Quegli occhiali, quella maglia rosa: intervista a Giulio Pellizzari
Uno dei protagonisti di queste ultime giornate di Giro d'Italia è, senza alcun dubbio, Giulio Pellizzari. Lo abbiamo intervistato diverse volte durante il Giro e questo è quello che ci ha raccontato.
Giulio, come è stato esordire al Giro d’Italia?
Emozionante sin dalla prima tappa, non avevo mai visto così tanta gente. C’è tanto tifo, davvero tanto tanto tanto. Pedalare al Giro è incredibile.
In tanti parlano di te come una nuova speranza per il ciclismo italiano. Ti fischiano un po’ le orecchie?
Ma a dire il vero no. Sono tranquillo. Dormo benissimo!
Stai scoprendo tutto del Giro. Sei stato anche al Processo alla Tappa. Come è stato?
È una trasmissione che ho sempre guardato sin da ragazzino. È stata una bella esperienza, dai.
In gruppo hai anche tanti compagni giovani come te, si vede che già nelle categorie giovanili sono nate delle amicizie.
Siamo amici prima che avversari, ed è sempre bello ritrovarsi. E vanno tutti fortissimo, siamo una generazione forte.
Hai 20 anni e stai correndo il Giro con Domenico Pozzovivo che è il più esperto del gruppo.
È un grande. Ci insegna un sacco di cose, ci racconta tanti aneddoti. Ogni volta che parla c’è qualcosa da imparare. Siamo felici di averlo con noi.
Pozzovivo è anche una specie di guida vivente a ogni strada d’Italia. Tu hai una tappa in particolare che puoi dire già di conoscere bene?
Sì, quella che parte dalla Val Gardena, che inizia col Sella, poi Canazei. Prima del Giro sono stato a fare altura al Passo San Pellegrino e ho pedalato un sacco su quelle strade. Tranne il Brocon: quello l’ho fatto solo per un pezzetto perché stavano asfaltando la strada.
E in stanza con chi sei?
Con Enrico Zanoncello, il velocista più forte al mondo.
La prima parte di Giro non è stata facilissima per te, ora sembra che tu abbia recuperato.
Sì, nella prima settimana ho avuto un po’ di raffreddore e tosse, prima di Napoli. A Prati di Tivo mi sono ritrovato senza gambe. Ho provato a tenere duro ma non ce la facevo, così mi sono rialzato. Pensavo di aver recuperato nel giorno di riposo, ci voleva, con un’oretta di pedalata e una pausa bar per un bignè al pistacchio e un cappuccino. Invece anche la seconda settimana è stata ancora difficile. La sera dell’undicesima tappa ero già con un piede a casa: ho chiamato Massimiliano Gentili per dirgli che volevo ritirarmi. Invece grazie a lui, alla mia famiglia, a Leonardo Piepoli e alla mia fidanzata sono rimasto.
E alla sedicesima tappa, a Santa Cristina Valgardena, hai sfiorato la vittoria.
Al giorno di riposo di Livigno stavo molto bene, infatti la paura era di non sentirmi più così in forma il giorno dopo. Ma sono ripartito speranzoso. Me la sentivo da subito, e sono contento del mio secondo posto. È Massimiliano Gentili che mi ha detto di non mollare. Quel risultato lo devo a lui.
Alla prima tappa, invece, eri stato il primo a seguire l’attacco di Tadej Pogačar.
Sapevo bene che non l’avrei tenuto, però sono andato di istinto. Quando l’ho visto passare mi sono buttato dietro, ci ho sperato. È stata un’emozione forte, c’era un sacco di pubblico che urlava, avevo la pelle d’oca.
Come Icaro, a star troppo vicino al Sole (ovvero Pogačar), si rischia di bruciarsi. E rimbalzare.
Esatto. Stessa fine. Ma credo sia una fine comune a parecchi corridori. Ma almeno posso aggiornare l’album delle mie foto con lui. Ne feci una insieme già nel 2019, alle Strade Bianche: era la sua prima gara nel World Tour e io ero là come spettatore, con un amico. Già lo conoscevo perché avevo seguito la sua vittoria al Tour de l’Avenir. Al mio amico dissi: “fatti una foto con lui, che diventerà forte”. E il mio amico: “ma no, ma chi è questo?”. Fu divertente. Non c’era nessuno che lo cercava al bus oltre a me. Ci facemmo una foto insieme, e direi che ha portato bene.
Quando a Santa Cristina Valgardena l’hai visto arrivare cosa hai pensato?
Bastardo! Ancora lui! (ride). Avrei voluto vincere, ma andava bene così. È andata meglio che a Torino sicuramente, sono contento.
Ti ha regalato i suoi occhiali e la maglia rosa, dopo averti ripreso negli ultimi chilometri.
(Ride ancora). Mio fratello il giorno prima mi aveva scritto: "Trova il modo di rimediare gli occhiali di Pogačar". Così all’arrivo sono andato al gazebo delle interviste e glieli ho chiesti. Lui me li ha dati e mi ha dato anche la maglia. Gli auguro il meglio. È il migliore della storia.
Condividere la strada con i Pro
Essendo giorno di riposo, ieri mattina niente sveglia. E magari, al primo occhio aperto, anziché forzare anche l’altro, si torna a dormire. Gli insani orari del Giro d’Italia, però, ti entrano sottopelle, cambiano il tuo ritmo circadiano. Quindi verso le nove di mattina ero in piedi e ansioso di pedalare per la prima volta sulle strade attorno Livigno.
Questo faticare vagabondando in prima persona, la mattina, è un modo come un altro per scacciare la malattia peggiore, la malinconia da pedale, e sfogare la staticità di ore e ore passate in sala stampa. Inforcata la bici, l’obiettivo era la doppietta Forcola di Livigno – passo del Bernina. Cielo terso e montagne imbiancate, temperatura altina, tantissime persone in bicicletta attirate dal Giro d’Italia: difficile immaginare uno scenario migliore. La strada verso Forcola e Bernina, però, è chiusa per neve. Ecco perché un paio di ragazzi della Tudor e tutta la Arkéa, all’ultima rotonda, hanno deciso per un’altra strada.
