Il Lombardia: colori e bolle di sapone
Dipende da che parti guardi.
Il Lombardia, intendo.
Vado a spiegare.
Dall’alto, a volo di drone, vedi tutto più ampio, ma appiattito.
Partenza da quel ramo sul lago di Como. Arrivo a Bergamo, vicino le Mure veneziane e non bergamasche perché - se ve lo state chiedendo - nel ‘500 la città apparteneva a quella Repubblica.
È la Classica Monumento con più dislivello. Un su e giù di 4.400 metri spalmati in oltre 200 km e
6 ore di fatica. Roba per tipi tosti, roba da Pro, insomma.
Dall’alto, dicevamo, tutta la fatica si azzera, ma ti perdi i dettagli.
Dei colori rinunci alle sfumature.
Se sei più vicino, fra il pubblico nell’ultima grande salita - il Passo di Ganda - noti un sacco di cose. Sfiori un sacco di storie.
Voglio dire: uno spettacolo nello spettacolo.
Pubblico da Sanremo - non quello del festival - certo di assistere a un grande show, perché prima di vederle, certe gare, le senti.
Come la carrellata di un film vedi una famiglia tedesca in camper - con bassotto al seguito - e bambino nel passeggino che dorme nonostante il frastuono.
Poco importa se erano lì per caso, i tedeschi, perché sprizzeranno entusiasmo come tutti gli altri al passaggio dei corridori.
Poi noti un anziano, bastone e cappellino, che con la testa vorrebbe rivedere Coppi - che il Lombardia lo vinse 5 volte - e con il resto del corpo corrergli dietro.
Lui che appartiene a quel tempo in cui le corse partivano piano e il mondo era più lento.
C’è anche un ragazzino dietro una montatura spessa, occhi da Bamby e sorriso da Alladin, ma con l’apparecchio. Cartello in mano con richiesta di borraccia, cimelio impossibile da ricevere in quel tratto di strada. Sull’asfalto Merçi Pinot.
Accanto a lui un tipo smilzo, sguardo rapace, tale Edoardo detto Edooo.
Mangia unghie e pane e qualcosa.
Fà il mulettista, scopro. Di fianco la piacente fidanzata bionda innaturale, unghia fluo.
Complici, compartecipi.
E infine, quando meno te l’aspetti, ecco il miracolo.
Ester, di sette anni, quasi otto.
Dapprima tutta salti e piroette, poi ferma, immobile.
Apre un tubetto di plastica, soffia lentamente e crea bolle di sapone. Proprio lì, in quel posto!
Ti sembra di ascoltare l’eco del Big Bang, il sussurro dell’anima.
La nascita dello Stupore.
In breve, è stata una di quelle giornate che se ti chiedono a bruciapelo com’è andata dici una figata, anche se ci sono gare più importanti per cui esaltarsi.
La cronaca la conosciamo: macht con tre papabili e tu che non sai da che parte stare.
O fingi di non saperlo.
Il Messi della situazione è un certo Tadej Pogacar, dorsale numero 1. Il pifferaio magico sloveno che ipnotizza e tu lì a chiederti come fa’.
Sta di fatto che lui regala la confortante sensazione di vedere all’opera un virtuoso della bicicletta. Un giovane Mozart che fa gli sberleffi al mondo del ciclismo moderno con più leggerezza del compositore.
Parte in discesa dopo il Ganda e conquista la vittoria numero 17 in stagione, nonostante i crampi.
Il Jumbo Jet Roglic non vola come al Giro e arriva terzo a 52” dal vincitore.
Infine il terzo favorito Evenepoel che vola a terra a inizio gara e finisce nono.
Secondo arrivato? Andrea Bagioli, colpo di reni e un italiano fra i grandi!
Comunque, sarà per via di quel nome, la classica delle foglie morte, ma al termine della gara, è rimasto un non-so-cosa dentro. Una specie di malinconia da fine calendario World Tour.
Il giorno successivo in scena gli amatori nel loro completino ultimo grido e pancetta ultimo chilo.
Appena 109 km di imitazione e prima salita dopo soli 22, il Muro di Sormano.
Una mulattiera, un’enorme V al contrario, che ti arriva addosso. Un muro, appunto.
Sogneranno di pedalare fra due ali di folla per volare via dalla routine.
Sogneranno di volare via.
Come bolle di sapone.
Come quelle di Ester.
Impronte che svaniscono nel cielo.
Foto: Sprint Cycling Agency
Dugnad, renne, corridori e sorrisi: la magia di un viaggio in Norvegia
Racconto e foto di Federico Guido
18 agosto 2017. Dopo aver trascorso le ultime ore più per aria, tra decolli e atterraggi, che coi piedi sulla terraferma, col terzo volo di giornata atterriamo delicatamente sulla pista dell’aeroporto di Tromsø, località dalla quale, stando al programma dell’agenzia di viaggio, inizieranno i nostri nove giorni alla scoperta delle Isole Lofoten e del Finnmark. Nell’attesa di espletare le solite pratiche burocratiche per il ritiro delle auto a noleggio, decido di fare due passi fuori dall’aeroporto dove, subito dopo il contorno definito dei monti e l’azzurro acceso del cielo, il mio sguardo viene attirato da un cartello giallo con una grossa freccia nera al centro appeso a un palo a qualche decina di metri da me. Un presentimento mi dice di averne già visti di simili da qualche parte e, avvicinandomi di qualche passo, i miei sospetti vengono confermati: è uno dei classici cartelli direzionali che gli organizzatori delle corse di ciclismo dispongono lungo il tragitto per indicare la via a corridori e mezzi al seguito. Incuriosito, decido di coprire la distanza che mi separa dal parallelepipedo di cartone e poco dopo, mettendo a fuoco l’inequivocabile dicitura riportatavi, diventa chiaro per quale manifestazione fosse stato sistemato lì quel cartello: Arctic Race of Norway. Senza che lo abbia chiesto, la mia memoria si affretta a riaprire un paio di files e, in men che non si dica, mi proietta davanti agli occhi le immagini dell’azione vincente di Gianni Moscon dell’anno prima e quelle, molto più fresche, del transito del gruppo vicino ad un aeroporto che, alzando nuovamente gli occhi e sommando gli addendi, realizzo essere quello che mi ha permesso poco fa di sbarcare a 69° 40’ di latitudine Nord. “Che peccato”, penso tra me, “sarebbe stato entusiasmante capitare quassù con la corsa ancora nei paraggi: chissà che spettacolo dev’essere seguire per più giorni un evento simile in un contesto ambientale del genere, così esigente e affascinante...”.
