British Legacy

Una foto che assume diversi significati tra i quali l'ispirazione per chi inizia a correre, per chi sa che non deve mollare perché nella vita non si sa mai. Soprattutto quando inizi a fare qualche sport e magari chiudi gli occhi e ti immagini un giorno sul podio dei Giochi Olimpici.

Una foto che pare raccogliere direttamente l'eredità su pista dei Clancy, Wiggins, Thomas, Cavendish, eccetera.

Una foto che ritrae il podio della madison agli "School Games" inglesi del 2014. Li avrete anche riconosciuti (uno di loro sicuramente): i quattro ragazzi al centro (qui poco più che quindicenni) corrono nel World Tour, ma non solo. Tre di questi escono da Tokyo dopo aver conquistato titoli e medaglie. Sapete chi sono?

Togliendo il primo e l'ultimo, non sappiamo chi siano, da sinistra ecco Matthew Walls, BORA-hansgrohe, ventitré anni. A Tokyo oro nell'omnium e argento nella madison. Ma su strada si è già fatto notare, veloce e resistente: sì farà, ha le doti giuste.

Di fianco a lui: Ethan Hayter, INEOS Grenadiers. Ventitré anni li compirà fra qualche settimana e lui tra i giovani britannici è sempre stato ritenuto quello più interessante. Un predestinato, secondo la stampa di casa sua. Nel 2019 il Telegraph lo inserì tra gli otto profili da seguire - tra tutti gli sport - in vista di Tokyo.

Torna a casa con l'argento - conquistato in coppia proprio con Walls - e su di lui un certo Ed Clancy, leggenda della pista mondiale, disse, dopo che i due condivisero l'oro nell'inseguimento a squadre nella rassegna iridata del 2019, «A vederlo non sembra sia così giovane. Ha fatto due giri e mezzo in testa e ci ha strapazzati. È un po' come il prescelto, the choosen one. Tempo fa stavo guardando Matrix e ripensandoci mi sono sentito un po’ come Morpheus quando incontra Neo». Insomma, non stiamo nemmeno ad elencare quanto ha già vinto su strada Hayter, nelle categorie giovanili, possiamo immaginare quanto potrà vincere tra i professionisti - e in realtà ha già cominciato.

Scorrendo, sempre verso destra: Fred Wright. Lui forse è quello che, anche per caratteristiche, fatica di più a emergere, ma di questi è l'unico ad esempio, che ha già corso il Tour. Traguardo non di poco conto.

L'ultimo è il più conosciuto e riconoscibile, non serve nemmeno fare il suo nome. Del suo già noto palmarès non serve dire altro. Del suo potenziale, di quanto va forte e andrà ancora più forte nemmeno. Di quanto è piccolo rispetto ai suoi compagni di viaggio lo si vede a occhio.

Un foto che è passato, che è futuro e che per loro rappresenta un luminoso presente. L'eredità inglese si è fatta ingombrante: spalle larghe, talento, un insegnamento a crederci. Da una medaglia ai Giochi Scolastici a una ai Giochi Olimpici. Sembra un sogno di ragazzi, non lo è.


Sempre Peter Sagan

Trentuno anni, più di cento vittorie in carriera: pare siano 118, ma quando superi il centinaio, fa lo stesso, dicono.
Trentadue anni quando vestirà ufficialmente la maglia dei francesi del Team TotalEnergies che dà fondo al budget per fare suo uno dei corridori che ha cambiato, o almeno ha provato a farlo, il modo di intendere il ciclismo.
Di tanto in tanto sopra le righe, spesso spettacolare, sempre sorridente. Atteso, a volte fuori luogo, ma tifatissimo. Mangia caramelle gommose a fine corsa, impenna in salita. Le sue esultanze piacciono al pubblico e fanno innervosire alcuni suoi colleghi.
Tre mondiali, un Fiandre, una Roubaix, due tappe al Giro, dodici al Tour, tre Gand Wevelgem, sette maglie verdi. Quando è venuto in Italia è sembrato una copia un po' sbiadita del Sagan amato per i suoi successi, eppure ha vinto, nel 2020 persino andando in fuga. Ma a noi sarebbe andato bene lo stesso, pure senza successi.
In Francia, come impone la tradizione di alcuni grandi capitani del ciclismo, si porterà dietro i fedelissimi: il fratello Jurai, Bodnar e Oss.
È vero, sembra ieri quando a 20 anni vinceva due tappe alla Parigi-Nizza, oggi inesorabilmente la sua parabola è discendente, ma resta sempre Peter Sagan, benedizione per il ciclismo, uno dei corridori più divertenti e amati dal pubblico. Comunque andrà la sua ricerca della vittoria con la sua nuova maglia, quello che ha fatto per il nostro sport non si scorda. Sempre alvento, sempre Peter Sagan.


