Suggestioni

Chi conosce bene il Friuli conosce altrettanto bene i suoi richiami. D'altra parte lo spiega anche lo slogan che fa più o meno: "dal mare alla montagna in poche ore". Oppure il giro inverso, come in questo caso, grazie al potere della Corsa Rosa.
Ieri Carnia, montagna, alta, ma non proprio cime che toccano il cielo. Lingua dura, caratteri chiusi. Poche ore dopo si scende e si parte dal mare, da Grado, per poi superare la collina e vedere Gorizia.
Da Grado, vocali aperte, con quel centro storico che ha qualcosa di pregiato, che può far perdere la testa a chi, romanticamente, schiude il cuore all'inflessione del mare.
Barchette pastello attraccate ovunque, il molo, il consorzio dei pescatori dove chiedere se preparano il boreto, e poi la partenza della tappa attraversando il ponte che collega Grado ad Aquileia. Una volta a Grado ci potevi venire solo in barca.
C'è ancora il sole alto e qualche leggera bava di vento, e Campenaerts ha già attaccato quando una caduta estromette Buchmann dal Giro. Era appena passato il chilometro zero e si era proprio lungo quel ponte. Il giro di Buchmann, sin qui perfetto, finisce contro l'asfalto. La partenza viene fermata e ritardata, quando si riparte scappa la fuga rilanciata ancora da Campenaerts.
Si sono lamentati in molti anche oggi, ma se c'era un giorno in cui era permesso e logico andare via era proprio questo. I rimpianti, piuttosto, sono da ritrovare negli animi di chi non è scappato, poco lesto, stanco o forse distratto, o, piuttosto, nelle altre tappe.
Suggestioni, a riprendere il filo: perché dalla montagna si passa al mare, per arrivare al mosso confine attraversando il Collio, passando in mezzo a tenute, castelli, vigneti, ettari su ettari di prati ben tagliati.
In poche ore abbiamo sofferto in montagna, amato il mare, per poi guardare le colline verdi intorno a Gorizia, passando sopra strade ruvide e con il cielo che via via tendeva al nero.
Vento e suggestioni friulane, dove il tempo cambia repentinamente con il battito di un'ala. Dove le strade si fanno strette, si arrampicano, scendono, si amalgamano con curve a gomito, attraversano il confine per poi rientrare. Dove in pochi minuti si parla in un modo e poi in un altro, dove lingue e accenti si mescolano.
Suggestioni: come quelle che prova Victor Campenaerts all'arrivo dopo aver battuto Riesebeek e dopo averci provato in ogni modo. In fuga sempre, o quasi, in questa stagione e in questo Giro. Ce lo ricordiamo per quella dichiarazione in mondovisione al Giro del 2017 quando arrivò al traguardo mostrando sul petto una scritta grezzamente fatta con un pennarello: "Carlien Daten?". Era la richiesta di un appuntamento. Carlien, la ragazza, acconsentì per poi farlo piangere: "preferisco se restiamo amici" gli disse. Quel giorno al Giro Campenaerts fu anche multato e declassato.
Ce lo ricordiamo anche per il record dell'ora, poco non è, ma da un po' di tempo Campenaerts ha cambiato modo di correre: più aggressivo e sempre all'attacco, stanco di piazzamenti e forse anche di due di picche.
La pioggia batte incessantemente e poi dà tregua. Caldo, poi freddo e vento. Ci si inzuppa: "Ciò che zima che xe oggi", direbbero da queste parti. Ma per Campenaerts la suggestione rimanda a un giorno caldo dove mostrare il cinque a tutti, dove il suo mondo ha funzionato alla perfezione. Suggestioni, per lui che rilancia l'impegno della sua squadra in Africa affermando come «la bicicletta ti può cambiare la vita».

