Bellezze locali (o cose di poco conto)

Bellezze locali oppure cose di poco conto, dal titolo. Bellezze locali: viene da pensare alle bici ed è così. A Waregem, Fiandre Occidentali, appena suona la campanella, ragazzi e ragazze escono da scuola e sono già tutti in bici. Bici, il centro del nostro mondo che qui in Belgio diventa uno degli elementi portanti della quotidianità. Cose di poco conto: sempre loro, mezzi a pedali con le ruote (per non ripetere "bici, bici, bici", anche se, facendoci caso è così musicale) come quel bolide che veniva lavato con cura dietro al pullman della UAE. Con l'attenzione che di solito si riserva ad un neonato.

Bellezze locali: le patatine fritte. Guarda un po'. Belle unte che restano sul tavolo a quantità industriali anche quando il cliente se n'è andato. Qui friggerebbero anche la birra se non fosse qualcosa di più di una bellezza locale. Cose di poco conto: i muri, in pavé oppure senza. Comunque ti spaccano le gambe e ti mandano in acido i pensieri. Chilometri di ciclabili che accompagnano la strada statale che gira tra Waregem, Gent, Kortrijk e Oudenaarde, attraversando quei paesini che, per chi è cresciuto con le classiche del nord, hanno nomi usciti da una fiaba.
Viuzze che si infilano tra una principale e l'altra sporche del fango dei campi trasportato dai trattori. Mucche e pecore. Due corridori della Lotto e della Topsport Vlaanderen che si lanciano a tutta velocità - nei dintorni di Nokere - perché ha iniziato a piovere. Da come filano più che sembrare due in fuga, o in allenamento, sono due ragazzi che stanno tornando a casa al caldo.
Bellezze locali: la cortesia belga. Sempre un sorriso, un saluto, un modo per aiutarti tra inglese e olandese - sarà forse il cappellino da ciclista. Perché qui tutto è bici, tutto è ciclismo. E quella loro lingua dura ma dal suono avvolgente. Cose di poco conto: l'asfalto insidioso, la pioggerellina, il cielo grigio che pare immenso verso un orizzonte che da Kapelmuur - bellezza mondiale - spinge verso l'infinito. Il pavé a tratti dissestato a tratti no. Il bar aperto in cima con i tavolini che guardano verso il punto più alto e il barista che parla in spagnolo sostenendo di conoscere bene l'italiano. Il parcheggio riservato a "Miss Belgio".

Bellezze locali: quelle che oggi andranno in escandescenza sulle strade della Dwars door Vlaanderen. Arrivano da posti più lontani - Pogačar e Bastianelli per fare due nomi - o sono praticamente di casa: van der Poel e van Vleuten. Tanti altri, e tante altre a darsi battaglia nell'ultimo pasto prima della sacra domenica del Giro delle Fiandre. Motori a pieni giri. Quel giorno sarà letteralmente pieno di bellezze che si andranno ad aggiungere, ma non ci sarà più nulla di poco conto.