Essere donna

Se si chiede a Laura Kenny come gestire una carriera impegnativa essendo madri, lei risponde che il segreto è di non farsi mai convincere a fare ciò che non si vorrebbe fare. «Devi tornare quando vuoi tu. All'inizio non volevo lasciare Albie e se non vuoi lasciare tuo figlio, non devi sentirti obbligata dalla società» ha detto in un'intervista. Ora Albie ha quasi quattro anni e lei, stamani, a Tokyo ha fatto segnare il secondo tempo nell'inseguimento a squadre con la Gran Bretagna. Kenny alle Olimpiadi ha vinto l'oro in ogni gara a cui ha partecipato e punta a ripetersi per un record storico.

«Non penso al record - spiega a Velonews - ma a fare il mio dovere e a vincere. Ho sempre fatto così». Kenny, parlando di se stessa, parla di tutte le donne con famiglia: per fare bene in sella, o in qualunque lavoro, alle donne serva fiducia, cosa che spesso manca. Lei con quella fiducia rompe gli schemi. «L'inseguimento a squadre è la disciplina a cui come Gran Bretagna ci dedichiamo di più. Perché non facciamo lo stesso con le altre?». Il cambiamento è avvenuto grazie a Monica Greenwood, la nuova allenatrice.

Laura Kenny ha iniziato ad andare in bici con sua madre che voleva perdere peso e a suo figlio Albie non ha mai chiesto nulla del ciclismo: vuole solo che abbia ricordi felici dell'infanzia come li ha lei. Ha rischiato di non essere a Tokyo, e domani, comunque vada, farà un altro passo nella storia di questo sport.


