Tra le storie della SD-Worx: intervista a Elena Cecchini

«Ho abbracciato Demi, poi ho cercato Lotte tra la folla dell'arrivo. "Lotte, sei felice?" le ho chiesto e lei mi ha risposto sinceramente: "Sì, Elena, sono felice". Credo fosse importate quella domanda, di certo importante è stata la risposta». Elena Cecchini parte da Piazza del Campo, a Siena, alla Strade Bianche per raccontare la sua squadra, SD-Worx. Ancora meglio, parte da quello sprint a due, tra Vollering e Kopecky, vinto proprio da Vollering.

Ci spiega di Lotte Kopecky, della sua introversione e di tutte le volte che, l'anno scorso, la cercava con gli occhi al traguardo, dopo una volata: «Facevo fatica a vederla felice, soddisfatta, a meno che non vincesse e, dentro di me, pensavo che fosse il mio lavoro il problema, che non fosse abbastanza. Nel tempo, abbiamo parlato e ho capito che Lotte aveva esattamente il mio stesso timore: non riusciva ad essere pienamente serena perché temeva di aver deluso la squadra». Non è un inverno facile per la belga: la notizia dell'arrivo di Lorena Wiebes, indubbiamente, l'ha fatta pensare, le ha messo dubbi, quasi come si sentisse sostituita, «poi ha compreso di non essere una velocista pura e che Lorena poteva solo aggiungere qualcosa, non togliere. Ma è da comprendere, chiunque avrebbe reagito così». Una timidezza con cui non è facile convivere per Kopecky, soprattutto da quando la sua popolarità è esplosa dopo la vittoria del Fiandre. Quella sera, non è potuta rientrare a casa perché la sua abitazione era letteralmente assediata da fotografi e giornalisti e con questa fama deve fare i conti ogni giorno e la squadra allestisce conferenze stampa apposta per lei, per raccogliere lì tutte le domande.

«Mi spiace che l'impressione generale sia stata che io e Demi non fossimo soddisfatte di com'era andata la gara. Eravamo solo spaesate perché non ci eravamo parlate prima» ha confessato Kopecky a Cecchini, in pullman, in una riunione post gara. L'accordo era che Vollering avrebbe attaccato prima e Kopecky successivamente, ma che le due avrebbero collaborato fino alla fine. Danny Stam, uno fra i direttori sportivi di SD Worx, la sera prima era tornato a parlare con Vollering: «Ma se io sono davanti- aveva detto lei- non ha senso che Lotte attacchi, non ti pare?». La risposta era stata pronta: «Ha senso, perché sole non resterete comunque e, se non collaborate entrambe, la gara la vincono le altre». Ed, in effetti, chiosa Elena Cecchini, Faulkner è andata davvero vicino alla vittoria. Sta di fatto che, quell'impressione sbagliata avuta dalle persone, stava rovinando l'atmosfera. Cecchini è intervenuta per questo: «Non state male perché non vi siete parlate. Avete fatto qualcosa di straordinario, andate oltre».

Racconta Cecchini che l'anno in cui Demi Vollering è arrivata in SD-Worx, condividevano la camera e, da subito, lei l'aveva soprannominata "la Principessa": «Sì, perché era molto giovane e l'aiutavamo molto, anche nelle cose più semplici. Anche nel portare i vestiti in lavanderia. Ricordo che detestava quel soprannome. Il nostro rapporto è cresciuto anche così e con questo è cresciuta anche Demi». Una ragazza semplice, genuina, molto emotiva che piange per le vittorie e nel tempo libero fa yoga, meditazione oppure va nella natura, sta in montagna e fa lunghe passeggiate. «Il primo anno, con Anna van der Breggen come capitana, per lei è stato il più semplice, dopo ha dovuto prendere la squadra sulle spalle e assumersi molte più responsabilità. Per molti è diventata "la rivale" di van Vleuten e, ogni tanto, me lo dice: "C'è chi sta aspettando che Annemiek lasci, perché non avere più una rivale come lei cambierà molto. Io voglio che resti, voglio che sia forte e batterla mentre è forte». Demi può farlo, ne sono certa". Elena Cecchini fa una pausa, noi stiamo per formulare un'altra domanda, ma lei riparte, per una precisazione.
«Capisci perché non c'è stata decisione dall'ammiraglia? Se un direttore sportivo avesse indicato un nome piuttosto che un altro, il timore era quello di rompere un equilibrio di fronte a due campionesse di questo tipo perché l'una o l'altra avrebbe potuto avvertire come ingiusta la decisione per il lavoro fatto. Ti assicuro che basta davvero poco, quando ci sono situazioni di forte pressione, per creare una frattura». Cecchini racconta di quanto creda nel valore del dialogo e di quanto parli sempre molto con le compagne di squadra: «Quello che facciamo, e quindi il risultato che otteniamo, è strettamente connesso al modo in cui ci sentiamo, a quello che pensiamo di noi stessi o alla considerazione che gli altri hanno di noi».
In questo, la presenza di Anna van der Breggen in ammiraglia è un punto fondamentale perché anche la campionessa olandese sta continuando a crescere in ammiraglia. Spiega Elena Cecchini che l'anno scorso, quando si trattava di fare rimproveri o osservazioni, van der Breggen era più restia, si sentiva ancora molto ciclista, molto compagna di squadra, quest'anno ha preso sicurezza in ogni cosa, anche nella guida dell'ammiraglia: «Difficilmente sarà Anna a venire a dirti qualcosa, ma perché fa parte del suo carattere: parla poco e al momento giusto. Se, però, chiedi un consiglio, puoi essere certo che il suo punto di vista non mancherà e sarà dritto al punto, schietto». Come prima della Strade Bianche, quando van der Breggen ha parlato alla squadra.

Ronde van Vlaanderen 2022 Women - Tour des Flandres - 19th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 158,6 km - 03/04/2022 - Elena Cecchini (ITA - Team SD Worx) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

«Arrivate agli ultimi quindici chilometri, vi sentirete sfinite, penserete di non farcela più, in quel momento, dovete pensare che anche le vostre rivali stanno così. Resistete, perché è l'unica cosa da fare e perché anche le altre stanno resistendo». Poche parole e un'attenzione costante: lasciare sempre fuori la campionessa che è stata e rapportarsi con un ruolo nuovo. «Ho sempre avuto la sensazione che dietro la sua tranquillità, ci fosse la visione chiara che il ciclismo fosse una parte importante della sua vita, non il tutto. Oggi il suo ciclismo ha ancora un'altra forma, una forma che sta conoscendo giorno dopo giorno».
Si arriva così a Lorena Wiebes, l'altra punta di diamante del team: Cecchini la definisce semplicemente "uno spasso". Wiebes praticava ginnastica artistica prima di arrivare al ciclismo e la sua conformazione fisica lo racconta. Anche qui la parola d'ordine è "genuinità": «Fuori dalle gare, la trovi a guardare serie televisive, film, ha sempre un modo molto naturale di porsi, ma, in quanto allo sprint, è molto competitiva e può insegnare tutto». In SD-Worx l'apporto di Wiebes ha riguardato soprattutto il lead out, il lancio delle volate, qualcosa in cui Cecchini ammette che la squadra doveva perfezionarsi.
Lorena Wiebes parte dalla linea d'arrivo e torna indietro, fino all'ultimo chilometro, per descrivere il lead out: «Se ai 150 metri devo essere a questa velocità, in un determinato tratto, vorrà dire che ai 400 metri la velocità e la posizione dovranno essere queste». E così via: con sicurezza e fiducia nella ruota che la precede, ma anche con l'idea di mettersi alla prova, di "cavarsela" se la squadra non può fornire interamente il proprio contributo.
In tutto questo, c'è Elena Cecchini, gregaria, a disposizione. «Mi è successo di chiedermi se riuscissi effettivamente a soddisfare tutte le aspettative della squadra. Ci sono momenti in cui puoi mettere tutta te stessa, ma le gambe non girano come vorresti, cosa puoi fare? Dirti che più di così non potevi proprio dare, che meglio di così non potevi prepararti. Bisogna dirselo spesso e, magari, invece di chiedersi se si è pronti, dirsi: "Sì, con quello che ho fatto, sono pronta per forza. Vada come vada”».