Compagni di camera

Francesco Gavazzi e Lorenzo Fortunato possono parlare del significato del silenzio. Lo hanno imparato essendo compagni di camera e sono certi che il loro rapporto sia fatto anche in buona parte del silenzio. Entrambi spiegano che il compagno di camera è fondamentale perché, lontani da casa, è la persona con cui condividi tutto, dentro e fuori dalla gara. Non è, però, scontato trovarsi bene. «Può capitare di sentirsi a disagio anche solo a vedere la lista delle camere- dice Gavazzi- ed è il peggio perché non ti senti libero nemmeno nelle ore del rilassamento e questo porta stress». Con Fortunato non è capitato e Lorenzo sa il motivo: «Non abbiamo paura di stare in silenzio e questi momenti in cui non si parla, in camera, non tolgono nulla. Questo silenzio lascia tranquillità. Lui legge, io guardo un film. Possiamo parlare, ma non siamo obbligati a farlo. Non ci giudichiamo, se non lo facciamo».
In realtà Fortunato e Gavazzi parlano molto, anche fuori dalle gare e le cose che sanno l'uno dell'altro derivano proprio da questo tempo parallelo. Francesco Gavazzi racconta una sua telefonata con Fortunato questo inverno: «Mi ha parlato di tantissimi impegni e della difficoltà di incastrarli tutti. Credo quello sia stato il giorno di uno dei consigli più importanti: imparare a dire no». Da quella vittoria allo Zoncolan, il mondo attorno a Fortunato è cambiato e, per Gavazzi, Lorenzo non è ancora abituato a questa concezione.
Amici? Sì, anche amici. «La squadra è comunque un ambiente di lavoro- precisa Gavazzi- e anche il compagno che ti aiuta sta pensando al proprio contratto, al rinnovo. Se c'è amicizia è più semplice, perché non hai timore nell'affidarti e anche per l'altro è più facile fare fatica per te». Una fatica che, aggiunge Fortunato, si fa comunque perché, dove non arriva il rapporto, arriva la professionalità: «Da un lato, l'amicizia non può e non deve fare sconti all'impegno. Dall'altro lato, anche chi non diventa tuo amico, deve mettere il massimo per te e state certi che, se una squadra è una squadra, succede senza alcun dubbio. Non esiste alternativa».
Fortunato può parlare dell'autorità di Gavazzi, della fiducia che è cresciuta come ha visto che le sue indicazioni si verificano prontamente.
«Una volta, Gavazzi si arrabbiò per una mia distrazione in corsa, perché non ero davanti, e, sono sincero, subito pensai che fosse esagerato. Poco dopo, nel luogo in cui mi trovavo ci fu una caduta, se non mi avesse rimproverato, sarei caduto anche io». Già, ma come prende questi rimproveri Fortunato? «All'inizio, resta lì, ascolta e non dice nulla. Magari la sera o la mattina dopo arriva e ti dice: “Avevi ragione, Gava”. Vuol dire che riflette su quello che gli dici, che ci pensa, ci tiene, che non se lo fa scivolare addosso».
L'ultima volta alla Tirreno-Adriatico, nella prima tappa vinta da Pogačar. Gavazzi spiega che, ogni tanto, Fortunato si perde in gruppo: «Quel giorno lo portai davanti due volte e due volte finì indietro. Glielo dissi: "Se lima Pogačar, perché non limi tu?". Io sono brusco su queste cose. Ci ha pensato e da ragazzo intelligente qual è ne ha fatto tesoro per le tappe dopo».
Dalle cose più serie, alle più divertenti. Gavazzi si sveglia molto presto al mattino e magari scende a fare colazione mentre Fortunato è ancora a letto, ma Fortunato si addormenta prestissimo la sera, «appena tocco il letto» dice lui. E Gavazzi precisa: «È illegale. A venticinque anni non si può dormire alle dieci e mezza di sera».
Di sicuro, una cosa protegge Fortunato dalla pressione o dagli errori che si possono fare quando si sale di livello ancora in giovane età. «Ha una leggerezza buona che gli permette di lasciare da parte in fretta gli errori o le delusioni e guardare avanti. Difficilmente lo vedi arrabbiato. È una caratteristica che deve preservare, è la sua forza». Nel mentre Fortunato scherza: «Tanto Gavazzi continua a dire che vuole smettere, ma per altri due anni lo tengo in gruppo. Vedrai».
E Gavazzi risponde a tono: «Ma io gli dico sempre di non preoccuparsi per me. Continuerò a scrivergli e usciremo ancora a cena con le nostre compagne, per il resto, però, dovrà arrangiarsi da solo». Poi il ragionamento torna a farsi serio e le parole aumentano di peso: «Non gli auguro vittorie, perché, se continuerà così, vincerà molto altro di sicuro. Gli auguro di continuare a godersi il ciclismo come sta facendo adesso. Io, forse, non l'ho sempre fatto. In questi ultimi anni lo sto vivendo davvero con piacevolezza, avendo lasciato da parte il dover dimostrare. Lorenzo vive bene questo aspetto pur essendo molto giovane. Spero sarà sempre così, perché fare ciò che facciamo è un'opportunità rara e bisogna godersela».