Non resta dunque che virare sul piano b: Eira, Foscagno, tornando indietro magari Mottolino, se proprio vogliamo esagerare. Al primo tornante del passo dell’Eira, i cui versanti appartengono nientemeno che al bacino idrografico del Danubio, capisco che le gambe non girano. Devo ingurgitare la mia salvezza sotto forma di orsetto gommoso, cioè qualche manciata di Haribo, per riprendermi. Mentre mastico l’ultima massa di zuccheri semplici, Jan Tratnik passa a mezzo metro dalla mia bici. Sta salendo con calma, tanto che io e un ragazzino polacco riusciamo a stargli a ruota. Per noi non è una passeggiata di salute, già così, poi vediamo Attila Valter sfrecciarci accanto.
Tratnik se ne disinteressa, io voglio provare a capire cosa significa stare dietro un professionista. Come ha detto Valter stesso quando si è visto sfrecciare Pogačar sul Foscagno: «Volevo vedere cosa significa stargli a ruota. Non sapevo se sarei riuscito a stargli a ruota manco per un minuto, sapevo mi avrebbe staccato, ma comunque volevo vedere. È stato qualcosa di assurdo».
Provo a seguirlo. Ha due polpacci grossi quanto un mio quadricipite, un’andatura compostissima e regolare. Gli sto a ruota a malapena per un paio di minuti, finché non decide di buttare giù due rapporti e mollarmi lì. Gli avrei voluto dire che ero lì con lui il giorno prima, all’arrivo, quando diceva di aver «provato grande dolore ovunque» dopo aver tentato di seguire Pogačar sul Foscagno. Lo stesso dolore, nelle gambe e all’apice dei polmoni, moltiplicato per mille perché io professionista non sono, l’ho provato io il giorno dopo, provando a seguire te, Attila.
Staccato dal campione nazionale ungherese, riprendo un attimo di fiato e torno sul mio vagone preferito, a ruota di Tratnik. L’Eira sta per finire e professionisti salgono e scendono tutti i minuti. C’è la Movistar schierata in due file da tre, con Milesi unico attardato. «Grande Nairino!» urla qualche tifoso. Quando arriva in cima, è atteso dallo scherno degli italiani della Bahrain, che fanno foto e bevono qualcosa. Franco Pellizotti passa una bibita a Zambanini: «Ahh come me lo godo, questo cochino a duemila metri» dice festante il giovane corridore del lago di Garda. Il più gentile e affabile di tutti è Antonio Tiberi, salutato dai tifosi come «il primo italiano in classifica generale».
Un altro pro si è già buttato a capofitto nella discesa verso Trepalle e l’attacco al Foscagno. Ha la divisa della Bardiani, ma non riuscirò mai a guardarlo in faccia, tanto va forte. Non forte in senso assoluto, sia chiaro, ma in relazione alle persone normali: avere il tempo di osservare, metro dopo metro, la perfezione del loro gesto atletico è un lusso notevole. Poco prima di staccarmi anche da questo treno, esausto, riesco a leggere il nome sul casco: è il valtellinese Alessio Martinelli, giovane interessante sebbene non parte del roster al Giro.
Dopo tutti questi fuorigiri, completare il Foscagno e ripetere l’Eira dal versante opposto per tornare a Livigno è un calvario. Vado regolare, e piano. Anche se mi passasse Contador, penso, non devo cedere alla tentazione di provare a seguirlo. Per fortuna nessuno si palesa, ma quindi il Mottolino? Non lo facciamo? Certo che lo facciamo, e con me tanti amatori. Quelle rampe al 20% bastano una volta sola: nessun professionista avvistato.
Si è fatto tardi e ho un appuntamento per pranzo, devo rientrare. Iniziata piano piano la discesa dall’Eira verso Livigno, saluto Larry Warbasse della Decathlon e mi accorgo di avere Ruben Fernandez della Cofidis a ruota. Gli faccio presente che ha battezzato un pessimo discesista e con un sorriso mi passa salutando. A metà discesa, qualche ciuffetto sbuca da un casco rosa: Tadej Pogačar sta risalendo l’Eira circondato da compagni di squadra e tifosi.
Se ho raccontato tutti questi piccoli eventi, è per un unico motivo: è ciò che è successo non solo a me, ma a chiunque abbia pedalato a Livigno ieri, o nelle varie località dei giorni di riposo durante gli scorsi Giri d’Italia. È un’esperienza comune a tanti quella di – in giorni particolarmente fortunati – ritrovarsi a pedalare tra i campioni, condividere la strada coi professionisti. E questo è uno dei pochissimi sport in cui si può ancora vivere un sogno del genere. Uno dei pochissimi sport in cui è possibile che, arrivato alla fine di una salita, un ragazzino polacco chieda a un signor professionista, vincitore di una Omloop e di una tappa al Giro, dove vada ora, e questo risponda: «Non lo so, ma se vuoi andiamo insieme».
Con gli occhi di Attila
Neanche il tempo di scattare e Pogačar è già sul mio gruppetto. Siamo in fuga da molte decine di chilometri, siamo andati d’amore e d’accordo. Qualche cambio a dire il vero è stato rimandato, qualche vaffanculo è stato detto. Siamo rimasti io, un Bardiani che non so chi sia, un giovane della Polti che sembra venire da queste zone, Storer e Geschke, che è riuscito nell’impresa di non vincere manco un GPM oggi. O almeno così mi sembra. Davanti ci sono Nairo e Steinhauser: ci sono sfuggiti, maledizione. Hanno una gran gamba.
Noi fuggitivi, comunque, pensavamo di andare forte. Eravamo quasi 60: un bel drappello. Nella mia squadra siamo rimasti mica in tanti (Christophe, Olav e Cian ci mancano parecchio), per cui ho fatto affidamento soprattutto sul lavoro altrui: sembrava di stare nella pancia del gruppo fatta e finita, solo tre minuti davanti a essa. Pensavamo di andare forte, ripeto, finché non ci ha affiancato quel razzo rosa. Avessi avuto fiato in eccesso, gli avrei chiesto se fa lo stesso sport nostro, quando l’ho visto sfrecciarmi accanto.