Foto: Luigi Sestili


Pensieri sparsi su fughe e Zoncolan

C'è qualcosa che non convince della giornata di ieri, qualcosa che torna a metà.
Diverse cose interessanti e da salvare, raccontare e tramandare: la parabola zoncolaniana di Fortunato sul quale si spendono parole di elogio ormai da ore, entrato nella storia dopo aver vinto su una salita che in pochi anni è leggenda; il talento (sbocciato, ma aspettiamo il successo pesante) di Covi, secondo a Montalcino e terzo sullo Zoncolan, ovvero le due tappe più attese, in attesa, perdonate il bisticcio, di domani, Cortina.
L'eleganza di Bernal, degna maglia rosa, si sarebbe detto una volta. il suo scatto (l'unico tra i big) nel finale a dimostrare che a oggi solo la schiena o qualche intoppo potrebbero fargli perdere il Giro. C'è Yates (il suo più che uno scatto, un allungo per testarsi e testare) che forse ha davvero calibrato la sua crescita man mano che si sarebbe andati avanti con le difficoltà in aumento. Ciccone e Caruso colpiscono perché non mollano: due italiani tra i primi 5 a fine Giro si possono sognare.

Due parole su Evenepoel, superata la crisi cognitiva (copyright di Kristian Perrone su Cicloweb, andate a leggere il pezzo) di Montalcino, ieri di nuovo in difficoltà lungo la discesa del Monte Rest.

Davanti Izagirre si esibisce nel solito spettacolo di famiglia non appena la strada scende (poi un giorno qualcuno spiegherà la capacità dei baschi di guidare così bene la bici) e Remco si stacca, e poi rientra grazie ai compagni. Sulla salita finale cede (quasi) subito sul forcing Ineos, ma va su del suo passo chiudendo a meno di 20" da Vlasov che aveva acceso la corsa, che sembrava dovesse metterla a ferro e fuoco e invece ne esce come lo sconfitto di giornata.

Il ragazzino belga per quanto abbia ancora dei limiti e per quanto siamo d'accordo tutti non è, oggi, Merckx, sul passo ha un motore con pochi eguali e una gran testa, quella che fa la differenza. Il suo limite, però, viene amplificato dal fatto che i suoi due maggiori rivali generazionali, Pogačar e Bernal, fanno proprio dell'abilità nella guida, sia in gruppo che in altre situazioni, uno dei loro punti di forza. Remco in questo dovrà migliorare, perché così sarà sempre attaccabile.
Aspetti che non convincono. Intanto le fughe. Abbiamo detto: piacevole, anche di più, celebrare le vittorie di Lafay, Schmid o Fortunato, vedere Covi brillare ovunque, oppure Vendrame e van der Hoorn, e le loro storie da raccontare. Però qualcosa non torna quando su 13 tappe in linea ben 7 vedono la fuga arrivare e un'ottava è ripresa da Bernal (unico uomo di classifica a vincere una tappa) a pochi metri dal traguardo.

Sia chiaro, a noi la fuga piace, ma non così. Non quando è un libero lasciapassare tattico e politico da parte del gruppo. Non questa esagerata quanto plateale concessione. Il contentino dato dai più forti. Non questo ridurre ogni giorno a una sfida inclusiva tra fuggitivi, per la tappa, e tra gli uomini di classifica, per piazzamento e distacchi.

Chi vi scrive si era distratto su alcuni fatti ciclistici, come gli succede spesso nella vita di tutti i giorni, e non si era reso conto fino a qualche settimana fa che lo Zoncolan era da Sutrio e non da Ovaro. Due salite non paragonabili. Lo Zoncolan continua a non convincermi del tutto, in realtà, e perde il confronto tecnico rispetto a tante salite e tanti finali di corsa, non solo tra quelli disegnati nell'arco alpino.