Il sogno di Bethany

Mamma Kate si è svegliata alle 2 di venerdì mattina e con lei tutti gli abitanti di Finchingfield, Essex, sud est dell'Inghilterra. Hanno urlato verso la tv: «Continua a pedalare! Continua a pedalare!»
La piccola comunità inglese si è svegliata alle 2 di mattina per vederla agitare le gambe, assecondare dossi, prendere rischi assurdi, pennellare paraboliche sulla BMX, sport che ancora cerca il suo spazio all'interno del vasto mondo delle due ruote: spettacolare, adrenalinico, scenografico, che fa storcere un po' il naso ai puristi della fatica, ma acquisisce piena visibilità in mezzo al programma olimpico.
Bethany "Beth" Shriever ha fatto la storia delle due ruote in Gran Bretagna, letteralmente impazzita per la ventiduenne ex assistente insegnante in una scuola elementare, che, per realizzare il sogno di essere a Tokyo, qualche anno fa ha dato il via a un crowdfunding per allenarsi e gareggiare.
La federazione britannica, dopo Rio, aveva rifiutato di finanziare il progetto legato alla BMX femminile: avrebbe supportato solo quella maschile. Non ha mai mollato Shriever, nonostante le difficoltà per l'assurdità della vicenda, nonostante fosse l'unica ragazza in squadra, nonostante gli infortuni, nonostante la pandemia che negli ultimi 18 mesi le ha impedito di gareggiare. Nonostante l'ansia crescente a casa dopo che suo padre Paul aveva perso il lavoro.
L'obiettivo era arrivare a Tokyo e in questo la British Cycling solo nelle ultime stagioni ha aiutato Beth, che a 9 anni si innamorò follemente delle BMX. A patto però di mollare tutto e trasferirsi a Manchester: e lei lo ha fatto. Dopo che per quasi sette anni si è dovuta arrangiare da sola e con l'aiuto di mamma Kate e papà Paul.
L'obiettivo, a Tokyo, era andare avanti ma senza grandi obiettivi: turno dopo turno è arrivata la consapevolezza di vivere una favola. Beth capisce di trovarsi sempre più a suo agio in pista, vincendo le tre manche di semifinale, e strabiliando nei 45'' della finale per l'oro, in un testa a testa con la leggenda Pajon: un arrivo da vedere e rivedere.
«Sono letteralmente devastata. Sono sotto shock» racconta Bethany stramazzata a terra alla fine della corsa vinta.
«Non so cosa succederà quando rientrerò a casa» conclude, incredula, mentre sua madre: «Quello che ha fatto Beth ha dato un significato a momenti terribili, ma vuol dire che chiunque può crederci, chiunque, lottando, può inseguire il proprio sogno».
Pochi minuti prima, la Gran Bretagna, sempre nella BMX conquistava l'argento con Kye White, nella prova maschile, che al termine della gara vinta dalla compagna di squadra, si lanciava in pista per sollevarla da terra e portarla in trionfo tra le sue braccia. «Più che per la mia medaglia, sono commosso per Beth. So quello che ha fatto, i suoi sacrifici, lo stress che stava vivendo in questi giorni. Dopo le prime prove sono andato da lei che piangeva e le ho detto: Beth, non temere nulla, stai andando forte». Così forte da ritrovarsi campionessa olimpica.


Baffi, record, sterrati, ovvero Ashton Lambie

Dietro i baffoni a manubrio che gli danno un tono stile inizio '900, si nasconde la storia di uno dei più incredibili personaggi del ciclismo mondiale: Ashton Lambie. Prima di iniziare a sfidare Filippo Ganna su pista, correva nella scena gravel – e in realtà lo fa ancora.
«Il momento più duro della mia vita?» racconta in un'intervista a Bicycling.com «la Dirty Kanza del 2016». Solo, con il deragliatore rotto, distrutto dal caldo, arrivò a un passo dal ritiro. Concluse la corsa al sesto posto dopo aver telefonato alla moglie che lo convinse a non mollare.
Insieme alla moglie, insegnante di musica, vive in una fattoria nell'Arkansas; ha un dottorato in musica, suona il pianoforte e la fisarmonica, mette mano ai motori di auto e camion, ha una piccola segheria dove crea mobili e oggetti di ogni genere. A casa sua girano per le stanze due conigli d'angora: si chiamano Jacques e Marie.
Gravel, velodromi ma anche grass track. «La prima volta che ha visto una pista d'erba, ha preso in prestito una bici e ha stracciato tutti», raccontano, come fosse una leggenda, una storia di quel Tolkien che lui ama alla follia, tanto da ascoltare continuamente l'audiolibro del Signore degli Anelli nei suoi interminabili viaggi in bici.
Nel 2019 si è spezzato il suo sogno olimpico. Inizialmente non sapeva nemmeno cosa fosse il sogno olimpico. Ma gara dopo gara cresceva l'affiatamento e la voglia di trascinare il Team Usa dell'inseguimento verso Tokyo. Perso l'ultimo posto disponibile, superati dal quartetto svizzero, il giorno dopo quella gara di coppa del mondo in Scozia, Lambie prese la bici e organizzò un giro da Glasgow a Edimburgo.
Ma non è solo estro o racconto a metà tra realtà e finzione, Lambie è anche forza: un giorno in una gara a eliminazione su pista scattò al primo giro e doppiò tutti. Ha sfidato, perdendo, Filippo Ganna; ha fatto segnare il record del mondo dell'inseguimento, venendo poi superato nuovamente dall'italiano. La voglia di inseguirsi e acchiapparsi si evolve anche a distanza. Ha lanciato un programma di bike sharing, chiamato Bronco Bikes, e nel 2015 ha percorso, in Kansas, 400 miglia in 23 ore e 53 minuti.
Pochi giorni fa sui social ha svelato la sua nuova sfida: «Il 6 maggio 1954, Roger Bannister ha corso il miglio in meno di 4 minuti. Un'impresa che molti pensavano impossibile per decenni prima del suo tentativo. Ha resettato l'asticella nel mondo della corsa a piedi. Il 18 agosto 2021 cercherò di rompere la stessa barriera nel ciclismo su pista percorrendo 4 chilometri in meno di 4 minuti. Negli ultimi anni abbiamo costantemente abbassato il record mondiale di inseguimento, rendendo la barriera dei 4 minuti non un sogno, ma un fatto inevitabile». Un sognatore concreto si nasconde dietro quei baffi e gli intensi occhi azzurri. Lambie, carismatico pedalatore d'eccellenza a caccia di imprese.