Ha provato a saltarci di slancio proprio nei pressi di un camper ricoperto da un bandierone tedesco. Dev’essere il fan club di Maximilian Schachmann. Se lo ricordo bene è perché, nello sforzo massimo di inseguire quella freccia rosa, mi sono rimasti impressi alcuni dettagli. Nessuno lo segue, ma io devo provarci. Da un paio di minuti mi sento urlare nella radiolina che dovrò dare tutto per seguirlo: forse vogliono sapere qualche dato in più sulla sua potenza, forse vogliono che gli dia fastidio gratuito, che ne so. Fatto sta che io sono Attila Valter, mica ho i superpoteri, né il potere contrattuale di infischiarmene. E quindi non posso fare come voglio: se mi dicono di sputare un polmone per rimanere con lui, io quello devo fare.
La prima cosa di cui mi accorgo è la differenza di pedalata. La sua agilità è un violino, io sono un piatto che si rompe cadendo per terra. Ma mi sembra di essere salito su di un treno: in un amen sverniciamo Nicola Conci (lo riconosco perché è uno dei pochi corridori che non gira uno dei due #13 che porta sulla schiena), poi un’orrida visione mi coglie alla sprovvista. Ha su la corona grande. Questo pazzo sta affrontando la prima salita del Giro oltre quota 2.000 col padellone. Non ci voglio credere.
Forse anche per quello, o per la sfiga portata dal #13 di Conci, o perché quello lì non è fatto di carne e ossa come noi, o per chissà quali altri motivi, beh insomma mi stacco. Cedo di schianto, anzi. Arriverò al traguardo quasi cinque minuti dopo Pogačar.
Ai giornalisti che mi hanno chiesto com’è stato provare a seguirlo ho farfugliato frasi banali, tutte stronzate. Cos’ho visto realmente non so dire. Non mi era mai capitato di vedere qualcuno andare così in bicicletta.
Un'ultima cosa, Tadej, ti chiediamo
Il tema più interessante del finale del Giro d’Italia riguarda, nuovamente, Tadej Pogačar. L’andamento della corsa rosa ha seguito il battito del suo cuore dal giorno zero e seguendo la stessa pulsione si avvia verso l’ultima settimana. Anche dopo la cronometro di ieri, ennesima tappa in cui ha dimostrato di poter guadagnare su tutti i rivali su ogni terreno, pur dominando, Pogačar non ha ucciso la corsa. A forza di rosicchiare quaranta secondi qua e là, è arrivato a quasi quattro minuti di vantaggio su Thomas e Martínez (per trovare un distacco del genere a due terzi del Giro, bisogna tornare al 2006 e ai nove minuti cumulati che José Enrique Gutiérrez e Paolo Savoldelli avevano di ritardo da Ivan Basso), un vantaggio enorme grazie al quale sarebbe facile giocare in difesa.
Pogačar non è uno così. Non ha bisogno di scoprire la guardia per sferrare il colpo del KO ad avversari già tramortiti, ma mi rifiuto di credere che non voglia dare un ultimo sfoggio della sua classe folgorante. E oggi c’è la più bella tappa del Giro d’Italia: oltre 220 chilometri brutali, con quasi 6.000 metri di dislivello, l’arrivo su una pista da sci inutilmente asfaltata. Per questo ieri gli ho chiesto, più o meno, se e quando avesse intenzione di tirarlo questo pugno del KO. «Come i pesi massimi sul ring», gli ho proprio detto. Insomma, Tadej, quand’è che farai l’impresa?
E lui mi ha risposto: «Il pugno del KO definitivo dovrà essere sul Monte Grappa, è l’ultima tappa [di montagna]. Oggi ho preso altro vantaggio il che è positivo, ci permette di essere più tranquilli». Sottintende forse che oggi non accadrà nulla? Che non cercherà l’impresa, accontentandosi di guadagnare altre manciate di secondi? E così anche nelle prossime tappe magari, facendosi scortare fino a Roma e pensando poi al Tour de France? Magari intende tutto questo e non può dirlo. Magari è davvero già sazio così: a brevissimo, per dire, diventerà il ciclista in attività con più giorni in maglia rosa. Io, però, non ci credo che si accontenti.
Secondo me non ha alcuna voglia di aspettare ancora. Dopo il giorno di riposo di Napoli ha soprattutto sonnecchiato: in due tappe (Bocca della Selva, Fano) è stata concessa la luce verde alla fuga; nelle altre due (Francavilla al Mare, Cento) è stata volata. La cronometro di ieri è servita per mettere qualche ago nei muscoli altrui, ma saranno le salite alpine a fungere da richiamo all’impresa del campione. Morde il freno anche lui. Se la simbologia del ciclismo ha un valore – e lo ha eccome, enorme –, se è davvero l’anno in cui potrebbe essere rinnovata la doppietta pantaniana Giro-Tour, se a Oropa ha già vinto, beh quale punto esclamativo migliore ci sarebbe di un attacco sul Mortirolo, domani, salita sulla quale al Pirata è stata dedicata una statua, sebbene su un altro versante?
Ricordi cosa ti disse il tuo direttore sportivo, Fabio Baldato, quando attaccasti Mathieu van der Poel al Giro delle Fiandre? «Andiamo campione, andiamo campione! Distruggili tutti!». Sì Tadej, spazzali via tutti sulla strada verso Livigno. Solleva l’asfalto dietro le tue ruote, non dar scampo a chi vivrà una giornata storta, apri e chiudi i mari. A un cenno della tua mano si muoveranno i gregari, a un tuo colpo di pedale si livellerà ogni salita. Vola come una farfalla, pungi come un’ape.
Un’ultima cosa, Tadej, ti chiediamo. Fa’ in modo che sia memorabile. Dacci, una volta di più, un capitolo nuovo di storia del ciclismo da raccontare a chi si approccerà allo sport tra vent’anni, facci riaprire i libri di Buzzati e Pratolini, riportaci con la mente a quelle imprese là, vecchie di decenni. Se tanto ti chiediamo, è perché tu tanto puoi.
