Le domeniche senza Giro

Mentre il mare si agita, quasi succube di quelle nubi che i vetri del traghetto lasciano intravedere, ognuno fa i conti con il proprio tempo. Messina è ancora lontana e le cabine in cui ci si chiude a riposare troppo piccole per restarci nove ore. Si esce sul ponte, dove il fumo delle sigarette è spazzato via dal vento e ci si affaccia a guardare la spuma bianca che lo scorrere della nave lascia sul mare. La vertigine è lì, nelle mani che si stringono il parapetto e nei corpi che restano indietro, gettando in avanti solo il capo, per guardare.
Cosa sta accadendo in Ungheria, vicino al Lago Balaton, qui non lo sa nessuno. La connessione internet è assente da pochi minuti dopo la partenza e la televisione trasmette pochi canali, nessuno che restituisca qualche immagine del Giro d'Italia. Appena il traghetto si avvicina alla costa, in corrispondenza di qualche centro abitato, col segnale che torna si prova a cercare qualcosa: "Stanno andando piano, arriveranno tardi". Fino a tarda sera, è l'ultima cosa che sappiamo del gruppo. Il resto ipotesi, supposizioni ai tavoli accanto al ristorante.
Chi sale sul traghetto la domenica pomeriggio o va al lavoro o torna a casa. In ogni caso, quello è il momento in cui tutto si interrompe e, anche se stanco, scherzi. Oppure ti distendi su un divanetto e ti addormenti coperto da un cappellino. Sono i camionisti: qualcuno racconta a un ragazzo di quando, di notte, per non cedere al sonno, suona il clacson ai colleghi, si saluta, un sorpasso e via.
Il tempo sospeso è anche quello di ciò che chiunque potrebbe fare a casa, in una domenica qualunque: la Formula1, il Giro d'Italia e il televisore in salotto. Qui no e gli sbadigli testimoniano questo piccolo vuoto. Un signore, dopo di noi, chiede di cambiare canale, ma ritorna al tavolo con un pugno di mosche. Così, sul ponte, pensiamo a quante ore mancano, a chi per lavoro o per altri motivi di domeniche così ne vive tante, a chi sognerebbe di andare a vedere il Giro d'Italia passare come quando andava a scuola, ma sarebbe già felice di poterlo vedere a casa, con un figlio che fa i compiti per il lunedì e di tanto in tanto alza la testa a guardare la televisione.
Sono già passate le otto quando sappiamo che ha vinto Cavendish, dopo nove anni, a più di settanta all'ora, in volata. Cerchiamo l'ordine d'arrivo, mentre la connessione ritorna. In fondo, è sufficiente questo. Una notizia che ti arriva da una corsa di biciclette e ti ricollega alla realtà.


Dinamismi sul Danubio

Dentro agli occhi dei ragazzi sulle sponde del Danubio i ciclisti oggi non sono che un'impressione, un movimento d'aria, una macchia d'inchiostro. Un vettore che esprime velocità, per chi si intende di fisica, un pennello a scorrere su una tela per chi discute di arti. Eppure per Budapest e la sua gente basta quella frazione di secondo e quello che gli occhi credono di vedere. Sulle strade c'è tutta la gente che quell'asfalto può sopportare, tutta quella che quegli argini possono contenere.
I ciclisti sono una forma di dinamismo con tutto ciò che lasciano immaginare. Prendete Mathieu van der Poel e il suo sguardo immobile, che rende plastica la concentrazione, tanto che sembra quasi di poterla toccare, quasi avesse una forma e una consistenza. Prendete Mathieu van der Poel e il modo in cui taglia le curve, tutte le volte in cui sfiora le transenne e non le tocca: quasi vorremmo vedere quanta aria passa lì in mezzo. Voleva tenere la maglia rosa, si vedeva, si capiva. Voleva tenere la maglia rosa, ci è riuscito ed è tornato a parlarne per dire che oggi sì, non ha dubbi, nonno sarebbe orgoglioso di ciò che è, di ciò che fa.
L'orgoglio muove, è un vettore anch'esso. Guardate Vincenzo Nibali che sembra andare verso ciò che verrà, verso una terra che da qui non si vede ma è esattamente come un ciclista: torna ad ogni ricordo, per un profumo o un suono: la Sicilia. Oppure Tom Dumoulin che voleva tornare in Italia, al Giro, per cambiare ricordi. Sembra di risentire le voci che lo chiamavano sotto la pioggia di Frascati al Giro d'Italia del 2019 e quella mano che si alza, prima per salutare, poi per arrendersi, per ritirarsi sotto il peso del dolore.
Anche Simon Yates, oggi, era il dinamismo di un ciclista. Veloce, molto veloce, più veloce di tutti, persino di quello scatenato di van der Poel. Lui che, qualche anno fa, proprio al Giro, a Bardonecchia, è arrivato sfinito, stanco, in crisi: con dignità estrema e una punta tagliente di amarezza, di tristezza contenuta. Mentre Froome era quello stesso dinamismo, in salita, da lontano: talmente bello da sembrare impossibile.
Ed è così che Yates che vince la cronometro di Budapest è anche e soprattutto un uomo e la sua velocità, la possibilità di andare più forte e quasi di non essere visto da nessuno, sebbene le strade siano colme. Chiunque abbia provato a fare fatica su una bicicletta sa quanto sia bello tutto questo. Adrenalina pura.