Per Faulkner è ancora tutto possibile

C'è un momento, sulle pendenze arcigne di via Santa Caterina, alla "Strade Bianche", dopo oltre trenta chilometri di fuga solitaria, in cui per Kristen Faulkner è ancora tutto possibile. Lo sguardo è fisso in avanti, per immaginare Piazza del Campo, e per terra, per restare focalizzata su ogni metro, senza lasciarsi distrarre troppo da quel pensiero, non si volta quasi mai, anche se sente che, dietro di lei, la situazione è esplosa. Prima lo scatto di Demi Vollering, poi quello di Lotte Kopecky: il duo della SD-Worx va via troppo veloce, si avvicina sempre più e, se rientra sulla testa della corsa, su Faulkner, è evidente a tutti che non ci sarà molto da fare per l'americana.

L'ultimo momento in cui tutto può accadere è proprio quello in cui Kopecky e Vollering la braccano da vicino e Faulkner, pur davanti, percepisce che ne hanno di più, che possono superarla in qualunque momento e far scoppiare la bolla di un desiderio che è sospesa nell'aria da minuti e minuti. Sente le loro ruote che macinano strada e mangiano metri, secondi. Non ci si può voltare, il Campo è sempre più vicino. Le serve una forza di volontà incredibile per non girare la testa e non pensare di dare respiro alla fatica, anche quando è certa che, ormai, non ci sia più nulla da fare per la vittoria.

Succederà l'inevitabile, mentre l'acido lattico le morde i muscoli. Eppure Faulkner, terza al traguardo, continuerà con lo stesso sguardo, come se quel desiderio fosse intatto. Ed, in un certo senso, è intatto. Sì, i desideri spazzati via sono desideri da riprendere per mano per accompagnarli "alla prossima volta". Parlare di Faulkner, oggi, significa parlare di questa cosa qui: delle volte in cui abbiamo la forza di continuare a credere alla nostra pedalata, l'unica possibile, mentre gli altri ci passano in tromba e se ne vanno.

Foto: Sprint Cycling Agency


Sportful Social Ride

Siamo stati ospiti di Sportful nelle giornate che hanno preceduto la Strade Bianche, abbiamo avuto l’onore di pedalare nella Social Ride, al venerdì mattina, di fianco a campioni come Paolo Bettini, che ha disegnato i 43 chilometri circa del percorso, e Cristian Salvato.

Chi scrive si è staccato presto, dicevano: “sarà un giretto tranquillo, andiamo piano”, non è andata proprio così, nel senso che chi scrive, ma evidentemente non pedala abbastanza, dopo pochi chilometri si è staccato a causa del ritmo insostenibile e ben poco si è gustato dello splendido panorama intorno.

Non fa alcuna differenza ai fini del racconto se è stato l’unico a perdere contatto: lo hanno aspettato, va dato atto, nel punto ristoro organizzato da i ragazzi di VeloEtruria di Pomarance, dove c’è stato un attimo di relax a mangiare panini con la salsiccia o con la nutella assaggiando birra e vino per poi ripartire nel su e giù tra sterrati e asfalto che ci ha ricondotto nello splendido scenario di Stigliano, provincia di Siena, attraversando anche uno dei settori che l’indomani avrebbero percorso i corridori nella Strade Bianche.

Chi scrive ha provato a un certo punto pure a prendere un po’ di vantaggio accelerando leggermente in salita, venendo però scherzosamente richiamato all’ordine da Salvato: “hei ragazzo, però ci vuole un po’ di coerenza quando si pedala, se prima ti sei staccato, ora mica puoi andare in fuga”.

Abbiamo assistito in diretta anche alla caduta - per fortuna senza conseguenze e ormai diventata virale - di Paolo Bettini, leggenda in bici e mega disponibile quando a tavola ci ha riempito di aneddoti sul ciclismo dei suoi tempi, tra gare in Belgio, senatori, volate vinte davanti a Cipollini e strade sbagliate alla Tirreno Adriatico. A parte l'estemporanea fatica della pedalata - ma voi direte: "è il ciclismo, bellezza!" - giornate a loro modo indimenticabili.