Quei muretti, quelle biciclette

Cambiano anche i muri e i muretti delle città ad ogni corsa. Ultimamente, forse, ancora più di prima. Una bicicletta dopo l'altra, appoggiate vicine, talvolta anche una addosso all'altra, anche se i due ciclisti non si conoscono, ma con le biciclette si fa così. Se fosse altro, potrebbe dare l'idea del disordine, invece quel groviglio di pedali (e bastano davvero quattro biciclette ravvicinate per dare questa sensazione) che talvolta si incastrano fra loro e di ruote e raggi che da lontano sembrano intersecarsi quasi abbellisce i luoghi in cui si appoggia. Da Siena a Lido di Camaiore e avanti fino a San Benedetto del Tronto, passando per Sovicille e Murlo, sino a Magenta e Rivoli. Diversi sono i muri, diverse le biciclette.
Muretti di pietra, di cemento o di mattoni, talvolta muri delle case con anche qualcuno affacciato dalla finestra che però non dice nulla, magari indica uno spazio in cui una bicicletta può ancora stare. Per finire con il classico: «Me la guarda lei?» e dall'altra parte: «Fino a quando non partono sono qui». Può essere il proprietario di una casa o il passante che, per caso, si è fermato lì, in piedi o seduto su un muretto a guardare gli atleti arrivare.
C'è di più, ci sono quelle borse da bikepacking che ultimamente vediamo spesso anche alle partenze. Sinonimo di viaggio e allora ti viene da chiederti da dove vengano quelle persone, quanto lontano abitino, quanti e quali posti abbiano attraversato per arrivare a quel muro. Ma se è vero che qualcuno è arrivato da lontano, per altri non vale. «Sono arrivato qui in mezz'ora, in macchina ci avrei messo dieci minuti circa». E allora perché quelle borse come se si venisse da lontano? Giorgio le apre e ci mostra quello che ha dentro: non ci sono tende, non fornelletti o sacchi a pelo. Semplicemente una focaccia, una brioche ancora nel sacchetto del bar, dei fogli di giornale che parlano della tappa e una mantellina. La precisazione è istantanea: «Questa la lascio sempre, ma non deve piovere oggi».
Per arrivare alla partenza ha scelto di percorrere una strada secondaria e quella terra che vediamo ai bordi di una borsa viene proprio da lì. «Anche tu hai uno zaino,- continua- chiunque si sposti per diversi chilometri ha uno zaino o una borsa. Non capisco perché in bicicletta lo zaino debba servire solo per andare lontano. Quante poche cose ho qui dentro? Pochissime, anche perché diversamente farei ancora più fatica. Eppure mi sento indipendente».
E, parola dopo parola, con Giorgio e con altri, ci è sempre più chiaro che è proprio questo il significato dello zaino o della borsa: la totale libertà di scegliere, la spensieratezza. Non devi aspettare un ristorante per pranzare o per fare colazione, non devi scegliere il tuo percorso in base a esigenze esterne. Puoi andare dove preferisci perché dentro lì hai tutto quello che serve per non restare sorpreso: dalla fame, dalla sete o da un temporale.
Tutto questo e qualcosa in più. Elisa di biciclette non sa nulla, passa di lì per caso ed è semplicemente incuriosita da tutte queste cose tirate fuori dallo zaino e svuotate per terra. Ascolta e, poi, interviene: «Io lavoro con i bambini. Può essere che somigli a ciò che fanno loro quando si fanno casa con uno scatolone in salotto, portano due pupazzi, un piatto e un bicchiere di plastica, una coperta e ti dicono di non disturbarli e di stare in casa "tua" che loro hanno già tutto?». Al momento non siamo stati certi della risposta, ora sì.
Certo che può essere. Anzi è sicuramente così. È quella voglia di avere accanto solo quello che ci serve e che ci fa stare bene, stare meglio, che sperimentiamo fin da piccoli e che ci portiamo sempre addosso. Anche mettendo due borse su una bicicletta e complicando un percorso all'apparenza semplice: per gioco e per divertimento.


Il ritorno di Mathieu van der Poel

Ieri ci ha investito all'improvviso un po' di nostalgia. Era il momento in cui il gruppo - davanti la fuga, dietro i migliori della classifica, non fa differenza - stava facendo i conti con l'asprezza dei muri fermani. Zone tecnicamente esaltanti per chi del pedalare ne fa un mestiere, strade che, si è detto spesso, meriterebbero una corsa di un giorno nel calendario internazionale per giustizia, ma per fortuna la Tirreno-Adriatico spesso e volentieri si ricorda di passare di qui.

Torniamo al punto, che è quel senso di nostalgia che ci stava prendendo vedendo il gruppo lungo l'asfalto marchigiano. La nostalgia di Mathieu van der Poel che qui avrebbe sicuramente provato a dare spettacolo, magari con un'azione efficace, magari invece con uno scatto dei suoi, quelli un po' ingenui, quelli tanto per, quelli per sentire il rumore delle sue gambe, per sgolfarsi; quelli che a noi semplici appassionati piacciono comunque da matti. E allora ci siamo ricordati di come, poche ore prima, venisse annunciato il suo ritorno alle corse.