Sveglia presto, ricordi ed epiloghi azzurri

Mentirei se dicessi di avere un ricordo nitido e preciso della prima edizione dei Giochi vista: Seul '88. Chiudo gli occhi e vedo Gelindo Bordin che taglia il traguardo con il fisico come in preda a degli spasmi di fatica, si china, con una faccia che sembra un santo, e bacia per terra. Era mattina prestissimo, era la maratona. Gelindo Bordin che poi, scherzo del (mio) destino da appassionato, è cugino di Marco Canola vincitore di una tappa al Giro nel 2014.
Mi faccio più serio se ripenso invece al ciclismo olimpico: Barcelona '92, ricordo vivissimo di quel 2 agosto e della vittoria di Fabio Casartelli, così come è impossibile dimenticare Richard, Ullrich, Bettini, Sanchez, Vinokurov, Van Avermaet: ogni vittoria ben caratterizzata dai percorsi, dall'atmosfera, e dal fascino della frittura globale e totale dei Giochi.
Fascino. Ecco forse la parola che racchiude le settimane olimpiche e che stanotte (o mattina dipende dall'orologio biologico di ognuno) ci spingerà alla sveglia presto per vedere la prova in linea. Fascino dei Giochi: dove contano le medaglie, persino un terzo posto verrebbe accolto con entusiasmo. Fascino di un percorso che sale verso il Monte Fuji, roba da cartolina, poi sale verso il Mikuni Pass, roba da spaccarti le gambe, e arriva in autodromo. Fascino nel vestire la maglia della propria nazionale. Di sapere di avere a casa gente che magari non sa nemmeno chi sei, ma per una volta fa il tifo anche per te.
Imprevedibilità è il tormentone. Una corsa impossibile da leggere: farà caldo, ma soprattutto umido, ma è prevista anche pioggia e forse vento. Il percorso è duro, e nel ciclismo del 2021 non è che premia gli scalatori, premia corridori completi, da grandi giri (Pogačar e Roglič nomi ricorrenti), oppure quel fuoriclasse che è van Aert, che è un po' tutto. Ho provato a mettere assieme qualche nome e ne verrebbero fuori una trentina: sloveni, belgi, olandesi, francesi, spagnoli, canadesi, svizzeri, danesi, tedeschi, polacchi, sudamericani. Scegliete voi chi vi aggrada di più.
E mentiremmo tutti se dicessimo di non essere emozionati al pensiero della gara di domani. Sveglia puntata alle 4, e via. Colazione olimpica. Una volta ogni tanto si può, si deve, come quella volta a Seul, magari con un epilogo (azzurro) stile Barcelona o Atene.