17 agosto 2023. Sto atterrando ad Alta e, mentre vengo rapito dalle chiazze cristalline dell’acqua nel fiordo sottostante, quell’episodio riaffiora nella mia testa. Sei anni dopo, l’interrogativo che mi ero posto fuori dall’aeroporto di Tromsø sta per trovare risposta. Alta, infatti, è sede del traguardo della prima tappa della decima, storica edizione dell’Arctic Race of Norway e da qui, per i prossimi tre giorni, partirò per toccare con mano l’atmosfera dell’evento, capire dal vivo dove risieda il suo fascino e, più in generale, assorbire appieno tutto ciò che questo potrà regalarmi.
22 agosto 2023. Quella del plateau di Sennalandet, passaggio obbligato per raggiungere via terra le isole di Kvaløya e Magerøya e, volendo, spingersi anche più in là verso Vadsø, Vardø e Kirkenes ai confini nord-occidentali della Norvegia, è una vastità che incanta, aspra, immobile, silenziosa, una vastità che lascia senza parole e che viene naturale, quando si transita da queste parti, riempire in qualche modo. Se gli occhi, da par loro, possono trovare occupazione contemplando gli spazi vuoti e cercando, ora a sinistra ora a destra, nuovi punti su cui fissarsi, la mente è inevitabile che prenda un’altra strada e inizi a vagare libera perdendosi tra riflessioni, istantanee e constatazioni di vario tipo. Le mie, tornando verso Alta, hanno tutte come oggetto quello che ho vissuto nelle giornate spese nella scia dell’Arctic Race of Norway, una manifestazione e un’esperienza che, per tutta la bellezza che mi è stata riversata negli occhi e nel cuore in 96 ore, non posso che definire che con un solo (ma abbastanza esemplificativo) termine: meravigliose. Meravigliosa è innanzitutto la cornice ambientale che, è proprio il caso di dirlo, ospita la corsa e non il contrario. Un esempio? Le numerose volte in cui ci siamo trovati a fermare l’auto di fronte al transito, isolato o in gruppo, sulla sede stradale dei tanti esemplari di renna che popolano questo angolo di Norvegia: sono loro qui, con il loro ritmo e le loro imprevedibili marce alla ricerca del miglior angolo in cui brucare, a dettar legge e a obbligare autisti e ciclisti ad adeguarsi prestando, sul mare, sulle montagne e a volte anche nei centri urbani, le attenzioni del caso.
Anche per questi incontri ravvicinati dell’animale tipo, si è portati a muoversi con rispetto e una leggera forma di timore all’interno di questo scenario che ti incanta, ti rapisce e ti stravolge a tal punto da farti dimenticare facilmente il motivo della tua presenza qui, ovvero una corsa di ciclismo. Percorrendo in lungo e in largo le strade del Finnmark nei giorni di gara, abbiamo visto giornalisti, soigneur, tifosi e persone dell’organizzazione non restare indifferenti di fronte agli spettacoli paesaggistici di quest’angolo di Norvegia e fermarsi per imprimere, nelle loro retine o nelle fotocamere dei loro cellulari, la bellezza di ciò che gli si parava davanti. Che si trattasse della sinuosità e dell’alternanza di spiagge sabbiose e ripide salite della Route 889, di altopiani brulli con le sembianze di passi alpini, del suggestivo avvicinamento a Nordkapp e dal susseguirsi di insenature e penisole attorno a esso, di un arcobaleno spuntato all’improvviso, di scogliere smussate dall’implacabile vento artico, di graziose e variopinte casette in legno dislocate nei punti più inospitali della costa, dell’odore di conifere miscelato all’aria salina del mare o semplicemente di quella natura rude e dai tratti quasi primordiali che non può non smuovere qualcosa dentro, in tanti tra corridori, addetti ai lavori e appassionati non hanno saputo resistere e sono rimasti stregati dal contesto scenografico in cui si è svolta l’ARN 2023 apprezzando oltremodo la scelta degli organizzatori di riportare la corsa in queste zone cinque anni dopo l’ultima volta.
Da Alta a Capo Nord, passando per Kvalsund e Hammerfest, ad impressionare positivamente tuttavia non sono stati solamente i panorami e le perle naturalistiche disseminate lungo il percorso di gara ma anche, se non soprattutto, il calore e la vicinanza espressi dalla gente del posto. Per quattro giorni, lungo le strade e i paesi interessati dal passaggio della corsa, abbiamo visto anziani, giovani, donne e intere famiglie mobilitarsi e spendersi nei modi più disparati per accogliere al meglio l’evento: c’era chi adornava con una sequela di bandierine il recinto di casa, chi dipingeva le proprie biciclette per poi disporle a bordo strada, chi costruiva simpatici fantocci, chi addobbava pali della luce e trattori con ruote e bici di seconda mano, chi offriva un (apprezzatissimo) bicchiere di caffe, chi organizzava balli, chi sorvegliava e incoraggiava i bambini nei piccoli circuiti cittadini allestiti appositamente per loro. Tale moltitudine di gesti e iniziative, sintomo di grande attaccamento all’evento, non poteva passare sottotraccia e, venendo dall’esterno, ci ha stupito a tal punto da chiedere in giro spiegazioni a riguardo. “È lo spirito del dugnad”, ci ha detto decisa una delle ragazze dello shop ufficiale della corsa ad Alta in attesa della conclusione della prima tappa. “Non è semplice da spiegare, è qualcosa di tipicamente norvegese: in pratica le persone si impegnano, su base volontaria, a fare qualcosa per il bene della comunità, in questo caso rendere una manifestazione sportiva ancora più grande di quello che è”. Da queste parole capisco, e capirò ancora di più una volta terminata la manifestazione, che l’Arctic Race rappresenta per le persone del posto “molto più che una semplice gara di ciclismo” (non a caso, uno degli slogan della corsa): sebbene a tutti gli effetti si tratti di un evento passeggero, anche se solo per qualche ora l’ARN è come se diventasse un gioiello di loro proprietà da lucidare, esibire e mettere in bella mostra, un diamante caduto sulla strada in grado di riflettere la bellezza del loro territorio, un prezioso da custodire con fierezza e contagioso entusiasmo. Un’autorevole conferma in questo senso ci è stata data, scendendo dalla ventosa collina di Havøysund (teatro della vittoria di Stephen Williams grazie alla quale il britannico della Israel-Premier Tech è andato poi a ipotecare il successo finale per 1” su Christian Scaroni), da Thor Hushovd, uno che, prima di diventarne ambassador, all’Arctic Race of Norway ha scritto pagine importanti. “Siamo in un posto in Europa e nel mondo dove non ci sono molti eventi sportivi” afferma il campione del mondo di Melbourne 2010. “Per questo, quando ne capita uno da queste parti, la gente se ne appropria e ne va molto orgogliosa. Il ragionamento che fanno è “Non possiamo dare per scontata la presenza di questo evento, dobbiamo dimostrare che la gara merita di venire da noi e quindi ce ne prenderemo cura”. Ecco perché si vedono le persone fare così tante cose”. Ed ecco perché chiunque, dai corridori ai ragazzi della carovana pubblicitaria fino a noi giornalisti, abbia incrociato anche fugacemente lo sguardo delle persone a bordo strada ha ricevuto sempre in cambio festosi saluti e, soprattutto, meravigliosi sorrisi, di quelli che ti rimangono dentro, che ti scaldano l’anima e che ti abbracciano, sorrisi che ti fanno venir voglia di contraccambiare con altrettanto calore e che portano a chiederti “Perché? Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo affetto?”.