Lo stiamo braccando sui social in questo periodo, seguendolo virtualmente in queste settimane nei suoi allenamenti in Spagna. Alterna lunghi con uscite brevi di qualità; correda spesso il tutto con foto di pausa caffè più dolce, oppure qualche immagine che vuole essere un po' poetica, un po' scanzonata, con i suoi compagni di viaggio vicino a un fiume, una cascata, un sorriso, un pollice all'insù; poi capita come qualche giorno fa che, di fianco al tipo di allenamento fatto, van der Poel metta una faccina abbastanza eloquente, forse perché poco soddisfatto del suo risultato, forse perché particolarmente stanco, forse perché, appunto, semplicemente è van der Poel: era la smile dell'omino che vomita.

Tuttavia, il suo ritorno sarà manna per gli appassionati, e sarà l'occasione per i suiveur italiani: dal 22 al 26 marzo lo vedremo alla Settimana Coppi & Bartali e terreno per qualche azione spettacolare ci sarà.

Poi, stando al calendario presentato, si virerà subito al Nord, su quelle pietre che ha già domato e dove si lancerà in una sfida che pare già epocale: 30 marzo Dwars door Vlaanderen, ma soprattutto La Ronde, il Giro delle Fiandre, del 3 aprile. La sfida sarà con Wout van Aert, Tadej Pogačar e Kasper Asgreen (una rivincita) e compagnia stellata.

Se tutto andrà come deve andare lo aspetteremo a tutta una serie di domeniche incandescenti: 10 aprile Amstel Gold Race e 17 aprile Paris-Roubaix, nulla da aggiungere. Una l'ha vinta con una delle azioni più spettacolari di questi anni, l'altra l'ha persa, pochi mesi fa, per mano di Sonny Colbrelli, ma è un'edizione che ha già segnato l'epoca. In mezzo la Freccia del Brabante, 13 aprile, anche lì ha già lasciato il segno nel 2019 e chissà. Una gara che sembra disegnata appositamente per i corridori à la van der Poel.

La prima parte di stagione non si sa come si chiuderà, prima di passare all'estate e probabilmente al Tour de France, perché si vocifera di come possa venire a correre il Giro d'Italia e basta solo il suo nome per alzare ulteriormente l'attesa - al momento lasciamo perdere discussioni su un suo ritiro a Giro iniziato: intanto non sarebbe male vederlo al via della Corsa Rosa.

Ora è tempo solo di segnarsi la data del suo ritorno e di dargli un bentornato. Come andrà andrà, anche se c'è da giurarci che lo rivedremo da subito competitivo, perché come ha detto van Aert «Se ha le gambe per tornare a correre significa che ha le gambe per fare da subito qualcosa». Nel ciclismo delle imprese e delle grandi firme, la sua a oggi, manca decisamente.


Cosa c'è di più Alvento di un ventaglio?

Paf! e sciaf! da dove arriva arriva il vento fa male. Sberloni in faccia e di lato, meglio quando arriva da dietro, ma tant'è, quello succede di rado. Da qualche parte qualcuno sostiene, scherzando, ma fino a un certo punto: "A cosa serve una tappa di montagna quando ci sono i ventagli?". Un disastro ieri alla Parigi-Nizza. Un disastro proprio grazie ai ventagli. Un disastro, macché, per noi comodi comodi, uno spettacolo.

Se qualcuno si chiedesse cosa sono i ventagli, la foto che abbiamo scelto è emblematica. Il gruppo si mette "a ventaglio", come si usa dire, una sorta di fila sfalsata: lo fa nei tratti di rettilineo che se non ci fosse vento trasversale sarebbero momenti di ordinaria quotidianità in ufficio, come aspettare una e-mail, riempire dei fogli di calcolo o tradurre un testo, e invece è un imprevisto o meglio, avviene tutto all'improvviso, perché già dalla mattina si diceva : "Oggi, occhio ai ventagli!".

E allora quando inizia a soffiare il vento vedi davanti a fare la selezione le squadre meglio attrezzate, più leste, con quei corridori abituati a schierarsi all'attacco non appena c'è sentore di brezza, e a fare a pugni con uno degli agenti atmosferici più particolari quando parliamo di ciclismo. Più odiosi in assoluto quando andiamo in bicicletta - il vento in faccia è insopportabile, a volte persino più della pioggia.

