«Senza cross, come farei?»: intervista a Giorgia Pellizotti
Qualche volta Giorgia Pellizotti si rivolge a suo padre Franco, magari durante un viaggio in auto, oppure a casa, davanti a quel televisore attraverso cui da bambina, al ritorno da scuola, seguiva le tappe del Giro d'Italia: «Papà, secondo te potrei diventare una ciclista professionista?». Lui la guarda negli occhi: «Non so, le cose non vanno sempre come vorremmo...». Lei riprende a parlare e rafforza la domanda: «Quindi? Qual è la tua idea? Non mi hai risposto». Allora Franco cambia tono: «Vedremo, tu, intanto, impegnati, se ti impegni sei già a metà dell'opera». Pare che Franco Pellizotti non le abbia mai detto chiaramente di sì, eppure chi lo conosce bene è consapevole del fatto che sia il primo a crederci.
D'altra parte, Giorgia ha letto recentemente una dichiarazione in cui il padre spiegava che sapendo bene, per averlo vissuto sulla propria pelle, cosa voglia dire essere ciclisti, ha scelto di lasciarla libera, anche di sbagliare se necessario, purché sia tranquilla e non avverta anche la sua pressione. «Potrei dire che papà è la mia ispirazione come ciclista, ma sarei imprecisa, perché lui ha corso su strada ed io sono impegnata con ciclocross e mountain bike, specialità completamente differenti. Sembrerà strano, ma di ciclismo parliamo raramente e, quando lo facciamo, c'è di mezzo l'ironia: ci prendiamo in giro, magari gli rinfaccio le maglie che io ho vinto e lui no. La serietà la riserviamo ad altro. Papà forse non era il più forte, ma di certo era il più "intelligente" a livello tattico, questo mi è chiaro. Però Franco Pellizotti per sua figlia è un modello come persona, come padre. Non c'è altro». Prima di sedersi davanti a quel televisore, nei primi giorni di quei mesi di maggio, Giorgia, da bambina, piangeva forte: non ha mai accettato del tutto quei bagagli di Franco e l'idea che per un mese non l'avrebbe più visto, così non voleva lasciarlo partire. La promessa era che presto mamma avrebbe accompagnato lei ed il fratello a qualche tappa non lontana da casa e lì avrebbero rivisto il padre: «Nel mio immaginario quei bus, quelle divise e quegli occhiali erano ben più di quel che erano davvero. Per me i ciclisti erano esseri umani speciali che partivano con così poco per tutta quella fatica. Poi, fra loro, c'era papà ed io volevo assomigliare a papà».
Descrive minuziosamente i fiori disegnati sulla sua prima bicicletta da passeggio, descrive con altrettanta attenzione la prima bicicletta da gara, tutta bianca, regalatale proprio da Franco Pellizotti, «piccola, anzi davvero minuscola, ma pure io ero minuta». Crede di essere nata in sella, perchè i primi ricordi sono lì e a sedici anni, la sua età, i primi ricordi sembrano così lontani, ma sono dietro l'angolo: «Fino alla categoria G6 era solo un divertimento e mi divertivo come non riuscivo a divertirmi in nessun altro ambito: in più, io avevo la prova che potevo farcela, di qualunque ostacolo si trattasse, perché ce l'aveva fatta mio padre. Al passaggio da esordiente, però, qualcosa è cambiato, forse perché era maggiormente impegnativo, forse per i risultati che non arrivavano, il divertimento era svanito. Se corro ancora, è grazie al passaggio alla Sanfiorese ed alla scoperta del ciclocross e di ciò che più gli somiglia, la mountain bike». A dire il vero, il cross lo praticava già, ma è il modo a fare la differenza: «Senza cross non so cosa farei. Ho cercato la mountain bike per riempire le estati: è qualcosa di magico. Anche in allenamento, in mezzo ai campi, al verde, mi sento in armonia con il tutto, e questo, forse, non è nemmeno il motivo principale. Sai, mio fratello è molto impegnato con l'università e anche papà è sempre fuori casa. Il cross riunisce la nostra famiglia: so che nel fine settimana siamo tutti assieme e per me fa la differenza».
Il fratello è maggiore e sin da piccola l'ha sempre vista impegnarsi e fare sacrifici per quella bicicletta: non riusciva a capirla. Ora che si è appassionato anche lui, le ripete spesso una frase: «La fatica preferisco farla fare a te, ma anche se sei tu a correre è come se ci fossi anche io lì». Giorgia ci crede, perché lo vede. È accaduto anche all'Europeo di ciclocross di Pontevedra, dove ha conquistato una medaglia d'oro nel Team Relay e un bronzo nella prova individuale.
«Del Team Relay non cambierei nulla: è stata una giornata perfetta. Ho fatto tutto ciò che mi è stato chiesto e sono stata ricompensata in un modo insperato. Dirò qualcosa che forse non ci si aspetta rispetto alla prova individuale. Sia chiaro, la medaglia di bronzo è un risultato importante e ne sono orgogliosa, ma rivedendomi credo che avrei potuto insistere di più nel finale, invece, quando ho capito che il terzo posto era a portata di mano, mi sono seduta, rilassata. Un pizzico di combattività in più non avrebbe guastato: la vittoria era lì, era possibile». Si è rivista in televisione e si è emozionata ripensando alla sua quotidianità: sei ore di scuola, all'uscita, in autunno ed in inverno, subito agli allenamenti, per sfruttare le ore di luce, pranzo all'orario in cui gli altri ragazzi fanno merenda, compiti e studio, cena e ancora studio fino all'ora di andare a letto. In mezzo le trasferte all'estero, le lezioni da recuperare, le interrogazioni e le verifiche da incastrare e una sensazione ben precisa: «Non basta mai».
«I miei genitori non saranno d'accordo, per me, però, la scuola ed il ciclismo sono esattamente sullo stesso piano. Loro sostengono che la scuola venga prima del ciclismo e se non studio non mi permettono di uscire in allenamento. Sono competitiva, sia nello sport che nello studio: voglio vincere e ottenere voti alti a scuola. I sacrifici, per me, sono nella quotidianità, non nel ciclismo: non correrei se lo avvertissi come un peso. Non posso uscire la sera? Va bene così, sono ripagata di tutte le sere trascorse a casa se posso essere una ciclista e, al momento, non conosco un altro ambito del quotidiano che riesca a emozionarmi in questo modo».
Al suo ritorno a scuola, al liceo Scientifico, una piccola amarezza che la fa riflettere. Ai suoi insegnanti aveva spiegato che sarebbe stata assente qualche giorno per una competizione, l'Europeo: «Alcuni miei compagni si sono ricordati, mi hanno fatto i complimenti, mi hanno chiesto com'era andata, si sono interessati, insomma. Purtroppo nessun insegnante ha dimostrato questa attenzione. Mi è dispiaciuto, anche se so bene che la vita di un atleta spesso non viene compresa, anche perché è difficile capire quel che non si prova. So essere molto estroversa se mi apro, se mi fido, eppure non ho molte amicizie in ambito scolastico. Le ho fra atleti, dove si condivide la stessa vita, le stesse esperienze, ci si supporta. Mi è dispiaciuto, ma inizio a credere sia normale».
Sui libri, la materia che preferisce è Scienze dell'alimentazione in ambito sportivo e un domani, al termine della carriera, vorrebbe fosse il suo lavoro, magari proprio nel ciclismo. Dice che Mathieu van der Poel è fra le cose più belle capitate nel ciclismo, una sorta di modello da provare a replicare, di utopia da inseguire «perché van der Poel va davvero forte ovunque». Altra ispirazione le proviene da Demi Vollering, per come affronta il ciclismo e non solo. Pensa alla nazionale, ai Campionati Italiani, al Mondiale. Vorrebbe imparare a saltare gli ostacoli in bicicletta, dote che potrebbe esserle molto utile, soprattutto alla luce del fatto che in poche riescono a farlo in scioltezza: lei fa ancora fatica, ma continua a lavorarci.
Un aneddoto la racconta meglio di altri: al secondo anno da esordiente, sfidava spesso Luisa Bianchi, una ragazza di una superiorità netta rispetto alle avversarie, anche fisicamente più avanti. Una gara terminò in volata e ad affrontare Bianchi c'era proprio Giorgia Pellizotti: «La superai, riuscii a superarla. Forse quel giorno ho davvero capito di poter vincere». E piano piano Giorgia somiglia sempre più a Franco, proprio come desiderava. E assieme ci scherzano su.
Lottare per un sogno: intervista a Negasi Haylu Abreha
Il 14 di ottobre, con le ultime gare della stagione oramai andate o in procinto di concludersi a diverse latitudini più ad est, su X (quello che una volta si chiamava Twitter) è piuttosto facile imbattersi in messaggi di ciclisti e cicliste alle prese con il tirare le somme di tutto l’asfalto passato sotto le proprie ruote nei molti mesi precedenti. Invece, quel giorno, assieme ad altre circa 432mila persone nel corso del tempo, mi sono imbattuta in una richiesta di aiuto. A scriverla era l’attuale campione nazionale etiope, Negasi Haylu Abreha. Specificava, subito dalle prime righe, che in realtà sarebbe anche un corridore per la Q36.5 pro team ma solo fino alla fine dell’anno, almeno così gli era stato comunicato. Un agente non lo ha mai avuto e nel frattempo molte squadre avevano finito di stilare il roster per la prossima stagione. Così ha deciso di optare per un messaggio in una bottiglia virtuale, lui naufrago con il sogno di poter regalare all’Etiopia quello che Biniam Girmay è riuscito a regalare all’Eritrea, scrivendo la storia del ciclismo africano. Sottolineava anche il quarto posto agli appena disputati campionati continentali africani, consapevole che sarebbe potuta andare meglio, ma che a lui bastava. Finiva il thread con un account di posta elettronica a cui scrivere oppure il consiglio di infilarsi nei suoi DM su Instagram, come direbbero quelli più giovani di me. Nessuna implorazione, ma un’implicita speranza che nel mucchio di persone annoiate alle prese con lo scrollare ci fosse quella disposta a dargli una seconda chance.
