciclistico. Per questo, se Edoardo dovesse scegliere due parole per descrivere il suo lavoro al Giro sceglierebbe affidabilità e tenacia. La prima perché la fiducia, nel ciclismo, è fondamentale: «Da gregario, so di essere qui per gli altri, per far fare meno fatica possibile ai miei capitani. Questo significa dare tutto, anche più di quello che daresti per te stesso. Se guardate il mio viso sullo Zoncolan, capite il vero significato dell'essere gregari. Ero finito, non ne avevo più, distrutto. Ci vuole coraggio e grinta per sacrificare te stesso per un'altra persona». Essere gregari significa mettere le tue gambe per qualcun altro, ma non solo. «Se le gambe non girano, non puoi farci nulla. Tutte le parole sono inutili, se il tuo capitano non è in condizione. Però, quando sei in corsa per tre settimane, serve anche la parola giusta al momento giusto. Non incide sulla prestazione, ma sulla persona, sul suo stato d'animo».

A lui, per esempio, ha fatto molto piacere il gesto di George Bennett che, proprio quel giorno, scendendo dallo Zoncolan dopo il traguardo, lo ha visto in difficoltà in salita e gli si è avvicinato per un breve tratto, per ringraziarlo. «Mi ha detto che più di così non era riuscito a dare, che gli spiaceva. Anche questa è fiducia, è considerazione di chi ha lavorato con te». Qui c'è un appunto: «Purtroppo a seguito della voce che raccontava di Bennett che ha scalato due volte lo Zoncolan per starmi vicino - cosa impossibile: avremo fatto assieme 50 o 100 metri - mi sono sentito dire che avrei dovuto essere squalificato, che avevamo commesso un'irregolarità. Spiace perché si rovina un bel gesto. Un gesto da raccontare, ma correttamente».

Verona è stata la città in cui più si è meravigliato, proprio mentre stava lavorando per Dylan Groenewegen. «Ho preso la testa mentre arrivavano le altre squadre da sinistra per non rimanere imbottigliato. Andavo talmente bene che pensavo fosse il lancio perfetto. In volata non ti volti mai, ma ti accorgi se hai qualcuno a ruota ed io non sentivo nessuno. Ho continuato a spingere fino a quando non ho sentito l'aria mossa da Nizzolo alle mie spalle. Lì ho capito che mi avrebbe superato». Dylan Groenewegen e Edoardo Affini non si conoscono molto: si sono visti qualche giorno in ritiro e poi sono venuti qui.

Affini crede che il segreto per ritrovare Groenewegen sia la normalità. «Noi lo abbiamo trattato come il ragazzo di sempre, come un velocista che sa vincere e vincere bene. Ogni volta che abbiamo formato il suo treno, abbiamo pensato questo e lui lo sa, lo ha capito. A Verona era arrabbiato con se stesso, perché avrebbe voluto fare di più. Mi sembra un buon segnale» In ogni caso, dice Affini, tornare serve, sempre, anche se fa paura. «Dopo quell'incidente lui e la sua famiglia hanno subito minacce molto pesanti. Sono passati nove mesi, ma è tornato ed è molto motivato. Certo, qualche residuo questi avvenimenti lo lasciano, lui, però, è molto bravo a separare la parte umana da quella professionale. Credo soffra ancora per l'accaduto ma, da professionista qual è, in gara riesce a metterlo da parte. Riesce a essere quanto più simile al ragazzo che tutti conoscevamo».

Poi una battuta, sulla terza settimana. «Per me sarà sopravvivenza e costante aiuto in squadra. Però i freni non li tirerò. Se capito davanti e vogliono battermi devono andare più veloci altrimenti potrei metterci lo zampino».