A questa domanda purtroppo, come sempre accade quando ci si interroga sulla natura di gesti spontanei e genuini prodotti da quella sfuggente forza che è la sensibilità umana, non ho trovato risposta. A quella invece che mi ero fatto quel pomeriggio di sei anni fa fuori dall’aeroporto di Tromsø su come dovesse essere vivere en plein air e non davanti a uno schermo una corsa come l’ARN, ora posso rispondere usando sinteticamente un solo aggettivo. Sì, l’avrete capito, è proprio quello, lo stesso che può descrivere come sia stato vedere un’aquila di mare librarsi in cielo a pochi metri di distanza, sentire il ritmico tambureggiare dei tifosi sui cartelloni pubblicitari ad ogni arrivo di tappa, trovare conforto in un kanelbulle e un the caldo dopo esser stati presi letteralmente a schiaffi da raffiche taglienti, contemplare i giochi di luce al tramonto sugli irregolari profili delle isole di Måsøya e Hjelmsøya, osservare i corridori giungere e poi essere premiati a pochi metri dall’iconico Globo di Capo Nord con alle spalle nulla se non chilometri di grigio mare: semplicemente meraviglioso.
Attendere prego: sul Tourmalet ci sono loro
Diciamolo pure, la Vuelta sonnecchiava, annoiava, suscitava malumori.
Ci sono volute 13 stazioni di questa via crucis per assistere a una tappa degna di un grande Giro.
Com’è andata lo sappiamo.
Tappa breve, ma molto dura. Durissima.
In circa 135 chilometri quattromila metri di dislivello. Meno, se togliamo le discese.
Partenza in salita come antipasto e amaro Tourmalet per concludere. Si, quello.
Vetta a 2115 metri, dove la NASA nel ’63 vi installò un telescopio.
Non ha il fascino dello Stelvio né l’altitudine dell’Izoard, ma è pur sempre la montagna più pedalata, emblematica e attesa dai francesi e - quest’anno per la prima volta - dagli spagnoli.
Inconturnable, inevitabile, dicono quelli del Tour. Più numerosi e folli dei cugini iberici ai bordi dei suoi tornanti.
In principio era Remco.
Da lui si aspettava una gestione ottimale delle energie, una dimostrazione di forza congrua alla sua tracotanza giovanile. Ci si aspettava qualcosa per poter rosicchiare secondi e provare ad affondare o quanto meno ad aprire una falla, nella corazzata Jumbo.
Ci si aspettava che la mina vagante belga esplodesse.
Troppe aspettative.
All’arrivo avrà un distacco di 27 minuti pieni.
Qualcuno un giorno si renderà conto che per essere un campione servono muscoli, fiato, programmazione e testa. Queste ultime due in evidente dipendenza reciproca.
Remco Evenepoel è giovane. Per fortuna. Purtroppo.
Quindi il suo no comment ai giornalisti nel dopo gara ci sta.
Per lui si è mosso anche il capobranco e patron della squadra Patrick Lefevere per capire cosa è successo al cucciolo di lupo. Ma questa non è certo una news.
Dall’altra parte quelli in giallo. Los tre caballeros, i tre moschettieri, i tre tenori di questa tournée spagnola.
Chiamateli come vi pare, ma sicuramente i più forti. Ai limiti dell’antipatia.
Perché sebbene sembrino chirurghi senz’anima, avvoltoi di Wall Street, sono pur sempre una Squadra. E il maiuscolo è dovuto.
Vingegaard ha vinto. Con fatica certo, ma ha vinto. Il re pescatore - oggi in apnea - ha dedicato il gradino più alto del podio alla figlia che in quel giorno compiva 3 anni. Era un pò emozionato il danese. Della serie: “C’è vita su questo pianeta.”
Kuss è arrivato secondo. Sorridendo. La rivoluzione del gregariato. Come non tifare per lui?
Come non sperare che venga clonato e distribuito a ogni squadra World Tour come regalo natalizio?
O magari innestato al nostro Damiano nazionale. Caruso ovviamente, non quello dei Måneskin.
C’è da chiedersi se gli alti vertici, seduti nelle loro auto dai finestrini chiusi, permetteranno al ventottenne americano di coronare il sogno di una vita sportiva.
Già, perché sembra che in Jumbo ci voglia un lasciapassare unanime e un ok via radio per poter vincere. Sembra non basti un incredibile stato di forma e un curriculum recente di tutto rispetto.
Roglic dal canto suo fa il terzo comodo.
Brillante il suo podio, meno la sua imperturbabile espressione. Lui, il campione del nostro Giro, è fatto così: poche chiacchiere e pedalare.
Forse è per questo che si trova a proprio agio nell’alveare dei calabroni.
Gli altri, in una giornata dal caldo anomalo per la stagione, hanno fatto del loro meglio.
Come da copione. Com’era giusto che fosse.
Un giorno arriverà un italiano a farci sognare in una corsa trisettimanale. Oh sì che verrà!
Attendiamo e preghiamo.
Per adesso notti inquiete.
E stelle gialle che brillano.
Una bicicletta e le montagne come punti cardinali: la storia di Valeria Curnis
Valeria Curnis fa partire un vocale, sono minuti e minuti, a parlare è Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo alla Isolmant-Premac-Vittoria, appoggia il telefono sul tavolo, prende un foglio, una penna e si appunta i dettagli salienti. Poco prima, il suo messaggio a Fidanza, alla vigilia di una cronoscalata: «Come mi regolo con l'alimentazione?». Fidanza parla, Curnis scrive. Altre volte, in allenamento, Giovanni Fidanza, in bicicletta, le dice: «Devi fare così in gara, cattiva ti vogliamo». Lei ascolta, lui le «entra sulla ruota e sgomita», poi, mentre Curnis perde l'equilibrio, lui la riprende per il taschino e ripete: «Proprio così». Accade quando si cambia rotta e si riparte.