Mettersi in gioco: intervista ad Arianna Fidanza

All'orario prefissato, quando le telefoniamo, Arianna Fidanza è in aeroporto dopo la caduta nei chilometri conclusivi di Le Samyn des Dames: sta per tornare a casa per accertamenti riguardo una possibile frattura del setto nasale.
«Te la senti? Possiamo rimandare, se vuoi».
«No, no, chiacchiero volentieri».
Partiamo. Vorremmo parlare subito di domenica, della sua azione alla Omloop van het Hageland, ma il pensiero va per forza di cose alle cadute: «Per fortuna, non so perché, ma quando sono in corsa non ci penso, altrimenti credo che le cadute, soprattutto negli ultimi anni, mi avrebbero bloccata a livello psicologico nelle volate. Quando pensi, perdi l'attimo. In ogni caso, a ventotto anni, nonostante si sia ancora giovani, non si sprinta come a diciotto: me ne sto rendendo conto». La giovinezza di Arianna Fidanza sta tutta in quel "mettersi in gioco" che ripete diverse volte durante il nostro dialogo.
«Vuol dire essere disposti a fare scelte "scomode": la fuga di domenica, ad esempio. Vuol dire non sedersi nelle situazioni: il cambio di squadra. Forse sarebbe stato più facile rinnovare con BikeExchange, perché abbandonavo qualcosa che conoscevo per qualcosa di completamente nuovo. Vuol dire essere disposti a ricominciare “senza se e senza ma". Vuol dire, soprattutto, cercare di vedere chiaramente quel che si vuole e non farsi spaventare dalla fatica aggiuntiva, in termini fisici e mentali, che serve per raggiungerlo. Non rinunciare». Già, la fuga di domenica. Fidanza non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, tuttavia un cambio di programma all'ultimo e gambe che stavano particolarmente bene, l'hanno portata a seguire l'azione di Allison Jackson. Una fuga a due, difficile, per cui ripartirebbe subito: a costo di spingere a tutta, come ha fatto e come bisogna fare in queste occasioni.
Ad un certo punto, lei e Jackson si parlano, Fidanza le mette una mano sulla spalla: «Vedevo che sugli strappi faticava. Sapevo che l'azione l'aveva promossa lei e ho voluto parlarle: "Stai tranquilla, non cerco di staccarti. Andiamo assieme all'arrivo, poi vediamo cosa succede”. Lei ha capito, mi ha ringraziato. Da qui la mano sulla sua spalla». La fuga è stata ripresa, «forse avrei potuto aspettare la volata, ma Wiebes è più veloce di me. Ho voluto prendere in mano la situazione, non subirla. A prescindere dal risultato». Ha aiutato anche l'ambiente, il Belgio: una nazione che ha conosciuto bene quando correva in Lotto Soudal e per cui prova un'istintiva affinità. Una terra in cui sogna di poter vincere una gara importante.
In tutto quello che è cambiato, qualcosa è rimasto e non era scontato. «Ho sempre avuto una forte sensibilità e, nonostante tutto, le difficoltà non l'hanno scalfita. Anche in corsa: provano a dirmi di "spendere di meno", ma non ce la faccio. Sento di voler fare e, per come sono fatta, devo fare, altrimenti non sono a posto con me stessa». Quella stessa sensibilità che, dalla nascita della sorella Martina, l'ha portata a dirsi che avrebbe voluto proteggerla "dalla sofferenza che si prova". Oggi, dice che in molti casi è stata proprio Martina a proteggere lei, ma l'intenzione è sempre la stessa: «Quando siamo in corsa, mi chiedo sempre: "Dov'è mia sorella?". Ora corriamo in un'unica squadra, ma accadeva anche quando eravamo in squadre diverse. Se hai una sorella in gruppo, la cerchi. Hai preoccupazioni doppie, per ogni dettaglio, ma anche doppio sostegno. Negli ultimi anni, Martina ha vinto più di me, qualcuno mi ha chiesto se ci fosse gelosia, invidia. No, anzi, dirò di più. Lei ha uno spunto veloce migliore del mio: vorrei mettermi a sua disposizione per aiutarla a vincere».
Un legame forte, come quello con la famiglia. E, proprio con la famiglia, ha a che vedere, quella che definisce, la cosa più difficile del suo lavoro: partire quando a casa qualcosa non va. In quei momenti, vorrebbe scordarsi di essere una ciclista. Cosa di cui, racconta, non si scorda praticamente mai, perché non è un lavoro di cui ci si possa dimenticare, neppure per poco, nemmeno in vacanza, forse.
«Ho bisogno di staccare, di focalizzarmi su altro, e, per farlo, mi basta davvero poco, non cerco molto. Però penso sempre al fatto che il mio mestiere è il ciclismo. Questa estate, avrò fatto dieci giorni di vacanza, forse, eppure pensavo spesso: "Avrò perso la forma? Come dovrò fare per recuperarla?". La mente mi riporta sempre lì».
Poche settimane fa, la vittoria a Costa De Almeria, parte di un percorso che le ha permesso di tornare ad alzare le braccia al cielo, perché proprio quest'anno, in Ceratizit, è avvenuto uno dei più grandi passi avanti che Arianna Fidanza si riconosce: «Mi sento cresciuta a livello atletico, soprattutto perché sono tornata a sentirmi nel vivo della corsa. Quello che volevo quando ho deciso di rimettermi in gioco».
L'aereo, il volo ed il ritorno a casa. Ma Fidanza, fra tutte le altre corse, aspetta soprattutto il Belgio perché in Belgio vuole fare realtà del suo sogno più grande.


Diario dal Teide: il ritorno a casa

Appena rientrata a casa, dopo il ritiro di quindici giorni al Teide, accendendo le luci, Elisa Longo Borghini rivolge l'attenzione al calendario: siamo agli inizi di febbraio, ma la pagina esposta è ancora quella di dicembre. Sì, tra una cosa e l'altra, l'ultima volta che è stata a casa era proprio il 27 dicembre. Accanto alla porta, c'è un pupazzo raffigurante un alpaca, ancora addobbato con un cappello di Natale: «L'ho subito tolto e ho girato le pagine del calendario, quasi per aggiornare la casa al periodo, a me. Per una ciclista è la normalità, eppure fa strano appena rientri. Questa casa e questo paese, Ornavasso, restano la mia boccata d'ossigeno, un posto a cui appartengo. Quando sono in viaggio e mi trovo in luoghi molto belli, spesso, provo a chiedermi se mi piacerebbe cambiare città, appartenere ad un altro paese, magari, in astratto, migliore. Sarà che qui sono nata, ma ogni volta la risposta è negativa». E anche quando, scherzando, le dicono che sembra abitare fuori dal mondo, lei, ridendo, risponde: «È la mia città».

A casa non è restata molto, in realtà, perché, proprio lunedì, è ripartita per gli Emirati Arabi, per la prima gara della stagione che sarà anche la prima edizione dell'UAE Tour femminile. Le valigie, mentre parliamo, sono già pronte, le ha preparate appena a casa. Da queste prime gare non si aspetta molto, vuole solo capire come sta e come stanno le avversarie. Dice che è lo sguardo il modo migliore per capirlo: «Al netto della pedalata, quando non stai bene, sei anche più impacciata nel muoverti in gruppo, nel fare cose semplici. Perdi la lucidità che rende tutto normale. Puoi cercare di nasconderti e nasconderlo, ma le avversarie sanno cosa guardare». A Longo Borghini, poi, muoversi in gruppo piace e l'anno scorso confessa di essersi divertita a tirare le volate a Elisa Balsamo. Sì, usa proprio questa parola: la diverte trovare il varco giusto, limare, guadagnare posizioni, intuire le mosse dei treni rivali: «Non ho l'abilità di una velocista, ma mi caricava questo ruolo. Solo la prima volta ho avuto paura di sbagliare tutto, poi Balsamo ha vinto e io ho pensato che avrei voluto un'altra volta per riprovarci». Nel 2023 ci sarà Ilaria Sanguineti a ricoprire questo incarico, ma è stata un'esperienza. Restano le sensazioni.
Come quelle particolari che ha provato quando ha visto Anna van der Breggen all'ultima gara e quando la vede in ammiraglia. Dice che il suo percorso e quello di van der Breggen sono stati abbastanza paralleli e sapere che lei è ancora in gruppo e l'olandese non più l'ha fatta pensare. Estremamente fredda in corsa, quanto genuina fuori: «È una di quelle persone da guardare quando si ha la tendenza a sollevarsi troppo da terra, perché non è mai cambiata, anche se per tutti è un simbolo del ciclismo. La sera prima della tappa di San Marco la Catola, al Giro d'Italia 2020, ci siamo scritte: "Domani bisogna fare corsa dura". Io ho vinto la tappa e lei quel Giro». Sorride, anzi, ride di gusto parlando di numeri: «Ho un legame particolare con il terzo posto. Se non vinco e sono in forma, sono puntualmente terza. Va bene, non mi lamento, ma confesso che, qualche volta, accorgendomi di essere terza, ho pensato che sarebbe bello variare. Ogni tanto, almeno. Non so, un secondo posto se proprio non riesco a vincere».