Foto: BettiniPhoto


Dal fondo del gruppo

«Faccio parte della corsa, in realtà la chiudo, ma mi sento a tutti gli effetti un piccolo pezzo della carovana». Basterebbero queste poche parole di Fabio Allotta per raccontare il suo compito al Giro d'Italia. Fabio è sul furgone del fine gara: l'ultima vettura che vedete transitare quando andate ad assistere ad una tappa. In quel “far parte”, in “quell'appartenere” ci sono già molte cose che lui si preoccupa di spiegarci. «Sai, con il fatto che sei il “fine gara”, molti non riescono nemmeno ad immaginare quanto si viva intensamente la corsa dal fondo. Pochi metri davanti a me ci sono tutte quelle storie che nessuno vede perché le telecamere non le inquadrano quasi mai, tutte quelle storie che nessuno racconta. Così, spesso, si parla solo dei primi». Fabio Allotta ricopre questo incarico da tre anni, prima ha anche corso in bicicletta e certe sensazioni non può dimenticarle. A livello pratico comunica con la giuria, segnala i tempi ed i dorsali dei corridori che si ritirano. Raccontarla così, però, sarebbe riduttivo.

«Ieri sono arrivato al traguardo quarantacinque minuti dopo la corsa. Voi pensate di salire il Giau con gli ultimi, di vederli faticare, mentre rischiano di uscire dal tempo massimo e di non poter far nulla. Diciamocelo, è snervante». Certo, perché poi quella del fine corsa diventa una vita parallela al gruppo ed ai suoi spostamenti, nel bene e nel male. «Quando c'è stata la caduta di Alessandro De Marchi ho fatto fatica a trovare il coraggio di guardare. Indietreggiavo come a non voler vedere. I corridori sono abituati ad alzarsi subito e ripartire anche se feriti. Quando vedi un ragazzo che non si muove per tre o quattro minuti, ti prende paura». Uno dei momenti più brutti è proprio il ritiro.

«In alcune situazioni è mio compito caricare la bicicletta dei corridori che lasciano la gara. Alcuni salgono sul furgone del fine gara e arrivano con me al traguardo. Ricordo ancora quando, l'anno scorso, Boaro si ritirò in lacrime, deluso, col morale a terra. In quel momento tu hai accanto una persona che sta soffrendo, cosa puoi fare? Devi stare in silenzio, aspettare e poi, con delicatezza, provare a vedere se ha voglia di parlare. Devi cercare di portarla per qualche attimo fuori da quel mondo perché quel mondo, in quel momento, è l'oggetto della sua delusione. Con Manuele ci sono riuscito e quando è salito sulla sua ammiraglia ha sorriso». Fabio Allotta prova a fare lo stesso con tutte le persone che incrocia sul percorso: «Mi faccio vedere, saluto. Le persone sono incuriosite anche dalla mia vettura, vogliono capire cosa faccio. Per questo cercano di sbirciare dai finestrini, proprio come fanno con le ammiraglie».

Perché, alla fine, la realtà del fine corsa è fatta proprio da questi piccoli momenti. «Non c'è molto tempo per parlare, ma i ciclisti sono una specie rara. Io ho sempre in macchina dei gel o dell'acqua. La crisi di fame è orribile, si soffre in maniera indicibile, avendola provata lo so e, se li vedo in difficoltà, passo una barretta. Loro se ne ricordano, ti ringraziano e da quel momento maturano una forte fiducia in te. A me quella fiducia fa stare bene». Forse quella fiducia deriva anche dal fatto che è proprio Fabio ad alzarsi all'alba ogni mattina per andare in un punto prestabilito, recuperare l'acqua per i corridori e portarla ai pullman. «Così ho conosciuto i massaggiatori ed i direttori sportivi. Magari scambiamo solo due parole, al volo, quando ci fermiamo a fare pipì durante la tappa, ma, in fondo, il bello della carovana è proprio questo. Basta poco, che poi poco non è mai».