Se il gruppo fosse un elemento unico sembrerebbe messo di traverso, corridori uno di fianco all'altro, per rendere la vita difficile agli avversari che li vedi sbandare, fare equilibrismi per stare in piedi o per prendere la ruota giusta. E abbiamo detto che ci sono le corazzate dei passistoni, ma c'è anche una costante che resta inspiegabile. Quando ci sono i ventagli, Nairo Quintana da un po' di anni è uno dei più bravi a starci dentro, a dare una mano, una sorta di gatto con i superpoteri; anche ieri si staccavano fior di ciclisti che venivano erosi dal vento come fossero dimenticabili sassolini, e lui stava lì attaccato scegliendo la ruota giusta di volta in volta. Uno spettacolo.
Uno spettacolo vedere una tappa così, tanto che alla fine ci viene anche da chiedere: cosa c'è di più Alvento di un ventaglio?


Godersela fino all'ultimo

Abbiamo aspettato così tante volte Richie Porte che a volte pareva farsi quasi beffa del nostro desiderio: lo attendevi e lui, puntualmente, mancava. Abbiamo imparato ad apprezzarlo, anche se all'inizio facevi fatica, lo trovavi strano, mentre poi c'era un altra grossa fetta di pubblico che semplicemente se ne fregava della sua presenza. Poi arrivò il Tour de France del 2020 con tutto il contorno, su cui oggi, tempi bui, preferiamo glissare una volta di più.
Arrivò quel Tour e qualcosa cambiò nella percezione: Porte partecipò andando incontro a uno sforzo enorme difficile da non considerare e persino complicato da comprendere. «Mancare alla nascita di un figlio è il sacrificio più grande che possa immaginare, ma sono altrettanto sicuro di poterlo e volerlo fare: sarò pronto per il Tour de France» raccontò alla vigilia.
Molti si chiesero come fosse possibile, se potesse davvero valerne la pena. Lui rispose conquistando il podio dopo averlo inseguito per un decennio fatto, spesso, perlopiù di delusioni. Rispose presente sul podio finale all'ammonimento di sua moglie in dolce attesa: «Farai meglio a non farti vedere col broncio in fondo al gruppo». Quella foto con l'Arc de Triomphe sullo sfondo, lui lassù insieme agli sloveni, fu come una liberazione.
Lo abbiamo imparato a conoscere in quella fuga bidone al Giro 2010 quando si andava verso L'Aquila, giornata tremenda, vinse Petrov e Porte andò persino in Rosa chiudendo 7° nella classifica finale. Lo abbiamo conosciuto semplicemente come "il tasmaniano"; gli abbiamo visto buttare via corse per le cadute, ma anche gli orbi erano a conoscenza di un talento che, nelle brevi corse a tappe, si trasformava spesso in qualcosa di più concreto.
Il 2022 segnerà le ultime pedalate in sella per Richie Porte, il tasmaniano, almeno per come ce lo siamo immaginati sempre noi, almeno per come se lo è immaginato sempre lui. Un buon contratto, duri allenamenti, programmare le corse, puntare al Tour e vincere brevi corse a tappe in serie; potenziometri e dieta, un numero da attaccare alla maglia, quell'amore sempre corrisposto dalla salita di Willunga Hill, in Australia, banalmente il suo feudo, quella salitella vinta per sei volte di fila, prima di una settima volta arrivata lo scorso anno.
Questi ultimi mesi Richie Porte ha ripercorso Willunga Hill, non era il Tour Down Under, ma era il Santos Festival of Cycling, corsa nazionale australiana che sostituiva per il secondo anno di seguito l'evento che abitualmente apre il calendario World Tour. Almeno in un mondo conosciuto prima della pandemia.
Se l'è goduta alla grande, come mai probabilmente fino a ora. «È stato emozionante per me - raccontava sorridente ai microfoni a fine gara con la maglia della selezione australiana - sono felice di essere tornato in gara qui per l'ultima volta, in un posto che mi ha visto diventare grande e dove ho pedalato per la prima volta 14 anni fa».
Se l'è goduta alla grande quella pedalata in mezzo a quelli che oggi sono il futuro del ciclismo australiano, lui che a guardarsi indietro è stato il passato e il presente del ciclismo oceanico. «Finalmente mi sono potuto rilassare godendo del pubblico sulle strade e ho visto anche un sacco di ragazzi australiani che pedalano forte: tra di loro sono convinto ci possa essere il nuovo Cadel Evans». E perché no, il nuovo Richie Porte.
Il nuovo Richie Porte, che non è poi così diverso dal vecchio Richie Porte, solo con qualche ruga in più e qualche migliaia di chilometri nelle gambe che non ne appesantiscono i desideri. «Al Tour ho fatto quello che dovevo fare e ora andrò al Giro, dove si è aperto un cerchio e dove si chiuderà. Ma senza assilli di nessun genere: l'unica cosa che la squadra mi ha chiesto è godermi il mio ultimo anno in gruppo. Sono contento perché questo era esattamente il mio piano a inizio stagione».
L'altro ieri lo abbiamo visto pedalare in tutta la sua essenza da Richie Porte, ritornato a vestire la maglia INEOS dopo una parentesi, quasi magica, in maglia Trek-Segafredo. Eccolo davanti in salita, nell'azione buona per andare al traguardo aiutando qualche suo compagno di squadra; poi lo abbiamo visto, pienamente in stile Richie Porte, incartapecorito giù per Colla Micheri, discesa da far venire i brividi anche al più spavaldo dei trapezisti.
Per il futuro, Richie Porte pare abbia intenzione di portare la sua esperienza ai giovani australiani, ha già preso sotto la sua ala Plapp con cui si è allenato in Tasmania e pensa già a quello che sarà più avanti: «Fra dieci anni mentre guarderò il ciclismo in televisione potrò dire con orgoglio ai miei figli: guarda, quelli sono i ragazzi con cui ho corso in bicicletta». Ora basta, però, è tempo di godersela fino all'ultimo.


