Giro di Sicilia: una partenza, una poesia

Articolo di Fabio Gariffo, foto di Aristide Tassone

Sono la Piazza. Quella della partenza.
Deserta o gremita, centrale o alberata, occupata o attraversata. Il più delle volte inosservata.
Oggi sono io che osservo.
E non preferisco. Stamani accolgo.
Alle prime luci dell’alba il vociare rauco, il baccano di lavori e transenne. Che limitano, regolano.
A pochi, pochissimi, chilometri stanziano i fenicotteri della riserva naturale dello Stagnone, qui a Marsala. Con le loro esili gambe in acque che sanno di sale e di fenici, ieri hanno visto passare i grandi bus dei ciclisti, abitati da direttori e capitani, sogni e speranze, strategie e rassicurazioni.
Dove vadano a dormire i fenicotteri resta un mistero, in questa terra di misteri.
Ciò che sappiamo è che da qui parte il Giro di Sicilia: altro giro, altra corsa.
Benvenuti Signore e Signori!
Ogni partenza iberna le previsioni. Sospende il frizzante gusto dell’attesa, dal fascino inimitabile. Che ci fa innamorare, fuori e dentro il ciclismo, sport di delicato equilibrio; metafora di vita.

Sono la Piazza, col suo palco di ferro e legno.
A breve spumeggierà di musica e giovani ragazze sorridenti.
Ecco, arrivano i miei invitati e i loro sguardi. Quelli dei bambini e dei loro genitori. Assai diversi per trepidazione e innocenza.
Ecco i turisti, che non sapevano, in scia della festività pasquale appena trascorsa, celebrata dai più fortunati a Roubaix. Li riconosco subito dal naso all’insù e le gambe nude in ogni stagione.
Ecco gli amatori, che amano il ciclismo. Ognuno a modo suo.
È bello vederli la domenica mattina partire da qui con i loro buoni propositi per una “sgambata” sino alla vetta del monte Erice, faro in questo mare azzurro pianeggiante e di accecante luce.
Passano di fronte casa tua? - Usciamo domani? Si interrogano con la tipica cadenza liturgica di una lingua usualmente non declinata al futuro.
I pensieri degli uomini sono privati. Le emozioni no.
Emozioni, eccole, finalmente, ravvivarsi nei volti di tutti: sono arrivate le squadre!

Mi presento loro e le avvolgo. Il monumento che custodisce il ricordo dei mille garibaldini sembra compiacersi quest’oggi di un altro tipo di sbarco.
Un altoparlante - nome azzeccatissimo - scandisce i loro nomi. Con entusiasmo professionale.
Regalo loro carezzevoli raggi di sole fra aguzzi raggi di ruote al carbonio.
Giovani, esigenti, imberbi. E magri. Troppo magri secondo le nonne siciliane il cui affetto per i nipoti si misura in pranzi e i pranzi in doppie porzioni.
Perché da queste parti le arancine di riso non sostituiscono il pranzo e vanno pronunciate rigorosamente al femminile.
I corridori, adagiano con attenzione le loro bici nuove, perfette, ammalianti.
Firmano. Sigillando così la presenza e l’appartenenza. Io c’ero. Ho provato. Ce l’ho fatta.
Molti appassionati avrebbero voluto che dal pullman bianco del team UAE fosse sceso il piccolo principe alieno di nome Pogačar, ma poco importa. Abbiamo altri eroi in queste quattro tappe perché nessuna corsa, in fondo, è minore per chi l’affronta.
Atleti umili e nobili, semplicemente umani. Visti da vicino sembrano somigliare a tutti coloro che pedalano per diletto.
Sembrano. Da fermi.
Forse anche quest’anno, qualcuno di loro troverà un momento di raccoglimento.
Lo sguardo basso, le mani giunte, un veloce segno della croce. Come fece l’anno scorso Damiano Caruso, appena in sella, ben prima del chilometro zero di quel Giro di Sicilia che vinse.