Dietro le quinte

«Nella durezza di questi momenti, trovo sempre un aspetto positivo. Ogni esperienza è un tassello che aggiungo al mio bagaglio perché non dimentico mai quanto ho spinto per arrivare in cima, ma è restarci la sfida quotidiana».
Jacopo Mosca, qualche settimana fa durante il campionato italiano a cronometro, è caduto rovinosamente a oltre settanta chilometri all'ora. In quest'intervista https://racing.trekbikes.com/.../the-extraordinary..., il dottore che lo sta curando, e lo stesso Mosca, raccontano le difficoltà per via delle numerose fratture, uno pneumotorace, un'infezione, le notti insonni preoccupato per il suo futuro agonistico.
Oggi, Mosca, testardo, come ama definirsi lui, cerca di recuperare, la stagione è ormai andata, ma lui si concentra sul 2022.
Perché parliamo di Jacopo Mosca? Perché la sua carriera da corridore è un inno alla resistenza, simbolo della perseveranza. Perché nonostante i buoni risultati qualche stagione fa sembrava tagliato fuori dal professionismo «La Wilier mi lasciò a casa e quando ci ripenso, sono ancora perplesso. Mi è stato detto che non avevo le capacità per essere un corridore professionista».
Poi, dopo essere sceso nel circuito Continental, arrivò una chiamata per sostituire Irizar, ritiratosi dall'attività agonistica, e da lì la Trek-Segafredo sembra non possa più fare a meno del suo fedele servizio. «Ci sono pochi corridori seri e affidabili come lui: ce lo teniamo stretto», racconta Guercilena, il Team Manager della squadra italo americana.
Perché dietro i successi dei capitani, c'è sempre un uomo, prima ancora che un corridore e Jacopo Mosca è uno di quelli che non si stanca mai di tirare per sé e per gli altri.
Robusto: esaltazione della consistenza; il suo è un modo per far percepire come, nel ciclismo, per vincere, servano anche grandi lavoratori dietro le quinte, non comparse.
Coloro che caratterizzano una storia, portano borracce, tirano il gruppo, spingono in fuga e se hanno un compagno con loro, allora in quella fuga si dedicheranno agli altri.
Sempre una parola di conforto, un po' di watt a disposizione del prossimo. Così fanno quelli come Jacopo Mosca, che vanno benino ovunque, ma non così forte da togliersi soddisfazioni personali. «Me la cavo ovunque - ci raccontò tempo fa - ma sia in salita che in volata trovo sempre qualcuno più forte di me». Che vada forte o piano, non interessa, oggi Mosca lotta per riprendersi il suo posto.


Il momento più bello

Forse il momento più bello ieri Filippo Baroncini lo ha regalato nell'intervista alla fine della tappa vinta, in un franco-romagnolo disinvolto, a tratti neorealista: "Nu speron de portè an italì la maion gion".
Invece, parlando sul serio: Baroncini ha fatto un numero d'alta scuola nella seconda semitappa dell'Étoile d'Or, in Francia, terza prova della Coppa delle Nazioni, categoria Under 23.
È partito a poco più di 10 km dall'arrivo, il ragazzo della Colpack classe 2000, che per l'occorrenza sta vestendo la maglia azzurra. Azione devastante, accelerazione fulminea con la quale si è scrollato di ruota tutti gli avversari. In un momento di esaltazione di diversi talenti internazionali, oggi fateci celebrare un talento italiano.
Sta coronando un periodo sopra le righe, Baroncini: tappa a cronometro al Giro Under 23, campionato italiano a cronometro, e ora vittoria di spessore in Francia battendo rivali di un certo lignaggio. In mezzo a questi successi, il contratto firmato con la Trek-Segafredo per il 2022 e l'amarezza per il quarto posto nell'ultima tappa del Giro - se qualcuno si aggirava nei pressi dell'arrivo, quel giorno, forse se si concentra può ancora sentire le sue imprecazioni.
Emerso definitivamente sul finire del 2020, Baroncini è un corridore versatile, longilineo e dallo stile impeccabile in sella. Forte a cronometro, veloce negli sprint ristretti, capace in questo momento di gamba superba di staccare di ruota i suoi avversari sugli strappi brevi. Ora, se Amadori lo convocherà (altrimenti il ritornello sarà: "Amadori: convocaci Baroncini" ) per i prossimi appuntamenti con la nazionale - Avenir, Europeo e Mondiale - il quasi ventunenne ha l'occasione di continuare a farci divertire, in corsa e, con la sua spontanea spavalderia, anche nel dopo corsa.