La sfida
Era una sfida, un duello cavalleresco. Era una sfida e Filippo Ganna, questa volta, l'ha vinta. Era il dieci maggio, eravamo tra Foligno e Perugia, Filippo Ganna era seduto sulla stessa sedia su cui era seduto poco più di un'ora fa, quella destinata al miglior tempo provvisorio della cronometro: il video inquadrava Tadej Pogačar, dapprima sulla salita conclusiva, poi sempre più vicino al traguardo. Ad un certo punto, la grafica, un piccolo rettangolo su cui scorrono numeri, su cui scorre il tempo, dapprima verde, è divenuta rossa: è la campana a morto per qualsiasi ambizione, significa che l'altro, lo sloveno, in quel caso, è andato più veloce: sedici secondi e settantatré centesimi. Filippo Ganna si era alzato dalla sedia, aveva salutato, se ne era andato da quella telecamera che lo inquadrava: non era più il primo. Questo è ciò che abbiamo visto, quel che ha sentito era dentro quella macchina perfetta e curata allo spasimo, denominata corpo, denominato atleta. Una settimana e un giorno ed il momento è tornato. Sì, i momenti, molto spesso, tornano, si ripresentano, come le occasioni, anche se quando le perdiamo ci sembrano irrecuperabili. Questa volta tra Castiglione delle Stiviere e Desenzano del Garda, accanto al lago, "l'occhio della terra", come lo definì qualcuno, e quel ragazzo, quello con addosso la maglia tricolore, viene da Verbania, città di lago. Filippo Ganna è ancora seduto su quella sedia, davanti ad uno schermo e ad una telecamera. Sono le 16:43, parte l'altro, parte la maglia rosa, scende Tadej Pogačar. Il duello, a distanza, ricomincia.
Filippo Ganna era partito più di due ore prima ed aveva attraversato l'aria: veloce, più di cinquantatré chilometri orari di media, solido, un blocco compatto, fermo pur nello spostamento, guardategli la schiena, una tavola, perfetta, affascinante questo contrasto, elegante, nelle linee, del corpo in bicicletta e delle ruote sull'asfalto. Dentro qualcosa tra rabbia e amore, trovate voi un nome esatto alla sensazione, sappiamo che l'avrete provata: la rabbia di non avercela ancora fatta quest'anno, di non aver ancora vinto, l'amore di volercela fare, di tornare all'assalto, anzi, alla conquista. Direte che ha già vinto tanto Ganna, avete ragione, ma non si pesa la rabbia, non si pesa l'amore, non hanno a che fare con una somma o una sottrazione, hanno a che fare con gli esseri umani. Sensibile, nel senso di chi riesce a sentire, a percepire, a "toccare con mano": la sua sensibilità è esibita anche in sella, nel suo rapporto con la strada, in come vi scorre sopra, nelle curve in cui non smette un attimo di pedalare. Aveva fatto la ricognizione sul tracciato di gara, più volte, "per conoscere a memoria ogni curva": ha memorizzato tutto, non solo nella mente, anche nel corpo, che vi si orienta con delicatezza, nonostante lo morda, con finezza, nonostante lo divori. Un insieme di contrasti per cui le persone si affacciano dalle transenne al fine di osservarlo qualche secondo in più, perché il passaggio di Ganna è questione di vento, di una folata d'aria, allora serve allungare l'osservazione. Il sublime. Saranno 35'02" per percorrere 31.2 chilometri. Una bottiglia d'acqua rovesciata in gola, la mano nell'acqua di una fontana e di nuovo quella sedia, di nuovo l'attesa.
All'inizio non sorrideva, Ganna, guardava e basta, occhi fissi, dritti verso il monitor, quasi perso in un altrove. Quel rettangolo in grafica che indica i tempi riappare, è il primo intermedio: Tadej Pogačar ha quattro secondi di vantaggio. Pare un fermo immagine, è Ganna: immobile. Un'inquadratura tra il primo ed il secondo intermedio lo sorprenderà con la testa fra le mani, forse stanco di aspettare. Aspettava da una settimana o, forse, da quel giorno, ad Andora, il sette maggio, quando il gruppo riuscì a chiudere, a catturarlo, a lanciare la volata e aveva gli occhi lucidi, la voce spenta, perché avrebbe voluto vincere. Che oggi sarebbe andata diversamente l'ha capito al secondo intermedio, ne ha, però, avuto la certezza solo quando a Pogačar mancavano sei secondi per tagliare la fettuccia bianca dell'arrivo, ma il traguardo era troppo lontano. Era con Jonathan Milan, altro atleta che di velocità se ne intende: ha riso, ha riso forte.
Questa volta la voce ha fatto fatica ad uscire, nella prigione di una "e" prolungata e poi annacquata. Di un «non è mai facile» vibrato come vibrano le corde di una chitarra, ma quando agli uomini trema la voce di solito stanno per piangere o stanno già piangendo, di tristezza o di felicità. Cosa c'era dentro quella macchina perfetta che tutti abbiamo osservato, ammirato esaltato? Non possiamo saperlo. Sappiamo, però, ciò che sta venendo fuori adesso e questa volta è tutta felicità.
Foto: SprintCyclingAgency
Ha det bra: intervista a Magnus Sheffield
Uno dei giovani più interessanti, non solo qui al Giro, ma anche in assoluto nel gruppo, è Magnus Sheffield.
Buongiorno, Magnus.
Buongiorno!
Splendida pronuncia italiana, allora ha ragione Jean Smyth, l’addetto stampa della Ineos, quando dice che parli molte lingue.
Ho imparato qualcosa nella prima settimana di Giro. Ma di lingue ne parlo bene soltanto due, però è vero che conosco le poche parole chiave in un po’ di altre.
Sei mezzo norvegese e mezzo statunitense; qual è la tua parte norvegese e quale quella statunitense?