Fino a quel momento di Negasi non sapevo nulla, come succede alle storie che finiscono in fondo al peloton e alle classifiche delle gare, e anche quando ho finito di leggere quel thread continuavo a saperne veramente poco. Qualche minuto dopo potevo raccontare ad uno sconosciuto, grazie ad una ricerca su internet, che è nato il 9 maggio del 2000 a Mek’ele, una città a 2.250 metri di altitudine che fa da capitale alla regione etiope del Tigray; che parla il Tigrinya e l’Amharic ma anche un po’ di inglese e italiano, grazie agli anni con base a Lucca; e che tra il 2020 e il 2023 ha forse vissuto uno dei momenti peggiori della sua vita, quando è scoppiata una guerra civile tra il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF) e il governo federale etiope, appoggiato dall'Eritrea e dai militanti della regione confinante dell'Amhara. Negasi sarebbe dovuto tornare a casa alla fine del 2020, invece per cinque mesi da casa non ha ricevuto notizie. L’unica cosa che sapeva è che migliaia di persone continuavano a morire e a lui, distante ed impotente, non restava altro che aspettare un messaggio o una telefonata, facendo la cosa che conosceva meglio, forse quella che l’ha salvato più di tutte: pedalare. Fino al 2022 lo ha fatto prima per il NTT Continental Cycling Team, poi per il team Qhubeka. Ha corso in diverse gare U23 come il Tour de l’Avenir e quello che oggi conosciamo come Giro Next Gen, ma anche il Giro di Sicilia e il Tour of Britain. Ci sono voluti tre anni prima che riuscisse a riabbracciare sua madre e i suoi fratelli.
Ho provato per giorni a non pensare a quel tweet: era tra le cose più umane e più vere sul ciclismo in cui mi fossi imbattuta sui social da quando ho cominciato a seguire questo sport. Così ho aperto Instagram, ho cercato il profilo di Negasi e gli ho chiesto se aveva voglia di raccontarmi cosa stesse succedendo nella sua vita.
Avrei voluto chiedertelo come ultima cosa, ma penso che forse sia giusto aprire così quest’intervista, piuttosto che cominciare, come farei di solito, dal passato: hai qualche novità sul tuo futuro? Sei stato contattato da qualche agente o da qualche squadra per il prossimo anno?
Qualcuno mi ha contattato per chiedermi cosa potesse fare per aiutarmi, ma senza risultati. Il primo giorno, ad esempio, un agente, che solitamente si occupa di calcio, mi ha scritto dicendomi che avrebbe voluto cominciare a rappresentare anche ciclisti e che aveva già cominciato a farlo per un corridore, dunque avrebbe provato a fare lo stesso anche per me. Mi ha fatto alcune domande e chiesto dei documenti come il mio CV ma non credo che riuscirà ad aiutarmi.
Cerco di riportarti allora - spero! - verso momenti più felici: ti ricordi quale è stata la prima volta che sei salito in sella ad una bici?
Solitamente in Etiopia, nella mia regione, c’è una gara ogni domenica. Si corre vicino casa mia, perciò è stato facile innamorarmi di questo sport. Ho chiesto ai miei genitori di poter comprare una mountain bike: mio padre era d’accordo, mia madre lo era decisamente meno (ride). Era spaventata dal fatto che spesso vedeva i partecipanti alle gare vicino casa nostra cadere e farsi male. Alla fine mio padre mi ha dato i soldi per poterla acquistare e ho cominciato a pedalare. Inizialmente l’ho fatto per un team locale che mi forniva vitto, alloggio e anche una bici, ma non poteva pagarmi. Ero troppo giovane per loro, ma dopo circa tre mesi di allenamento hanno cambiato idea e hanno cominciato a farlo. La mia prima gara in Africa è stata in Algeria con il team nazionale etiope, quando avevo 19 anni. Poco dopo, nel 2019, sono stato per tre mesi in un training camp presso il centro dell’UCI in Sudafrica, a Città del Capo. Nel luglio dello stesso anno sono tornato a casa, in Etiopia, per i campionati nazionali e sono riuscito a diventare campione nazionale del mio Paese. Quella vittoria mi ha permesso di ottenere un contratto per venire finalmente in Europa. Sono arrivato a Lucca alla fine di luglio del 2020. A novembre, il giorno prima che partissi per tornare a casa, è scoppiata una guerra civile nel mio Paese. Per tre anni e mezzo non sono riuscito a rimettere piede in Etiopia.
Hai ancora in Etiopia quella prima mountain bike?
Certo! Ha cominciato a muovere i primi passi nel ciclismo anche mio fratello e si è allenato con quella bicicletta, nonostante fosse un pochino grande per lui. Ne ha acquistata una nuova, anche se nel frattempo è entrato a far parte di un team. Mia madre, in compenso, non è più spaventata come una volta, anzi mi supporta seppur non comprenda molto del mondo del ciclismo: era a dir poco scettica quando le raccontavo che volevo correre fuori dall’Etiopia e venire in Europa a farlo, credeva non fosse possibile.
Ci sono ciclisti dal passato o che appartengono al presente che ti ispirano?
Molti ciclisti che correvano con me in Etiopia, quando è scoppiata la guerra, si sono uniti ai combattimenti e, ora che è finita, hanno ricominciato a pedalare nonostante il ritorno alla normalità sia piuttosto lontano. Alcuni, invece, nella guerra hanno perso la vita.
Quanto è stato importante il ciclismo per te quando è scoppiata la guerra nel tuo Paese e non avevi modo né di farvi ritorno, né di sapere come stesse la tua famiglia?
Quando è scoppiata la guerra in Etiopia, è stato chiuso tutto e non potevo contattare la mia famiglia. Per riuscire a mandarmi un messaggio, mio fratello era costretto a recarsi in un’altra regione da cui poteva finalmente inviarmi un vocale di pochissimi secondi, che doveva comunque pagare. Cercava di dirmi che stavano bene e che non dovevo preoccuparmi per loro. Ero nervoso perché volevo aiutare loro e altri che mi avevano chiesto aiuto, ma non era facile mandare soldi: se provavo ad inviare alla mia famiglia circa 2.500 euro, dovevo mandarli per prima cosa nella capitale dell’Etiopia e da lì dovevano compiere un viaggio da regione a regione prima di arrivare alla mia; alla fine la mia famiglia, viste le commissioni che ogni regione richiedeva, riceveva non più di 350 euro. Mentre ero a Lucca e mi allenavo, mi sono cominciato a chiedere per cosa lo stessi facendo. Non sapevo nulla della mia famiglia, vedevo solo notizie di persone che avevano perso la vita, scrollando su Facebook e temevo che un giorno potesse comparire il nome di qualche mio caro.
Immagino che le differenze tra il ciclismo in Etiopia e quello in Europa siano tante, ma c’è qualcosa che ti ha impressionato più di altre quando sei arrivato a pedalare qui?
Ce ne sono veramente tante! (ride)
La prima volta che sono arrivato qui, nel 2020, facevo fatica con tutto: non conoscevo l’inglese o l’italiano, non capivo molto di quello che mi veniva detto e mi capitava spesso di fare errori all’interno del team perché non conoscevo le regole. Tutto è stato uno shock per me il primo anno. In Etiopia, ad esempio, così come in Africa, le gare e i loro percorsi non sono così duri come qui in Europa.
Qual è il tuo ricordo più felice fino ad ora?
Nel 2019, quando ho vinto il titolo di campione nazionale etiope. Mi ha cambiato la vita. Prima di andare, ero nel centro UCI in Sudafrica, avrei dovuto continuare per un altro mese e uno dei manager mi aveva sconsigliato di partecipare perché mancavano veramente pochi giorni alla gara e non riteneva che ce l’avrei mai fatta a vincere: la gara era troppo dura e per giunta in altitudine. Secondo lui, avrei solo perso i soldi di un viaggio a vuoto. Ho chiamato il mio coach in Etiopia e gli ho detto che volevo partecipare ai campionati nazionali. Anche lui era piuttosto sorpreso e credeva fosse una follia. Avevo 19 anni, mi sono detto che non mi importava nulla dei soldi, volevo e dovevo provare. Quando ho raggiunto il mio team in Etiopia, il mio coach era così arrabbiato che si rifiutava di parlare con me. L’unica cosa che è riuscito a chiedermi, urlando, è perché fossi andato. La prima gara è stata la cronometro individuale, alla quale non ero particolarmente interessato, sapevo che la mia occasione era la prova in linea. A cinque chilometri dalla partenza, in discesa, sono caduto. Erano tutti ancora più convinti che avessi sprecato dei soldi. Avevamo un giorno di pausa e quello dopo la gara che stavo aspettando: quando ho tagliato il traguardo per primo, non potevo crederci; perfino il mio coach non riusciva a dire nulla. Quest’anno, dopo cinque anni, sono riuscito nuovamente a riprendermi quel titolo, speravo che mi avrebbe aiutato a rinnovare il mio contratto con il mio team qui in Europa.
Secondo te cos’è che non vediamo e non capiamo noi spettatori di cosa significhi essere un ciclista oggi?
Senza un agente è veramente difficile trovare una squadra. Ho lavorato per il mio team in ogni gara a cui ho preso parte: non ho lottato per me stesso o per un risultato, non mi è mai stata data la possibilità di mostrare cosa le mie gambe potessero fare perché ad ogni competizione il mio compito era quello di supportare il team. Ero felice di farlo, ma quando ora le squadre mi chiedono dove siano i miei risultati, non ho prove tangibili da dargli riguardo il mio valore e le mie capacità da ciclista. Mi sarebbe bastata anche solo un’opportunità. Qualcuno ha provato a tirarmi su il morale dicendomi che se non dovessi trovare una squadra, potrei sempre cercare un nuovo lavoro in Europa. Ma non ho bisogno di nessun lavoro, voglio solo continuare a lottare per il mio sogno, essere un ciclista professionista, per salvare la mia vita e la mia famiglia. Per giunta non è così facile per me trovare un altro lavoro come può esserlo per chi è europeo, basti pensare alla fatica con cui riuscirei ad ottenere un visto.
Se potessi continuare a pedalare, a quale gara ti piacerebbe partecipare?
In queste due stagioni ho imparato moltissimo e vorrei applicarlo. Vorrei mostrare agli altri cosa riescono a fare le mie gambe in salita, vorrei che le persone cominciassero a conoscermi, a vedermi. Mi piacerebbe poterlo fare al Tour de France.
Riesci ad immaginare un futuro senza ciclismo?
Sarebbe veramente difficile vivere una vita senza ciclismo.
Sono passate alcune settimane dalle parole che state leggendo. In questo momento Negasi è a casa in Tigray, assieme alla sua famiglia. Alla fine dell’anno, non avendo al momento una squadra, il suo visto scadrà e verrà espulso dall’Italia. Lui continua a sognare, sperando che quel messaggio lasciato in una bottiglia virtuale, alla quale spero di dare una spinta nella giusta direzione, raggiunga le rive di una nuova squadra che lo possa accogliere.