Per una bicicletta

Il distacco tra Biniam Girmay e la Maglia Rosa più che in qualche decimo lo si potrebbe quantificare in biciclette. Una? Forse "una bicicletta e un po'", direbbe qualcuno, per dare un'idea più precisa alla misura. Girmay ci è andato vicino.
Era diviso il pubblico, tra lui e van der Poel, perché poi finisce sempre così, per quanto si vogliano salvare le apparenze, per quanto non si voglia perdere di vista il fatto che "nel ciclismo si tifa tutti, altrimenti finisci per non godertela". E allora c'è chi urlava: "Vai Bini!", e chi: "Vai Mathieu!"
Mancavano veramente pochissimi metri al traguardo per il sogno dell'"History Maker" come lo definisce sui social la sua squadra, l'Intermarché-Wanty-Gobert, ma poi vince van der Poel e va bene lo stesso.
Sorride Bini Girmay dopo essere rimasto accasciato vicino le transenne. «Deluso? Per nulla! È un grande risultato». Sorride mentre indossa la maglia bianca di miglior giovane a fine tappa.
Sorride in foto con Mathieu van der Poel. «È stata la volata più dura della mia vita, ma ci riproverò già domenica».
L'History Maker ha segnato il Giro 2022 come passaggio obbligato: vuole trasformare il suo universo attraverso una bicicletta. «Voglio diventare il primo nero africano a vincere una tappa in un Grande Giro» diceva nei giorni scorsi.
Si dice pronto a prendersi sulle spalle un intero continente, mentre un'intera nazione è diventata matta per lui: «Nel calcio i giocatori africani sono tra i migliori al mondo, nel ciclismo siamo ancora lontani, ma io voglio essere un esempio. Perché vincere una tappa in un grande Giro potrebbe essere da impulso alle nuove generazioni».
È stata una bicicletta di distacco a impedirgli di fare la sua ennesima rivoluzione, ma di certo non a impedire di parlare di lui. E di occasioni ne verranno ancora, e ancora, e ancora.


I colori di Mathieu van der Poel

Aspettavamo il Giro e aspettavamo Mathieu van der Poel come si attende sempre qualcosa di bello, lui - van der Poel - senza esagerare troppo, accelerando nel momento giusto, quello sì, è arrivato. Ha fatto sentire il rumore che fanno le sue gambe liberando potenza come un motore a quattro cilindri, e ha deflagrato.
Avete presente quel rumore? Chiedetelo a Girmay, Ewan, Bilbao, Kelderman che si sono visti superare dall'onda verdina della nuova maglia che sulle spalle di van der Poel è durata poco. Lo spazio di poco meno di 200 km: da domani sarà in rosa.
Aspettavamo anche Girmay è vero, c'è mancato poco. Sarebbe stata una storia interessante da raccontare, ma ce ne sarà l'occasione. Ha chiuso vincendo la Gent-Wevelgem, ha ripreso sfiorando la prima tappa del Giro - sì è vero in mezzo ha corso a Francoforte, ma tant'è.
Abbiamo atteso a lungo. Chiacchierando con amici, conoscenti e parenti e guardando distrattamente la fuga di giornata: erano Bais e Tagliani.
Abbiamo visto il Danubio oggi con tonalità sul verde. Abbiamo sorriso al folclore di diversi tifosi, cavalli, amazzoni e cavalieri che correvano di fianco al gruppo, abbiamo visto campi di colza, ottimi per scatenare api e fotografi.
Arrivava il traguardo sul Castello di Visegrád e quel traguardo lo guardava da lontano Lawrence Naesen, che vuoi per un gioco di prospettiva, vuoi per le pendenze che via via progredivano, pareva non riuscire ad avvicinarlo in nessun modo, nemmeno cambiando rapporto. Quel traguardo lo guardava da vicino Kämna, pareva il momento giusto. Niente, scartato.
Poi sono scattati. Fine dell'attesa a meno di un chilometro alla fine, curvi sulle loro bici con lo striscione che man mano sembrava farsi sempre più grande in faccia ai corridori. E mentre gli altri parevano attaccati con la forza, persino con i denti, alle loro biciclette, Mathieu van der Poel li superava, pareva ciclismo.
Aspettavamo van der Poel colorato di verde. Da domani e chissà, magari fino in Sicilia, lo troveremo colorato di rosa. Il colore del Giro d'Italia.