Ah, bella domanda. A essere onesti, sono davvero metà e metà. Mi sento molto americano ma sono anche molto orgoglioso di essere norvegese. È difficile a dirsi, magari qualcuna delle mie scelte alimentari preferite è più scandinava, e forse si può dire la stessa cosa anche riguardo alle cose che amo fare nel mio tempo libero. Ma mi sento davvero 50/50.
Facci qualche esempio di cibo scandinavo che ami.
Ooh, ad esempio il brown cheese [che dovrebbe essere il Brunost, un dolce caramelloso, NdR] e il caviale. Adoro il caviale, o, come lo chiamiamo noi: il dentifricio norvegese.
Sei cresciuto a Pittsford, un sobborgo di Rochester, nello stato di New York; come sei arrivato al ciclismo negli Stati Uniti?
Sono sempre andato in bici, sin da quando ho imparato a camminare. È una cosa che facevo con la mia famiglia, lungo i canali. Abbiamo anche fatto dei viaggi in bici in Norvegia. È davvero un’attività che ho sempre amato. Da ragazzino mi piaceva lanciarmi sulle strade vicino a casa, così come uscire con la mountain bike. Ma tutto è cominciato davvero quando ho incontrato gli August, il mio compagno di squadra A.J. e suo padre, che ha un negozio di biciclette e mi ha invitato a partecipare alla mia prima gara di ciclocross. È così che mi sono innamorato anche del ciclismo agonistico. Da lì ho cominciato con la mountain bike, il ciclocross, la strada… e tutto è cresciuto come fosse una valanga.
Quindi niente football americano o baseball.
In realtà ho praticato parecchi sport. Anche il football, ma nel senso del soccer, come chiamiamo il calcio. E poi baseball, nuoto, sci... amo soprattutto la neve.
E sei anche un tifoso?
Di calcio no, anche se sono il più competitivo della squadra. Nel football americano invece assolutamente Bills! Buffalo Bills!
E come hai preso la recente cessione di Stefon Diggs?
Eh, è uno dei miei giocatori preferiti, quindi sono ancora un po' toccato da questo fatto, ma credo che la cosa importante sia insistere su Josh Allen.
Dall’attitudine con cui stai affrontando questo Giro, si percepisce che è una sorta di rinascita dopo la caduta dello scorso anno [Sheffield è stato vittima della stessa caduta in cui ha perso la vita Gino Mäder, riportando un trauma cranico che lo ha tenuto tre mesi fuori dalle corse, NdR]. Raccontaci di più di come hai vissuto il rientro alle corse fino ad arrivare al tuo primo grande giro.
Già, è stato tutto fuorché facile. Ho passato parecchio tempo con la mia famiglia, e credo che sia stato davvero utile. È stato molto bello anche rientrare alla fine della scorsa stagione al Giro di Gran Bretagna, che è la corsa di casa della mia squadra. Ho perso l'occasione per fare un grande giro lo scorso anno, ma questo Giro aveva perfettamente senso con la mia crescita, visto che ho solo 22 anni. Rappresenta una bella pietra di passaggio per le ambizioni che ho nella mia carriera. E fin qui non posso che essere soddisfatto delle mie prestazioni e di come ho potuto aiutare G [Geraint Thomas] e Thymen [Arensman].
Ti senti un ciclista diverso, o una persona diversa, dopo l'incidente?
No, non credo. Sono sempre Magnus, non sono cambiato così tanto. Però ho imparato ad apprezzare ancora di più le corse, e forse anche la vita al di fuori del ciclismo. A non dare nulla per scontato. In questi primi anni ho vinto tre gare [nel 2022 ha conquistato Freccia del Brabante e tappe alla Vuelta a Andalucia e al Giro di Danimarca, NdR], due delle quali nei primissimi mesi da professionista. È stato un bell'inizio, ma forse ho dato per scontato che tutto sarebbe andato avanti così. Adesso invece apprezzo molto l'idea di lavorare duro per dei risultati, che arriveranno.
Sui tuoi social compare spesso tua sorella Sunniva, che da quanto ho capito vive in Alaska.
Oh no. Ha studiato là per un po’, ma adesso sta sulle isole Svalbard, dove ha passato gli ultimi mesi in mezzo agli orsi polari. Tra poco però tornerà a Oslo. Mia sorella è una persona incredibile: ama la vita all'aria aperta e ha viaggiato un sacco per i suoi studi [si occupa di scienze ambientali, NdR].
Sei abituato al freddo scandinavo e a stare nella neve… e come ti gestisci il sole italiano?
Sicuramente con un sacco di crema solare!
Abbiamo iniziato con un buongiorno, ora lasciaci con un saluto in norvegese.
Ha det bra!
Dialoghi inventati tra Campione e Paperino
«Oh, ma te ci hai mai corso in Cina?» chiede Mirco Maestri al suo idolo sulla dolce salita verso Civitanova Alta. Con un sorriso serafico, Julian Alaphilippe risponde: «Sì, molti anni fa. Ricordo qualcosa, che schifo di posti». Poi si rimettono a pedalare. Da pochi chilometri il percorso di gara ha abbandonato il lungomare e si sta addentrando nelle prime colline marchigiane. Si stanno ancora formando grupponi, gruppetti inseguono, gruppini si staccano: Alaphilippe non ne vuole sapere e allunga salendo verso Montelupone.
Maestri sa che mancano 126 chilometri all’arrivo, ma quello è il suo idolo. Gli ha appena fatto una domanda scema, sa che può fare meglio. Può addirittura impressionarlo, forse. «Cala un minimo che andiamo assieme», prega Maestri. Alaphilippe si gira, vede che non c’è nessun altro, e ci pensa su un attimo. «Va bene» gli dice poi, mica tanto convinto. I due proseguono e si parlano. «Beh sappi che io in Cina ci ho vinto una corsa, eh!» incalza Maestri. «Ah sì? Beh io mai». Risponde Alaphilippe. Non vuole mica fare il superiore, Mirco Maestri, detto Paperino, passato professionista solo a 24 anni: «Vabbè ma tu hai vinto tante altre corse, dai» lo consola senza che ce ne fosse il bisogno. E man mano che passano i chilometri, più si convincono: seguire la pista anarchica, per loro, è l’unica via per vincere.