Valeria Curnis, fino a qualche anno fa, sciava, cercava le montagne e la neve: «Non riuscirei a vivere in un posto in cui non si vedano i monti, è questo il punto. In un modo o nell'altro, ho bisogno di vederli e di andarci. Di scivolare sulla neve, in discesa, di alzarmi sui pedali di una bicicletta, in salita. Ma le montagne sono un punto fermo, qualcosa che, nella mia vita, orienta anche tutto il resto». Già, la bicicletta, che oggi è al centro, ma solo fino a qualche anno fa era una parte del tutto. Un mezzo che non conosceva, che utilizzava affidandosi all'istinto, al desiderio di un momento, talvolta ad uno sfogo. Poteva essere una vecchia Graziella oppure la Fisher con cui, da casa dei nonni, andava a scalare il Selvino, a freddo, senza alcuna preparazione. Un casco giallo, una vecchia maglia gialla, troppo grande per lei, del Tour de France e via che si va. «Credo fossi la ciclista più imbarazzante di tutta la Lombardia. Anzi, ne sono certa». Valeria Curnis ride a più non posso, si prende in giro, prende fiato e, ridendo, racconta: «Anche oggi, che corro in bicicletta, faccio cose strane per una ciclista. Sono in divisa ore prima della partenza, talvolta anche con i guantini, ma quelli si tolgono in fretta, per fortuna. Mi lego i capelli, mentre tutte le cicliste usano una fascetta. Forse dovrei acquistarla pure io, eppure, non so perché, ma ho la sensazione che non lo farò».
Quando le chiediamo se questo essere "nuova" non le abbia mai creato difficoltà, Valeria Curnis risponde certa di no, poi aggiunge: «Non mi manca la fiducia nei miei mezzi, quando ho fatto questa scelta, quella di diventare ciclista, credevo che potesse derivarne qualcosa di buono e lo penso sempre più, ma, nei primi tempi, temevo di sbagliare. O meglio, sapevo di poter sbagliare però mi sembrava che un mio errore, proprio perché "nuova", sarebbe pesato di più sulla bilancia. Adesso rido delle piccole stranezze che ho descritto e, poi, fanno sorridere anche la squadra, non sono inutili». Torna seria ed è seria in quest'ultima considerazione che la porta dritta a quando ha lasciato lo sci, per un insieme di cose, soprattutto per la mancanza di soddisfazione che ormai si era impossessata di quel tempo sulla neve.
In quei giorni, suo padre, appassionato da sempre di ciclismo, autore di una tesi sul telaio, le regala una Pinarello in carbonio, bella, sicuramente più adatta per le sue sgambate. Racconta Curnis che suo padre aveva capito bene che il suo mondo avrebbe perso l'equilibrio senza uno sport da praticare, così è arrivata quella bicicletta e sono iniziate le prime Gran Fondo, in cui la fatica la fa da padrona, ma la sensazione è la stessa di quando andava via in bicicletta dopo una giornata storta a scuola, cercando una soluzione. «Allo sci sono tornata tempo dopo e ho avuto il timore di essermi dimenticata come si facesse, invece una volta sulla neve sono scivolata sugli sci come sempre. Ho voluto diventare maestra di sci e, sostenendo i test, temevo di non riuscire a fare i tempi giusti. No, era rimasto tutto come prima, meglio di prima, forse. Ora il ciclismo mi prende le giornate e non posso praticare, ma sono maestra di sci, lo sono diventata, e questo non me lo porta via nessuno».
In sella porta la genuinità delle novità, la capacità di vedere i dettagli, tutte le cose che per le altre atlete sono ovvie e per lei sono speciali. Prendete quel giorno a Romanengo, dopo la cronometro in cui arrivò settima, «i tempi delle prime due erano imbattibili, con le altre, tuttavia, me la sono giocata": Valeria Curnis era già contenta. Una sua collega le si è avvicinata: "Sei andata a ritirare il premio? Guarda che devi andarci tu". Non se lo aspettava, non ci pensava nemmeno: "Quella busta l'ho ancora intatta a casa e resterà così. Uno dei giorni in cui mi sono sentita più fiera di me». Sì, perché dall'essere contenta, al ritorno, dopo la cronometro, Valeria Curnis era proprio felice.
Felice era anche a Roma, il 25 aprile, al Gp Liberazione, dopo il Covid, dopo un periodo difficile, pur in una gara non adatta alle sue caratteristiche, con continui rilanci e cambi di velocità, mentre suo padre alla partenza le diceva: «Mi sembri un gladiatore». Anche quando si è ritirata, era felice perché sapeva che, accanto al Colosseo, era tornata. Pure a Siena, nel giorno della Strade Bianche, Valeria ha provato qualcosa di unico: «Lo giuro, mi sentivo morire. Da quando ho iniziato a correre in bicicletta ho sentito spesso come se morissi, per la fatica che attanaglia. Eppure proseguivo, continuavo a pedalare. Non voglio farmi fermare da nessuno, lo dico e lo ripeto». Emotiva, ma capace di contenere quella emotività, «come dice Fidanza, serve un interruttore mentale: tranquilli prima della gara, perché tutta l'energia va scaricata in corsa con uno sforzo così lungo». Alle prime gare le capitava di avere 160 battiti al minuto prima della partenza; «fortuna che si partiva in leggera discesa, sennò chissà il fuori soglia». Incredula di fronte alle grandi campionesse delle due ruote, però capace di farsi rispettare, di non mollare la ruota su cui è: «Il rispetto è un conto, ma se ti fai intimidire è finita, devi fare quel che sei capace di fare, quel che fanno tutte in gruppo. Bisogna essere toste». Molti desideri nella sua testa, uno in particolare: «Servirebbero più gare internazionali per le donne, la crescita passa anche da lì. Vorrei se ne parlasse di più».
Si è abituata ai sacrifici del ciclismo, che sono più grandi che nello sci. Nel ciclismo, spiega Curnis, conta davvero tutto: un'ora di sonno in più o in meno, un pasto, una bevanda, un'uscita, l'atleta è anche l'insieme di tutte queste cose, di quelle che fa e di quelle a cui è capace di rinunciare. «Credo non mi abituerò mai completamente al riso e al pollo a pasto, ma sono sicura che continuerò a mangiarlo e, giorno dopo giorno, mi diventerà sempre più familiare. Sai perché? In parte per la ripetizione del gesto, in parte perché anche il riso ed il pollo mi permettono di essere una ciclista».
Essere una ciclista ovvero stare in gruppo, fare fatica, magari per la squadra, perché fatta per altri ha un valore maggiore, un significato in più, come osserva, soprattutto stare in gruppo e tenere le posizioni, capire come si muove il gruppo. Giovanni Fidanza glielo ha spiegato così, un giorno in cui Curnis voleva saperne di più: «Immaginalo come il mare con le onde. Non devi guardare solo la ruota davanti a te, piuttosto è opportuno capire i moti generali del mare, le sue onde. Per questo bisogna vedere molto avanti, poi, puoi decidere anche i tuoi movimenti». Valeria Curnis ci ha pensato e le è sembrata una definizione azzeccatissima. Valeria Curnis lo ha fatto e quelle onde sono diventate un'abitudine. Una gran bella abitudine.