Foto: Sprint Cycling Agency
Ora che le cose vanno meglio: intervista a Silvia Persico
Per Silvia Persico, quando le telefoniamo, sono i primi giorni di riposo dopo una stagione intensa, ci confessa che sente già la mancanza della vita movimentata da ciclista, mentre la bicicletta, per ora, la lascia da parte, tranquillamente. Del resto, saranno solo dieci giorni e poi si riprende perché a gennaio l'aspetta l'UAE Tour ed è necessario entrare subito in forma: è stata qualche giorno a Gran Canaria, con la famiglia, e ad Abu Dhabi per il primo ritiro con la squadra, dove si è cimentata in molte attività. Ora, a casa, rilassata, si concede del tempo per pensare: «Ho, forse, meno persone accanto e la colpa è di questi mesi, di questa stagione difficile. Si dice spesso che quando si vince tutti "saltano sul carro", salvo scendere alla prima difficoltà, alle prime sconfitte. Si dice ed è vero, perché sono poche, pochissime le persone che restano nonostante tutto: la famiglia e pochi amici. In qualità di atleti lo sappiamo e non c'è molto da dire, fa parte del nostro lavoro e dell'avere così tanta gente attorno, non accanto, però, quando succede, fa pensare.
Corriamo questo rischio ma, al tempo stesso, possiamo essere sicuri di chi resta perché, a forza di selezionare e di persone che se ne vanno, i legami di un atleta, forse, sono i più sicuri». Il 2024 per Persico è stata una stagione sotto le aspettative: dopo un buon inizio, diciamo fino fino al Fiandre, dapprima la mancanza della nonna, successivamente un periodo in cui si trova ad inseguire di continuo. Anche i valori degli esami del sangue sono sballati, a maggio: in altura, pre Giro d'Italia Women, sta bene, ma al termine del Giro scopre di avere il Covid. Si allena, si prepara, è pronta per l'Olimpiade e tutto sembra perfetto fino al giorno prima della prova in linea: è un dolore al fianco il giorno stesso a bloccarla. Al Tour de France Femmes arriva stanca, si fermerà dopo il Tour e non correrà i primi giorni di settembre, fino alla Tre Valli Varesine e alle competizioni gravel, Mondiali ed Europei: «L'anno scorso vedevo il gruppo dalla testa, quest'anno mi sono spesso ritrovata in coda ed è difficile, mentalmente ancor più che fisicamente. Se non arrivano risultati è complesso continuare a lavorare con la stessa intensità, fare le cose per bene. Io molte mattine non avevo voglia di alzarmi, di uscire in allenamento. Ti chiedi perché devi farlo, perché non puoi stare nel letto, tanto non cambia nulla. Non mi divertivo più in bicicletta». Tutti hanno sempre lodato la grinta di Silvia Persico ed anche lei se la riconosce, la sente, «ma non sapevo come utilizzarla per uscire da questo tunnel, ho messo in strada tutto quello che avevo eppure per un periodo mi sono persa completamente. E, mentre ero persa, mi chiedevo quando sarei tornata, come sarei tornata e, soprattutto, se davvero era possibile tornare». Una parte di serenità e divertimento è ricomparsa cimentandosi nel gravel, a settembre, ed era da aprile che non accadeva.
Le manca il cross e anche nel gravel vorrebbe poter fare più gare, ma il suo è già un calendario intenso e tutto non si può fare, anche perché la stagione si allunga sempre: «Essere leggera in sella vuol dire sentirsi a proprio agio. Ho sperato a lungo di ritrovare quella voglia di pedalare genuina, senza la pressione del dover dimostrare che ti assale quando i risultati non ci sono ed è successo. Era la fine della stagione, ma è accaduto. Così anche da quest'anno mi porto via qualcosa di buono: la capacità di gestire gli alti ed i bassi e la consapevolezza che si ritorna. Bisogna credere che si starà meglio. Sembra banale, ma non lo è». Pensate al giorno della Tre Valli Varesine, sotto una pioggia torrenziale, dopo tanto tempo, qualcosa si era riacceso: il piano era lavorare per Eleonora Camilla Gasparrini, invece Persico entra nella fuga decisiva e insiste fino all'ultimo metro, arriverà un secondo posto, cercava la vittoria ma, oggi, quel piazzamento per lei è importante, è una testimonianza. In particolare in un anno ricco di cambiamenti: dopo otto anni, Silvia Persico ha cambiato coach, da Davide "Capo" Arzeni a Luca Zenti. Significa anche un cambio di metodologie di allenamento: da una parte l'intensità di Arzeni, dall'altra la quantità, le tante ore di allenamento di Zenti. Ora sente di essere pronta a gestire quel che verrà, ad affrontare una stagione importante, la prossima.
Scadrà il suo contratto con UAE Adq, a fine anno, e questo è indubbiamente un pensiero: «Avere un contratto è importante, allo stesso tempo però un contratto a lungo termine può spegnerti, può farti sedere, toglierti fame. Non è il mio caso, però è un dato di fatto. Troverò in questo anno la motivazione per continuare a dimostrare, per portare risultati, per mettermi a disposizione, se necessario, poi ci si siederà ad un tavolo e si vedrà, cosa mi proporranno e cosa vorrò».
La prossima stagione sarà anche quella dell'arrivo in UAE Adq di Elisa Longo Borghini. Persico l'ha saputo nel periodo dell'Olimpiade di Parigi, ma c'è di più: un giorno è stata proprio Longo Borghini a prenderla da parte e parlarle. Le ha posto una semplice domanda: «Silvia, sii sincera: dimmi cosa ne pensi del mio arrivo in squadra». La risposta è semplice; sin da piccola, Longo Borghini era un modello per Silvia Persico e ogni momento condiviso ha contribuito a farla crescere, ad ispirarla. L'ultima storia è recente: il ritiro al San Pellegrino prima del Giro d'Italia Women, poi conquistato dalla campionessa di Ornavasso. Dopo quel periodo di lavoro duro, concentrazione e sacrifici, ognuna con la propria squadra, per la propria strada. Erano in questa situazione il 14 luglio, a L'Aquila. «Certo che ciascuna lavora per il proprio team, ma lo confesso: sono stata contenta che il Giro lo abbia vinto Elisa, da italiana e da ciclista. Ci pensavo quel giorno e aver condiviso quella fatica ha fatto in modo che mi sentissi parte di quella vittoria, di quel successo. Non ho mai avuto una leader di questo tipo, un'atleta così forte, e sono certa che crescerò proprio grazie a lei. A Wollongong è già capitato ed io sarei davvero contenta di mettermi a sua disposizione e magari, chissà, di ritagliarmi qualche possibilità. Vorrei essere all'altezza della mia responsabilità, ovvero esserci quando servirà e ne avrà bisogno. Ad Abu Dhabi abbiamo condiviso la camera, stiamo continuando a conoscerci». Chi viene e chi va, perché la contentezza per Longo Borghini è controbilanciata dall'addio di Chiara Consonni che correrà in Canyon-SRAM.
«Non sarà facile vederla con un'altra maglia, anche perché noi non eravamo solo compagne di squadra, siamo migliori amiche. Le auguro il meglio, a livello personale e sportivo, tanti risultati, tante vittorie». Proprio ad Abu Dhabi ha incontrato Tadej Pogačar, nel corso di una conferenza: le ha fatto effetto pensare di correre per la sua stessa squadra. Lo descrive come un ragazzo di una normalità straordinaria, nonostante i tanti successi ed una carriera eccezionale: «Tadej spiega che con l'impegno e l'abnegazione chiunque può arrivare a fare certe cose. Io personalmente la vedo diversamente e penso ci sia bisogno di un talento fuori dal comune per ottenere certi risultati. Il lavoro è importante, fondamentale, ma non tutti possiamo fare certe cose, certe imprese. Tuttavia un fatto è certo: bisogna essere resistenti, consistenti e questo a prescindere dai risultati, bisogna esserlo perché è giusto, nei confronti della propria persona e del proprio dovere».
Foto: Sprint Cycling Agency
Karhu, Cuneo
La noia non fa bene alla quotidianità dei giorni ed Enrico Arese, pur tra i tanti dubbi di un mestiere che ne pone di illimitati, ha la certezza che le sue giornate non saranno mai noiose. A casa lo prendono in giro: «Enrico ed i suoi amori, Enrico ed i suoi continui innamoramenti», entrambi frutti di un entusiasmo ontologico sin dall'adolescenza, e tante storie che non entrerebbero in un libro. Le mattine di adesso sono simili a quelle mattinate estive da ragazzino, quando se ne inventava sempre qualcuna nei suoi giochi e, poi, partiva con il padre Franco, verso le Olimpiadi, i Mondiali oppure gli Europei, dall'atletica, al tennis, alla pallavolo, al ciclismo. Era felice perché quegli atleti, che i suoi amici immaginavano supereroi, erano solo esseri umani ed erano a tavola con lui, a pranzo, a cena. A lui era successo di perdersi dietro ad un amore, mentre assieme al papà era rimasto travolto dal passaggio di Roger Federer proprio lì accanto: nessuno aveva avuto il coraggio di dire una parola, di chiedere una foto, un autografo. Era bello guardarlo, solo guardarlo.
La realtà pareva una fantasia, per lui e per i suoi fratelli, Emanuele ed Edoardo, ma ci ritorneremo. Ora ci basta dire che ciò che è rimasto uguale è un lavoro che si rinnova continuamente, come quello in ambito sportivo: dalla cura della parte tecnica, al prodotto, al marketing, ai distributori, ai negozianti, ai prototipi, alle installazioni. E ancora gli eventi, gli incontri con il pubblico, i viaggi, le notti in ufficio, le corse, metaforiche e reali, perché il brand finlandese Karhu di corsa si occupa. Queste tutte le sfaccettature, belle, faticose e sfidanti, delle sue giornate e dei suoi risvegli. Impossibile stufarsi, annoiarsi, così anche in questo tardo pomeriggio Enrico Arese è nel suo ufficio del Karhu Store di Cuneo, in piazza Boves 7, dove lo incontriamo.