«Porca boia! che gamba che hai oggi» loda Alaphilippe. Nota Maestri un po’ meno a suo agio sulle pendenze all’8% verso Recanati. Il francese pesa una dozzina di chili in meno, ma sa che le doti da passista di Maestri gli potrebbero tornare molto utili tra un muro e l’altro. «Facciamo così: io non ti stacco in salita, tu mi dai una mano in pianura e vediamo dove arriviamo». Maestri rafforza il rapporto in segno di approvazione: si va.
Campione e Paperino si erano già incontrati sulle strade di questo Giro d’Italia. Tappa con arrivo a Napoli. Maestri è in fuga fin quasi dalla partenza, Alaphilippe lo ha raggiunto verso Monte di Procida. Nonostante la differenza di status e freschezza, Maestri non ha mollato. Nello spiegare il perché, ha detto al podcast Gironimo (episodio sulla nona tappa, minutaggio 10:10): «È stato un onore cercare di ribattere Alaphilippe, che rimane un grande campione, un idolo insomma». Maestri è un anno più anziano di Alaphilippe: difficilmente tifava per lui da bambino, ma è un corridore che gli piace. Forse anche per questo dà cambi sinceri, senza risparmiarsi, tra Castelfidardo e Osimo.
Le salite si susseguono. «Hai un bel passo, sei forte a crono?» chiede Alaphilippe. «Abbastanza dai, quella vittoria là che ti dicevo, in Cina, fu proprio in una cronometro» risponde Maestri. E poi aggiunge, in segno di riverenza: «Ma lo so che tu le crono le hai vinte pure al Tour de France». Alaphilippe sorride e ricorda, che tempi quelli, quando vinse la Pau-Pau del Tour 2019 in maglia gialla, tra due ali festanti di folla. Era il ciclista più forte del mondo: lo pensa anche Mirco Maestri, e vorrebbe dirglielo, ma il ciclismo non è uno sport da smancerie.
Proseguono in fuga, i due, e nessuno sembra poterli riprendere. Vanno fortissimo, chiuderanno quasi ai 47 all’ora di media. Sull’ultimo strappo, Monte Giove, Alaphilippe se ne va. È un finale amaro, troppo breve, entrambi avrebbero voluto continuare la fuga fino a Livigno, e poi Roma, assieme. Ma la pedalata di Maestri si fa più dura ogni metro, non va avanti. Certo che poteva ringraziare, pensa per un secondo Paperino, guardando la scalata agile di Campione. Non può fare a meno, tuttavia, di ammettere: «Cazzo, però, che forte che è».
Oltre i muri: la gioia di Julian Alaphilippe
Al Giro d'Italia, è il giorno dell'ermo colle, di qualsiasi ermo colle, e di ciascuna siepe che "da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude". Tutto l'essenziale che c'è da sapere su un muro, della strada che si arrampica, della natura che si espande, degli esseri umani che lo costruiscono e della loro interiorità in cui si erge a poco poco e li cambia, è nelle parole di Giacomo Leopardi. È anche la terra di Michele Scarponi e del Saltarello: il primo un ciclista, il secondo un ballo tipico marchigiano che racconta, attraverso rapidi movimenti di punta e tacco, una strana felicità, una festa che nasce da dentro. Michele Scarponi quella poesia l'aveva fatta propria, pur forse non avendone mai parlato: Scarpa che nei suoi silenzi si limitava a sorridere, a fare una smorfia e oltrepassava con l'ironia le siepi che racchiudevano, che impedivano lo sguardo. Dei problemi diceva che erano simili alla pioggia, ma non può piovere per sempre: quella frase l'aveva sentita nel film "Il corvo" ed ogni volta la cambiava un poco, perché fosse davvero adatta al momento, perché non fosse una di quelle cose che si dicono per "circostanza".
Il Saltarello è la danza delle fughe, sono degli "scapigliati", gli anticonformisti del movimento artistico della Scapigliatura, coloro che partono in tromba in un tornado di gruppi e gruppetti che si creano e si disfano continuamente, perdono pezzi e li ritrovano. Mirco Maestri e Julian Alaphilippe sono, oggi, gli esponenti maggiori di questo movimento, in sella ad una bicicletta, potrebbero anche essere simili ai poeti de "L'albatros” di Baudelaire, “principi delle nubi, che stanno con l’uragano... esuli in terra". In un certo senso lo sono, almeno in parte. Non è solo la solitudine a renderli tali, è qualcosa radicato in loro, nel loro passato. Prendete Mirco Maestri, di Guastalla, nella Bassa reggiana, per tutti "Paperino", per via di quel pupazzo che, all'asilo, in un modo o nell'altro, era sempre con lui. Un ragazzo che ha iniziato a pedalare per un problema di metabolismo, che, tempo fa, aveva raccontato di essere stato un ragazzino più largo che alto e solo per questo aveva iniziato a pedalare. Figuratevi se pensava di arrivare al Giro d'Italia, aveva sogni molto più semplici. Con la bicicletta è sempre restato, essenzialmente, per un senso di gratitudine, di riconoscenza, per avergli permesso di cambiare, di diventare quel che si sentiva. C'è anche il suo ermo colle da queste parti, anzi, se li prende quasi tutti i muri, dalla testa della corsa, in un'azione "folle" assieme ad Alaphilippe. Ogni tanto si guardano: il francese gli dice qualcosa, lo incita, pare anche aspettarlo, fargli coraggio, della serie "vieni con me", "andiamo via insieme".