Lo Zoncolan è una meravigliosa operazione di promozione del territorio, ha un nome che suona bene, bello e misterioso, dà agli spettatori la possibilità di vedere i corridori passare lenti come non mai, ti fa ammirare e rispettare la loro fatica, lo scenario è quasi geniale per quanto appare perfetto - ieri nebbia e neve, sull'altro versante le meravigliose curve da stadio, ma la domanda è: lo Zoncolan è così interessante dal punto di vista tecnico? È vero che la gara l'accendono i corridori, ma ieri come da previsione non è successo nulla fino a poco prima del chilometro finale - i più ottimisti speravano di vedere qualcosa intorno ai -3, ovvero l'inizio del tratto mortifero.

Almeno lo Zoncolan da Ovaro ti mette in un angolo da subito, pur restando poi una salita dove è (quasi) impossibile scattare davvero, dove con i rapportini ci si salva, dove la selezione arriva da dietro. E in aggiunta: perché non sfruttare per indurire la tappa anche qualcuna delle tante salite lì intorno?
Una sfida che più che ispirare, spaventa, anche se poi alla fine è vero, emergono sempre i valori dei più forti, come ieri Bernal o come tre anni fa Froome.

Foto: Luigi Sestili


Una questione di equilibrio

Il lavoro di Ugo Demaria è uno di quei lavori da spiegare bene. Demaria è fisioterapista e osteopata da molti anni ed è al Giro d'Italia con l'AG2R Citroën. «Credo ci sia un errore di base: alcuni pensano che dall'osteopata si vada solo quando ci si è fatti male in seguito a una caduta. In realtà non è e non deve essere così. Il nostro ruolo è anche quello di prevenire, di risolvere problemi che, magari, ad ora non sono nemmeno avvertiti come tali. Mi spiego meglio: se sali su una bicicletta con una ruota fuori centro, tu puoi pedalare comunque e, per i primi tempi, ti sembrerà anche normale. Fino a quando tutta la bicicletta si storterà e pedalare diventerà impossibile. Agli uomini e alle donne accade esattamente la stessa cosa».

Il punto centrale, osserva Demaria, è che gli umani non hanno naturalmente una conformazione fisica adatta a stare in bicicletta e molti movimenti che devono fare per stare su quella sella sono, per così dire, innaturali. «Determinate posizioni possono comportare dolore, proprio per questo motivo. Tendenzialmente sono situazioni marginali che se corrette portano un vantaggio minimo. Però un Giro d'Italia o un Tour de France spesso si giocano su pochi secondi e non ci si può permettere di trascurare nulla. Io parlo di riequilibrio: provo a fornire un equilibrio al corpo che per molte ore sta in una posizione a lui non consona».
La giornata di un osteopata al Giro inizia sin dal mattino presto, aiuta i massaggiatori, prepara i rifornimenti e poi va in hotel ad attendere l'arrivo della squadra. «Per questioni di tempo non riesco a trattare tutti gli atleti ogni giorno, così la priorità va a chi ha più bisogno di un trattamento per problematiche specifiche». Negli anni, Demaria ha affinato tecniche e capacità e, ultimamente, dopo cena, pratica anche trattamenti che aiutino il riposo.

«A questi atleti si chiede tutto, da loro si vuole tutto. Lo stress e la pressione sono una componente importante. Non sono uno psicologo e non mi arrogo competenze che non ho, ma sono sicuro del fatto che ogni persona che stia a diretto contatto con gli atleti debba cercare di affinare la propria sensibilità e avere particolare attenzione ad ogni dettaglio, anche quello che sembra trascurabile». E la sensibilità, che è pane per il lavoro di Demaria, è duplice. «La palpazione è fondamentale, aiutano i test e gli esami. Soprattutto, però, è necessario ascoltare e, se possibile, aver provato ad andare in bicicletta e conoscere quelle sensazioni. Conoscere la dinamica di un corpo in bicicletta, non solo a livello teorico ma anche pratico».