Quella giovinezza speciale è derivata dal ruolo del padre: Franco Arese è stato per venticinque anni presidente di Asics, ha introdotto il marchio in Italia, ha lavorato a stretto contatto con il Giappone, è stato ed è un padre «che non ne ha sbagliata una» e, a livello imprenditoriale, l'assioma è pressoché identico. Nel frattempo, Emanuele era il responsabile commerciale dell'azienda, colui che si occupava della linea moda per l'Europa: un ragazzo con la passione per il duro lavoro, con l'etica del sacrificio e la consapevolezza che sia la via maestra per raggiungere i traguardi nati nell'immaginazione. Tutto questo fino al momento in cui Franco non decide di lasciare. E di tutta quell'esperienza? Di quegli anni di lavoro? Non si poteva gettare tutto al vento e non lo si è fatto. Franco avrebbe voluto ideare il marchio "Arese", Emanuele gli ha sottoposto la situazione di Karhu: una realtà storica, nata nel 1916, in Finlandia, gloriosa, al centro del mondo running negli anni settanta, ottanta e novanta, tuttavia da ripensare. «Mio padre aveva corso il mezzofondo agli Europei di Helsinki nel 1971. Di più, aveva vinto e conservava una maglietta Karhu, sponsor dell'evento, donatagli per l'occasione. Quella maglietta è oggi nel suo ufficio. Sì, perché in quei giorni ha accettato la sfida, rilevando il 75% dell'azienda. Oggi ha ottant'anni, pure lui rifugge la noia, e ogni tanto passa di qui, altrimenti telefona: "Allora? Si vende? Cos'hai venduto oggi?" Un martello pneumatico che ricorda che per stare in piedi bisogna vendere». Emanuele lavora ad Amsterdam, ha ripensato il prodotto ed ispirato i fratelli. Vero, i competitori sono giganti, ma la loro realtà familiare è più veloce, snella, cura la distribuzione passo dopo passo e per gli Europei di atletica di Roma, dove l'Italia ha stabilito un nuovo record di medaglie, cinquantatré anni dopo il successo di Franco, si è tolta la soddisfazione di essere sponsor. Il sogno è rivivere qualcosa di simile agli anni dell'adolescenza di Enrico e chissà che non accada.
Le domeniche a Genova, al Marassi, a vedere giocare la Sampdoria, le sere in trasferta, le Olimpiadi di Atene, quelle invernali a Torino, il basket, la maratona di New York, la Mercatone Uno di Marco Pantani che «come facevi a non innamorarti del ciclismo? Faceva innamorare anche le pietre», lo sci e così via: bastava aprire il giornale e scegliere dove andare. Fino al 2012, a quel cambio di rotta: «Ho sentito il vuoto, ma mi ha fatto bene, grazie a quel periodo sono rimasto un ragazzo con i piedi per terra, ho compreso che nulla era dovuto. Siamo una famiglia unita, legata alle cose semplici, con poche cose in cui credere ma ben salde. Lo sport è una di queste, magari vissuto dalla strada, dal vivo. Mio padre viene da una famiglia di contadini, dal nulla. Lo sport ci ha "costruito", tenuto lontani da brutte compagnie, dagli errori che si possono fare da ragazzi. Lo sport ci ha aperto un mondo diverso da quello degli aperitivi serali, dalle discoteche, dagli svaghi che diventano vizi e ti bloccano. A casa, la nostra televisione trasmetteva sempre le voci di una telecronaca: mia madre ci ha sopportati».
Il lavoro ha unito questa famiglia, in cui i componenti hanno imparato a conoscersi e volersi bene anche grazie al sacrificio e alla fatica. Enrico, «quello con le idee meno chiare in casa», avrebbe voluto diventare un grande sportivo: voleva studiare all'Isef, non l'ha fatto su consiglio del padre. Si è iscritto ad architettura all'università, ha smesso prima di laurearsi, ma, oggi, sa che va bene così e ai suoi figli racconta in questo modo quel che può fare lo sport, anche se non si diventa campioni. Si cresce, ecco il punto. Si va a letto presto, ci si allena per diventare come Federer, anche se Federer si fatica anche ad immaginarlo, si hanno idoli differenti: ragazze e ragazzi che spesso non hanno avuto quasi nulla, eppure il talento li ha portati dove li ha portati. Enrico Arese pensa ad Antonio Cassano e a tutte le volte che lui ed Edoardo lo hanno visto giocare a Marassi: loro tifosi della Sampdoria, perché la Sampdoria era sponsorizzata da Asics.
«Dal Real alla Sampdoria, sembra assurdo. Quel ragazzo, che la gioventù aveva messo a dura prova, mandava fuori di testa con le sue giocate, il suo modo di stoppare la palla e valorizzava i suoi compagni di squadra che altrove parevano irriconoscibili. Senza scuola, senza insegnamenti, con tanti nodi da sciogliere, ti incantava. Mi porto addosso delle emozioni che non so cancellare. Siamo arrivati in Champions League con lui. Vorrei incontrarlo, sperando di non restare senza parole come con Federer. Mi accontenterei di una foto simile a quella che ho con Usain Bolt, altro genio totale». L'idea è quella di un'attività sportiva che plasma la comunità, la riunisce, permette l'incontro: allora è logico che, il 21 settembre, sia stato inaugurato un Karhu Store a Cuneo, nella loro città, dopo la sede di Helsinki e l'esposizione di Tokyo. In piazza Boves, laddove ci si può riscaldare prima di iniziare a correre insieme oppure laddove si può fare colazione al ritorno da una sgambata, magari verso il Parco Fluviale. All'interno, non solo l'attrezzatura e l'abbigliamento per il running, ma anche libri e riviste, scritti e fotografie, altra parte essenziale di quel senso di insieme, di aggregazione, di cui abbiamo scritto. Il tutto a declinare nella maniera più completa il termine esperienza. Perché è vero che in un negozio oggi bisogna saper fare tutto, dalla contabilità, alla selezione dei prodotti, alle fotografie, alle vendite, ma non è possibile trascurare questo aspetto che, nella "filosofia degli Arese", è il punto fondamentale. Anche per Enrico è un'esperienza nuova, da cui continuare a imparare ogni giorno e, un domani, forse, da replicare altrove.
L'inizio è a Cuneo, città di persone con voglia di fare, di quelle che non intraprendono un'opera se non hanno la certezza di poterci mettere qualità, città di persone affezionate ad ogni via, ad ogni piazza. Talvolta rustiche, ma vere, concrete, belle, verrebbe da dire. Cuneo è casa della famiglia Arese e molto di ciò che possono raccontare deriva dal fatto dell'essere nati e cresciuti da queste parti: tutti li conoscono e loro conoscono tutti. Enrico era seduto ad un tavolo, davanti ad un aperitivo con un amico, Roberto Ricchiardi quando l'idea è balenata nella sua mente: «Sai che i locali di Urban Jungle -l'attività di Roberto- sarebbero perfetti per Karhu?», ha detto Enrico. «Cosa aspetti? Mettiamoci al lavoro», ha risposto Roberto. Ed eccoci qui, partiti meglio di quanto si potesse pensare. Certo è solo l'inizio, certo c'è ancora tanto lavoro da fare, ma solo con il principio è possibile credere in un qualcosa di ancora migliore, diversamente non c'è storia. A Cuneo anche perché un luogo simile mancava, bisognava per forza andare fuori città ed era un peccato. Ora c'è e ci sono anche eventi collaterali per ricordare alle persone quanto è bello correre: la mezza maratona, ad esempio. Prolungamenti necessari di questa storia per mantenere vivo il ricordo e la consapevolezza, per non smettere, ma, anzi, alimentare l'entusiasmo.
Sono ormai cinque fine settimana che Enrico resta in negozio a lavorare: «Forse dovrei correggere il tiro, ad un certo punto bisogna rallentare, perché non va bene esagerare. Rallenterò, mi riposerò un poco e, poi, riprenderò. La corsa mi supporta in questo: una volta la detestavo, mia moglie mi ha aiutato ad apprezzarla e mi è utile anche per il lavoro. Corro al mattino, mi aiuta a stare bene, anche perché spesso fino all'una di notte non sono a casa. Viaggio molto, devo organizzarmi».
Quando qualche dubbio bussa, Franco, il padre, è una certezza, perché ha già vissuto tutto quello che i suoi figli stanno sperimentando ora ed i suoi consigli sono sempre proiettati in avanti. Anche il legame di Karhu con il ciclismo proviene da lui: dall'Asics-CGA, più precisamente, dove correvano Michele Bartoli e Paolo Bettini, squadra che ha disputato il Giro d'Italia e ottenuto non pochi risultati. Non solo: c'è la partnership con la GF Fausto Coppi ed il legame con il Cuneo Bike Festival. L'eco è lontano, sia perché Karhu produceva anche biciclette ai suoi inizi, sia perché abbinare corsa e pedalata è la base di molte discipline, quali duathlon e triathlon, su tutti. Un amore riacceso quello per il ciclismo, proprio nell'epoca di Tadej Pogačar, Mathieu van der Poel e Wout van Aert: atleti di forza ed istinto, per questo vicini alle persone. «Il sogno sarebbe quello di essere sponsor ad un'Olimpiade: so che è difficile, diciamo pure quasi impossibile, ma ho la certezza che sia proprio quel "quasi" a far la differenza in tante storie. Comunque vada, su tutto, noi vorremmo restituire qualcosa alla città, perché Karhu è di questa città. Vorrei accadesse come negli incontri, dove ci si conosce, si trattiene qualcosa dell'altro e poi si continua la propria strada, tornando di tanto in tanto e scoprendo qualcosa in più. Sarebbe bello». Sì, sarebbe bello e sarebbe la prosecuzione di questa storia partita da lontano, nei giorni e nei luoghi.
Tra passato e futuro: intervista a Martina Fidanza
I mesi che hanno accompagnato la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno, diciamo dalle Olimpiadi di Parigi al Campionato del Mondo su pista di Ballerup, sono stati fra i più complicati per Martina Fidanza, anche se, dall'esterno, quasi nessuno lo sapeva. Un indizio era nei suoi fogli e nelle sue matite che non disegnavano da troppo tempo: l'ultimo quadretto l'ha completato in primavera, poi basta. Anche se ammette che le sarebbe servito e le servirebbe, tornare a vedere dipinti impressionisti ed espressionisti: a Copenaghen si è presa un paio d'ore di tempo ed è andata a vedere la città e le sue mostre. Lo ha sempre fatto, a Parigi era stata al Louvre ed al Museo d'Orsay, vicino alle "sue" opere d'arte, quelle che la ispirano, ma di disegni no, non ne ha più fatti. Eppure erano mesi che era a casa, di tempo libero ne aveva, ma le sembrava che non valesse la pena ritrarre nulla. «Dopo i Giochi Olimpici ero letteralmente svuotata, un black out, buio totale. Avevo creduto ad una medaglia che non è arrivata ed il grosso problema è che non esiste un evento tanto grande, tanto importante. La sfortuna, poi, era che il traguardo successivo, il Mondiale per l'appunto, era quasi due mesi dopo. Facevo fatica ad allenarmi, facevo fatica a fare tutto, quasi senza motivazione, con la mente che era rimasta a Parigi. Il 12 settembre avevo una giornata di allenamento intenso, quattro ore e diversi lavori da fare e per la prima volta dopo vari giorni mi sentivo diversa». Martina Fidanza prende il cellulare ed in un attimo di sosta scrive al proprio ragazzo: «Sto bene ed è passato così tanto dall'ultima volta in cui sono stata bene». Poche ore prima è stato ufficializzato il passaggio in Visma I Lease a Bike a partire dal prossimo anno e pare il giorno in cui si riparte: la realtà, invece, è diversa. Mezz'ora dopo, mentre scende a ritmo sostenuto da una discesa, viene investita da un automobilista che arriva dal senso di marcia opposto e non si accorge di lei nella svolta.