Recanati, Osimo, Monsano, Ostra, Ripe, La Croce, Mondolfo, questa è la sequenza. Mentre i muscoli gridano pietà, torturati, fatti a pezzi, dalle peripezie della verticalità. A Monte Giove arrivano assieme: la pedalata di Alaphilippe diventa insostenibile per lui, immersi nel vociare della gente che è salita a piedi e ora è felice perché la festa è arrivata. Si sbanda su quel muro, da destra a sinistra e da sinistra a destra. Lo sforzo dei chilometri precedenti grida vendetta, in quegli istanti, Maestri cede, spinge la bicicletta a forza di volontà e della stessa gratitudine che gliela fa continuare a scegliere. Il francese si volta, guarda, deve proseguire, non può fare altro. Il 16 maggio del 2024 non ringrazia solo per quello, ringrazia anche per la possibilità di una giornata come questa, in fuga con un ciclista come Alaphilippe, che è uno dei suoi corridori preferiti, forse il preferito, perché è l'enigma del ciclismo ed anche di un certo modo di essere umani. L'insostenibile velocità di Alaphilippe diviene, poco dopo, una sorta di insostenibile leggerezza dell'essere, un inno alla spensieratezza e alla gioia di essere un ciclista e di essere il ciclista che è: funambolo in discesa, in curva, in ogni equilibrismo che la bicicletta, comunque, impone. È l'altra parte de "L'infinito" di Leopardi, sono i profondissimi spazi, interminati, i sovrumani silenzi, il vento tra le piante, e tutto quello che si pensa o si sente: le morte stagioni, la presente, il suo suono. Fino all'arrivo, primo.
Stanco lo è, sicuramente, ma resta in piedi, continua a muoversi, sospira, sorride: cerca e viene cercato. Viene cercato dagli atleti del gruppo per un complimento, cerca Mirco Maestri solo per dire grazie, per l'importanza che ha avuto in quella fuga, per il coraggio e per quello che hanno condiviso e che solo loro possono capire fino in fondo mentre si salutano e si allontanano dalla strada della tappa che li ha fatti andare oltre. Oltre ogni muro, primo e nono, a Fano, dopo l'unico naufragio permesso ai ciclisti: l'attacco, la distanza, la lontananza dagli altri e quello nella propria interiorità. L'orizzonte ora è aperto, vasto. Mette pace.
Ultimo uomo: intervista a Max Walscheid
Uno dei corridori più alti e pesanti del gruppo, Max Walscheid, del Team Jayco AlUla, è uno di quelli che non appaiono con costanza nelle top-10. A Prati di Tivo, Napoli e Bocca della Selva è arrivato sempre tra la 135a e la 140a posizione. A stamattina ha accumulato un ritardo di quasi due ore e mezza dalla maglia rosa di Tadej Pogačar. Walscheid, però, è l’ultimo uomo di Caleb Ewan e in questa intervista ci parla di volate, di lauree, di problemi coi letti e di tanto altro.
Buongiorno Max, o dovrei chiamarti Dottor Walscheid?
Sicuramente Max.
Quanti esami ti mancano alla laurea?
Un po’ meno di un anno per finire l’università, poi dovrò svolgere un anno di tirocinio.
Stai studiando medicina, giusto?
Corretto. Beh, a dire il vero per il 99% del mio tempo sono un ciclista professionista, ma cerco di trovare un po’ di spazio anche per gli studi.
Dove studi?
Ad Heidelberg, l’università più antica di Germania!
Il tuo prossimo esame qual è e quando sarà?
Eh, bella domanda! Non lo so ancora, al momento non mi sono iscritto a nessun esame. Durante l’estate penserò a cosa fare a ottobre, novembre.
Stai pensando a una specializzazione?
No, non per il momento. Avrebbe senso fare qualcosa collegata allo sport, perché sarei affidabile come medico dello sport essendo stato un atleta professionista. Per un atleta è importante che il medico capisca bene la sua professione. Considera ad esempio la riabilitazione dopo un infortunio: l’atleta non deve tornare in ufficio, ma a competere a livello professionistico. Se come dottore comprendi tutto questo, è un grande vantaggio.
C’è qualcosa sul tuo corpo che hai imparato studiando anatomia?
No (ride). Non mi sovviene nulla di particolare… diciamo che mi sarebbe piaciuto essere un ciclista più piccolo, più basso; mi avrebbe reso la vita più semplice, ma a parte questo no.
Com’è la vita da corridore più alto del Giro, con i tuoi 199 centimetri di altezza? So che hai spesso problemi con i letti.
Al primo albergo in cui siamo stati ho dovuto cambiare camera, perché dei due letti che c’erano, uno era un divano letto. E un divano letto non va affatto bene per le mie dimensioni, quindi mi hanno dato un’altra stanza. Ma, a parte questo caso, cerco di adattarmi. Inoltre la squadra si porta dietro materassi e cuscini per ciascuno, cercano di renderci la vita più comoda possibile.
In gioventù non hai mai pensato a fare altri sport, più adatti alla tua stazza, come pallavolo o pallacanestro?
Sì, ho cominciato con l’atletica, poi sono passato al decathlon, e a 16 anni ho cominciato con il ciclismo. Probabilmente uno sport come il canottaggio sarebbe stato più adatto a me, ma non mi ci sono mai dedicato. La verità è che amo il ciclismo.
Non ti sei mai pentito di questa scelta, quindi.
No, assolutamente no. Questo è di gran lunga lo sport più bello che ci sia.
A quanto pare, con 90 chili sei anche il corridore più pesante.
A inizio carriera avevo qualche problema nello stare nel tempo massimo o nel trovare il gruppetto, ma oggi va molto meglio. Incrociamo le dita, ma adesso mi capita meno spesso di avere giornate no.
Al Giro hai un ruolo importante, come ultimo uomo del treno di Caleb Ewan, che è uno dei velocisti più minuti. Siete una coppia assortita in modo particolare, sia dal punto di vista fisico che da quello caratteriale.
Penso che la cosa più importante nella nostra relazione sia la fiducia reciproca. Ovviamente, è un aspetto sempre necessario tra un velocista e i suoi apripista, ma tra noi due è ancora più importante perché Caleb dietro di me non riesce a vedere granché. Prima della nostra prima volata insieme, al Giro dell’Oman, mi ha specificamente detto che devo tenere gli occhi due passi più avanti rispetto a dove guarderei se stessi facendo la volata per me, perché se c’è un imprevisto che lo costringe a rallentare, lui non può vederlo, la sua faccia è praticamente attaccata al mio sedere. Significa che devo avere una vista panoramica… Adesso credo che abbia compreso che può fidarsi di me, quindi direi che tra noi va tutto bene.