La giusta ispirazione

A volte bisogna osare e rischiare per provare a tirar fuori quel risultato che può anche cambiarti la carriera. Sui pullman, a poche ore da una tappa, si studiano tattiche di gara e punti strategici insieme ai direttori sportivi.
Spesso, però, è la strada a dettare i ritmi, a ispirarti. Alessandro Verre, giovane corridore della Colpack, ha avuto 110 chilometri per provare a vincere la prima frazione del Giro della Valle d’Aosta. Ha avuto tantissime salite e strappi, un’ascesa a Terreblanche di Pollein (alle porte di Aosta) che è stata sconsigliata alla maggior parte delle macchine e pure alle moto, tanto è ripida, stretta e con curve chiuse, per provare l’attacco.
La sua testa e le sue gambe hanno invece dato l’impulso decisivo in una rampa verticale a 5 chilometri dal traguardo, lunga sì e no 200 metri. Poca roba, in confronto a quanto affrontato fino a quel momento. Duecento metri decisivi per l’italiano, fatali per il neozelandese Thompson (La Conti Groupama-FDJ) che aveva provato l’allungo in solitaria prima su Terreblanche, poi su Les Fleurs.
Questione di testa e di tante gambe, dopo una frazione breve ma tosta, in cui non c’è stato un secondo per rifiatare. Lo spiega sul traguardo proprio Verre, appena dopo aver indossato la maglia gialla di leader ed essersi preso la prima vittoria internazionale.
«Se non hai gambe, al Valle d’Aosta non ti inventi nulla. E io nel finale ho sentito di avere le giuste energie». E pensare che a inizio tappa ha pure rischiato di staccarsi subito dal gruppo principale e di finire in fondo, a fare uno slalom tra le ammiraglie. Cosa successa a moltissimi corridori, in una gara che fin dai primi chilometri è stata caratterizzata da scatti e da un gruppo prima sempre più allungato e poi frazionato.
Tanto che dei 140 partenti una ventina sono finiti fuori tempo massimo già dopo la prima giornata. D’altronde si sa, il Valle d’Aosta appare disegnato su misura su corridori che hanno motore e che cercano un posto al sole e un contratto da professionista. Lo ha spiegato anche Alessandro Verre, uno che ha chiuso sesto il Giro under 23 e che cercava una riconferma non scontata, soprattutto dopo il suo avvio. A volte però, serve ascoltare il proprio istinto e provarci. Oggi sul tappone avrà il peso del leader, ma sarà un altro giorno. E si ripartirà quasi da zero.


Un bolide in attesa: intervista a Filippo Ganna

Fuori auto parcheggiate in battuta di sole. Caldo soffocante. Dentro una bici blu che poi è un bolide. Qualche sedia e un buffet. Si suda: naturale quando è il primo giorno d'estate, anche se c'è un leggero accenno di aria condizionata. Arriva Ganna e l'attesa diventa entusiasmo. Domande e foto. Verrebbe da definirlo teso, ma forse è calma, e intanto lui, qualsiasi cosa sia quella sensazione, la smorza sorridendo e lasciandosi andare a qualche battuta.
Verrebbe da definirlo tirato a lucido ma dice di non essere al massimo: «Dopo il Giro ho staccato un po'. È necessario per stare sempre sul pezzo» ci racconta.
Faccia da studente universitario fuori corso, lui più che studente potrebbe salire in cattedra, ma non diteglielo, spegnerebbe subito quell'idea soffiando sul fuoco. «C'è gente che arriva e si afferma subito. Poi però le loro carriere durano un attimo. Io non sono un pacco Prime: devo lavorare sodo per vincere. Sono cresciuto gradualmente in questi cinque anni per rincorrere i miei sogni, le mie vittorie».