Lo spavento, ma non solo. Nella ripresa dall'infortunio, Fidanza si accorge di pedalare male, con dolore. Servono vari esami per capire quale sia il problema: si tratta di una lacerazione del muscolo per cui è necessario sottoporsi a varie terapie per accelerare la guarigione in vista della partenza per Ballerup. «Sopportare il dolore è sempre difficile, soprattutto quando non c'è alternativa perché non esiste rimedio per non provarlo. Mi sono raccontata tante bugie, mi dicevo che stavo bene, per arrivare al Mondiale, per ricominciare, ma non era vero. Faceva molto male, però quelle bugie mi permettevano di ingannare la mente, altrimenti chissà». Martina Fidanza sorride, ora sta bene, ma, se torna con la mente al giorno in cui è stata investita, la coglie un senso di rassegnazione: «Sì, è triste, non è bello da dire e nemmeno da pensare ma, purtroppo, sono giunta alla conclusione che, per come vanno le cose in Italia, l'unica possibilità per una ciclista o per un ciclista di tutelare la propria incolumità sia quella di prevenire, di anticipare le mosse degli automobilisti. Mi considero invisibile, visto che spesso ci dicono che "non ci vedono", e alla luce di questo mi oriento. So che è sbagliato, so che l'ottica corretta è quella olandese, dove il ciclista, colui che è più debole, più fragile, viene tutelato, viene posto al centro, in Italia, però, non funziona così e dobbiamo proteggerci: è possibile che tutte le tragedie di questi anni non siano servite a far capire che non è possibile continuare così? Certo che bisogna sensibilizzare, certo che bisogna parlarne, ma quando cambieranno davvero le cose?». Dopo l'amarezza, dopo lo sfogo, la riflessione prosegue: «In quanto professionisti, spesso, noi arriviamo a velocità superiori a quelle che si tengono normalmente in sella ed anche questo va compreso e considerato perché aumenta il pericolo in quanto effettivamente siamo più veloci di quanto un automobilista possa aspettarsi. Detto questo, però, credo sia necessario rivedere profondamente il modo in cui concepiamo le nostre strade, forse un passo verso la convivenza reciproca: servono più ciclabili o, comunque, zone in cui si possa pedalare in sicurezza. Anche se, soprattutto pensando a chi è ciclista per mestiere, questa è una soluzione relativa perché sulle ciclabili ci sono anche pedoni e persone a passeggio e sarebbe difficile gestire la situazione senza rischi».
L'interesse di Visma I Lease a Bike era presente da molto tempo, pur se mai ufficializzato: i contatti ufficiali nel periodo dell'Olimpiade, qualche settimana per riflettere a casa e successivamente le visite in Olanda a settembre. Da un lato il dispiacere di lasciare il clima familiare trovato in Ceratizit, dall'altra una delle migliori squadre al mondo, quella di Marianne Vos, suo idolo sin da bambina, e di Wout van Aert. Da un lato i miglioramenti di questi tre anni, testimoniati dai risultati: ricorda come ora le prime gare World Tour e la difficoltà che aveva per mantenere le ruote del gruppo. Ora in gruppo riesce a stare bene e, se il percorso le si addice, riesce anche a dire la sua, progressi figli dell'esperienza. Dall'altro lato la possibilità di un supporto al 100% per proseguire nel miglior modo possibile il proprio percorso. «Ho ancora tanto da lavorare, soprattutto sulla tenuta. Essendo una velocista è importante perché mi consente di essere maggiormente brillante negli sprint: quest'anno ho un poco privilegiato la pista, ma tornerò a lavorarci in vista delle volate». Sarà affiancata alla velocista più giovane già presente in squadra, le due dovranno supportarsi a vicenda. Non sa ancora quando avrà modo di incontrare Marianne Vos e quante gare farà con lei, perché i calendari saranno differenti, ma, ogni tanto, ci pensa. Probabilmente accadrà durante il primo ritiro e, forse, in quell'occasione le confesserà anche quanto resti sempre ammirata dalla sua bellezza stilistica in sella.
Dopo l'Olimpiade, si è seduta al tavolo con Arianna, sua sorella: «L'avrei voluta al mio fianco in Visma I Lease a Bike ma avevano bisogno solo del mio profilo. Sono sincera, ho chiesto anche a lei cosa ne pensasse e mi ha detto che era un'occasione da non perdere, che era contenta per me e che avrei dovuto rispondere sì senza altri dubbi. Sarà tutto diverso per me, mi spiacerà non averla accanto, allo stesso tempo, però, sapere di avere il suo appoggio è una carica importante». Altra questione su cui Fidanza si sofferma è quella legata alla pista: la Visma è una squadra abituata ad atlete che praticano la multidisciplina, di conseguenza, osserva la bergamasca, anche i preparatori che lavorano con lo staff sanno bene come gestire questa situazione. Lei vuole continuare l'attività nei velodromi, anche se sa che dovrà esserci più strada nel suo programma. Il Campionato del Mondo di Ballerup è stato particolare, come sempre negli anni olimpici e forse di più: «Di solito tante nazionali non si presentano nell'anno dell'Olimpiade, in questo caso invece le individualità erano ben presenti. Non abbiamo raccolto un argento con il quartetto per un errore che abbiamo commesso, allo stesso modo i ragazzi sono stati sfortunati, però credo ci sia da essere orgogliosi, considerando che tante nazionali sono arrivate al Mondiale con una forma olimpica. In pista ho tanta più esperienza, penso alle Coppe del Mondo, agli ori che ho ottenuto, ma anche ai piazzamenti. Penso allo scratch e al ruolo che ho potuto svolgere nel quartetto, qualcosa che mi rende orgogliosa. Sono certa che il nostro sia un futuro importante, dobbiamo solo lavorare tanto e dobbiamo avere tutti la volontà di lavorare per quel futuro».
Ogni tanto, alle corse, in qualche pausa, alla partenza o all'arrivo, Martina incontra suo padre Giovanni, ex ciclista e direttore sportivo. Ora che non sono più nella stessa squadra, si parlano solo come un padre ed una figlia: «C'è stato un periodo in cui papà doveva essere ancora più severo con me e mia sorella, per non fare favoritismi, per essere professionale, per rendere chiaro a tutte che noi eravamo come le altre in quel momento. Ora può essere semplicemente papà e saperlo in carovana per me è sempre bellissimo».
Foto: Sprint Cycling Agency
Cycle Lab, Conegliano Veneto
«Noi abbiamo sempre voluto promuovere la bicicletta in senso lato, ovvero nella concezione più ampia possibile. La bicicletta, a nostro avviso, andrebbe utilizzata a prescindere, che sia per fare sport, per la propria salute, per la comodità di uno spostamento. Il principio dovrebbe essere: vorresti pedalare, facciamo tutto il possibile perché tu possa andare in bicicletta. Le persone si riconoscono in questo mezzo, lo sentono vicino e vorrebbero farlo entrare sempre più nella propria quotidianità, purtroppo è ancora poco utilizzato in sostituzione dell'automobile perché mancano piste ciclabili e la struttura viaria, in Italia, non permette spesso di muoversi in sella senza avere paura. Ma, a parte questo, la spinta ideale della gente c'è, come il desiderio di avere una bicicletta non solo per fare attività fisica, ma anche per una necessità giornaliera». Le prime parole di Paolo Monai descrivono, da subito, la filosofia di Cycle Lab, una sorta di "boutique della bicicletta", nata esattamente dieci anni fa, in Viale XXIV Maggio, a Conegliano, dall'idea di tre soci, successivamente divenuti due, provenienti da mondi, spesso, lontani dal ciclismo: Paolo è agente di commercio nell'ambito arredamento di altissima fascia, uno dei soci si occupava di design, solo Andrea era all'interno dell'universo bicicletta, però «usava la bicicletta anche per andare al supermercato». Cycle Lab è nato ed è cresciuto così perché questo era il progetto iniziale ed esistere aveva senso per avverarlo: «Un impegno a cui cerchiamo di tenere fede è quello della spiegazione, l'unica possibilità che un professionista ha se davvero vuole il bene del settore di cui si occupa. Chiunque arriva in negozio con delle convinzioni, perché legge, chiede agli amici, magari su qualche forum: non è negativo, lo facciamo tutti. Poi, faccia a faccia, ci si confronta e le persone capiscono, magari studiano. Solo i "bicchieri pieni" non ci interessano: chi è già convinto di essere dalla parte della ragione e non vuole ascoltare. Lo lasciamo ad altri, ad un altro approccio. Diversamente, le parole d'ordine sono chiedere e spiegare».
Sì, insieme ad altri imperativi legati all'etica del lavoro: se la bicicletta ideale per il cliente non è in negozio, lo si dice, si ammette, non si vende ciò che si ha, pur di vendere qualcosa. Il meccanismo, precisa Paolo, si guasta spesso all'origine: «Se è vero che molte volte i negozi acquistano in maniera errata, è altrettanto vero che le aziende continuano a produrre materiale che devono vendere per pagare fornitori: è un mercato in cui sopravvivere è difficile. Basta un cambio di colore e di poco altro perché la bicicletta precedente veda dimezzato il proprio valore, nello spazio di alcuni mesi. Gli standard cambiano velocemente, le bici invecchiano, allora i negozianti si trovano quasi "costretti" a vendere per vendere. Non è una giustificazione, ma una spiegazione». In una sorta di reazione a catena, le persone iniziano a non fidarsi più del professionista e la catena si inceppa, ecco la necessità di un cambio avvertita e messa in pratica da Cycle Lab. Il bisogno di farsi ascoltatori si è reso evidente di fronte ad una realtà che, spesso, non prestava attenzione alle richieste o ai bisogni dei clienti, chiusa in un guscio impermeabile, incapace di guardare altri mondi, di farsi influenzare e quindi migliorare: dall'aspetto esteriore, al modo di pensare e di agire. Quando si arriva da Cycle Lab, tornano in mente i negozi nord europei, infatti, da lì arriva il disegno su cui si sono basati Paolo e Andrea: «La prima reazione deve essere quella suscitata dalla bellezza, dalla meraviglia: il rispetto per il prodotto bicicletta passa da qua, dalla sua valorizzazione. Anche un prodotto meno bello esteticamente, se valorizzato racconta un'altra storia. Per molto tempo, le biciclette sono state vendute in luoghi che somigliavano a supermercati. Quando parlo di boutique della bicicletta intendo esattamente questo: poche bici e ben esposte. Divisioni molto nette fra zone: dalla bicicletta in senso stretto, a tutto quello che le ruota intorno, all'abbigliamento. Soprattutto, chiarezza e visibilità: le postazioni dei meccanici a vista in modo che il cliente possa parlare con l'operatore mentre lavora, chiedere e magari imparare. Non sempre funziona così, ma abbiamo il dovere di muoverci in questa direzione».