Sul Giro d'Italia 2022

Ormai è passato più di qualche giorno (forse persino oltre una settimana) da quando il Giro d'Italia è stato presentato. Anzi "finito di presentare": che suona male, un po' strano. Strana presentazione perché divisa in puntate, inusuale, come se farne un racconto seriale desse un tono più contemporaneo all'evento o ne accresca maggiormente l'attesa.
A chi scrive, inizialmente ha creato solo più confusione che altro, per fortuna che c'era poi chi, contemporaneamente alle uscite, raccoglieva e metteva tutto assieme tappa per tappa e nel giusto ordine.
Tuttavia: primo episodio dedicato alle tre tappe ungheresi e dal titolo “Grande Partenza”; secondo episodio, quelle di pianura, “Volate” (oh-oh), poi quelle miste dal titolo “Tappe Mosse” (qui la fantasia si è sprecata), e a seguire “Tappe di Montagna” (ineccepibile).
A chiudere la presentazione della tappa finale “Grande Arrivo” con la cronometro di Verona che si chiuderà tra Piazza Bra e l'Arena come due anni e mezzo fa. Della brevità (contro il tempo) ne parleremo in seguito, ma se non altro sarà un finale estremamente scenografico e chissà che non sia di nuovo pieno di ecuadoriani come nel 2019, ma è prestissimo per parlarne.
Ora, invece, è tempo di dare un punto di vista veloce su come ci pare il percorso di questa edizione di Giro fermo restando che il Giro è sempre il Giro e, probabilmente, appassionerebbe anche se fossero 21 tappe di pianura - no, beh abbiamo esagerato, ma è per capirci: comunque vada la Corsa Rosa ci sta a cuore e non vediamo l'ora sia il 6 maggio, giorno fissato per la partenza - anzi “La Grande Partenza” - dall'Ungheria.
COSA CI PIACE - Le tappe mosse . Se chi scrive appartenesse alla generazione Z esclamerebbe (o forse in realtà lo ha fatto, ma in forma privata): “tanta roba!”. Sono la vera chicca della prossima edizione, una tappa più bella dell'altra: quella piemontese con arrivo a Torino sarà massacrante (un filino corta), quella friulana con arrivo a Castelmonte è ricca di trabocchetti (le discese mettono i brividi) e il Monte Colovrat è salita vera. Muri marchigiani e tappa calabro-lucana due gioiellini (e il chilometraggio è soddisfacente), arrivo a Napoli suggestivo. Saranno tappe insidiose per la classifica, che sorridono ai corridori da corse di un giorno (ma amaramente ci chiediamo: chi ci sarà fra i mammasantissima delle classiche dopo la campagna di Primavera?), saranno tappe che, sempre sulla carta ci potranno far divertire. Fuga all'arrivo e/o battaglia tra gli uomini di classifica ci penseremo a tempo debito.
Ci piace anche, e molto, la tappa con arrivo sul Blockhaus, ma soprattutto quella che termina sulla Marmolada. Forse ci vorrebbe qualche chilometro in più (anche 40, 50), ma l'arrivo sul Fedaia non teme confronti con nessun altro finale di nessuna corsa del mondo. Da Malga Ciapela in poi vengono le vertigini, male alle gambe e fioccano i ricordi.
E poi le cartine altimetriche del Giro restano sempre le migliori; sembra un fatto banale ma non è così. Realistiche, dettagliate, facilmente fruibili. Provate a controllare quelle del Tour (per altro quelle del 2022 ancora non ci sono) e a fare un'analisi basandovi su quelle e noterete la netta differenza.
COSA NON CI PIACE – Facile: 26 chilometri a cronometro sono pochissimi. Persino inspiegabili. Corsa sbilanciata e senza una vera crono lunga. Ma quanto erano belle le crono vallonate di 40/50 km di qualche stagione fa? E no, qui non si tratta di nostalgia anche se l'età avanza per tutti ed è più semplice rimpiangere e leggere il passato che rendersi conto del, e apprezzare il, presente.
Qui non c'entra la salvaguardia del, come si è letto in giro, “patrimonio Ganna”, qui si tratta di avere il dovere (sic) di arrivare almeno a 50/60 km di cronometro per rendere la corsa completa e meno sbilanciata. Per quale motivo dovrebbe essere meno spettacolare una crono lunga (o medio lunga?) rispetto a una crono di 9,2 km (la prima) e di 17,1 (!) , la seconda? Poi certo – e anche qui se ne parlerà a tempo debito – l'ago della bilancia, quello che sposterà ogni commento concreto sarà scoprire i nomi che si giocheranno la maglia rosa, oggi si commenta l'uscita delle tappe, non altro.
E la questione del chilometraggio è quella più calda: solo tre tappe sopra i 200 km (per altro appena sopra i 200 km) tra cui due piatte per velocisti e una messa pure di domenica, la prima domenica: certo non il miglior spot per tenere incollati in tv gli appassionati a inizio maggio. Diverso il discorso per noi malati della pedalata altrui: ce la guardiamo senza fiatare dal km 0, ci chiederanno perché ci facciamo così del male e il perché è sempre quello: il Giro è sempre il Giro e già facciamo il conto alla rovescia per quando inizierà (da oggi dovrebbero essere 168 giorni!).