Una giornata da ricordare
Dove resta il ricordo di un ciclista? Fra delle lastre di roccia, in un pomeriggio invernale del 1980, Giovanni Todesco e sua moglie, pur se ancora non ne avevano contezza, poterono toccare il luogo in cui resta la memoria di ere passate, più di cento milioni di anni fa: nella pietra di Pietraroja. Si trattava di un piccolo dinosauro carnivoro, sdraiato sul lato sinistro, con il capo leggermente inclinato, il suo nome scientifico è Scipionyx Samniticus, ma per tutti è semplicemente "Ciro". A Pompei, sede di partenza della decima tappa, l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ha bloccato un istante: strade, abitanti, oggetti della quotidianità. La paura è rimasta bloccata, cristallizzata, così il ricordo, l'ultimo istante. Il Giro d'Italia è una città che cambia, che si costruisce e si cancella nell'arco di poche ore: mezzi, transenne, persone. Tutto che arriva, poi passa. Le città sono città diverse immerse nel Giro. Già, ma quando tutto torna alla normalità, in che angolo delle persone è il ricordo di quel passaggio delle biciclette che non segnano le pietre, che non fermano il tempo? Nelle fotografie, certo, ma oltre, oltre uno scatto, dov'è?
Il ricordo di un ciclista è in una borraccia, che segna il ricordo forse più di qualunque altro oggetto legato alla bicicletta. Oggetto fondamentale, oggetto del bisogno, perché cura la sete, perché contiene acqua e un ciclista è fatto anche di acqua, come tutti noi, ancora di più, forse. La borraccia che Alaphilippe, ad un certo punto, rallenta e quasi deposita, appoggia, ai piedi di una sedia bianca, di plastica, dove è seduta una signora con i capelli bianchi. La raccoglie. Il tempo che passa allunga i ricordi, come la sera allunga le sagome dei camminatori nei prati, sui monti. Sere diverse, comunque sere. Per questo tutti raccolgono le borracce, sono un segno tangibile per tenere stretti i ricordi quando si sbiadiscono. Lì c'è senza dubbio la memoria di un ciclista. Alaphilippe, poi, si staccherà dalla fuga di giornata, dopo averla cercata e voluta un'altra volta: è accanto alla macchina del medico, sembra svuotato. In un giorno sbagliato.
Il ricordo di un ciclista può essere in un cartello, al Giro è spesso nei cartelli oppure nelle scritte a terra. Gino Mäder, adesso, è anche in quell'inchiostro, ora che non è più in sella, dove tre anni fa vinse, giusto al Giro d'Italia. Gino Mäder aveva qualcosa di Palomar che sentiva il dovere di guardare le stelle per non sprecare il fatto che ce ne fossero così tante, lo svizzero sentiva il dovere di ricordarsi di abitare sotto un cielo di stelle, in un pianeta di natura rigogliosa. Perché? Perché è bello. Forse ci avrebbe risposto così, come ci aveva detto raccontando delle sue vittorie. Anche in una penna o in un pennarello c'è il ricordo dei ciclisti, pure in un pennello. Se si osserva Alessandro De Marchi mentre attacca non si hanno dubbi: il ricordo di un ciclista è nelle origini delle cose. La bicicletta, la solitudine, la rabbia, la gioia, il dolore. Di Damiano Caruso si potrebbe dire lo stesso: con le bende addosso, con le ferite ancora non cicatrizzate, all'attacco e di nuovo in gruppo a tirare, a fare il suo dovere.
Il ricordo di un ciclista è nelle partenze. Gianni Mura ironizzava: "Solo chi ama le pantofole dice che partire è un poco morire. Non partire, quello sì, è un poco morire". E aveva ragione. Filosofia di ogni ciclista, ogni mattina, ogni volta in cui è a terra ed in ogni istante in cui deve accelerare e non ce la fa. Pensiamo a Jan Tratnik che era riuscito a partire, in fuga e ancora in fuga, almeno fino a quando Valentin Paret-Peintre non scandisce il suo ritmo da scalatore: stacca Romain Bardet, raggiunge Tratnik e lo lascia lì, ripartendo, da solo. Qualche secondo dopo, anche Bardet raggiungerà e staccherà il corridore sloveno. Si spegne la luce, non si riparte, non si risponde, non si resiste: finisce anche se non finisce. Il ricordo di un ciclista è nel continuare. A pedalare, come fa Bardet che, a Torino, vedeva con fatica la coda del gruppo, oggi vede a pochi metri il vincitore di tappa: vorrebbe prenderlo, non ci riesce, ma come sono cambiate le cose. Anche il cambiamento è ricordo di un ciclista: accettarlo, sopportarlo, non odiarsi troppo perché non si è più quelli di una volta.
Infine, ma non per ultimo, il ricordo di un ciclista è nelle prime volte, perché la bicicletta è una prima volta: dell'equilibrio, della scelta, della lontananza da casa, di una velocità scelta solo dalla propria forza, dalla propria volontà. Perchè per Valentin Paret-Peintre è la prima vola, al Giro e fra i professionisti, a Bocca della Selva, che pare davvero una bocca, di faggi, di verde. Si vede che è la prima volta: da come va a zig zag sul traguardo, mentre alza le mani, chiede applausi e ride con il pianto in gola. Si vede che è la prima volta perché non sa più dove cercare conferme, perso in un mondo suo, in un pensiero che solo lui conosce fino in fondo, mentre i massaggiatori gli scuotono le spalle, quasi a svegliarlo, a destarlo. Sì, il ricordo di un ciclista è in tutti questi momenti e, poi, o forse ancor prima, in quello che suscita quando transita accanto per pochi secondi o mentre una telecamera lo segue, perché il ricordo di un ciclista è in quel che prova e che fa provare. Prima di tutto il resto. E quelle sensazioni sono come le pietre: restano più o meno simili in milioni di anni.
Foto: SprintCyclingAgency