Gli altri mondi conosciuti, per lavoro o per altre vicissitudini, entrano in gioco proprio qui: il confronto fra quello che accade in un'officina meccanica che si occupa di automobili ed in una che si occupa di biciclette, ad esempio. Storicamente, nelle officine di biciclette, racconta Paolo, il meccanico ritirava la bicicletta, eseguiva le riparazioni, successivamente telefonava, ci si recava a ritirare la bici, si pagava una cifra, si tornava a casa, spesso non avendo neppure ben chiaro quale fosse il problema. Altrettanto spesso, qualche giorno più tardi, la problematica si presentava nuovamente e si era da capo. «Forse qui siamo stati fra i primi ad avere l'accettazione, come accade per le automobili: registriamo tutti gli interventi sul mezzo, rilasciamo un foglio con gli interventi effettuati e con il costo orario. Da quel momento, la persona ha scritto nero su bianco quel che abbiamo fatto e, se il problema si ripresenta, può contestarcelo, la fiducia si accresce così. Se trattiamo in questo modo la macchina, perché non dovremmo farlo con la bici? Si torna al rispetto: il cliente, pagando, deve poter misurare il lavoro svolto». Il cardine della conoscenza è sempre al centro, soprattutto quando con la propria bicicletta si uscirà da Cycle Lab e, da quel momento, bisognerà prestare attenzione a vari fattori, non sempre dipendenti dalla propria volontà, soprattutto su strada. Due le raccomandazioni principali che non possono mancare ed a cui non vi è alibi: indossare il casco e rendersi visibili con una luce posteriore sempre accesa. Il casco, precisa Paolo, è accettato senza dubbi in ambito sportivo, meno in ambito urbano, soprattutto con il salire dell'età, ma le cose stanno, lentamente cambiando.
«Nello stesso momento in cui sottolineiamo questi doveri, dobbiamo essere lucidi e ribadire che una grossa parte di problematica deriva da una rete viaria non adeguata e da ripensare in tutte le città. L'esempio l'ho sotto gli occhi: il negozio si trova a Conegliano, io abito a Vittorio Veneto. Due città e circa 70000 abitanti, nel raggio di 15 chilometri abbiamo circa 100000 persone. Bene, tra le due città non esiste una rete viaria adeguata con piste ciclabili ben collegate: ove ci sono, sono tutte interrotte. In questo modo, i micro-spostamenti sono scoraggiati in sella e si continua a preferire l'automobile, anche su tragitti di cinque minuti di tempo. Se manca la sicurezza, manca tutto». In realtà, il problema infrastrutture non è l'unico: Paolo parla anche dei parcheggi per mettere in sicurezza le biciclette: in Italia sono ancora attrezzature vecchie, all'estero hanno lucchetti adeguati e sono appositamente progettati.
Il problema, precisa, è che spesso i comuni non sono aiutati con professionalità adeguate per occuparsi di queste tematiche: «Si parla sempre di bicicletta legandola al viaggio, ci sta, ma io vorrei più Germania, più Olanda, più Spagna, anche, in Italia. Da noi si allargano le corsie delle auto a discapito dei ciclisti, all'estero si progettano le strade con un principio chiave: il ciclista deve andare dal punto "a" al punto "b" e compito dello stato è consentirglielo. L'ottica è completamente diversa. Qualche realtà si salva anche nel nostro paese: penso a Parma, a Ferrara, dove tutti si sono sempre mossi sulle due ruote, però sono eccezioni, altrimenti l'auto viene sempre prima nelle priorità». Accanto a questo, una serie di blocchi che originano da pigrizia o chiusura mentale: in primis, il fatto di non pedalare nella quotidianità per il freddo, piuttosto che per la pioggia, cosa che nei paesi del Nord non è assolutamente concepita. Altro fatto da sottolineare è la mancanza di attenzione e di progettazione rispetto a strade che permettano anche alle cargo bike di percorrerle in sicurezza, perché se il ciclista non è aiutato e sostenuto tenderà a non scegliere più la bicicletta.
Paolo Monai osserva il divanetto vicino alla macchinetta del caffè, l'area relax in cui i clienti possono aspettare che vengano effettuate le riparazioni, proprio accanto ad un piccolo spazio dedicato ai libri ed alle letture, un'altra via per riposare e riflettere, poi riprende a parlare: «La consapevolezza cresce discutendo e raccontando, facendo rete, lavorando assieme. In questi dieci anni ci siamo spesso sentiti soli, ma non abbiamo mai mollato e quell'idea, alla fine, ha preso forma ed è una certezza per tante persone, qualcosa che ci auguriamo possa ispirare. La bicicletta è, di fatto, un divertimento: perché non rendiamo sempre più piacevole parlarne? Credo sia la strada per metterla sempre più al centro della realtà, perché di ciò che piace si narra sempre volentieri e dalle storie si può modificare il circostante». E, chissà, magari proprio questa chiacchierata può essere un inizio.
La madison racconta una storia: Leth e Dideriksen
In caccia e non solo nel velodromo di Ballerup, in una sera di ottobre, durante la rassegna iridata. Julie Leth e Amalie Dideriksen erano "in caccia" sin da ragazzine, nei giorni difficili, umidi, freddi, bui dell'inverno danese, ma, ancor prima, nelle inquietudini dell'adolescenza, di quando tutto è possibile eppure nulla è certo. In sostanza una pagina bianca su cui iniziare a scrivere e nulla è più difficile della prima parola, della prima frase. Allora quei venti giri, poco più o poco meno, in fuga dal gruppo eppure all'inseguimento del gruppo stesso, in caccia, per l'appunto, sono sì bellissimi, ma hanno una radice lontana, simili alle cose tanto volute e per riprendere il gruppo principale durante l'americana di volontà ne serve, tra cambi, doppiaggi e quella ellissi da girare senza freni, laddove nelle curve e negli ingorghi ai freni viene da pensare.
Julie Leth era lontana in tutti i sensi: dalla casa in cui è cresciuta al velodromo in cui si allenava c'erano circa tre ore di auto. Un viaggio continuo in quelle stesse giornate umide e buie del freddo inverno danese. Lei fantasticava su quando sarebbe arrivata al velodromo: tanto più là fuori faceva freddo, tanto più sognava quell'istante. Al parcheggio, scendendo dall'auto, vedeva le luci accese in pista, entrava, si toglieva il giubbotto, il cappello, indossava la divisa da pista e iniziava a correre. Alle sue colleghe, cicliste di mestiere come lei, parlava dei velodromi con addosso quella stessa sensazione. Non tutte capivano, non tutte sentivano le stesse cose: qualcuna aveva timore di quei velodromi, qualcuna, semplicemente, era indifferente. Non c'era quel freddo, non c'erano quei giorni-notte, non c'era quell'attesa. Non c'era quel passato che l'aveva costretta ad inseguire. Differenza notevole.
Amalie Dideriksen correva con i ragazzi, negli stessi inverni. Ha imparato in quel momento a "ridefinire i ruoli": sì, perché in quel gruppo gareggiava e avrebbe dovuto gareggiare solo il fratello, invece no. Lei non solo gareggiava, ma vinceva. Voleva vincere, doveva vincere per dimostrare di essere all'altezza, di essere, comunque, nel posto giusto. Quei ragazzi, invece, si arrabbiavano perché a superarli era proprio una ragazza. Rivalità adolescenziali, certo, forse qualcosa in più, perché con quella rabbia iniziò a convivere, reagendo con altrettanta rabbia, per cambiare i ruoli, per togliere etichette e lasciare solamente il merito. Ha imparato in questo modo ad andare veloce, a non tirare i freni, anche di fronte alle spallate del gruppo, alle volate, a chi, affiancandoti, crede che ti sposterai, che lascerai strada. Amalie Dideriksen non molla un centimetro. Sua madre ha paura, prova a far modificare la sua bicicletta da corsa, come fosse una normale bicicletta da città, senza la parte bassa del manubrio, dove si appoggiano le mani quando si sprinta. Quella donna, però, dovette presto abituarsi ad avere paura, a convivere con quel timore, per amore della figlia. Ciclista era, ciclista è.
Julie Leth e Amalie Dideriksen sono partite in caccia a 37 giri dal termine della prova mondiale della madison, una mano a prendersi e a portarsi avanti, reciprocamente. Ormai hanno trentadue e ventotto anni, hanno vinto ori europei e mondiali, un argento all'Olimpiade di Tokyo, l'hanno fatto sempre assieme, in pista, nell'americana, e assieme corrono questa volta che è l'ultima volta, almeno per Leth. Le piccole storie che le hanno formate, cresciute, lasciano un residuo in quei venti giri a tutta: conquistano uno sprint, non si arrendono, restano "fuori". Conquistano il secondo sprint, non si arrendono, restano "fuori". Mentre l'acido lattico monta anche nei pensieri di chi osserva e quasi tocca il momento in cui molleranno la presa, si faranno riprendere e aspetteranno una nuova occasione, tirando il fiato, loro rientrano sul gruppo principale, conquistano il giro, venti punti e balzano in testa alla classifica. Non l'abbandoneranno più.