Il resto sono aneddoti e conoscenza personale. Per esempio quando si parla di Andrea Vendrame. «Potrebbe essere mio figlio. L'ho visto crescere. Nel primo giorno di riposo non stava molto bene, stava ancora entrando in forma. La sera prima ci ha detto che ci avrebbe provato. Diciamo che ci è anche riuscito. Noi avevamo il timore che non tenesse sull'ultima salita, quando ha scollinato poteva perderla solo lui». Demaria gli consiglia di riguardare le gare di Paolo Bettini e di ispirarsi a lui per istinto e tenacia.

Non solo, però, perché Demaria lavora anche con atleti fuori dalla squadra. «Se tutti avessero la testa di Pozzovivo, avremmo una qualità stellare. Pensate che è venuto a cena da me il 22 dicembre: c'erano tante golosità in tavola, lui no. Lui si è mangiato la sua insalata con la carne cruda. A Modolo, invece, una volta feci assaggiare il carpaccio, lo mangiò di gusto e, pensate, il giorno dopo fece scintille alla Sanremo».

Foto: Luigi Sestili


This must be the place

"Piedi per terra, testa nel cielo" cantava con timbro ispirato David Byrne. Lassù, dove il mostro Zoncolan si erge chiazzato di bianco e immerso nella nebbia. Lassù, dove si può fantasticare, proiettandosi nel mito.

Lassù, dove tutti ora conosco Lorenzo Fortunato. «Mi piacerebbe vincere una tappa al Giro» diceva qualche settimana fa.

Sognare e poi fuggire, con uno scatto senza volo. Costante, scandito. Scappare via. Da Bennett, Mollema e Covi, forse più forti, ma non oggi. Riprendere Tratnik che qui in Friuli è di casa. Nato al confine, a Idria, dove si dice che gli abitanti siano un po' matti perché l'acqua del fiume che la bagna è stata contaminata dal mercurio delle miniere. Dove il piatto tipico sono gli Idrijski Žlikrofi una sorta di ravioli ripieni di patate, e, volendo, lardo ed erba cipollina.

È fatto così, Tratnik, famiglia di giocatori di basket. Grosso com'è non ce lo vedresti andare forte in salita, e infatti gli ultimi metri li percorre a zig zag vedendo la sagoma azzurra dello scalatore bolognese andare via. Vinse a San Daniele del Friuli pochi mesi fa. «Ho tenuto duro perché ad aspettarmi c'era la mia ragazza» disse. Vinse poco lontano dallo Zoncolan dove se oggi ci fosse il sole vedresti il cielo a un passo, scorgeresti la Panoramica delle Vette, ti potresti immaginare anche il mare.

Zoncolan. Un muro di nebbia. Da giorni non si parla che di lui, e portiamo pazienza per un Giro che, con un solo padrone in Rosa, a tratti inscalfibile, vede gli altri quasi in disarmo.

Giochi di fughe. Concessioni nemmeno troppo celate. Fughe che arrivano sempre e ciò non riscalda. Una sorta di Moloch contro cui lo spettatore combatte. Sarebbe auspicabile vedere i migliori lottare per la vittoria di tappa, ma poco importa, almeno per Fortunato.

Zoncolan, come il ritornello di una canzone osannata. Scendono lacrime da un incredulo vincitore che intervistato smette di parlare in inglese: «Adesso non ce la faccio» esclama radioso. Leggero su quelle rampe che non demordono, che più sali e peggio è, che più vedi la cima e più senti il petto esplodere. Prima vittoria in carriera per lui, che arriva da Bologna, dove invece dei ravioli si fanno i tortellini, lui che al basket preferiva il calcio. Prima vittoria nella storia della sua squadra guidata da Basso e Contador che in salita, a tratti, hanno fatto quel che han voluto.

E quel tifoso che a un certo punto gli si avvicina e per la troppa esultanza rischia di farlo cadere? Assomigliava a Basso, lo abbiamo pensato in diversi. Un segno del destino.