Foto: per gentile concessione di Valeria Curnis
La fucilata di Glasgow
Quando Mathieu van der Poel è partito, a poco più di ventidue chilometri dalla conclusione di una gara che non dimenticheremo mai, in un attimo ha cancellato tutto quello che stava accadendo. C’è stato silenzio. Poi un lampo che fa a fette il cielo. Lo abbiamo guardato per qualche frazione di secondo, ammirandolo, come poco prima con quell’arcobaleno che spuntava sopra Glasgow, quando Alberto Bettiol si era messo in testa un’idea folle che ci ha fatto sognare a lungo.
Quando Mathieu van der Poel è scattato, avevamo già immaginato l’epilogo di una giornata lunga, troppo assurda per essere vera, di quella che ci riempie la bocca di aggettivi, di metafore, similitudini. Di quelle frasi che ci sembra di ripetere troppe volte riferite al ciclismo di questi ultimi tempi.
Quando Mathieu van der Poel è partito, sapevamo che per tutti gli altri era finita, e che per lui si sarebbe chiuso un cerchio: campione del mondo, lui, il corridore più forte del mondo nelle corse di un giorno, davanti ai corridori più forti del mondo nelle corse di un giorno e non solo, in una giornata così esaltante da riempire le pagine di epica e retorica.
Quando Mathieu van der Poel è caduto, abbiamo bestemmiato, ma lui ha continuato a darci dentro. Sanguinante, con il boa della scarpetta strappato via con lucidità, ha rimesso sulla giusta carreggiata i nostri sentimenti impazziti, le emozioni che da quasi sette ore continuavano a vibrare incontrollabili dietro una delle corse più difficile da comprendere a nostra memoria.
Su un circuito, criticato all’inverosimile, così labirintico da faticare a trovarne l’uscita, Italia e Danimarca, compatte, spettacolari, prendevano la corsa per la coda e la agitavano senza rispetto sul fuoco alimentato da curve, controcurve, strappi. Lui, l’olandese, sornione, con quella maglia bianca che si faceva sempre più del colore della sua pelle, rimontava posizioni e pedalava con un solo obiettivo in mente: una cartuccia da sparare, letale. Mancavano centinaia di chilometri quando la gara esplodeva e si selezionava come non abbiamo mai visto nemmeno sulle salite dei grandi giri.
Quando Matteo Trentin, sempre davanti, attento, con gambe e motivazioni a mille, cadeva, abbiamo imprecato contro le ingiustizie del destino; quando Bettiol partiva ci siamo emozionati; quando lo hanno ripreso non abbiamo avuto il tempo di capire cosa stesse succedendo. Mathieu van der Poel scattava, dietro lui arrancavano van Aert, secondo alla fine, Pogačar, terzo al traguardo, a completare un podio visto di rado dalla nostra generazione, e Pedersen, quarto, battuto dal terribile (ex) ragazzo sloveno, insomma, quando Mathieu van der Poel scattava, tre grandi corridori capivano come si sarebbe lottato solo per tentare di spegnere il fuoco delle proprie ambizioni iridate. La grandezza di un corridore la si misura anche dagli avversari.
Quando è partita la fucilata di Glasgow, Mathieu van der Poel ci ha fatto saltare in piedi, ed eravamo quasi al termine di una giornata di ciclismo di quelle che… da domani sarà difficile trovarne una simile. Ha vinto il più forte, che ora, per tredici mesi, vestirà la più bella maglia del mondo. La giusta fine di una giornata di ciclismo indimenticabile. E pazienza se lo abbiamo scritto altre volte, oggi, di questo sport, si è fatta la storia.
Foto: Sprint Cycling Agency
Breve ciclo-vocabolario del campionato italiano di Comano Terme 2023
Si consulta esattamente come un vocabolario, ma, mentre in un vocabolario ad ogni parola corrisponde un significato, qui ad ogni parola corrisponde una descrizione, di qualcosa che abbiamo visto o sentito nei giorni del Campionato Italiano. Le parole, del resto, sono le stesse che viviamo e scriviamo sempre, ma, guardandole bene, ascoltandole bene, in una gara di ciclismo, hanno qualcosa in più.
CIAO
Forse una delle parole che meglio racconta l'Italia. Per un vecchio motorino degli anni settanta e perché "ciao" lo dicono anche i viaggiatori stranieri che passano dall'Italia. Una parola così semplice da pronunciare e da scrivere. "Ciao" per incontrarsi, "ciao" per lasciarsi. Anche solo per entrare in contatto e poi continuare a parlare in un'altra lingua. Una parola di fiducia istantanea, in certi casi. Fra i tanti "ciao", all'ingresso negli alberghi, all'uscita, per strada oppure in un bar, ne abbiamo scelto uno: quello di Marta Bastianelli che, sul palco della presentazione squadre della prova in linea del Campionato Italiano, domenica 25 giugno, saluta il pubblico, con un gesto della mano. Il Giro Donne, pochi giorni dopo, sarà la sua ultima gara, ma anche questa è un'ultima volta: l'ultimo Campionato Italiano. Fra le ragazze delle Fiamme Azzurre, notiamo Elena Cecchini che abbassa lo sguardo, Chiara Consonni che si passa una mano sul volto: hanno entrambe gli occhi lucidi. «Ma io non volevo piangere»: dicono a Bastianelli e, nel mentre, adesso, si stanno davvero lasciando piangere, senza più trattenere nulla. "Ciao", dice ancora Marta Bastianelli mentre scende gli scalini del palco, fra i giornalisti ed i fotografi. "Ciao", diciamo anche noi. Che buffa parola, pensandoci bene: una consonante, tre vocali. Potrebbe essere parte del linguaggio segreto di un bambino per quanto è strana. Invece, in certe occasioni, dire "ciao" e salutare con la mano è la più dura realtà degli adulti: il tempo che passa, le cose che finiscono. Buona strada, Marta!