Una lezione di rispetto

Il ciclismo è una lezione di rispetto. Leva e dà, assorbe, ma soprattutto insegna. Perché Bernal rispetta il Giro. Lo capisci in quell'attacco sul Giau dove riprende di nerbo e con grazia quelli davanti, va in discesa e te lo puoi solo immaginare fino a quando non sbuca dall'oscurità.
Lo scorgi in un attimo dopo aver passato quaranta minuti a guardare facce festose al traguardo, invece che la corsa, perché sì, il Giro è nell'attesa dei tifosi all'arrivo - e su Pordoi e Marmolada, ma quelli non hanno visto passare nessuno - ma anche nel nervosismo di chi impreca davanti alla tv.
Perché Bernal voleva venire da anni qui per vincere. Niente frasi di circostanza, in Italia è diventato corridore e qui si vuole consacrare - lo ha sempre detto. Perché nel suo gesto di levarsi via di forza la mantellina, accomodandola nel taschino posteriore e senza più badare a pioggia o a intoppi, ma solo per mostrare la sua maglia rosa, c'è il rispetto per una giornata che difficilmente dimenticheremo. Perché qualche giorno fa, quando vinse a Campo Felice, non esultò, convinto che davanti ci fosse ancora la fuga e quella cosa non gli è andata giù.
"Davanti continua la cavalcata meravigliosa di Egan Bernal", la spiegava così Pancani. Un momento surreale - moderna radiocronaca. Catapultati nel passato: perché chi vuole pensare in grande cercando paragoni con il Tour dovrebbe prima guardare in casa propria. E in un tappone diventato tappino ma che farà ugualmente i suoi danni, non può lasciare tutto il mondo senza immagini.
Perché il rispetto per il ciclismo è in Gorka Izagirre a tutta e che finisce lungo in discesa e solo lui lo sa come ha evitato quell'auto parcheggiata in curva. Perché nonostante il freddo, la pioggia, la stanchezza e la paura, i corridori e le squadre dicono che avrebbero corso la tappa originale, ma si è preferito fare altrimenti - e le motivazioni non convincono del tutto, e la poca chiarezza sull'argomento resta tale anche dopo la tappa.
E partono sotto una pioggia che non cessa un secondo e vanno all'attacco, per conto proprio o in compagnia, ma sempre alla ricerca di qualcosa che solo loro possono capire.
Perché i gesti più belli, anche in una giornata da dimenticare, ma che non dimenticheremo, arrivano da loro: uomini spettacolo, ma soprattutto uomini. Caruso, che dopo una vita per i suoi capitani, oggi è più vicino al podio. Bettiol e Ganna che da soli potrebbero trainare il gruppo per giorni. Nibali che ieri cade e si fa male, oggi va in fuga. Ciccone, Vlasov e Carthy che soffrono, ma resistono. Almeida, che ha sacrificato i suoi sogni per la causa di Evenepoel.
Evenepoel, arrivato dietro, tanto dietro che non te lo potevi immaginare, congelato, che non riusciva più a pedalare e nemmeno a scendere dalla bici. Perché come lui altri che non abbiamo visto e mai vedremo, come Guglielmi e van den Berg in fuga nei giorni scorsi e oggi ultimi a quasi un'ora. O Formolo e Pedrero che ci provano in una giornata tremenda, accorciata e mutilata, sì, ma pur sempre dura. Ci provano e, possiamo giurarci, ci riproveranno.
Perché il ciclismo insegna, toglie, offre spunti. Eccellente educatore. Oggi ci ha tolto tanto, in una giornata ai limiti del grottesco, ma ci ha restituito tutto - o almeno c'ha provato - in quegli attimi finali in cui Bernal è spuntato dalla curva, dopo il buio. Degno padrone di una corsa, oggi, ahinoi, più piccola di quello che pensava di essere, ma resa grande dai suoi protagonisti.