Attaccare per il ciclismo per i tifosi per se stessi

Quello che ci ha mostrato l'altro giorno l'attacco di Damiano Caruso, oltre all'aspetto umano e romantico della sua storia, è come il ciclismo di oggi nelle grandi gare a tappe, stia provando a riscoprire l'importanza dell'attacco "da lontano" per risolvere una corsa.

Quell'azione ci ha insegnato come solo provandoci hai la possibilità di lasciare il segno nella storia di questo sport. Ci ha dato una lezione importante, quanto mai banale, ma persa in questi anni fatti di calcoli e tattiche conservative.

Torna valido di colpo il più elementare dei paradigmi ciclistici: se attacchi vinci, se resti in difesa è difficile combinare qualcosa, o, più semplicemente, è difficile anche solo entrare nel cuore pulsante del ciclismo: quello del tifoso. E Caruso, insieme a Bilbao, intuendo l'attacco di Bardet e compagni, ci ha dato una magistrale lezione.

Vero che, si difenderà qualcuno, l'attacco oggi può essere un boomerang ai fini della classifica, visti gli squadroni e la velocità contro cui bisogna combattere; attaccare vuol dire mettere a repentaglio il placido benessere e la sicurezza acquisita, persino quell'orrendo valutare così importanti i punti UCI, ma quando hai gli uomini giusti a disposizione come nel caso della Bahrain, attaccare non è solo spettacolo fine a se stesso. Non è puro esercizio di stile, ma è lungimiranza, sagacia, è mostrare capacità di interpretare la corsa. È sfidare la monotonia dentro cui cadono spesso i Grandi Giri.
Dall'ammiraglia Bahrain hanno visto bene, prendendo rischi e lo hanno fatto sin dai primi giorni quando ancora potevano contare su Landa, Mohorič e Mäder. E l'attacco dopo il San Bernardino è stato solo l'apogeo del loro Giro interpretato come meglio non si poteva, nonostante le sfortune.

Il punto è: Caruso poteva starsene tranquillo, podio ben saldo e magari provare a vincere la tappa sull'ultima salita, perché no? Perché attaccare in discesa seguendo due ottimi discesisti come Hamilton e Bardet, rischiando magari pure di scivolare a terra sui diversi tornanti bagnati?