CAMPER
Bianchi, talvolta appena lavati, talvolta con i segni dei precedenti viaggi, cicatrici che non fanno male. Camper di chi è appena arrivato, camper di chi la notte ha dormito in camper e la colazione la fa su un tavolino lì davanti. Camper delle famiglie degli atleti che si riconoscono subito perché sono vicino alla zona squadre e perché i loro finestrini non sono appostati in modo da vedere le montagne, ma in modo da vedere la strada su cui passerà la corsa. Camper di famiglia, delle vacanze che si avvicinano. Camper su cui risale qualche atleta, sudato, con una salvietta al collo. Camper come quello dei genitori di Letizia Borghesi che quel camper l'hanno acquistato proprio per seguire le gare di Letizia e Giada. Con una bandiera italiana avvolta da qualche parte, con la biancheria stesa lì vicino e qualche bicicletta appoggiata ai lati. Camper dei genitori degli atleti più giovani, appostati l'uno vicino all'altro. Qualcuno ci dice: «I genitori, ad una gara di ciclismo, non sostengono solo i figli, si sostengono anche fra di loro». Ecco cos'è un camper, da queste parti.
ESTATE
Perché è appena passato il 21 giugno e fa già caldo. Estate soprattutto perché, da un momento all'altro, basta una gara di ciclismo per capire che è nuovamente giugno. Bottigliette d’acqua rovesciate addosso, testa sotto qualche fontana. Bambini con la maglia rosa (del Giro appena finito) o la maglia gialla (del Tour che sta per arrivare). Transenne a cui bisogna fare attenzione ad appoggiare le braccia perché iniziano a scottare. Prime canzoni estive che arrivano da un balcone e sale stampa in cui si cerca l'angolo più fresco. Estate e succo di mela per noi, in Trentino. Estate e classica abbronzatura da ciclisti, con il segno della maglietta e dei pantaloncini. Estate e corse di ragazzi, di Bryan Olivo e Luca Giaimi, Campioni Italiani, rispettivamente nelle categorie Under23 e Junior a cronometro, e, qualche minuto dopo, a correre avanti indietro e ad abbracciare gli amici, come fanno due ragazzi qualsiasi, quando arriva giugno e finisce la scuola. Estate e nonni, estate e biciclette dei nonni: "Gli chiedi se mi fa fare un giro sulla canna della sua bicicletta". Ha chiesto così un nipotino ad un nonno, vedendo Filippo Ganna sfrecciare veloce. Quando arriva l'estate, succede.
FOTOGRAFIE
Da vedere con gli amici in una sera di settembre, ma da scattare adesso, sotto questo sole. Sono proprio le fotografie delle estati passate a farci stare meglio, qualche volta. La sera dell'inizio dell'estate, il 21 giugno, dei ragazzini, in albergo, hanno visto Filippo Ganna, al tavolo, a cena. Non ci sono stati molto a pensare, sono andati a salutarlo, forse a chiedere un autografo e una foto. Anzi, un'altra foto. Una l'avevano già, in mano. Era di qualche estate fa, di qualche Campionato Italiano fa. Gliela hanno mostrata. Con addosso la maglia tricolore, seduto al tavolo della conferenza stampa, Filippo Ganna lo racconta. Sorride. Dice che vedere quelle foto lo ha fatto stare bene, dice che ora che è tornato, dopo quanto è stato male per aver dovuto lasciare il Giro, non vorrebbe più andare via. Alice Toniolli è ancora giovane, 17 anni, Campionessa Italiana a cronometro tra le junior. Eppure se guarda le fotografie di qualche anno fa, pattinava. Poi ha fatto questa scelta. Verso sera, un ragazzino, poco più giovane di lei, le chiede una foto. La sua famiglia l'aspetta, lei non ha dubbi, accetta e qualcuno scatta la fotografia. Lui la terrà come ricordo prezioso, lei, forse, non la rivedrà più. Forse. Perché al tavolo di un albergo, all'ora di cena, fra qualche anno, potrebbe succederle di riguardare quello scatto, ringraziando di averlo fatto.
INNO
La parola più scontata per un Campionato Nazionale. Cantato, oppure mimato, con qualche sillaba, a ritmo. Ognuno, però, con l'inno ha un rapporto diverso, lo canta in maniera differente e si pone in maniera diversa come parte la sua musica. A noi è rimasto in mente Simone Velasco, sul gradino più alto del podio, il sabato sera, in maglia tricolore, con in braccio la figlia Diletta. "Pam-parapam" parte l'inno, Velasco si gira verso Diletta e con la bocca, a bassa voce: "Pam-parapam". Il braccio su cui la tiene si muove allo stesso ritmo e, dopo poco, anche la bambina segue istintivamente quel suono. Elisa Longo Borghini lo canta per ben due volte: dopo la prova a cronometro, dopo la prova in linea. Con accanto Marta Cavalli e Alessia Vigilia prima, con accanto Silvia Persico e Marta Cavalli, poi. In totale, negli anni, sono undici le sue maglie tricolori. Ogni tanto mano sul cuore, sguardo in avanti. Quando lo speaker le ricorda tutto quello che ha vinto, si guarda in giro timidamente, non vede l'ora che quell'elenco termini. Sì, su quel podio ci si sente quasi eroi, ma i ciclisti sono ragazzi e ragazze e uomini e donne. E loro hanno pudore anche della felicità.
PADRI E FIGLIE
A colazione, nel tavolo accanto al nostro, ci sono Giovanni Fidanza e Arianna Fidanza e Valeria Curnis e suo padre. Due padri e due figlie.
«Certo che è un bel mondo questo, vero? Si sta bene, si conoscono tutti qui ed è a dimensione di persona. Certo che non credevo fosse così seguire la gara di una figlia. No, non lo credevo proprio». Ce lo dice il padre di Valeria, che, intanto, si sposta verso il nostro tavolo, con un panino e della marmellata. «Valeria viene dallo sci, è un'esperienza nuova questa. Lo confesso: ho paura alle gare. Lei lo vede, lo capisce, così cerco di nasconderlo. Ma ci penso, eccome se ci penso». Ancora un boccone, e ancora: «Sì, ci penso». Padri e figlie, alle gare. Giovanni e Arianna sono spesso seduti accanto, fuori dall'hotel, a parlare. A cena, si aspettano nella hall dell'albergo. A tavola si va assieme. Padri e figlie: Marta e Alberto, di cognome Cavalli. Accanto alla macchina: lei appoggiata alla portiera, lui seduto su un marciapiedi. A parlare, dopo la cronometro, dopo il podio. Poi, lei via in macchina, lui via in moto. Padri e figlie.
SEDIE
Spesso bianche, di plastica, con tutto il segno del tempo che è passato. Dietro ad un podio, vicino ad un bus, fuori da un albergo, su un prato, sotto un albero. Sedie in cui si aspetta: di andare in corsa o di andare a casa. Sedie in cui si parla di quello che è stato, ma anche di altro, del mare, del domani, del Giro o dei Mondiali. Sedie con addosso del ghiaccio e gambe allungate, su un'altra sedia, dopo lo sforzo. Sedie e qualcuno inginocchiato davanti con in mano borracce e asciugamani. Sedie su cui sono appoggiati attrezzi di meccanici e telefoni, sedie su cui aspettano meccanici o direttori sportivi. Sedie, con un giornale, per farsi aria, mentre la corsa passa e se ne va.