In quel gruppo che si trova spesso a scrutare attentamente, c'è anche Gaia Realini, sua compagna di squadra. Se dovesse scommettere su qualcuno, scommetterebbe su di lei e «non lo dico perché è in Trek, è una forte scalatrice e non ha molte pressioni. Non fosse stata in squadra con me, l'avrei segnata fra le atlete da attenzionare». Qualche attimo di silenzio e, poi, una parentesi colloquiale, un inciso, senza apparenti motivi, quasi una necessità: «Sai che della bicicletta mi piace proprio tutto. Quando vado veloce, poi, provo una sensazione incredibile. Sarà l'adrenalina, però non ho mai provato qualcosa di simile. Penso che, fuori da questo mondo, non ci sia nemmeno qualcosa di simile».
In un armadio, a casa dei genitori, ha ancora custodita la prima maglia azzurra, quella di un ritiro, quando aveva quindici anni: «Era solo una maglietta, ma io non la vedevo come una maglietta. Fra tutte le ragazze che avevano provato ad essere lì, io c'ero. Rappresentavo l'Italia. Quell'Italia nei cui confronti sono molto critica, perché non è come la vorrei, come potrebbe essere. Però sono profondamente italiana, anche nelle piccole cose e lo rivendico. Racconto l'Italia quando parlo con colleghe di altri paesi». Già, a quell'azzurro, però, è legata anche una delusione, probabilmente la più grossa: la mancata convocazione all'Olimpiade del 2012. Quella che «non dimenticherò mai».
«Sia chiaro: le scelte tecniche avevano tutta la loro coerenza, io, però, quel posto lo meritavo. Non era un capriccio. I risultati parlavano per me. L'ho saputo al Giro d'Italia, ho faticato a guardare quei Giochi Olimpici. Su quel divano, mi dicevo: “Nel 2016 non darò a nessuno la possibilità di non convocarmi. Farò talmente bene che mi dovranno portare per forza"». Ci sono stati mesi in cui non ha pensato a quei quattro anni che mancavano alla prossima Olimpiade e questo l'ha aiutata ad aspettare. Fino al giorno in cui la convocazione è arrivata: «Cos'ho provato? Sì, ero felice per quell'Olimpiade, ma il 2012 non riesco a dimenticarlo. Quando ti tolgono qualcosa che senti di meritare, non puoi sostituirlo con altro come nulla fosse. Non te lo restituisce nessuno».
In quei giorni a casa ha pedalato, è andata in posti a cui è legata, ma, purtroppo, ha provato per l'ennesima volta una sensazione brutta, che le nostre strade restituiscono spesso: «Parlo degli autoveicoli che sfiorano la bicicletta e sembra ti tocchino. Parlo di quando ti senti in pericolo mentre fai il tuo lavoro. Sono bastati due giorni perché capitasse di nuovo». Longo Borghini si chiede quando qualcosa cambierà e, purtroppo, si trova a constatare che servirà molto tempo, forse troppo tempo. Spiega che l'unico modo è quello di parlare ai bambini perché in futuro le strade saranno loro e spetterà a loro il compito di renderle diverse.
«Alessandro De Marchi ha dichiarato che chi guida non si rende spesso conto di avere fra le mani un mezzo che è simile a una pistola carica. Di più: non si rende conto che la strada è un luogo di convivenza, di condivisione. Questo è un qualcosa su cui dobbiamo riflettere tutti, perché anche noi ciclisti dobbiamo incrementare l'attenzione, non voglio nascondermi. Il fatto è che un pedone o un ciclista restano comunque parte debole, fragile. Parte da tutelare». Parlarne, sensibilizzare, può aiutare, poi c'è la responsabilità individuale.
Anche nel ciclismo qualcosa andrebbe cambiato, ci dice Longo Borghini. Pensa a un fatto in particolare, a quella dizione: "ciclismo femminile": «Siamo cicliste, siamo sportive. Siamo persone che lavorano con quella bicicletta, che fanno sacrifici su quella bicicletta. Perché continuiamo a parlare di "ciclismo femminile" come fosse qualcosa a parte? Le parole fanno parte della realtà e i nomi che diamo al circostante spesso rispecchiano i nostri atteggiamenti. Adesso le cose sono cambiate, ma, quando è nata la squadra femminile di Trek Segafredo, ricordo come capitava che ci guardassero i professionisti. Sembravamo quasi un mondo a parte, qualcosa con cui capire come relazionarsi. Credo il lessico abbia avuto un ruolo in questo. Nello sci, ci sono solo sciatori e sciatrici. Perché non impariamo?».
Imparare, ovvero chiudere il diario, e ripartire. Ci sarà modo di tornare ad ascoltare e a scrivere.
Buon viaggio, Elisa!


Quando si alza il vento

Era una linea, dritta, come una squadra di sentinelle. Si erano messi uno di fianco all'altro lungo il pendio, una di quelle scene che capita di vedere sui crinali nei tapponi di montagna dei grandi giri. Invece era Hoogerheide, nel Brabante Settentrionale, e se uno fosse riuscito a prolungare lo sguardo oltre agli alberi, agli edifici, ai piloni dell'elettricità, avrebbe visto il mare. Adrie van der Poel, che ha collocato questo paesino sulla mappa ciclistica mondiale, prima nascendovi e poi tramutando la corsa locale di ciclocross nell'appuntamento internazionale del Grote Prijs Adrie van der Poel, lo descrive proprio così il Brabante: «da una parte ci sono i boschi, i villaggi, dall'altra basta andare sempre dritti e si arriva al mare».
Tutta quella gente sul crinale non aveva però alcun interesse a vedere il mare. Al massimo potevano respirarne una zaffata quando si alza il vento, o ringraziarne l'influsso che ha regalato un'anomala giornata di sole, ma lo sguardo era puntato molto più vicino, su un oceano di teste e cartelli, berretti colorati, pon pon iridati, e su una riga che li tagliava, a zig zag, ripetutamente. A vederla arrivare, quella marea, pareva sì un fiume, ma in piena. Venivano giù lungo Huijbergsweg, la via che taglia questa porzione di Hoogerheide, dal fondo, dove ogni campo era stato convertito in parcheggio, fino alla rotonda che immetteva al circuito. E alla rotonda si congiungevano con un'altra onda di piena, più piccola, che drenava la zona più a sud lungo Ossendrechtsweg, per unire le forze e invadere la pianura, il bosco, il crinale. Sui botteghini i cartelli erano già chiari a fine mattina: verkoopt, tutto esaurito. Quarantamila persone, forse cinquantamila se ci si aggiungono tutte le altre presenze non passate dalla cassa, sono una cifra abnorme, gigante, persino eccessiva per questo parco, per questo villaggio che fa suppergiù seimila abitanti. Ma troppo forte era il richiamo di un mondiale che tornava "a casa" dopo l'edizione a porte chiuse del 2021, di una sfida tra i due fenomeni locali – e globali - che aveva tutto il sapore dello scontro finale. Ce n'era a sufficienza per farsi marea, e per sfidare il naufragio, con o senza mondiale.
Già perché negli esondanti vialetti del parco di Hoogerheide, nei tremanti tendoni, nei sovraffollati prati che le linee sempre più numerose del crinale potevano studiare con minuzia, la corsa è diventata un contorno. C'è da scommetterci che buona parte dei presenti non abbiano visto un minuto delle gare, non abbiano quasi appreso i risultati se non fosse per il boato che ha accompagnato l'ennesimo sprint di Van der Poel, che sarebbe stato boato uguale se per una volta l'avesse spuntata Van Aert, perché quando si ha il grido in gola quello si fa, si grida. Quella linea dritta, quelle linee dritte, hanno preso ora dopo ora le sembianze della curva di uno stadio, un calorosissimo gruppo ultras che era venuto fino a Hoogerheide per urlare il proprio amore per il ciclismo, solo per il ciclismo (o forse anche per la birra). E proprio come dicono i più convinti tra gli ultras, "della partita non ce ne importa niente". Lo dicono con altri termini, ma il concetto è quello. Non importa la gara, non importa il vincitore, né i piazzati, né gli ultimi arrivati. Importa solo l'abbraccio: mettersi in linea e gridare amore con i propri corpi, diventare marea. E alla fine è evidente chi ha vinto a Hoogerheide 2023: hanno vinto tutti.