La risposta la si trova nella bellezza del ciclismo, nel fascino ritrovato in un'azione partita da lontano che in un attimo cancella la calma apparente di una tappa altrimenti dal copione già scritto.

Si è mosso da lontano, impulso già vissuto in questo 2021 con altri protagonisti, o come tra Vuelta 2019 e Tour 2020 lo ha fatto senza timore Pogačar. Si basa su questo ideale l'attacco di Froome nel 2018. È con quell'azione che Froome è entrato nel cuore dei tifosi, più che con il suo nome scritto per quattro volte nell'albo d'oro del Tour.
Sembra così assurdo esaltare – a prescindere dalle storie di contorno - un attacco a 50 km dall'arrivo dell'ultima tappa di montagna, ma siamo stati abituati, in questi anni, a spettacoli deplorevoli in tal senso. A lunghe attese svanite in una nuvola di fumo. Diversi Tour de France ne sono l'esempio.

D'altra parte è quello che abbiamo visto fare a Yates e alla sua squadra che hanno preferito stare nascosti, salvo poi dare una mano veloce alla Ineos tra San Bernardino e Splügenpass. Viste le difficoltà di Martínez in discesa c'era la seria possibilità di provare a isolare Bernal, ma invece, per loro, è stata un'occasione persa. Poi certo: per attaccare servono le gambe oltre che il cuore.

Per il racconto (romantico) allora è stato meglio così: magari con ulteriore bagarre da dietro non ci saremmo goduti quegli ultimi chilometri di Caruso contro tutti, di Caruso spinto dal pubblico, di Caruso che vince facendoci vivere una giornata indimenticabile. Facendoci riscoprire per una volta il fascino dell'imprevedibilità perso nelle stagioni dei Grandi Giri: un altro insegnamento che ci hanno dato Caruso e il nostro amato ciclismo. Sperando che non resti solo una splendida eccezione, ma la strada da battere in barba a watt, calcoli, punteggi e piazzamenti. A volte quando si azzarda, si corre persino il rischio di vincere.

Foto: Bettini


Quello che Bernal insegna

Forse ciò che più ci resterà della vittoria di Egan Bernal al Giro d'Italia sarà tutto quello che questo ragazzo di Zipaquirá, in Colombia, è stato in grado di raccontare. Qualcosa che smuove una riflessione non tanto o non solo sul ciclismo, quanto sul modo di vivere e di pensare a cui siamo abituati. Perché, ne siamo convinti, dalla vittoria di Bernal, dal modo in cui è maturata, dalle origini della sua storia, è davvero possibile imparare qualcosa per la quotidianità di ciascuno di noi.

Qualcosa che abbia, per esempio, a che vedere con gli stimoli quotidiani e l'entusiasmo. Non è strano e nemmeno raro: il tempo assopisce in molti l'entusiasmo, anche i successi più importanti, piccoli o grandi, si trasformano in normalità. Accade a tutti, il punto è accorgersene e magari contrastarlo. Spesso si accetta come inevitabile. Ciò che dice Bernal racconta la volontà di rifuggire questa abitudine.

«La vittoria al Tour de France è stata inaspettata, ma il difficile è arrivato dopo. Quando ti accade qualcosa di simile, di tanto grande, così giovane, tendi a sederti, non smetti di fare il tuo lavoro ma lo normalizzi, perdi quella spinta, quella grinta. Come se il meglio fosse già passato. Io ho continuato a puntare la sveglia al mattino presto, a stare attento all'alimentazione, ad uscire per gli allenamenti, però ero come anestetizzato. Avevo perso quella fame, quell'entusiasmo che era alla radice della mia scelta di pedalare. Avevo vinto qualcosa di importante, certo, ma avevo perso qualcosa di ancora più importante».

La soluzione non è immediata e neppure di facile applicazione. Perché per entusiasmarti devi tornare indietro, devi tornare a fare ciò che facevi quando non eri un campione, ma un ragazzino qualunque. «Dave Brailsford mi ha aiutato a capire. Ha tolto quella zavorra che mi pesava sul petto. Siamo stati insieme a Monaco e abbiamo parlato molto. Mi ha detto che aver vinto il Tour non doveva significare la fine del divertimento. Mi ha detto che avrei dovuto fare come avevo sempre fatto. “Se hai voglia di scattare in pianura, scatta. Non vai da nessuna parte? Non deve interessarti. Se scattare in pianura ti fa felice, perché devi impedirtelo?”. Noi due sappiamo bene che il merito di questa vittoria è anche suo».