SPAGHETTI
Di tutti i piatti che arrivano a tavola, a cena, negli alberghi, la pasta si nota dal vapore che si innalza dal piatto e che si segue con lo sguardo. Il menù della serata prevede sfornati al formaggio, pesce, crostate. Eppure nei tavoli degli atleti arriva pasta e ancora pasta. In bianco, con un poco d'olio. Talvolta con sopra una macchia di sugo rosso, al pomodoro. Maglietta a maniche corte, pantaloncini corti, scarpe da ginnastica, prendono la forchetta e iniziano ad avvolgere gli spaghetti. Con gusto, con piacere. Un tintinnio che arriva da più piatti. A breve, le scale, la camera e un'altra giornata sarà finita. Comunque sia andata.
Spugna e martello
O Martello e spugna. Devastante il martello con la sua cadenza irresistibile che riecheggia nel silenzio delle montagne, quale silenzio, direte voi: avete visto quanta gente sulle strade? A parte, aggiungiamo noi, la parentesi degli ultimi quattro chilometri sul Puy de Dome e stavolta sì, un silenzio, irreale, narrativo, costruito ad arte da chi organizza il Tour de France: evento che ancora una volta sa battere la concorrenza per distacco, attaccandola dal primo chilometro. E pazienza se poi, in quella tappa, ben presentata, l’attesa ha fatto più danni al cuore che l’effettiva risoluzione.
Martello, come un pezzo industrial a una festa illegale organizzata da ragazzini. La cassa fissa, lineare. Un suono oscuro, metallico, quasi urlante, fantascientifico, come quel fumetto francese, con gambe che paiono fuscelli, nonostante quel bisogno di riprendere contatto con la realtà esterna alle corse appena tagliato il traguardo: è un abbraccio con i propri cari quando possibile, come in cima al Puy de Dome. È una lunga telefonata, quasi sempre, come nelle altre tappe precedenti o in quelle che verranno, oppure nel giorno di riposo.
Spugna. Assorbe, lava via le incertezze. Leva via i cattivi pensieri. Sorride, si prepara e si nasconde. Capisce e trasforma, decide di andare via e lascia la sua sparata. È tutto un programma, un fuori onda. Mai banale, dicono sia costruito, ma è sincero, è realmente fatto così. Spugna, qualche giorno fa, dopo che sul Marie Blanque aveva perso la ruota del suo avversario, ha trasformato la delusione nella possibilità di guardarsi dentro e imparare nuovamente dai suoi errori. Le energie nervose le ha ridotte a un momento di tranquillità. Lo hanno visto sereno, e il giorno dopo nascosto. Poi è scattato e ha staccato il suo avversario, non un nemico, sia chiaro.
Sul Puy de Dome, dicono alcuni appassionati ed esperti di valori misurati attraverso i watt/kg, i quali, però, non riescono a dare del tutto le certezze che cerchiamo, la spugna avrebbe fatto la sua miglior prestazione in carriera su una salita, almeno a livello di numeri, valori. Anche se poi lui giustamente dice qualcosa che suona come: "se non conoscete il mio peso, come fate a conoscere queste prestazioni?". È bastata, tuttavia, quell'azione per levare via un po’ di incrostature, otto secondi, per distinguere un Tour de France già ben caratterizzato di suo.
Spugna e martello. Pogačar e Vingegaard. Duello del decennio nella corsa più importante e rumorosa al mondo. Altro che il silenzio del Puy de Dome.
Tadej Pogačar, Jonas Vingegaard: è un attimo
Coppi vola senza più l’inquietudine delle prime ore, certo com’è di giungere solo al traguardo.
Così Dino Buzzati commentava magistralmente sul Corriere della Sera una tappa del Giro del ’49.
Aveva associato il confronto fra Coppi e Bartali all’omerico duello fra Ettore e Achille.
Due eroi della mitologia antica accostati a due eroi del ciclismo che fu, dell’Italia in bianco e nero che pian piano risorgeva.
Sei luglio, tappa sei del Tour de France, altri due contendenti si mostrano nei colori vividi e sgargianti del ciclismo di oggi.
Tadej Pogacar e Jonas Vingegard. Slovenia e Danimarca.
Entrambi coraggio e valore, coscienza e incoscienza.
Nessuna singolar tenzone cavalleresca per una donna. Nessun duello con le armi da fuoco per vendicare il proprio nome offeso.
Solo - ma sarà poi vero? - una lotta sportiva tra due giovani uomini che hanno onorato la corsa più bella e conosciuta del ciclismo e che rendono ogni corsa più bella e conosciuta.
Due fuoriclasse, fra corridori di primissima classe, che hanno unito il ciclismo e stanno dividendo gli appassionati.
Quello che è accaduto a circa due chilometri e 800 metri dal traguardo di quella tappa estenuante, la prima vera tappa di montagna di questo Tour, rimarrà impresso nella celluloide, nei pixel fotografici e nella memoria di chi ha assistito.
I più fortunati - gli eletti - testimonieranno di essere stati proprio lì, in quel tratto di strada. In quel preciso istante.
I meno fortunati - tutti gli altri - racconteranno di aver visto tutto in diretta tv.
Gli uni e gli altri, un giorno, con pochi o molti capelli bianchi, vivranno la nostalgia di quel momento. Di quel sobbalzo dal divano. Tachicardico e al contempo lenitivo.
Avranno custodito quell’attimo fuggente, quel raggio di sole, per le giornate uggiose, come quelle delle canzoni di Battisti.
Per respirare la stessa fragranza gradevole di quel giorno ormai lontano.
Poiché la cronaca esige il suo tributo è d'obbligo accennare al Col du Tourmalet.
Se è vero, come è vero, che la salita rappresenta il fascino del ciclismo, il Tourmalet coi suoi 17 km d’ascensione e vetta a 2.115 mt è la più emblematica e pedalata del Tour.
Percorrerla in bici in 45 minuti sembrerebbe follia.
Invece è stato record!
L’asfalto graffiato di quei tornanti aveva visto la corazzata della Jumbo tentare invano di staccare Tadey con un ciclista di nome Van Aert.
Sì, quel Van Aert che, seppur stremato, ha dimostrato ancora una volta il suo
stra-ordinario valore senza vincere.
Nei tornanti di quel gigante di pietra gli appassionati doc muovevano bandiere e corpi come lo scirocco fa con le onde del mare.