E mentre Fortunato sale, prima sul velluto, poi su un asfalto che pare infilzare le sue unghie nelle ruote, tutto intorno aumentano neve e spettatori. E mentre sale aumenta il vantaggio, e, increduli: "vince davvero Fortunato". E mentre sale, ancora nebbia, neve grigia, spettatori scalmanati, alcuni al solito travestiti, altri con un campanaccio che chissà, forse l'avranno preso in prestito da qualche mucca al pascolo.

E quando arriva: "Occhi che si illuminano, sono solo un animale che cerca casa", sempre David Byrne, caldo e intonato. Immaginavi o forse solo lo sognavi che questo sarebbe stato il posto giusto, Fortunato, "this must be the place". E oggi sullo Zoncolan, è andata proprio così.


Aprite i vostri occhi

Quando Edoardo Affini si è messo in testa a tirare per Groenewegen a poche centinaia di metri dal traguardo, nessuno si sarebbe aspettato mai di rivederlo sbucare con un certo margine all'ultima curva, con uno di quegli schiaffi al gruppo che ormai non si vedevano da tempo: il colpo del finisseur.

Dice che non era pianificato, che ha trovato lo spazio e si è gettato, ma è parso così perfetto, o quasi, che facciamo fatica a crederci. Quasi, perché le schegge della deflagrazione si infrangono a venti metri dalla linea d'arrivo.

Valgono più quattro ore di nulla praticamente assoluto, oppure quell'ultimo minuto di sprint? La risposta è difficile da dare, ma la troviamo negli occhi rossi per la rabbia di Affini e nella lingua di Nizzolo mostrata a tutti come una liberazione.

Vale tanto quell'ultimo minuto di sprint, vale per tutti, ma in particolare per lui. Una serie ridondante di piazzamenti al Giro senza vittoria e poi oggi, nel più semplice degli sprint, nella più semplice delle tappe, è il più veloce. Il più forte. Il più quadrato. Vigoroso e intenso nella sua maglia di campione europeo.

È un paradosso quello che coinvolge i folli delle volate. Perché concentrano in pochi attimi emozioni che si tengono dentro per lunghe ore interminabili, per lunghi anni passati a sognare un successo di questo genere.

E sono mesi che Elia Viviani sogna questo traguardo: «È una strada che conosco a memoria, la faccio tutti i giorni sin da quando sono bambino». Forse anni a pensarci. Se chiude gli occhi, Elia potrebbe descriverti perfettamente ogni centimetro di asfalto che porta verso il traguardo. Se chiude gli occhi e pensa a quando fra pochi mesi sarà il portabandiera italiano ai Giochi Olimpici forse un minimo riuscirà ad arginare l'amarezza.

Ma chiude gli occhi e parte lungo Nizzolo, dribbla Sagan, piomba sulla ruota di un Gaviria che rimbalza contro l'attrito, sfinito da gambe che non trovano più i giorni migliori.

Apre gli occhi, Nizzolo, perché a destra c'è ancora Affini e al traguardo mancano 150 metri. Che sono quantificabili in... tre secondi?

E noi sgraniamo gli occhi in quel lungo attimo, urliamo "Affini" come fa Rob Hatch in televisione, urliamo "Nizzolo" perché al Giro non ha mai vinto e vorremmo vederlo vincere prima o poi.

E siamo la delusione di Viviani, e di questo suo lungo momento, e siamo l'incredulità di Affini, che ha sfiorato il colpo.

Siamo il denso giubilo di Nizzolo che stavolta la vittoria la prende a piene mani e l'assapora. Una vittoria che, come dicono loro, i ciclisti, prima o poi a furia di cercarla arriva, semplicemente.
Banale e sorprendente, come in quel gioco assurdo che è la follia degli sprint.

Foto: BettiniPhoto


Tormento senza estasi

A una media di circa 37 km/h e in sella a una bicicletta, Bagno di Romagna è parecchio lontana da Siena. Se poi vai giù dopo quattro chilometri diventa un calvario.