Siena declina l'attesa della Strade Bianche

Se non avessimo già saputo che questi, a Siena, sono giorni particolari, lo avremmo capito quando, scendendo da un treno giunto in stazione con diversi minuti di ritardo, un ragazzo, mentre fissavamo la sua bici con tanto di bagagli fissati alla bell'e meglio, ha detto a qualcuno lì vicino: «Manca sempre meno». Certo non ha parlato di Strade Bianche ma a cos'altro poteva riferirsi?
Il fatto è che Siena è una città in attesa e se ne accorgerebbe chiunque. C'è qualcosa di strano nell'aria: quel guardarsi in giro con aria di cercare un ciclista , un'ammiraglia o un bus. Nei bar del centro un signore ci dice che è un'attesa particolare perché si rinnova ogni anno. Non a caso la parola che usa è appuntamento: «Credo sia parte di ciò per cui gli altri ci conoscono. Una sorta di parola chiave per capire di che città stai parlando. Di Siena si possono dire tante cose, però, quando qualcuno sa che vieni da Siena di solito ti chiede: "E il Palio?". Dopo poco tempo, segue: "E la Strade Bianche?"». Ci dice che succede perché ogni anno, più o meno nella stessa data, le persone sanno cosa accadrà qui intorno.

L'attesa dicevamo. Quella per cui ci si volta attenti al passaggio di ogni bicicletta. In certi casi capisci lontano un miglio che non si tratta di ciclisti professionisti, ma meglio controllare, non si sa mai. Perché, poi, anche i ciclisti in queste vie del centro si comportano come un pedalatore qualunque. A tratti devono zigzagare tra la gente e allora senti “op-op-op-op" che è poi un modo internazionale di segnalare il proprio arrivo. Potrebbero dire qualcosa nella propria lingua, sarebbe intuitivo il significato, invece dicono così e qualcosa significherà. Succede spesso, succederà anche domani.

Ma non solo per questo i ciclisti sono come tutti gli altri. Un fruttivendolo racconta di quando tempo fa, qualcuno si fermò da lui a prendere qualche mela. Capiamo che non è appassionato di ciclismo, non ricorda il nome e nemmeno la squadra, ma ricorda benissimo di quelle mele «lasciate ai ciclisti della Strade Bianche». Come se queste persone avessero bisogno di sentirsi utili per i ciclisti che attraversano le loro città.

Aspettare ripetevamo. Come tutti coloro che si affacciano dai vari accessi di Piazza del Campo, danno un occhio e, se non scorgono nessuno, proseguono sulle strade a lato. Pensate il ciclismo cosa combina: si può anche aspettare a passare in Piazza del Campo per cercare qualcosa che ha a che vedere con la bicicletta. Anche se è presto, anche se non si può ancora vedere molto. Arrivano appassionati, lasciano la bicicletta appoggiata al muro, magari già sporca di terra e si siedono a bere una birra. Qualcuno parla in una lingua che non conosciamo ma ci suona familiare: qualche domanda e scopriamo che è fiammingo.