Pogacar aveva però invocato suoi spiriti guida e le anime degli scalatori del passato. Ottimista nel pre-gara, nonostante la sconfitta del giorno prima inflitta proprio dal danese, era rimasto concentrato - anzi di più - durante tutta la corsa.
Lo si intuiva da quel particolare sguardo che non era sfuggito ai commentatori di grande esperienza. “ Oggi ha una buona gamba - dicevano - e una buona testa.”
Quella col ciuffetto irriverente che spunta fuori dal casco.
Lo sloveno incollato al danese e noi agli schermi. In attesa di una magia, di un regalo.
E a meno di tremila metri ecco l’audio crescere a dismisura. “ È partito!
Vola Tadej, vooola!”
È la mossa del principe sloveno, lo scacco al re. Scatto e allungo: matto in due mosse.
È l’esaltazione. L’incredibile sperato.
Il suo inchino al traguardo rivela la fine dello spettacolo.
Pogačar primo in 3h 54' 27"
Sua con 103.5 km/h la punta massima di velocità del giorno.
Vingegard secondo e in maglia gialla.
Fra loro, nella classifica generale, 25 secondi di distacco. Venticinque, come il costo dell’ascensore che porta in cima alla Tour Eiffel.
Ma in fondo i numeri misurano davvero ciò che conta nella vita?
Il presidente francese applaude ai lati del podio.
Domani è un altro giorno.
Via col vento.
Contributo di Fabio Gariffo
Foto in evidenza: Sprint Cycling Agency
I 42 anni dopo della frazione di Strela
Strela di Compiano non è esattamente una Mecca del ciclismo. Anzi, non è un posto che le persone bramano di vedere in generale: si fermano tutti al sottostante castello di Compiano, comune dalla forma oblunga nell’alto Appennino parmense, se proprio bisogna passare in queste zone. Eppure, Strela è stata teatro dei campionati nazionali nel 2019 (vinti da Formolo: si saliva lassù ben 10 volte) e, andando indietro, dalla stessa rassegna tricolore nel 1981.
Fu un’edizione strana, quella. Si transitò da Strela addirittura 19 volte, fece così tanto scalpore il duello tra Moser e Saronni (vinse il primo) che se ne parla ancora oggi nel parmense, ma l’attenzione nazionale, in quei giorni, era tutta per la tragica caduta di Alfredo Rampi in un pozzo nelle campagne vicino Vermicino.
Lunedì a Strela di Compiano – e così arriviamo al perché si insiste così tanto su questo luogo sperduto – è transitato anche il Giro Donne. Quarta tappa, ultima salita. Non appena inizia la scalata, Van Vleuten attacca. Longo Borghini resiste, Mavi Garcia prova a rientrare poi esplode. Ewers era all’attacco, viene ripresa ma non si fa staccare. Ogni tanto, insomma, succedono cose a Strela di Compiano.
Con una trentina di tifosi eravamo lì, nel “centro” del paese, per il passaggio del Giro Donne. Passano le tre di testa, molto forte. Segue il gruppo: anche queste andavano molto forte. Poi altri gruppetti, sempre più esigui, sempre meno brillanti. Le ultimissime passano a oltre mezz’ora dalle prime, quindi gli astanti hanno tempo di conversare tra loro. In particolare, due uomini parlano delle motociclette con cui sono arrivati fin lì, fino a Strela di Compiano: una conversazionale normale, nulla di che. Finché uno dei due non rivela, tra una frase e l’altra, di essere il padre di Marta Cavalli.
Come Marta Cavalli, penso: quella Marta Cavalli? La Marta Cavalli di vicino Cremona, una delle cicliste più forte del mondo? «Non sei attento» risponde scherzando l’uomo, mostrandomi un adesivo col nome della figlia sul bauletto posteriore. È peraltro la moto dietro alla quale Marta si allena spesso: la parte inferiore del parafango è graffiata da piccoli e ripetuti colpetti di ruota di bici.
Cronometrato il distacco della figlia all’arrivo, il padre è convinto che perderà la maglia verde. Non è così, ma grazie ad un successivo racconto il giro attorno a Strela di Compiano si chiude. Una leggenda del passato gli ha chiesto, una volta, da dove venissero. Quando ha sentito la risposta, cioè San Bassano, uno dei posti più piatti della già piattissima provincia di Cremona, questi ha risposto: «E come fa ad andare così forte in salita?». Chi era costui? Francesco Moser.
Chi l’avrebbe mai detto che si potessero fare incontri del genere, a Strela di Compiano.
Il Tour di Caramas
Non sei il favorito della corsa, ma non importa, hai puntato tutta (o quasi) la stagione ai 3400 km circa che ti servono per arrivare a Parigi, partendo da quella splendida città che è Bilbao. In che posizione si vedrà, non è questo il concetto, vale per chi arriva primo, per chi arriva ultimo. Ti sei preparato per mesi, questa gara l’hai sognata, ti sei immaginato diversi scenari in cui avresti potuto attaccare, quella salita, quella discesa, hai studiato il percorso e quindi hai cerchiato di rosso un punto in particolare che ti ispirava. Hai rinunciato a tane cose, come fa chiunque nella vita si pone degli obiettivi, hai studiato la tattica con i tuoi compagni di squadra e i tuoi direttori sportivi, poi arriva il giorno del Tour de France e si parte.
L'avventura inizia da Bilbao, piena di sogni e speranze e passi centosessanta chilometri di corsa tra la pancia e la coda del gruppo, limi, quando sai limare, limi lo stesso anche se non ne sei capace, urli "occhio!" quando c'è da passare di fianco a un collega, compagno, avversario, arriva la prima delle due salite più attese e ti fai trovare davanti, poi discesa, curva, si va a terra.
Sei caduto e ti rialzi, ti guardi intorno e incroci per un attimo lo sguardo di Enric Mas, destino identico, o quasi. Controlli il ginocchio, immaginiamo soltanto il dolore, ma prendi e riparti: vuoi concludere la tappa, un destino che invece a Enric Mas è precluso.
Vai avanti lo stesso, sbuffi, fai fatica, hai la gamba che sanguina, un tuo compagno si avvicina e cerca di farti forza soltanto standoti vicino: ci sono certi momenti in cui una presenza, un’ombra può bastare e quel tuo compagno condivide con te il dolore e sa che in quel momento il silenzio è il miglior conforto possibile.
Intanto, Mas si è ritirato. Non è ripartito, dopo mesi a pensare all’obiettivo podio - fattibile, altroché - il suo Tour de France è durato giusto qualche ora.
Tu arrivi al traguardo, invece, con il ginocchio quasi aperto in due: micro frattura della rotula. All’indomani non riparti, anche il tuo Tour è durato poco più di qualche ora.
Foto in evidenza: Sprint Cycling Agency
Foto Enric Mas da Twitter, Team Movistar