Dopo alcuni giri di pista, in festa, il rallentamento delle biciclette consentirà loro di fermarsi: lo faranno nella parte alta del velodromo, vicino alle famiglie, agli amici, con una bandiera ad avvolgerle. Si grideranno qualcosa in faccia, perché la felicità può anche essere un grido, di una lontana rabbia, di un lontano orgoglio, plasmato dal tempo. Lontano come il velodromo di Ballerup e le sue luci da quel parcheggio, una quindicina di anni fa. Sì, il velodromo era lo stesso, anche se ora tutto sembra differente, da campionesse del mondo. Eppure nelle mani di Julie Leth sul petto, come quando il cuore batte all'impazzata, si scorge una reminiscenza di quei giorni, di quella speranza. In Amalie Dideriksen che le parla all'orecchio, quasi le racconta questa storia, nulla di differente. Il passato si somiglia, non serve aggiungere altro. Il pubblico dell'arena, ad un certo punto, intona l'inno, perfettamente all'unisono, parola su parola. Si dice che negli alberi, osservando il tronco, dai suoi "giri", si possa intuire l'età della pianta stessa. In pista non vale lo stesso ed ogni essere umano ha i propri numeri, già impressi sulla carta d'identità o in memoria, tracce di ciò che è, che è stato e che diventerà, però tanti giri, in testa, in caccia, non passano invano. Soprattutto all'ultima volta, all'ultimo giro, quando voltandosi si vede esattamente come si concludeva quella storia che, all'inizio, pareva senza senso, strana o sghemba.
Foto: Sprint Cycling Agency
TOR330 in sella: nuove prospettive in montagna
Il TOR330 - Tor des Géants è un'avventura da percorrere a piedi, una gara di trail, un vero e proprio giro dei giganti, dove i giganti sono monti e montagne, altitudini verso il cielo settembrino della Valle d'Aosta. Sì, TOR330 è affine alle camminate e alle corse, eppure la mente degli esseri umani ha la capacità di cancellare confini, di ridisegnare mondi e adattarli a nuove fantasie: Fabio Caldaro, l'8 settembre 2024, ha realizzato questo disegno proprio tra i giganti e le loro difficoltà.
Alla partenza si è presentato in sella ad una mountain bike ed ha anticipato tutti pedalando, ovviamente fuori gara, con il desiderio di rispondere a una domanda che si faceva da tempo ed a cui non aveva ancora dato soluzione: «Mi chiedevo se fosse possibile percorrere in sella il Tor des Géants, restando all'interno delle 150 ore di pedalata. La risposta è sì, perché ce l'ho fatta, in 148 ore e 24 minuti, ma c'è una precisazione doverosa: non è cosa per tutti, non è facile e serve adeguata preparazione. Vi sono salite durissime, dislivelli complessivi che, in realtà, non si conoscono precisamente e questo accresce il fascino, ma che oscillano tra i 23000 ed i 29000. Di questi, se si pedala, almeno 19000 sono di portage, con la bicicletta in spalla. La verità è che in bicicletta le difficoltà di un sentiero aumentano sempre, a piedi, tendenzialmente, si semplificano».
A fare da cornice a questa avventura un meteo folle e pioggia su pioggia, acqua su acqua che inzuppa i vestiti ed i volti sin dalla prima mattina.
Il primo sonno per Fabio Caldaro sarà al rifugio Chalet de L'Epée, raggiunto all'una di notte, ma traumatico sarà soprattutto il risveglio. Pochi gli abiti che Fabio ha di scorta, per non appesantire la bici e quindi raddoppiare la fatica: la mattina i suoi vestiti saranno ancora fradici e così dovrà indossarli. La tosse che Caldaro svilupperà inizierà in quel frangente e si svilupperà nei giorni successivi, il terzo, ad esempio, quando la pioggia e la neve lo accoglieranno nuovamente, rendendo impossibile pedalare nelle discese e costringendo così a camminare con la bicicletta fra le mani, con il reggisella telescopico danneggiato. Saranno ore ed ore in cui proverà a sistemarlo, fino a quando si romperà, costringendolo ad una regolazione manuale. Una camera e sette ore di sonno, autoimposte, saranno l'unico modo di lenire le "ferite" prima del giorno successivo, quello dell'arrivo, con il sole ed un vento tanto forte a spazzare le vette.
Ce l'aveva fatta. «Ricordo il momento in cui indossavo le scarpe al mattino: il dolore delle fiacche mi faceva venire voglia di piangere. I muscoli non avevano davvero più nulla da dare, allora interveniva la testa, la mente. In queste circostanze capisci che la testa può salvarti, può farti continuare anche se sei svuotato. Si tratta di una consapevolezza importante che serve anche nella quotidianità». Nel frattempo sono accadute varie cose che, probabilmente, hanno a che fare con il vero motivo per cui Caldaro ha iniziato a percorrere TOR330 in mountain bike, perché il senso non poteva essere solamente in un numero.
Allora citiamo tutte le persone conosciute che hanno provato ad aiutarlo, lasciando una barretta, dando una mano in ogni modo, qualcuno offrendosi di portargli lo zaino al rifugio successivo: ha rifiutato perché voleva fare tutto da solo, ma ne ha memoria e sorride ripensandoci. Le persone sono state contente di vederlo fare qualcosa di diverso, insolito ed inusuale, e non è un caso, succede sempre così perché gli esseri umani si somigliano un poco tutti e apprezzano l'inventiva, il cambiamento, anche quando non hanno il coraggio di attuarlo.
«L'idea centrale era uno sprone alla condivisione dei sentieri di montagna da parte di pedoni e ciclisti, qualcosa che spesso fa storcere il naso, ma è il bello del vivere la strada. Il ciclista sui sentieri di montagna non è un intruso e non è nemmeno un impedimento, bisogna capirlo. Spesso sento dire dai pedoni che i ciclisti vanno troppo forte oppure transitano troppo vicino a chi cammina: può essere vero in certi casi e bisogna cambiare atteggiamento. Detto questo, però, spesso c'è anche una sorta di "gelosia" da parte del pedone, di mancanza di comprensione. In altri casi è vera e propria ignoranza. Chi va in bici non rovina i sentieri, anzi, talvolta i sentieri sono manutenuti proprio dai pedalatori. I ciclisti sono una risorsa anche per le nostre montagne».
In questo senso, la forza, l'incoraggiamento è nella contentezza della gente, nella voglia di parlare e di chiedere cosa si stesse facendo e perché lo si stesse facendo in quel modo. All'interno del Cai, Fabio Caldaro continua l'opera di sensibilizzazione, invita le persone a fare attività insieme, qualunque sia il mezzo che le accompagna e spera che in Italia ci si possa muovere sempre più in questa direzione, anche dal punto di vista turistico. Lui stesso sta già pensando di partecipare ad altri eventi in sella.
Qualche raccomandazione per questa convivenza non manca di segnalarla: «L'attenzione al sorpasso e al farsi sorpassare deve essere massima. Un inciso secondo me lo merita il discorso precedenze: passare, fermarsi e ripartire a piedi è più facile che farlo in bicicletta, per questo motivo credo sia necessario dare precedenza alle bici, al di là di chi la abbia effettivamente nel contesto preciso. Il rispetto dei sentieri e della velocità deve essere un dato di fatto, come il prestare attenzione agli animali ed ai cani che devono essere tenuti al guinzaglio e controllati per evitare incidenti, pericolosi tanto per loro quanto per gli esseri umani».
In tutta la soddisfazione, c’è anche spazio per un poco di delusione. Caldaro pensa a tutta l’immondizia, ai rifiuti che ha incontrato durante il tragitto: «Perché non si raccolgono? Se ho potuto farlo io, con venti chili di peso tra bici e zaino, cosa lo impediva agli altri camminatori o pedalatori? Non è bene per la natura questo e la natura è l’unica casa che abbiamo». Resta il ricordo del profumo di umido, del fango, del colore delle bandierine catarifrangenti, vere e proprie stelle della notte di TOR330. Questa è la strada della condivisione delle montagne.
Rando Imperator: un'occasione per conoscersi
La mente era ancora sulla bicicletta, nonostante dall'arrivo in Piazza Castello, a Ferrara, alle 22:54 del 5 maggio, fossero passati diversi giorni. Il cervello continuava a pedalare e a calcolare il chilometraggio mancante alla conclusione della Rando Imperator, partita per Luca Ballarini e Gloria Pizzo a Bolzano, alle 05:32 del mattino. Erano trascorsi 308 chilometri, diciassette ore e ventidue minuti, eppure la testa non voleva saperne di fermarsi. Troppo legata all'esperienza intima della fatica per lasciarla andare, era necessario ancora un poco di tempo e poche parole di cui prendere coscienza, parole che ora Luca dice anche a noi: «È umano voler restare attaccati al bello che ci accade, provare un senso di vuoto quando tutto finisce e si torna alla normalità e la quotidianità non basta più, dopo quell'intensità. Però bisogna lasciar scorrere, andare avanti, essere felici del buono che ci è successo, senza malinconie».
Luca e Gloria si conoscevano già, da tempo, da alcune Bike Night a cui avevano partecipato e, avendo la medesima andatura, si erano ritrovati fianco a fianco. Ma ad accomunarli, ad accrescere il senso di condivisione, è qualcosa di più forte, una condizione comune: la sindrome di Ehlers Danlos, che, colpendo il tessuto connettivo, impedisce la naturale costituzione del collagene. L'hanno scoperto parlando, chiacchierando, confrontandosi, mentre assieme vivevano quell'esperienza intima chiamata bicicletta, l'amicizia è arrivata dopo, così hanno scelto di affrontare assieme una nuova sfida, la Rando, per l'appunto. Con loro il padre di Gloria che non ama questo tipo di eventi, corre in bicicletta, si cimenta in vere e proprie gare: a dirla tutta, a Bolzano non ha nemmeno portato la sua bici ma una vecchia bicicletta storica, in stile "eroico", con ancora il cambio con le levette, proprio per riuscire ad avere un'andatura più tranquilla, più adatta alla situazione. «Gloria ed io ci siamo conosciuti meglio nelle nostre esigenze. Abbiamo capito di avere molto in comune ma anche di essere profondamente diversi: io avevo necessità di non andare troppo veloce, lei di arrivare il prima possibile, per questo aumentava la velocità. Le differenze servono per aumentare il feeling e, se si vuole, una strada comune la si trova. Abbiamo messo a punto in questo modo un ritmo ideale».