E restituire, restituire sempre ciò che ti ha portato fino a lì. Con i fatti, non con le parole. «Potrei dire molte cose di Felipe Martìnez, l'ho già ringraziato e lo ringrazierò ancora. Ma lui ha fatto qualcosa in più, lui ha messo del proprio sulla strada per fare in modo che oggi su quel trofeo ci fosse il mio nome. Io non posso limitarmi a parlare, devo fare lo stesso. Voglio ricambiare sulla strada ciò che Felipe ha fatto per me. Voglio aiutare Felipe a vincere qualcosa di grande. Ad essere felice come lo sono io oggi».

Paolo Alberati, primo scopritore di Bernal, qualche giorno fa ha raccontato che crede che Egan voglia vincere la Vuelta e poi tornare in Colombia a fare il giornalista e a lottare con le parole contro le ingiustizie del suo popolo. Bernal non lo nega, ma dice qualcosa in più. «Certo, dopo il Giro ed il Tour, la Vuelta sarebbe il traguardo massimo. Adesso, però, sto pensando che quando questo sarà avvenuto mi piacerebbe tanto provare a essere felice nella mia terra. Stare con i miei cani, le mie galline e la mia mucca. Stare con i miei genitori e la mia ragazza. Vivere delle cose semplici che fanno bella la vita. Molti credono che per essere felici sia necessario raggiungere chissà quali traguardi, magari diventare campioni o diventare famosi. Io penso che serva davvero poco per essere uomini e donne felici. Vorrei dirlo a tutti e penso che a tutti serva ricordarselo. Ne va della vita».
Foto: Luigi Sestili


Un lampo, una rosa, un saluto al Giro

Ciao Giro, come sei arrivato, purtroppo, te ne vai. Un privilegio raccontarti: con il tuo epos, i tuoi colori, le tue imprese e i colpi di scena che anche oggi non sono mancati, tra la caduta di Cavagna, la foratura di Ganna, l'incidente sfiorato da Sobrero.

Ti rendi conto di quanto il tempo passa in fretta? Tre settimane sono volate via e ci hai fatto soffrire ed emozionare. Gioire, inveire, arrabbiare persino.

Sadico e benevolo, ti abbiamo maledetto per quelle tappe noiose, ci hai fatto spaventare quando abbiamo visto De Marchi a terra, o Mohorič volare in aria. Ci hai fatto tifare per Taco e per Nizzolo. Ci hai fatto spingere per i fuggitivi e storcere il naso per quelle (troppe) fughe arrivate al traguardo.

Ci hai fatto aguzzare l'occhio per cercare i nostri beniamini in gruppo, ci hai fatto contare il tempo che passava in salita tra un corridore e l'altro, come quando da bambini si calcolavano i secondi tra il lampo e il tuono, durante un temporale.

Ci hai fatto viaggiare con la fantasia facendoci conoscere luoghi da piazzare sulla mappa, salite nuove o leggendarie, discese, sterrati e tornanti. Ci hai fatto chiacchierare sulla forma dei corridori e disquisire sulle tattiche di squadra. Abbiamo avuto freddo e caldo, ci hai fatto imprecare il giorno del Giau; abbiamo conosciuto storie e alcune abbiamo provato a raccontarle.

Hai condotto 184 passeggeri e alla fine ne sono rimasti 143. Ti sei fatto portavoce della voglia di evasione di Marengo e Tagliani, Pellaud e Zoccarato, De Bondt, Rivi e tanti altri.

Ci hai donato luminose maglie rosa, che raccontano, ognuna di loro, una storia degna di essere tramandata: quella ambiziosa di Ganna, quella fugace di Valter, quella significativa di De Marchi, premio alla carriera, quella duratura di Bernal, consacrazione.

Ci hai fatto applaudire la gioventù di Covi, Schmid, Affini, Oldani, Lafay, Mäder, Sobrero e Fortunato, hai fatto riemergere Consonni, Battistella, Ulissi e Albanese, hai mostrato i muscoli di Bettiol, la lucida follia di Vendrame, ti abbiamo visto passare così velocemente sulla strada che abbiamo maledetto come sempre il tempo che passa.

Sei stato appuntamento fisso: per le vie e dentro i borghi, in tv e al telefono, al confine, in riva al mare o in cima alla montagna.