Foto: BettiniPhoto


Andare a vedere il Giro

La domenica, forse, è il giorno in cui meno ci si sorprende quando si incontrano tante persone sulle strade del Giro d'Italia. Non ci si sorprende perché di solito è il giorno in cui non si lavora e non si va a scuola, così c'è tutto il tempo per venire qui, per sedersi su un marciapiede e aspettare il passaggio. Non è sempre così, però, e forse dovremmo ricordarcelo più spesso. A noi, ieri pomeriggio, a Gorizia, lo ha ricordato Guido.
Non sapevamo nulla di Guido e Guido non sapeva nulla di noi. Ci ha colpito perché era fuori dall'uscio di una casa con un grembiule azzurro, sporcato sul petto e sulle maniche di grigio. Ci ha colpito, forse, proprio perché era domenica e di domenica, al Giro, tutti si presentano con l'abito della festa. Solo scambiandoci qualche parola abbiamo capito.
Guido è un falegname, come era un falegname suo padre, e la sua è la realtà di tutte le botteghe artigiane. «Mio padre mi ha sempre detto che si fa festa quando si è fatto il proprio dovere, per questo, se alla domenica non si è finito di preparare le consegne, non è domenica. Quando hai fatto il tuo dovere, mi diceva, ti riposi anche meglio perché sei tranquillo con te stesso e non hai più pensieri».
Per Guido ieri non era domenica, perché ha molto lavoro da fare e pochi giorni per terminarlo, così era in bottega, così stava lavorando e fino a qualche giorno prima non pensava neppure al Giro d'Italia perché «dopo quello che abbiamo passato con la pandemia, con tutte le spese che ho da pagare, con tutti i problemi che mi vengono in mente appena apro quella porta, figuratevi se ho tempo di pensare al Giro d'Italia».
Fino a qualche giorno fa, perché poi ha cambiato idea. «L'altro giorno mio figlio mi ha detto se lunedì potevo farlo restare a casa da scuola e portarlo a vedere il tappone di Cortina d'Ampezzo perché “il Giro arriva anche domenica, ma la tappa di lunedì è più bella”. Cosa pensate gli abbia risposto? Gli ho detto di no, che poteva scordarselo, che il dovere viene prima del piacere, che se non va a scuola, se non studia, si troverà a lavorare giorno e notte come me, a non saper parlare come si deve, a fare brutte figure. Gli ho detto che avrebbe dovuto accontentarsi dell'arrivo di domenica». Poi, però, Guido è andato da solo in bottega, si è messo a lavorare ed ha ripensato a tutto.
«Mentre non avevo lavoro, nei mesi scorsi, ho passato davvero momenti difficili ed ho capito quanto avesse ragione mio padre: quando manca il lavoro si disfa tutto, crolla tutto. Se non riesci a mettere assieme un pranzo con una cena non c'è storia che tenga. Sinceramente, però, ho anche capito quanto avesse ragione mio figlio. No, non andare a scuola è sbagliato ed infatti non lo farò stare a casa, però anche non fare ciò che vorresti per pensare sempre e solo al dovere è sbagliato. Perché poi, se succede come è successo in questi due anni, non sei solo a terra perché non porti a casa la pagnotta per le persone a cui vuoi bene. Sei a terra anche perché col tuo modo di essere le hai rese tristi due volte: prima negandogli i divertimenti per il senso del dovere, poi spiegandogli che era stato tutto inutile perché non solo non avrebbero avuto più i divertimenti ma nemmeno le cose a cui erano abituati perché “papà non ha lavoro”. Sì, domani chiudo presto bottega e appena mio figlio torna da scuola lo porto a vedere il Giro che passa. Fosse anche solo uno sguardo da un cavalcavia, ma lo porto al Giro. Il tempo bisogna trovarlo. Stasera mi studio la cartina».
Così Guido e suo figlio oggi avranno tempo per il Giro, ma soprattutto avranno trovato tempo per se stessi. Assieme come un padre ed un figlio e questo è quello che conta davvero. Sempre.