Diario dal Teide: quel giorno a Roubaix

«Sentivo il fuoco dentro, non mi era mai successo. Non così, almeno. Quando mancavano trentadue chilometri all'arrivo, sono scattata e per la prima volta in tante gare, ho pensato: "Io vado, ci rivediamo a Roubaix. Ci rivediamo al velodromo". Non so cosa mi sia accaduto». Durante l'ultima sera sulle pendici del Teide, si finisce a parlare di Parigi-Roubaix ed Elisa Longo Borghini è davvero una delle persone più adatte per parlarne, lei che, l'anno scorso, ha vinto la seconda edizione nella storia della Roubaix femminile. Il sole, intanto, sta calando fuori dall'albergo e Longo Borghini confessa che, a casa, dei cieli di queste sere in alta montagna sentirà la mancanza. Ci dice che non crede molto a quella cosa della malinconia della sera, non ci ha mai creduto e, anzi, di fronte alla sera, ha sempre pensato al giorno dopo, alla possibilità di progettare. Ma quella volta, a Roubaix, non c'erano progetti nell'aria. Anzi, a Roubaix, Elisa Longo Borghini non avrebbe neppure voluto andarci.

Dopo l'inverno, era ormai diverso tempo che la tormentava una sinusite che rendeva tutto più difficile: in gara e fuori gara. Ad un certo punto, stanca, aveva detto a tutti che avrebbe staccato per un periodo dalle corse, che sarebbe tornata in primavera inoltrata, guardando all'estate, intanto avrebbe pensato a curarsi e a risolvere definitivamente il problema: «Dico spesso che, in quei momenti, ho fatto "la matta", ma proprio non volevo correre». Sono trascorsi molti giorni e la convinzione è sempre stata la stessa: non era il momento giusto per partecipare alle gare. Fino a una telefonata di Luca Guercilena, direttore generale di Trek-Segafredo. Una telefonata che la spiazza.

«Elisa, il tuo programma lo stabilisco io. Sarà una stagione intensa: a settembre c'è il mondiale, a luglio il Tour de France e, poco prima, il Giro d'Italia. Non possiamo permetterci di farci trovare impreparati. All'Amstel Gold Race non partecipi, alla Parigi Roubaix, invece, devi andare. Senza pressioni, ma il numero sulla schiena, quel giorno, dovrai attaccarlo». Immaginate un telefono: da una parte queste parole, dall'altra Longo Borghini che non dice no, ma resta dubbiosa. Di lì a poco telefona al suo compagno, a Jacopo Mosca, racconta la telefonata avuta con Guercilena e aggiunge «dovrò fare la Roubaix, ma non mi sento pronta. Non so come andrà». Mosca l'ascolta e risponde con poche parole: «Segui l'istinto e, se ne hai voglia, fai “la matta” verso Roubaix». Ancora silenzio.

Tutto riprende proprio il giorno della Parigi Roubaix, il 16 aprile 2022. Per spiegare quanto tutto fosse inaspettato, Longo Borghini parla della pressione prima delle gare e del modo in cui, grazie a Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport, abbia imparato a gestirla in vari modi: dalle tecniche di respirazione alla visualizzazione del luogo sicuro. La sera prima della Roubaix, però, c'è tranquillità. Ciò che accadrà non è nemmeno nei pensieri.
Poi lo scatto e l'arrivederci a Roubaix. «Sentivo le persone gridare, sentivo tutti scandire il mio nome e, se da un lato mi faceva piacere, dall'altro mi imbarazzava. Sì, stavo vincendo la Parigi Roubaix, ma ero sempre Elisa da Ornavasso. Lo sono ancora. Ho pedalato e ho vinto, ho pedalato più forte delle altre, però non sono e non sarò mai abituata a quell'attenzione. Forse non la merito neppure». Giro di pedali dopo giro di pedali, il velodromo si avvicina e lei vorrebbe fosse sempre più vicino, vorrebbe che la Roubaix fosse già finita, vorrebbe essere sdraiata a terra, a piangere, a ridere. Lo vorrebbe soprattutto per incontrare lo staff della squadra: «Penso, ad esempio, alle nostre massaggiatrici. Loro i massaggi ce li fanno ogni giorno. La Roubaix c'è una volta all'anno, quante volte può capitarti di vincerla? Loro ci sono anche se non la vinci, anche quando sei così delusa che fatichi a parlare. In quelle occasioni penso che dovremmo dirci più spesso che, alla fine, si tratta solo di una gara di biciclette, che, comunque vada, non stiamo salvando il mondo».

Torna proprio in quel velodromo un telefono, un cellulare. È Paolo Barbieri, addetto stampa di Trek Segafredo, a fare il numero di Jacopo Mosca e a passare il cellulare ad Elisa: «Hai visto? Hai fatto la matta e ce l'hai fatta. Ce l'abbiamo fatta un'altra volta». Sebbene Longo Borghini non riveda spesso le gare a cui partecipa, la Roubaix l'ha rivista e le è sembrato strano: «Ho notato che si ha più paura quando ci si riguarda, anche una sbandata sembra più difficile da gestire. In parte mi sono anche vergognata. Sì, avevo terra ovunque e questo potevo anche immaginarlo. Non pensavo, tuttavia, di averla anche fra i denti. Avevo anche i denti pieni di terra». Tra le telefonate, anche quella con i suoi genitori: «Così porti a casa un altro bel pezzo di marmo. Non ti pare che ne abbiamo già abbastanza?». E giù a ridere perché i suoi genitori sono marmisti.
In realtà, quella pietra di Roubaix è ancora a casa dei genitori, custodita attentamente. Ad un certo punto, racconta Elisa, quel trofeo è entrato anche a far parte del presepe: «Sono le stranezze di casa Longo Borghini, rappresentava una piccola montagna». In tutto questo c'è la fatica, della Roubaix e del ciclismo in generale. C'è il dolore ai muscoli che la fatica porta, una sensazione «che accetti il giorno in cui decidi di diventare ciclista. Sai che, da quel momento, non ti lascerà più. Diventa parte di te, qualcosa che conosci alla perfezione. Diverso è il dolore delle cadute, quello fa paura. Una paura che è necessario continuare ad affiancare al coraggio per fare il mestiere del ciclista».