Lui, il gregario, che si sacrifica; che rende sacro cioè. Lui, progenie della Trinacria, che vorrebbe bissare il successo.
Parlano del più e del meno, i corridori. Pronti a misurarsi tra loro e a misurare i loro watt.
In tandem con l’ombra di un imprevisto o un’incertezza, perché chi va in bici sa che tutto ciò che sembra scontato, il più delle volte non lo è.
Mentre i tanti curiosi coi loro piccoli e costosi telefoni sono pronti a scattare per condividere o mostrare un momento registrato, ma non vissuto nella consapevolezza del tempo presente e dei suoi doni incancellabili.
I corridori scatteranno anche loro.
Nell’immancabile fuga di giornata, per mostrare sponsor e potenzialità. Per dovere, per esistere e resistere.
Pronti ad arare le venature asfaltate di questa terra, prostituta d’Europa, concessa ad arabi e normanni, angioini e aragonesi. Terra contraddittoria, esagerata.
Con quali occhi la guardi, Lei ti appare.

Oggi, nella bellissima ma ventosa Marsala - come scriveva Cicerone - è festa.
Una festa pagana. Inebriante come l’omonimo vino di questa terra, un vino da meditazione.
Le riprese tv inquadreranno dall’alto, per qualche istante, le palme, i mulini a vento e il blu che circonda le Egadi. Forse ometteranno nella cartolina il rosso dei tramonti e il grigio dei pregiudizi e dei cliché.
Il soffio della Valle dei Templi di Agrigento asciugherà il sudore dei più audaci dopo circa 160 km.
Tutto, domani, tornerà alla normalità in questo straordinario quotidiano.
Io sono la piazza. Di vuoto piena.
Qui non vi è l’arrivo.
Qui vincono tutti.

 

 

 

 

 


Il questionario cicloproustiano di Kasia Niewiadoma

Il tratto principale del tuo carattere?
Testa calda

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Senso dell'umorismo

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Persistenza

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La loro onestà

Il tuo peggior difetto?
Ripensare alle esperienze passate

Il tuo hobby preferito?
Cucinare al forno

Cosa sogni per la tua felicità?
Essere vincente

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Un osso rotto

Cosa vorresti essere?
Un modello per altri coriddori

In che paese vorresti vivere?
Da qualche parte in cui ci sia il sole

Il tuo colore preferito?
Rosso barbabietola

Il tuo animale preferito?
Cane

Il tuo scrittore preferito?
In questo momento Murakami

Il tuo film preferito?
Girls Trip

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Attualmente è Fred Again

Il tuo ciclista preferito?
Al momento Tadej Pogačar

Un eroe nella tua vita reale? Una tua eroina nella vita reale?
Tutte le mamme

Il tuo nome preferito?
Nome per un cane Coco (cocco), per una persona Basilicum, Lilianna

Cosa odi?
Non mi piace usare questa quella parola

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
--

Quale impresa storica ammiri di più?
La caduta del muro di Berlino

Quale impresa ciclistica ricordi di più?
TDFF con Zwift 2022

Da quale gara non vorresti mai ritirarti?
Strade Bianche

Un dono che vorresti avere?
Vorrei poter parlare le dieci lingue più usate

Come ti senti attualmente?
Completamente a mio agio

Scrivi il tuo motto di vita
Continua a diffondere amore e luce, sorridi e non giudicare mai


Eccola qui la tua Roubaix

Articolo e foto di Federico Guido

Eccola qui la tua Roubaix”. Spesso, quando approccio una delle tante vie in pavé sparse per Milano, mi viene in mente questa frase che mio padre pronunciò, andando a memoria, quando avevo 13 anni. Quella volta, una soleggiata giornata di fine maggio, insieme decidemmo di prendere le bici per andare ad ammirare il colorato gruppo del Giro d’Italia che arrivava a Milano. Con la mia maglia ciclamino indosso e la mia Specialized rosso e argento percorsi al suo fianco gli ampi vialoni che da casa conducono in centro città finché non arrivammo in Corso Magenta, decumano della città noto per ospitare la sede del Cenacolo Vinciano e l’omonimo frequentatissimo bar.