Ci sono sempre tutte le finestre che si affacciano e quei vetri da cui, ogni tanto, qualcuno guarda fuori e indugia, per esempio per quel signore con una bici d'epoca e un sigaro in bocca che intravediamo qualche secondo e poi scompare.

Per chi è in Piazza del Campo aspettare è aspettare un suono, un rumore, l'insieme delle voci «che quando c'è tanta gente non senti nemmeno la tua voce, puoi sgolarti come ad un concerto». Ci dicono così. L'attesa è diversa, ma neanche tanto, sugli sterrati, dove è un aereo nel cielo a far presagire l'arrivo del gruppo. Presagire sì, perché con quella terra che si alza avresti dei dubbi. Qualcuno ci dice che si aspetta "la nuvola" che altro non è se non l'insieme dei ciclisti.

L'appartenenza la senti quando ti dicono che sono andati a vedere qualche sterrato per intuirne le condizioni o quando li senti al bar parlare del tempo di sabato, quasi fossero loro a dover correre. Invece stanno solo aspettando. «Cos'è l'attesa?» chiediamo a una ragazza in tenuta da ciclista.
«Quella cosa per cui non vedi l'ora che arrivi la gara, ma, poi, ripensandoci speri serva ancora molto tempo perché, se arriva, finisce tutto». Questa è la voce del verbo aspettare in un giovedì pomeriggio, a Siena.


Le uniche guerre che possiamo comprendere

Una Milano Sanremo è una guerra di trincea: tutti fermi immobili fino al momento buono. Bisogna avere pazienza, cogliere l’attimo e sperare che basti: Una volta fuori dalla trincea, o la va o la spacca.

Una Parigi Roubaix è una battaglia campale di fanteria: un gran casino di fango e sangue. Tutti contro tutti al punto di non capire più chi combatte con chi. Fino a quando cala il silenzio e dal fango emerge il vincitore.

Una cronometro è una guerra lampo: partire forte, accelerare e finire in apnea, sperando che finisca il prima possibile. Altrimenti, se non finisce presto, finisce comunque in un altro modo.

Una gara Zwift è una guerra informatica: si combatte senza mai incontrarsi di persona. Però è piuttosto efficace a tagliarti le gambe in poco tempo, molto meno di una di quelle che si combattono “dal vivo”

Una gara di ultra-cycling è una guerra di logoramento. Tutto sta a procurarsi i rifornimenti ed essere gli ultimi a finire le energie. Gli ultimi a cui vien voglia di alzare bandiera bianca.

Ecco. Queste sono le uniche guerre che capiamo. Quelle in lycra, le uniche divise che possiamo tollerare. Quelle di Goodwood le uniche fucilate che vogliamo vedere (e rivedere all’infinito). Tutto il resto, nel 2022, semplicemente non dovrebbe esistere.