La caduta più brutta per Longo Borghini risale al 2013, al campionato nazionale, in discesa, contro un guard rail, con una ferita molto profonda all'addome, a sfiorare il peritoneo. Da quel giorno ha una certezza: «Dicono che il dolore si dimentichi, che la mente lo cancelli, in qualche modo. Non è così, per me, almeno, non è certamente così. Ho ben chiaro quel dolore lancinante del guard rail sull'addome e, solo a ripensarci, mi sembra di risentirlo. Non a caso, anche quando sono arrivata al Teide, ho guardato i guard rail da queste parti. Mi capita spesso. Si va oltre il dolore causato dalle cadute. Non si dimentica quasi mai».

Poche altre parole e si torna in camera a preparare i bagagli. Oggi si riparte, verso casa.


Diario dal Teide: "E io chi sono?"

Erano i primi anni 2000, il periodo dei mondiali di ciclismo, l'inizio dell'autunno: Elisa Longo Borghini ricorda i cortili, le telecronache in televisione e un gruppo di amici che giocavano a fare i ciclisti professionisti, ispirandosi alla gara vera di cui arrivava la voce dal televisore. Ricorda tutti quegli "io sono Freire", "io sono Valverde" che i bambini improvvisavano prima di dare il via alla contesa. Ricorda soprattutto il suo spaesamento perché il ciclismo femminile si vedeva poco in televisione, del ciclismo femminile si sapeva poco e lei, mentre tutti avevano un campione da interpretare, restava a chiedersi: «E io chi sono?». Si è domandata e continua a domandarsi quante ragazzine abbiano provato la stessa cosa. Un sospiro di sollievo lo ha tirato qualche tempo fa, quando Marta, sua nipote, di nove anni, le ha detto: «Da grande, voglio scattare come Katarzyna Niewiadoma». Ha pensato che lei avrà qualcuno in cui rispecchiarsi, che non resterà a farsi quella domanda. Parte proprio da qui il racconto di una nuova pagina di diario.

Ormai sono diverse le ore di allenamento che Longo Borghini ha messo nelle gambe sulle pendici del Teide e questo la porta sempre più vicina alla stagione che sta per iniziare. Nel mezzo di una pioggia fitta, per contrasto, è tornata con la mente a Cesena, al Giro dello scorso anno, ad una crisi dovuta al caldo, al troppo caldo, e, alla fine, si è detta che, per quanto sia stato difficile arrivare al traguardo in quelle condizioni, quello dell'anno scorso è stato un Giro importante. Capiamo presto che il concetto di bellezza del ciclismo per Longo Borghini non è strettamente legato a un risultato personale: dice che una delle tappe più belle della storia del Giro d'Italia femminile è stata in Liguria, nel 2016, «ho accumulato un sacco di minuti di ritardo, ma sentivo che davanti il gruppo era scatenato».
Quando non deve fare classifica, riesce a fare cose che vorrebbe fare sempre, come parlare a inizio gara con le più giovani del gruppo, le cicliste meno conosciute: «Alcune corrono in bici pur avendo un altro lavoro e vanno ad allenarsi a sera, concluso il turno. Hanno una voglia intatta e attaccano. Non interessa se poi vengono riprese, interessa il fatto che abbiano ancora il desiderio di provarci. Non è facile a certe condizioni. Mi chiedo: cosa potrebbero fare se avessero le possibilità ideali per essere cicliste? Credo dovremmo chiedercelo tutti».

Sono proprio le diverse condizioni di partenza a far pensare Elisa Longo Borghini, quando, ad esempio, parla di quelle realtà in cui alcune ragazze hanno solo una bicicletta e quella di scorta è condivisa, perché l'allenamento fa molto, ma, se non si parte dallo stesso punto, il confronto è falsato.
«Non mi vergogno a dirlo: da junior c'è stato un periodo in cui non andavo avanti. Ho provato a ritirarmi dopo trenta chilometri di una corsa perché non ne avevo più e, quando non riesci a finire le gare, è dura. Spero di essere un modello per loro, perché mi rivedo in loro. Non sono un fenomeno, non lo sono mai stata, non pensavo di arrivare dove sono arrivata, per nulla. Quel che sono oggi deriva solo dall'allenamento, fatto di tanta fatica e sacrifici. Vorrei che a queste ragazze fosse permesso di fare lo stesso perché possono farlo, ma per permetterglielo bisogna cambiare qualcosa». Così è un bene che ci siano più gare World Tour affiancate alle gare maschili, però bisogna salvaguardare le corse minori, incrementarle, se possibile, come è necessario tutelare le squadre più piccole, anche perché «senza il loro futuro, anche le squadre più grandi non ci sarebbero. Non bisogna scordarlo, quando si arriva».

Forse, proprio pensando al suo periodo più difficile, dice che, sin da ragazza, ha imparato che, quando si va a vedere una gara di ciclismo, è giusto aspettare fino al passaggio degli ultimi, non correre via dopo il transito della maglia rosa o della maglia gialla. Quel periodo è stato quello in cui si allenava con il fratello Paolo e una salita di nove chilometri, vicino a casa, sembrava non finire mai: «In quei giorni, le mie barrette erano le merende kinder, Paolo continuava a spingermi, a dirmi che mancava poco, sempre meno. Doveva aspettarmi perché, se fosse andato più veloce, mi sarei fermata. Mi aspettava come si sedeva accanto a me in quei sabato sera a casa, con me influenzata e i miei genitori lontano per lavoro. E non si può credere a quanta fatica faccia ancora oggi Elisa Longo Borghini, per questo la parola gregario è fra più belle che conosca e, se non fosse andata com'è andata, mi sarei messa a disposizione e essere un buon gregario non mi avrebbe reso meno orgogliosa di me. Anzi». Qui torna il concetto di lavoro e di quanto, visto che il ciclismo è uno sport di squadra, fare bene il proprio compito, qualunque esso sia, permetta di tornare in camera d'albergo la sera ed esserne fiere: «Il nome che resta è uno, ma nelle mie vittorie c'è chiunque abbia fatto qualcosa per me in quel giorno o nei giorni prima. Si dice che i compagni di squadra tengono coperto il capitano e questo "tener coperto" non è gratuito. Costa acqua, vento, ritmi elevati, acido lattico. Le mie compagne si prendono carico di tutto questo».