A Tokyo non ci pensa, dice, non è il momento. È fatto così, anche se in gruppo lo vedi grande e grosso come non avesse timore di nulla, quando ce lo hai vicino è un ragazzo con occhiali da vista, un po' di barba di quella che cresce sui volti dei più giovani. È in maglietta e pantaloncini. «Sto ancora sudando dalla gara di ieri del campionato italiano. Deluso per la crono? Nemmeno un po'. Sapevo che quello era il mio attuale livello: ho fatto un lavoro di carico per essere pronto più avanti».

Più avanti, ma quando? Tokyo è l'obiettivo, la maglia azzurra un prestigio, pensare alle medaglie un privilegio. Ogni volta che si corre per la nazionale è una spinta in più. Un senso a tutti i sacrifici. Ogni volta come la prima volta, anche se hai conquistato cinque titoli mondiali. «La maglia azzurra che indosseremo a Tokyo ce l'ho già a casa, la volevo in anteprima. Per me è il significato di una carriera: curata nei minimi particolari, la cerniera col tricolore, la scritta in oro».
Diplomatico, dice di non dare troppo peso, al momento, a quel che sarà in Giappone: «Se stessi qui a pensare a ogni gara l'attesa mi mangerebbe e invece così gestisco le pressioni. Vado a Tokyo pensando che sarà una gara come un'altra. Certo, mica per portare un numero sulla maglia, ma consapevole di aver programmato tutto per il meglio. Magari solo alla partenza mi renderò conto di dove sono e di cosa potrò realizzare».

Quando racconti un corridore con l'attitudine alla vittoria, ti ritrovi a esaltare il gesto e magari a dare per scontato i suoi successi, ma ai Giochi Ganna avrà di che lottare. Con se stesso: dovrà resettarsi dalla cronometro all'inseguimento a squadre. Il tempo sarà amico-nemico. «I miei compagni dell'inseguimento vanno forte – racconta con un sorriso – mi hanno messo in difficoltà: sono io a dovermi adattare a loro. Alla medaglia non ci penso, intanto rompiamo il ghiaccio con la cronometro: mentalmente e atleticamente non è semplice passare da un tipo di sforzo all'altro. Anche dal punto di vista ambientale: due situazioni completamente differenti da gestire. Su strada hai il paesaggio che muta continuamente e la gente intorno, su pista hai gli spettatori, lo sguardo a terra e vedi legno su legno».

Contro gli altri: favoriti nel velodromo che ospiterà la gara olimpica «le furie rosse danesi», mentre non vuole fare nomi per la crono. «Van Aert, Evenepoel, Dennis, Dumoulin? Tutti quelli che partono sono in corsa per le medaglie».

Spiega come non ci sia un vero segreto per il successo al Giro, ma semmai ha ben chiaro qual è stato il suo ruolo: «Il mio vero obiettivo non erano le cronometro. Lo scopo di tutto era tenere alto il morale. Negli anni, maturando, mi sono accorto di avere grande capacità di fare gruppo. L'importante era stare vicini a Bernal in ogni situazione per smorzare la tensione: immaginatevi le difficoltà nell'essere sul pezzo tre settimane e giocarsi un Giro».
E la chiosa, leggera, arriva proprio sui suoi capitani: «Thomas mi ha scritto dopo la partita con il Galles: “D'altra parte, l'Italia ha stile”. Bernal invece è come un fratellino più piccolo, anche se poi alla fine vince sempre lui».

Filippo ora appare più disteso, finite le interviste, il sole fuori resta alto e le auto sembrano prendere fuoco. La sua bici, in esposizione, viene portata via. Sul tavolo qualche bottiglietta d'acqua. Firma un paio di autografi, si cambia la maglietta per una foto di gruppo, ancora sorridente, allentando la pressione di una giornata dedicata a media e sponsor. Sale in auto e si allontana. Mentre Tokyo, a migliaia di chilometri da qui, ogni giorno è sempre più vicina.

Foto: Paolo Penni Martelli