Sono passati pochi minuti dal via, forse sei o sette, massimo otto, quando Marc Soler cade. Sbatte la schiena e si rialza, come fa un ciclista quando assaggia l'asfalto, e chi va in bicicletta sa di cosa parliamo. La telecamera si ferma a lungo su di lui, mesto, con un compagno di fianco, arriva l'auto del medico, persino l'ambulanza, si tocca la schiena, ha male dappertutto. Qualche gesto plateale che fa parte del personaggio.
Chi ha visto il documentario sulla Movistar uscito un paio di anni fa si è fatto un'idea di lui. Talentuoso quanto bizzoso, quando si accende in salita è tra i più forti, e il Tour de l'Avenir vinto non fu per caso.

Due anni fa, durante la Vuelta, mentre il gruppo saliva verso Andorra, Soler era davanti in fuga e assaporava il successo. L'ammiraglia lo richiamò: «Dietro Valverde e Quintana hanno bisogno di te», Soler si girò mandando tutti a quel paese, volarono insulti quel giorno e in quelli successivi. Soler è un tipo difficile da tenere a bada.

A questo Giro era tra i pretendenti a un buon risultato, tanto che l'altro ieri, tra uno sterrato e l'altro, aveva dato un'accelerazione in testa al gruppetto dei migliori, pagando poi nel finale di corsa.

Soler è sempre lo stesso, forte ma volubile, è quello che vinse al Romandia un paio di settimane fa esultando polemicamente col dito davanti alla bocca, lo stesso che ieri è caduto e si è rialzato nonostante il dolore. È cambiata solo la prospettiva in questo Giro dopo una rincorsa al gruppo che stava diventando un'agonia.

E ieri il suo tormento si è chiuso dopo 50 km di telecamera fissa sul suo malessere. Lascia il Giro, mancando l'ennesima occasione per dimostrare chi è.
Il ciclismo, tra le sue peculiarità, è uno sport che dà poco e toglie molto. Ripido in salita come in discesa: una bilancia della giustizia falsificata. Pensate a De Marchi: a un certo punto lo abbiamo visto riverso sull'asfalto. Chi ha mandato in onda le immagini è stato penoso ancora più che impietoso, lo diciamo senza morderci la lingua: era proprio necessario indugiare come l'occhio di un avvoltoio? Era proprio così utile farlo senza sapere nulla sulle sue condizioni?
De Marchi solo qualche giorno fa ha vestito il sogno di una vita per un corridore italiano: la maglia rosa. Ieri è stato trasportato in ospedale con botte e fratture, e quelle immagini non le avremmo mai volute vedere, noi, figuriamoci le persone più vicine a lui. Quelle immagini non sarebbero mai dovute andare in onda almeno fino a notizie rassicuranti avvenute.

Ieri è stata la tappa del calvario e dell'agonia: Bagno di Romagna è davvero lontana da Siena. Naesen cade mentre cerca di mettersi una mantellina; Goossens cade, batte il fianco destro e si ritira, Dowsett chiude il suo tormento poco dopo quello di De Marchi, sconfitto dai dolori allo stomaco. Masnada dà una risposta alle contro prestazioni dei giorni scorsi e abbandona per un problema al ginocchio. E poi ancora lo strazio di vedere Petilli, Ulissi e Tesfazion soffrire in discesa e staccarsi. E poi un altro ritiro, quello di Mäder. Pochi giorni fa vinceva la tappa il giorno dopo la caduta con ritiro del suo capitano Landa, prendendosi una rivincita su quel finale strappacuore della Parigi-Nizza. Per la sua squadra un tormento continuo. Bello il Giro d'Italia, è vero, formidabile sport il ciclismo. Ma quanto patire.

Foto: Luigi Sestili


L'ultimo Giro di Manuel Belletti

Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».

Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».

Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».

Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».