Elisa Borghini ritiene sia essenziale permettere la conoscenza di tali aspetti perché serviranno a tutte quelle ragazze che, magari senza che nessuno lo sappia, stanno sognando di essere cicliste. L'anno scorso, al Tour de France, ha acceso la televisione e su France2 ha visto una pubblicità del Tour femminile: «Come me, l'avranno vista in molte e avranno avuto la certezza che, oggi, non bisogna più aspettare una replica a tarda sera per vedere una corsa femminile». Il Tour, spiega Elisa, fa bene al movimento, perché è un'idea cresciuta nel tempo, perché l'organizzazione è andata a casa delle ragazze che si contendono la generale e le ha intervistate, poi, ha diffuso quei contributi in televisione, chiunque ha potuto conoscerle. «Certo non bisogna scordarsi delle corse più piccole che hanno sempre scommesso su di noi, ma questo innalzamento dell'attenzione porterà anche loro a continuare a crescere, a migliorarsi».
L'alba ha dei colori stupendi al Teide e vale anche la pena anticipare la sveglia per godersela. Accade pure alle cicliste che poi salgono in sella e scattano. Forse accadrà così pure a una bambina di oggi che un domani, ricordandosi uno di quegli scatti, potrà dire: «Mamma, voglio scattare come Elisa Longo Borghini».


Diario dal Teide: la fuga impossibile

Qualche volta, in ritiro, nei giorni di riposo, Elisa Longo Borghini permette alla fantasia di spaziare. Ultimamente le capita spesso di immaginare una fuga, una fuga impossibile, una di quelle fughe che, come dice lei, si possono solo pensare e mai mettere in pratica, soprattutto quando si è Longo Borghini. Lei le chiama "fughe ignoranti", dove l'aggettivo si richiama alla follia e, quindi, alla bellezza: «Penso ad uno scatto dopo dieci chilometri di una tappa del Tour de France, su uno strappo su cui nessuno farebbe mai nulla. Quelle fughe che fanno esplodere il gruppo, con atlete da ogni parte. Se facessi qualcosa di simile, giustamente, dalla radio mi chiederebbero spiegazioni. Non accadrà, ma, qualche volta, vorrei essere nei panni delle atlete più giovani che queste cose possono permettersele». Un pensiero di questo tipo e dall'altra parte il mare, come ieri.

Solo un pensiero perché nei giorni di riposo, Longo Borghini, negli anni, ha imparato a non toccare proprio la bicicletta, ma non è stato facile, a causa di quel senso del dovere che, tempo fa, le faceva pensare che non si potesse, che non fosse giusto. «Facevo troppo» ci dice e la frase riassume molti momenti. Per esempio, il 2017, il mondiale di Bergen, l'overtraining, le cose che non vanno e un pensiero che si affaccia: «E se fosse finita qui? Se fosse il momento di smettere?». Ha sempre saputo che la vita di una sportiva ha un termine e, in fondo, si è sempre ripetuta di essere pronta ad accettarlo, semmai spera di capirlo prima, che non sia uno stop forzato, ma una consapevolezza che arriva, una scelta, non un'imposizione «perché se non sei tu a scegliere, è molto più difficile farsene una ragione, ma, comunque, ci sono altri capitoli, altre pagine». Così, a quella domanda, nel 2018, ha provato a rispondersi sinceramente e sarebbe stata pronta a scendere di sella, se avesse sentito che al ciclismo non poteva più dare il 100%: «Preferisco non iniziare nemmeno se so che non posso essere totalmente in quello che sto facendo. È una questione di rispetto: per me stessa e per ciò che faccio».

Fino a una telefonata, quella di Luca Guercilena che le proponeva un progetto in Trek Segafredo. Elisa ascoltava le parole di Guercilena, rispondeva e, intanto, pensava: «Perché mi vogliono? Perché vogliono proprio me? Non è la mia stagione, non è il mio momento».

Ha risposto subito di "sì", ha firmato quel contratto, quanto ha vinto lo sapete, lo sappiamo, ma, a distanza di anni, in un pomeriggio di gennaio, Longo Borghini pensa soprattutto a quanto, nella sua carriera, l'aiuti la consapevolezza che qualcuno ci crede, che qualcuno ti crede, come Luca Guercilena in quel momento. Tornando indietro nei ricordi, pensa che una delle prime volte in cui questo fatto ha avuto importanza è stato nel 2013, quando ha vinto il Trofeo Binda, la prima volta, l'ultima, invece, è di due anni fa. C'erano già dei risultati importanti, ma lei voleva la certezza che il ciclismo potesse essere il suo lavoro, così ha parlato ai genitori: «Datemi due anni, tre anni al massimo. Provo a diventare una ciclista e, se non riesco, mi rimetto sui libri». C'era un corso per interpreti in Università Bicocca, Elisa Longo Borghini ricorda di aver cercato informazioni a proposito, per essere pronta. In ogni evenienza. Non è servito perché, poi, il Trofeo Binda l'ha vinto.

«Quando dicono che il primo a credere in quel che vuoi fare devi essere tu, è vero. Ma da soli non ce la fanno neppure i campioni. Anche i campioni hanno bisogno di sapere che per i propri genitori possono riuscirci, che per la propria famiglia possono riuscirci. Restare soli a vedere un sogno è davvero troppo». Anche perché la crepa dei dubbi, del timore di non essere all'altezza, può arrivare anche in corsa e basta poco. Bastano quelle voci confuse dei tifosi che sembrano solo un insieme di suoni che nessuno distinguerà mai, invece, si colgono nettamente: «Quando sei al massimo dello sforzo, tutti i sensi si acuiscono, qualunque sensazione si esaspera. Vale anche per l'udito. Soprattutto quando ti stacchi, quando sei in fondo al gruppo e le altre se ne vanno. Certe parole sono come sberle involontarie: "Guarda, Longo Borghini è staccata" oppure "Longo Borghini è in crisi". Le senti e ti dici che non è possibile, che non puoi non farcela, che non puoi non essere all'altezza. Voglio dire: ha importanza ciò che senti a bordo strada e io alcune volte ho reagito proprio per qualche voce sentita lì. Dietro tutta l'epica, alla fine, ci sono solo esseri umani e gli esseri umani cercano anche queste cose». Intanto i vestiti per l'allenamento del giorno dopo sono pronti sul letto e la bicicletta è in garage.

Proprio in quel momento, a Longo Borghini viene in mente che non l'ha ancora lavata e, quando non c'è gara, la lava sempre. Spiega che è una pratica che l’aiuta anche a pensare, a riflettere. Si tratta di un'abitudine che risale ai tempi del team Top girls Fassa Bortolo. Lucio Rigato, il suo direttore sportivo, aveva un assioma: bici pulita, atleta pulito, maglie pulite, atleta pulito. Longo Borghini spiega meglio questo concetto: «Non è cosa da poco dire: questa è la mia bici. La maggior parte del tempo lo passo su questa bici, le devo rispetto come si deve rispetto al proprio lavoro. Faccio attenzione a non rigare il telaio e, per quanto sembri assurdo, mi infastidisce anche quando i meccanici la toccano troppo. Inizialmente non volevo la toccasse nemmeno Jacopo Mosca, il mio compagno. Poi ho capito che lui ha lo stesso approccio che ho io con la bicicletta e oggi può prendersene cura anche lui. Ma c’è voluto tempo. La bicicletta è una parte di me e con ciò che sento appartenermi sono molto riservata. Lo difendo».