Ci hai fatto sbadigliare e innamorare, ci hai riempito gli occhi. Ci hai stregato e ogni tanto ci hai fatto prendere la mano, e se abbiamo esagerato ti chiediamo scusa per averti raccontato con qualche eccesso di retorica e un pathos incontrollabile sfociato in esaltazione dei buoni sentimenti.

Ci hai strappato sorrisi e mostrato talento, quello di Bernal, oggi vincitore finale, quello di Ganna, oggi vincitore di tappa e ogni giorno di fianco al suo capitano a scherzare per alleggerire il carico, a farsi serio per trascinare il gruppo per chilometri.

Ci hai mostrato cadute, risalite, rinascite. Ci hai dato l'ebrezza di Caruso e la grinta di Almeida. Hai cosparso tutto di neve e avvolto di nebbia. Ci hai mostrato coraggio e fantasia, abnegazione e sofferenza, sagacia e umiltà.

Sei stato, come spesso accade, un magnifico compendio strapaesano, metafora di viaggio all'italiana e di vita. Sei stato semplicemente Giro: il miglior compagno d'avventura possibile. Arrivederci all'anno prossimo, Giro, amore, nonostante tutto, infinito.

Foto: Luigi Sestili


Il valore di Damiano Caruso

Ieri era tutto nelle gambe di Damiano Caruso. Per esempio, c'era la storia del padre che, senza lavoro, nell'estate del 1984 fece parte della scorta del giudice Giovanni Falcone, guardia del corpo negli anni di piombo, a soli diciannove anni, per un milione e duecentomila lire, i nostri seicento euro. In una Sicilia dura, aspra, rigida. Ma gli uomini passano, diceva Falcone, restano le loro idee che continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. Così il problema non erano i seicento euro al mese, ma la volontà di dare un esempio al figlio, un esempio che gli facesse strada. Per questo ancora oggi il padre gliene parla con orgoglio, con fierezza.
E Damiano Caruso ha capito ed ha sempre voluto essere uomo prima che ciclista. «Quei valori ho cercato di portarli con me nel tempo, anche quando è stato più difficile. Per questo penso che questa vittoria sia per me, perché nessuno può capire cosa ho passato per essere qui, tutti i sacrifici che ho dovuto fare. Perché certe cose le ho provate io, le so solo io». Caruso che ha spiegato quel gesto, quella pacca sulla spalla a Pello Bilbao, meglio di chiunque altro. Perché quella pacca sulla spalla parla di ciò che ha vissuto. Del coraggio che un uomo si sente di fare ad un altro uomo, come lui, anche se ieri sembravano così diversi Damiano e Pello.
«Gli ho dato quella pacca perché so cosa si prova a fare ciò che ha fatto Pello. Lo so perché l'ho sempre fatto io, perché magari ho vinto da campione ma non mi sento un campione. Pello non è il vecchio Caruso, come qualcuno ha detto. Io e Pello siamo uguali ed io ho vinto perché c'era Pello».
Caruso che rifugge ogni forma di retorica: «Non c'è molto da dire. Ho semplicemente corso per vincere perché quando sei un professionista o sei al servizio della squadra oppure devi provare a vincere». Non senza dubbi, ma i dubbi sono tipici della scelta ed anche Caruso ne ha avuti: «Quando siamo rimasti davanti mi sono chiesto se fosse la cosa giusta da fare, poi mi sono risposto che non mi interessava, che avrei continuato a prescindere da tutto. Fosse andata male, sarei stato il Damiano Caruso di sempre».
E agli uomini non fa male il dovere, mai. «Ai ciclisti fa male la pressione, agli uomini fa male la pressione. Poche cose pesano di più. In queste tre settimane ho dovuto imparare a gestirla e così farò anche domani. Non dovrò pensare di essere al Giro, dovrò solo pensare a dare tutto quello che mi è restato. Non avrebbe senso nulla di diverso». Lui, quello che sta accadendo adesso, ha iniziato a pensarlo dopo la tappa di Montalcino quando qualcuno gli ha detto: «Perché pensare solo ad una tappa e non alla classifica? Io credo tu possa centrare entrambe». Così è tornato in sella da capitano, schivando le illusioni, ma essendo certo del fatto che, anche con i piedi per terra, si possa credere in qualcosa di grande e provare a realizzarlo.
Damiano Caruso è padre e ha detto che questa storia vorrebbe raccontarla al figlio. Noi raccontiamo questa storia per Damiano e per tutti coloro che nella vita sono un poco come Caruso. Sono uomini di fatica e di sudore che non hanno la stessa risonanza di un ciclista che centra il podio al Giro, ma che sanno le stesse cose e in quel mese in cui ottengono un piccolo successo sul lavoro, tornando a casa, lo raccontano ai propri figli. Fieri di tutta la fatica che hanno fatto, dritti per la propria strada