Se vince Andrea Vendrame

Se vince Andrea Vendrame, diciamolo francamente, siamo tutti più contenti. Perché vince un corridore un po' matto, ma matto in senso buono. Perché al Giro d'Italia siamo un po' di parte e ci eravamo stufati di vedere tutti quei secondi posti. Perché vince un corridore di quelli bravi davvero, ma che ha dovuto superare avversità di ogni genere.

Perché fino a pochi giorni fa era l'ultimo vincitore del Tro-Bro Léon, corsa che, come sapete, ci piace in modo particolare.
Perché oggi in fuga si è speso per Bouchard: aiutarlo a conquistare punti della maglia azzurra era una parte della sua missione. Ha sgranato il gruppo in discesa andando giù a "tomba aperta" come diceva il grande Mario Fossati. È sceso giù a tutta come quando vinse il Giro del Belvedere tra gli Under 23: a fine gara il cameraman della Rai gli disse: «Tu sei scemo. In discesa non ti seguirò mai più».

Perché un anno dopo quella vittoria un'auto l'ha preso in pieno durante un allenamento: cinquanta punti interni e sessanta esterni sulla parte destra del viso. Perché la cicatrice è rimasta e lui non la nasconde: da allora si fa chiamare "Joker". Fino a un po' di tempo fa il Joker ce l'aveva anche disegnato sul casco.
Perché l'ha inseguita, l'ha sfiorata e sembrava non arrivare mai. Perché, racconta, ridendo, che ha iniziato ad andare in bici su consiglio del portalettere che recapitava la posta tutti i giorni a casa sua. Perché uno che ha "The Wolf of Wall Street" come film preferito, non può non starci simpatico.

Perché è un po' matto, lo abbiamo detto, è vero, ma oggi è stato il più lucido tatticamente. Sull'ultima salita si è staccato sui primi attacchi, è rientrato, ha attaccato anticipando il tratto duro, avvantaggiandosi e venendo ripreso solo quando la salita spianava. È stato perfetto.
Ha tenuto, ha giostrato, ha rifiatato e poi nel finale ha allungato con Hamilton battendolo allo sprint.

Perché Vendrame oggi andava davvero forte in salita pur essendo uno particolarmente veloce: come un paio di anni fa quando arrivò secondo nella tappa di San Martino di Castrozza. Si arrivava in salita, ma Chaves, un altro tanto bravo quanto sfortunato, andò meglio di lui.

Perché oggi entrare in fuga è stato un gioco massacrante e lui ha giocato e ha vinto. Perché ha combattuto la legge che vorrebbe un corridore come lui restare nell'ombra nelle tappe così. Lui quella legge l'ha combattuta e l'ha vinta.

Diciamolo francamente e non ce ne voglia nessuno: quando vince uno come Andrea Vendrame siamo tutti più contenti.


Quel che si è visto a Montalcino

Vedo pochi spezzoni di corsa di questa Perugia-Montalcino attesa dal mondo da 11 anni, da quando arrivò Cadel Evans in maglia iridata a nobilitarla. Sono concentrato su un intervento che mi preme fare in diretta Rai; cose da dire su questo territorio, sul suo giacimento di strade bianche che non si sono salvate per caso. Apprendo che L'Équipe scrive di chissà quali strati di cemento sotto, come se da queste parti si fosse forzata la natura per fare delle piste ad uso ciclismo con polvere.

Ciò che intravedo tra una postazione e l'altra, gelataio compreso, mi basta. Conosco queste immagini, questi luoghi magici dai nomi fantastici. Passo del Lume Spento sembra scritto da Collodi, incrocio di Gatto, Volpe ed Assassini tutti insieme. Al mondo trasmettiamo l'idea di un reame di sogni, di colori, della natura trionfante in simbiosi con l'opera dell'uomo, per una volta persino capace di migliorarla. In più ho appena scorso, anche in foto, ciò che vidi domenica con l'Eroica Juniores, per gli ultimi 30 chilometri sullo stesso tracciato e per gli altri 80 su bellezze altrettanto degne: facce mirabili di ragazzi pieni di sorrisi e schizzi di fango, visi da affiggere fuori da ogni pub in cui molti pari età esagerano con gli spritz.