Una bicicletta con cui gareggia, perché è il suo lavoro, una bicicletta che, in realtà, identifica come stile di vita, come modo per divertirsi, per farsi del bene. Dice che è questo l’importante e lo sintetizza con una frase di disarmante semplicità: «Se non ti diverti, cosa lo fai a fare? Talvolta bisogna divertirsi seriamente, tutto qui». Oggi, al Teide, riprendono gli allenamenti e il mare è più lontano.


Diario dal Teide: "Io non sono capace di farti tanto male"

In cima al Teide, il passaggio delle nuvole è particolare ed Elisa Longo Borghini lo ha notato proprio lunedì, quando si è trovata a pedalare fra quelle nuvole basse che avvolgono pietre e terra. Dopo qualche metro, la mantellina era bagnata, piena di minuscole gocce, come se piovesse, in realtà il cielo era limpido, ma, «sarà l'altitudine del Vulcano, sarà che quelle nuvole erano davvero radenti il terreno, si ha la sensazione di sfiorarle». Non le era mai capitato e, anche mentre ce lo racconta, fatica a spiegarselo. Le montagne, in fondo, possono sorprendere anche chi le scala da sempre. In realtà, però, oggi Longo Borghini ha in mente un'altra cosa, una frase che torna da molti anni fa. Una frase che dice così: «Io non sono capace di farti tanto male».

Sarà perché martedì è stata giornata di test e al Teide è arrivato Paolo Slongo, il suo preparatore, da molti anni, non da sempre, però, perché, nei primi tempi, Elisa era preparata dal padre.
Ferdinando Longo Borghini allenava i fondisti, si occupava dello sci di fondo, e, quando la portava a fare le salite, diceva più o meno così: «Negli ultimi cinquecento metri, fai il medio, la soglia e poi lanci la volata». Elisa ricorda ancora le volte in cui lo guardava e: «Ho i battiti alti, papà». Lui rispondeva con naturalezza: «Tira su un dente». Longo Borghini aveva la sensazione che per suo padre la fatica fosse qualcosa di inevitabile, non solo nel ciclismo, nella quotidianità, per questo l'accettava: bisognava sopportare e continuare a spingere. Anzi, abituarsi a farne di più. È cresciuta così, almeno fino a quando il padre le ha detto che ormai era tempo che percorresse la sua strada affiancata da un preparatore professionista.

«Non volevo, perché mi trovavo bene con lui, perché significava ripartire da capo e chissà come sarebbe andata. Ho chiesto molti perché: mi ha detto che era il momento per lui di farsi da parte, che le cose diventavano più importanti e che bisogna lasciare che un figlio percorra da solo la propria strada. Ad un certo punto, ha riso. Mi ha fissato, lo ricordo come fosse adesso: "Poi, se vuoi sapere la verità, io non sono capace di farti tanto male". Quella frase l'ho capita tempo dopo, ho capito il bene che c'era dentro: quando ci si prepara, ci si allena, si soffre e non tutti riescono a vederti così». Prendete, ad esempio, la giornata di ieri: cinque ore di allenamento e il test del lattato.
Funziona in questo modo: un tratto di salita, un chilometro e mezzo, un piccolo esame del sangue per verificare il valore del lattato prima di iniziare a pedalare e si torna a ripetere continuamente lo stesso tratto. Ogni volta che si arriva in "vetta" si ricalcola il valore, fino a che si raggiunge un parametro standard, denominato soglia, quattro millimoli. Da quel momento, si ripete ancora il test, da fermi, per due volte, dopo tre e sei minuti. Ciò che emerge fotografa la condizione attuale dell'atleta: «Non sarò in piena forma per le prime gare, ma da marzo penso di sì, lì potrò dire la mia». A noi, allora, viene naturale parlare di scatti, di quando si lascia il gruppo o il gruppetto sul posto e si va via, si va a vincere. Cosa c'è di più naturale della tentazione o della voglia di scattare per una ciclista?
«Ti confesso che, all'inizio, scattare mi faceva paura. C'è un gruppo di cento atlete e tu, da sola, parti, attacchi. Nei primi tempi, sembra quasi una lesa maestà al plotone. Mi vergognavo ad attaccare. Pensa che il primo attacco, che ricordo come tale, avvenne al trofeo Binda 2011. Non per andare a vincere, ma per riportarsi sul primo gruppo. Mi dicevo "adesso parto", mi rispondevo "ma no, che figura ci fai se non riesci a staccarle?" e argomentavo "tanto non ti conosce nessuno, anche se ti riprendono, non si ricordano chi sei". Dopo questa frase, ho attaccato davvero». A Plouay, sempre nel 2011 il primo scatto dalla testa del gruppo, per provare a vincere. Un poco di margine e il plotone che torna ad inglobarla: «Non potevo andare da nessuna parte, mi sono spenta da sola. Sono rientrate senza nemmeno aumentare il ritmo. In quel momento, però, avevo la percezione di essere davvero una ciclista».


Spiega Longo Borghini che quella sensazione non cambia mai: appena si affaccia alla mente l'idea di scattare, quel misto di adrenalina torna e scompiglia come le prime volte. Basta solo pensare: «Adesso le seguo, poi attacco e le stacco». Si insegue di grinta o di intelligenza, dipende dalle salite.
C'è Elisa e c'è Longo Borghini. A fare tutto questo, sul Teide, è Longo Borghini, Elisa, invece, è altro. «Per chi mi vuole bene voglio essere solo Elisa. Devo essere solo Elisa. Longo Borghini resta da una parte, resta agli incoraggiamenti delle persone, dei tifosi, tutte cose che fanno piacere, ma non posso fermarmi lì. Elisa, invece, racconta il ciclismo come un qualunque altro lavoro perché per Elisa è così. Per Elisa c’è la strada in cui è cresciuta, la scuola che ha frequentato, le amicizie di quel tempo, le parole con mia madre che vedo sempre meno e che, per stare con me, è arrivata fin quassù».
E ancora ci sono tutti quei fogli su cui, anche in una camera, affacciata sul Teide, anche mentre fuori ci sono solo le poche luci dell’alba, segna ciò che le viene in mente. Il foglio, poi, lo butta via, ma ha bisogno di vedere scritte le idee che le frullano in testa. C’è un libro di Carlos Ruiz Zafón, “L’ombra del vento”, che è il suo preferito da sempre e la musica che porta ovunque. “Qui vicino, ho percorso una salita che si chiama “Jama”. Questo è anche il titolo di una canzone che mi ha fatto ascoltare una persona molto importante per me. Ho iniziato a scalare e, nel frattempo, in mente avevo solo le parole di quella canzone”. Forse il senso della musica, come delle parole, per chi pedala è questo: legare cose lontane.
Tutte cose apparentemente normali, come un passaggio di nuvole basse in alta montagna o uno scatto per una ciclista. Tutte cose che, in realtà, normali non lo diventano mai. Per fortuna, aggiungiamo noi. Elisa Longo Borghini, intanto, là fuori, ha ripreso i lavori sulla soglia e sui cambi di ritmo: il menù di questi giorni.