Kévin Vauquelin: un neopro sulla Montagna Verde

Se nel ciclismo esistesse il premio dedicato al corridore migliorato maggiormente (una sorta di "Most Improved Player" che assegnano nell'NBA, per dire), non avremmo alcun dubbio su chi puntare dopo questo primo mesetto di gare.
È bastata una manciata di chilometri, un pugno di corse, per farci sobbalzare dalla sedia. Al Tour of Oman, infatti, negli ordini d'arrivo delle ultime tre tappe è spuntata la sagoma di un giovane francese; è spuntato il nome di Kévin Vauquelin che ricorda "Voeckler" ma solo per l'assonanza del cognome. Classe 2001, buon talento, sicuramente, ma non di certo quel corridore che una volta passato professionista lascerebbe a bocca aperta gli osservatori, eppure...
Siamo a febbraio, qualcuno avvicina questo periodo dell'anno ciclistico al calcio d'agosto, quindi verità da prendere con le pinze, menzogne da smascherare, eppure...
Eppure quel Vauquelin in cima a Green Mountain è andato forte, stupendo e stupendosi. Non conosce ancora i suoi limiti, ma come potrebbe: «Ho corso pochissimo in montagna tra i dilettanti in Francia nelle ultime stagioni: sinceramente non pensavo di riuscire a ottenere risultati del genere tra i professionisti» ha raccontato a fine gara.
Normanno di Bayeux, Vauquelin; normanno, come quelli a cui piace attaccare col vento in faccia, che hanno indole da guerrafondai, che se potessero si porterebbero dietro la bandiera da pirata, una benda sull'occhio, un coltello nella tasca. Un normanno di vento in faccia se ne intende.
Forte soprattutto a cronometro: lo scorso anno campione nazionale under 23, due anni prima stesso titolo, ma tra gli juniores. Forte sul passo, vien da sé immaginarlo, valido o qualcosa in più anche quando l'aria viene incanalata nei velodromi: le sue azioni hanno il loro perché anche sul parquet dove ha conquistato medaglie mondiali a livello giovanile, ma è il suo passo in salita che ha meravigliato. Compreso se stesso e i suoi tecnici.
Da quando ha smesso di studiare si è messo in testa seriamente di fare il ciclista e lo fa da un paio di stagioni, per lui passare professionista non è un punto d'arrivo, «ma un primo passo verso quello che potrò diventare».
Sostiene (ma sarà vero?) che la “Montagna Verde” potrebbe aver favorito il suo rapporto peso potenza, con quei tratti che parevano un'autostrada in salita, pur con pendenze in doppia cifra: «Un tipo di salita da gestire un po' come si gestisce una cronometro» ha detto proprio così. Così come non ci sono alcun dubbi sulla partenza a cannone dell'Arkéa, complice pure la lotta per una manciata di punti tra alcune squadre con lo scopo di entrare o di restare nel World Tour. A fine stagione si rinnovano le licenze.
È vero tutto quello che volete, ma la parabola di Kévin Vauquelin è una di quelle da scoprire, per capire fino a dove porterà. Non un predestinato, ma intanto, sicuramente, fra le sorprese di questo inizio 2022.


Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco...

Diciamoci la verità: Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco. Sarebbe stato anche umano, troppo umano per dirla con Nietzsche. Non sono, invece, così umane quelle undici viti e quella placca che i medici usarono per sistemargli la gamba dopo l'incidente allo Stelvio, nel 2014, quando un gatto gli attraversò la strada in allenamento. Non sono umani tutti gli incidenti che ne hanno martoriato il corpo, spesso prima dei grandi appuntamenti, talvolta all'interno degli stessi. E nonostante tutto Pozzovivo è finito per ben sei volte fra i primi dieci del Giro d'Italia, per due volte quinto. Ha vinto a Lago Laceno, quella montagna sfuggita al Pirata nel 1998.

Quando Qhubeka ha annunciato la chiusura, Domenico Pozzovivo, senza, avrebbe potuto essere stanco, a trentanove anni, di tutto ciò che era già successo. Dei momenti di paura che il ciclismo gli ha lasciato addosso: al Giro d'Italia 2015, con quel volto sbattuto a terra, quegli attimi di terrore. Solo tre anni fa quando sembrava che un'auto in allenamento avesse messo fine a tutto. Persino lo scorso anno, quando ad Ascoli, al Giro d'Italia, si è dovuto fermare perché quelle ossa, quei muscoli, ne avevano già viste troppe e una caduta lo aveva ancora messo in ginocchio.

Avrebbe potuto e invece ha continuato ad allenarsi come se la squadra l'avesse e non era sicuro di trovarla. Sapeva solo che un ciclista vuole essere libero di concludere la carriera quando decide lui, uno sberleffo dritto in faccia alla sfortuna. Tempo fa, un tifoso ci disse che amava Pozzovivo perché "non sembra un ciclista". Abbiamo capito che parlava della sua semplicità, del suo essere sempre contento o del suo mostrarsi contento per poi risolvere da solo i problemi, anche quelli che sembrano troppo grossi. Come essere senza squadra a quasi quarant'anni.

Poi è arrivata l’Intermarché e Pozzovivo era pronto. A trentanove anni potrebbe ancora prendersi sulle spalle la squadra al Giro d'Italia. Non sono promesse vane, basta aver guardato la seconda tappa della Vuelta a Andalucia, quella vinta da Alessandro Covi davanti a Miguel Ángel López e Iván Ramiro Sosa, sul primo arrivo in salita. Domenico Pozzovivo "ha la gamba" come si dice in gergo. Ottavo, ottavo dopo l'inverno che ha trascorso, ottavo sul suo terreno. Aveva sempre detto di crederci, dopo quasi ogni incidente e anche dopo essere rimasto senza squadra. Ma dirlo è anche facile. Pozzovivo lo ha fatto e ieri è stato un antipasto, il cui significato si vede bene guardando indietro, per una volta. Quando Pozzovivo avrebbe potuto essere stanco, invece non lo era. Questo è il punto.