L'obiettivo della partecipazione è anche quella di raccogliere fondi per la sindrome di Ehlers Danlos, una malattia di cui purtroppo si conosce ancora poco o, forse, non ciò che serve per curarla: la terapia genica sarebbe una soluzione, ma bisognerebbe individuare i geni mutati e in questo caso sono davvero molti. L'attività fisica è un modo per lenirne i sintomi: «Fino a dieci anni fa- prosegue Luca- usavo il bastone per aiutarmi a camminare, ora percorro più di 300 chilometri in sella, un cambiamento notevole, non facile». Sì, perché il dolore causato dai movimenti, dalle sublussazioni continue, fa sì che maturi un certo timore nel muoversi, allora si pensa al movimento che si effettua, quando, di solito, il movimento è naturale, spontaneo: la differenza è importante. «Faccio un esempio: dopo circa cento chilometri, a quaranta chilometri da Trento, più o meno, ho iniziato ad avvertire un dolore al ginocchio sinistro. Ho provato a continuare, con la promessa che, se non mi fosse passato da lì a poco, mi sarei fermato. Ad un certo punto, ho capito che stavo pedalando male: spingevo troppo, caricavo eccessivamente, dovevo alleggerire, mollare un attimo. Ho fatto così e nel giro di qualche chilometro mi è passato quasi completamente. A quel punto iniziava la salita di Affi: mi è bastata qualche piccola pausa, per tirare il fiato e sono arrivato in cima con tranquillità. La bicicletta non permette solo la conoscenza degli altri, ma anche la propria. Del proprio corpo che vive con noi, ma, molte volte, ci è estraneo, quasi totalmente». In quel momento con Luca e Gloria ci sono anche Fabio e Davide, amici di Ballarini, incontrati quasi per caso all'uscita da Bolzano: un caso che, anche fosse stato studiato non si sarebbe verificato così, come tante altre cose in questa avventura.
Dal meteo, un clima non troppo caldo e non troppo freddo, solo il vento a spazzare le strade, «ma il vento è compagno di chi pedala», a quelle cinque magliette, create e disegnate per il progetto: due per Gloria e Luca, una per il disegnatore e altre due che non si sapeva a chi sarebbero andate: cinque era, infatti, il numero minimo di magliette per poterle stampare. Alla fine, sono stati proprio Fabio e Davide a riceverle, sino a un bar nuovo, scoperto per caso. Fabio, alla nona volta alla Rando Imperator, era sempre stato abituato alla sosta al solito bar che, però, quest'anno ha cambiato orario.
«Dovevamo aspettare circa quaranta minuti, non volevamo, così siamo andati in cerca di un altro bar, lì vicino e abbiamo scoperto dei prodotti buonissimi. Ne siamo stati felici. Sono appunti per quando torneremo». Un'altra forma di conoscenza, da ricordare, mentre si attraversano le valli e si vedono i monti, lassù, in alto, oppure quando si arriva a Mantova e finalmente si gusta il risotto alla pilota che tanto si era atteso, con l'acquolina in bocca: «Quando si ha fame, è tutto buono, se, poi, quando hai fame effettivamente mangi qualcosa di buono si tratta di un ristoro non solo per il palato, ma anche per l'anima. Come fa bene all'animo la gentilezza con cui si viene accolti appena si scende di bici: mi ha ricordato quando da piccoli andavamo dalla nonna e non sapeva più cosa fare per farci contenti».
Le difficoltà maggiori sono arrivate alla fine, lungo la ciclovia della Burana, quella strada in cui le radici dei pioppi hanno reso scosceso il terreno e si avanza a fatica, nel buio, con le luci dei fari a rischiarare il percorso. La stanchezza, però, blocca le idee, la direzione della bici: «A volte si riesce a proseguire solo in linea retta, come se la mente fosse offuscata, anche se si sa perfettamente cosa bisogna fare. In quei momenti abbiamo rallentato, andavamo pianissimo ma era l'unico modo per arrivare. Nel frattempo, provavamo ad ingannare la mente, dicendoci che Piazza Castello era vicina, per trovare la voglia di pedalare ancora». Allora, dopo questa parentesi, la strada sembra "scivolare" verso la piazza, dove gli amici e le compagne fanno rumore, ad accogliere l'arrivo di questo gruppetto di ciclisti per cui, alla fine, non poteva andare meglio. Ora le forze possono anche mancare, si può restare a terra, seduti, nel buio della sera, con la luna alta in cielo e rilassarsi.
Luca tornerà a percorrere la Rando Imperator? La domanda è naturale dopo questo racconto. La risposta fa riflettere: «Non ho mai pensato di fermarmi, non perché abbia una forza particolare, ma perché non ne sentivo il bisogno, tanto a livello fisico quanto a livello mentale. Però è stata senza dubbio una prova difficile e non so se mi sarà possibile replicarla senza mettere troppo alle strette il mio fisico, senza farmi male. Su questo è necessario essere chiari: se si tratta di mandare un messaggio a chi ha questa sindrome bisogna fare attenzione a che tipo di messaggio si manda. Sarebbe da incoscienti rischiare un infortunio solo per la cocciutaggine di non voler fare i conti con una situazione oggettiva. Ci sono molti eventi simili, vogliono provarne anche di nuovi. La bicicletta continuerà ad aiutarmi nella conoscenza: di me stesso, delle persone e dei luoghi. Questo è quel che conta».
Foto: Fabio Carlini
Una storia verticale: Napoli obliqua
Napoli è una città che si arrampica, è la sua morfologia, dal mare alle colline, a caratterizzarla: dal centro, da Piazza Plebiscito, si gira un angolo e sono le stradine ed i vicoli a ispirare. Insomma, Napoli è una città verticale ed è da questa percezione che nasce "Napoli Obliqua", un evento, una pedalata in mountain bike, in gravel per i più esperti, per quelle stesse stradine alla scoperta di un'altra dimensione. Senza maschere, senza filtri, affidandosi alla realtà e mostrandola per quella che è, lasciando poi a ciascuno il compito di trarre pensieri ed idee: «Lo chiamo-racconta Luca Simeone di "Napoli pedala"- viaggio antropologico nella città perché saranno le persone l'elemento chiave, ma, allo stesso tempo, sarà una pedalata lontano dal traffico, in zone pedonali dove saranno i gradini, talvolta gradoni, a segnare l'ascesa o la discesa. Una vasta letteratura sulla "città verticale" aggiunge qualcosa a questa interpretazione, non solo in senso geografico: anche in un condominio, solitamente, c'è una differenza, di posizione sociale talvolta, tra chi vive al piano terra e chi all'attico del piano superiore. La bicicletta è il "fil rouge" ideale per osservare, addentrarsi e comprendere: veloce quanto un pedone in salita, un poco più veloce in discesa. Certamente connessa all'essere umano più di un'automobile».
L'importante, il 27 ottobre, sarà soprattutto non nascondere nulla perché Napoli è stata spesso raccontata attraverso il suo fascino da cartolina, però serve un passo in più visto che Napoli è una città che cambia: basta guardare al Rione Sanità e alle sue domeniche, dove una volta era solo il ragù a bollire nelle pentole sin dal primo mattino, mentre, ora, anche le spezie orientali, quelle del curry, lasciano il loro profumo nell'aria. Storie di migrazioni e di una città che, anche dal punto di vista sociale, si arricchisce.
Non ci sarà alcun ordine d'arrivo, non un podio alla fine della giornata. Anzi, Simeone commenta: «Probabilmente, chi la percorrerà più lentamente potrà guardare meglio, vedere più particolari. La "lentezza" farà più bella l'esperienza, più intensa». L'autunno vivrà il suo pieno in quelle settimane e a Napoli l'autunno significa una temperatura mite, sentieri ripuliti dall'effervescenza della primavera e dell'estate che, talvolta, li scompiglia, alberi che si spogliano delle proprie foglie rendendo le fronde un altro squarcio da cui godere del paesaggio, mentre, nelle giornate nitide, si vede il Golfo, ci si affaccia sulle catene montuose del Matese e del Partenio e si esplora anche la zona interna della Campania. Periodo in cui i visitatori diminuiscono, ci sono più camere libere negli alberghi, ovvero maggiore opportunità di vivere questa esperienza, ultimo anello del Napoli Bike Festival che, quest'anno, è "sparso" nei vari mesi al fine di permettere di partecipare a quanti più eventi si desideri.
«I luoghi non si censurano, ma si indagano, semmai, con cura, soprattutto in sella, provando a portare all'attenzione dell'opinione pubblica e delle istituzioni anche ciò che non va, i problemi, oppure ciò che si potrebbe conoscere meglio. Questo è il ruolo sociale della bicicletta, il motivo per cui è più che mai necessario credere alla bicicletta in questa società. Faccio l'esempio del rione Materdei, dei quartieri enclave, che si perdono in un dedalo di strade, tra scale e gradoni: tanti pezzettini di città che, come in un gioco, mentre i pedali frullano, si uniscono e diventano un unicum pur con le loro differenze. Guardiamo anche al Petraio, sulla collina del Vomero, ma in generale a Napoli nella sua interezza, ai giardini, ai parchi, a Posillipo, alla casa di Pino Daniele, da cui transiteremo, ed ai principali hotspot della città, sino a Piazza del Plebiscito. Qualche salita più dura, un poco di fatica, ma immagino la bellezza della scoperta per chi viene da fuori ed è alla sua prima volta da queste parti».
Sono due i percorsi studiati dagli organizzatori per questa manifestazione giunta alla quinta edizione, rispettivamente di 70 e 40 chilometri: il primo di circa mille metri di dislivello, il secondo tra i settecento e gli ottocento metri di dislivello. Si pedalerà, quindi, verso zone di cui non si parla abbastanza, promuovendo aree di pregio paesaggistico: la zona di Capodimonte, le sue abitazioni storiche, la natura bella e rigogliosa. Ci si inoltrerà nei boschi di Napoli, con le colline che cingono e circondano la città partenopea: «Basti pensare che da Piazza Plebiscito ad uno dei punti più alti della città, l'Eremo di Camaldoli, ci sono non più di otto chilometri e lì si apre un mondo di opportunità legate al trekking. Chi conosce davvero bene via del Serbatoio dello Scudillo? Lì sotto transita l'acquedotto napoletano, da lì si diramano le vie dell'acqua in città: un altro tesoro nascosto».
La cultura è anche cultura dei profumi e dei sapori, la loro storia: i dolci, il celebre Fiocco di neve, il ristoro presso il Parco Giugliano e successivamente l'area Flegrea, un'area vulcanica in cui il bradisismo è realtà, nonostante tutto sembri tranquillo. La leggenda racconta che l'ultimo tra i tanti crateri emersi, che hanno alleviato questa ferita, sia stato il Monte Nuovo, formatosi nel 1538, pare in una sola notte: probabilmente sarà servito più tempo, lo sappiamo, ma così si racconta ed è bello ascoltare. «Chissà, forse per porre fine al bradisismo dovrà emergere un altro cratere, magari in mare, dove non farà danno a nessuno». Una storia obliqua, dal basso verso l'alto, tra salite e discese, dove ci si perde e ci si ritrova: comunque in bicicletta, a Napoli. A Napoli Obliqua.
Foto in evidenza: Giuliano Montieri (da Napoli Pedala)
Tutte le altre foto: Antonello Naddeo (da Napoli Pedala)