Abbagliati da Caruso

Lo abbiamo spinto, lo abbiamo tifato, qualcuno si è commosso. Abbiamo fatto i conti come ragionieri sul suo vantaggio, ci siamo riempiti il cuore come adolescenti innamorati. Un ultimo atto meraviglioso. Da impazzire. «Credo di essere l’uomo più felice del mondo» ha detto a fine tappa. Protagonista di un indimenticabile pezzo di teatro andato in scena: Damiano Caruso.
Dalla discesa del Passo San Bernardino in poi, due ore di Ciclismo. Il giorno del coraggio, oggi, in sella a una bicicletta, il mestiere di Caruso. Interpretato da chi è sempre stato il più forte tra i compagni di squadra, uno che fatichi a chiamarlo gregario se solo non sapessi che gregario è un mestiere nobile. In scia a Pello Bilbao, fedele scudiero, seguendo traiettorie bagnate, pennellandole con giusto tempismo e senza mai rischiare. Oggi è suo il palcoscenico. Oggi è sua la giornata. Oggi è suo il nome sul manifesto. Pazienza per Bernal, ne abbiam parlato, ne parleremo.
Tornanti su tornanti e intorno neve. Montagne e valli che riempiono gli occhi e selezione prima da dietro, poi sparpaglio. Strada viscida e poi asciutta, sole che si alterna a una sottile pioggerellina. Poche persone e a un tratto tifo da stadio. Gente che sembra perdere la ragione disseminata ovunque nel finale verso l'Alpe Motta.
La curva a 1,5 chilometri dalla fine presa a tutta che per un attimo abbiamo temuto come tutte quelle persone lo potessero far cadere, e invece era solo pronta a inghiottirlo di urla e gioia che esplodeva nel vedere un italiano davanti. Nel vedere Caruso lì davanti. Oggi la sceneggiatura prevedeva il lieto fine.
Dietro, l'inseguimento di Castroviejo e Martínez fondamenta su cui si basa il Giro di Bernal. Il vantaggio che scende chilometro dopo chilometro: che importa ormai se quella maglia resterà meritatamente sulle spalle del colombiano. Oggi è il giorno del coraggio, il giorno di Caruso.
Il giorno del suo sigillo, terzo in carriera, il più importante. «Sono sicuro che prima o poi la vittoria arriverà - diceva tempo addietro- ci sarà una giornata in cui potrò giocarmi le mie carte e sarò il più forte. Ne sono sicuro». Quella vittoria è arrivata, voluta, cercata, inventata. Intuizione improvvisa sua e della sua squadra. Oggi è stato il migliore.
La pacca sulle spalle quando Bilbao si sposta, nel momento decisivo di questo Giro: sineddoche del ciclismo. Nel momento decisivo della sua carriera, Caruso pensa bene di perdere mezza pedalata, un po' di fiato, per ringraziare il suo compagno. Sì, è così che si fa.
Un nuovo Caruso? Nemmeno a pensarci, figlio dell'umiltà, Caruso ciclista. Lui che ha scelto di restare a vivere in Sicilia perché: «è difficile abbandonare ciò che si ama».
Comunque vada, ci siamo detti a un certo punto temendo venisse ripreso, è un gran Caruso. Sfoderiamo senza vergogna i superlativi. Esageriamo, gonfiamoci di retorica, oggi va così. Ammirati lo ringraziamo per questo giorno. Per aver provato a ribaltare il Giro lui che così vicino non c'era mai arrivato se non forse in quei sogni di quando si è bambini. All'arrivo indica se stesso: "Caruso sono io" sembra dire con le dita che battono sul petto.
"M'illumino di Pantani" scrisse Gianni Mura un giorno, e non crediamo di fare torto a nessuno se ci siamo illuminati di Caruso. Gregario sempre, ma da oggi anche campione.