La corsa? Abituato alla sincerità devo dirla anche stavolta; certo che è la mia, ci mancherebbe, ma mi urge dentro, poco opportuna.

Un appuntamento del genere, in questa arena fatata, doveva essere onorato meglio. Lo stesso Egan Bernal, degna maglia rosa, aveva cerchiato la tappa, considerandola quella da vincere, quella di cui si sarebbe ricordato da vecchio. Come, appunto, Cadel Evans, che in settimana aveva definito quella Carrara-Montalcino 2010 lorda di fango come la sua vittoria più bella.

Si parla di uno che aveva in bacheca Tour e Mondiale mica del nostro Eros Poli e del suo Mont Ventoux, con tutto il rispetto una saetta su un palo. La Ineos, signora e padrona, ha lasciato quasi un quarto d'ora a una fuga numerosa, i tecnici iper preparati, scienziati con bilancini e computer, tabelle e teoremi, hanno fatto i conti che il più vicino in classifica stava a oltre mezzora. Di epica ed eroismo nemmeno parlarne, del mondo ciclistico tutto che avrebbe gradito l'impresa in diretta, del fatto che quella tappa Montalcino 2010 sia stata la più vista nei siti internet planetari importato una mazza. Gli altri una scusa l'avevano: Bernal viaggiava ad altro passo, visto a Campo Felice. Quindi si è messo in scena il copione delle frazioni di complemento, le tappette di contorno: libera uscita per reclute e caporali.

Occasione persa per consolidare la nuova posizione che questo ciclismo sta conquistando nel cuore della gente; Strade Bianche magistrali con van der Poel, Alaphilippe e tutti i più grandi davanti, stavolta uno sprint a due fra giovani dal sicuro avvenire. Ma non era traguardo da Schmid e Covi, l'avrebbe capito qualsiasi alle prime lezioni di marketing.

Fatto è che, forse, trattasi di un Giro d'Italia che paga un cast assortito con quanto il Tour lascia a disposizione, un po' poco. Sulla carta Bernal, terza punta nello scacchiere degli inglesi, è partito senza rivali veri, con Evenepoel fermo da 9 mesi, il buon Vlasov ancora tenero, un gemello Yates che non sai mai se è quello giusto e Vincenzo Nibali, già grande a prendere il via col fardello dell'infortunio e degli anni. Italiani? Tenui, bravo Damiano Caruso ma lui da anni fa il gregario di lusso; e i due migliori, Ganna e Moscon, sono a fare i Grenadiers, gli operai specializzati. È un Giro che quando perde Caleb Ewan, direzione Tour, si infuria persino Merckx; ed oggi se n'è andato a casa anche Tim Merlier, sprinter belga a segno nella seconda tappa.

Eppure a Montalcino si è visto tanto lo stesso, l'idea di un grande ciclismo di ritorno si è avuta ugualmente; Bernal ha attaccato, Evenepoel  ha pagato ma in modo tale da confermare che sarà un prossimo grande. Qualcuno si è perso, sono arrivati così alla spicciolata che un quartetto sembrava un plotone. E comunque sia queste contrade di grandi vini, bella gente e tante strade magnifiche senza asfalto hanno confermato che il ciclismo eroico parla in diretta con l'anima della sua gente. Presto lo capiranno anche certi scienziati; e magari cominceranno a divertirsi anche loro.

Foto: Luigi Sestili


Giancarlo Brocci e le strade polverose

«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».

Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L'Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell'uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».

Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».

Così Brocci è rammaricato per l'esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l'ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».

Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c'è la fatica e, dove c'è fatica, c'è la parte buona dell'uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c'erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c'erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».