Ai tempi, la via non era ancora stata oggetto dei tanti lavori di manutenzione che l’hanno portata ad avere l’aspetto attuale ma presentava un’omogenea copertura in masselli di pietra, quelli che ancora oggi a tratti si possono notare ai lati delle rotaie del tram. Nella fantasia di un tredicenne appassionato, percorrere quel duro mosaico marrone sulla propria esile bicicletta da corsa poteva davvero assumere i contorni di una volata sulla foresta di Arenberg, scenario che, puntualmente, mio padre con la sua esclamazione riuscì a farmi figurare davanti agli occhi. Le sue parole scatenarono immediatamente il mio spirito d’emulazione e, in breve, iniziai a pigiare forte sui pedali immaginando di essere il Tom Boonen o il Fabian Cancellara della situazione.

Quell’espressione ebbe fin da subito così tanta presa su di me che anche al ritorno, appena la mia ruota toccò i primi metri del Corso, cominciai a mulinare a tutta. Lì però la foga e l’inesperienza ebbero la meglio sulla lucidità e quasi all’altezza del Teatro Litta finii lungo per terra. In un istante, senza quasi il tempo di rendermene conto, persi il controllo della bici e saggiai quanto dure fossero le pietre di quella strada, ma per fortuna non mi feci granché. Più tardi, capii che anch’io, come altri prima di me, avevo avuto il battesimo del pavé milanese, forse il nemico più insidioso per i ciclisti meneghini nella triade completata da buche e rotaie.
Coi tre, negli anni, ho avuto modo di approfondire il rapporto, diventando più esperto e apprendendo le giuste nozioni per provare a neutralizzarli. Il processo, ovviamente, ha richiesto tempo e diverse centinaia di chilometri percorsi durante i quali, come sono cambiato io, è cambiata anche la città attorno a me. Anche il pavé in un certo senso, finito nelle mani di operai e a volte addirittura sostituito dall’asfalto, ha cambiato volto. La frase di mio padre invece, quella frase pronunciata in quella piacevole giornata di fine maggio, è rimasta dov’era, ancorata solidamente in un angolo della memoria e pronta a riaffiorare alla prima vibrazione prodotta dall’incedere della mia bici sulle pietre.

Ancora oggi mi capita spesso, specialmente laddove i sobbalzi in sella sono più violenti, di sentirla risuonare nei meandri della mia testa e di alzare l’andatura facendo di via Ausonio il mio Carrefour de l’Arbre, di via Mazzini il mio Mons-en-Pévèle e di Corso di Porta Romana il mio personale Camphin-en-Pévèle. Proprio come se fosse un incantesimo, al riecheggiare di quelle parole il contesto della Roubaix riesce per magia a prendere forma sotto i miei tubolari, stuzzicando la mia fantasia e facendomi immaginare come possa essere (e che tragitto possa avere) un eventuale Inferno del Nord “alla milanese”.

Anche se questo rimarrà un semplice sogno, nella realtà a ben vedere non mancano le assonanze e i punti in comune tra quello che ad aprile i corridori professionisti fronteggiano in Francia e ciò che i ciclisti milanesi, con le debite proporzioni, affrontano tutti i giorni lungo le strade della città. Senza fare uno sforzo eccessivo, si può riconoscere con facilità come entrambi abbiano a che fare con lastricati imperfetti, superfici insidiose, punti critici e, addirittura, la presenza o meno di (apprezzati) cordoli lato strada. Questi elementi contribuiscono tutti assieme, nel caso della Roubaix, a classificare i vari settori in base al loro grado di difficoltà, una pratica in cui, magari inconsciamente, anche qualcuno che ha solcato a lungo le vie in pavé di Milano si è cimentato.

Proprio con l’idea di stilare una classifica delle strade in lastricato più ostiche del capoluogo lombardo e avvicinare così la città che ha partorito il Giro d’Italia a quella sita nella regione dell’Hauts-de-France, nei mesi scorsi abbiamo provato a ripercorrere, a mo’ di ricognizione, tutti i tratti in masselli e sampietrini presenti all’interno di quello che, una volta, era il percorso delle mura spagnole di Milano.

La zona delimitata nasconde la stragrande maggioranza delle strade in pavé della città del Manzoni, un luogo dove i problemi creati dal lastricato oggi sono proporzionali tanto ai dibattiti suscitati tra i cittadini quanto al fascino conferito da esso a diversi angoli della metropoli. Il pavé, infatti, ha accompagnato l’evolversi di Milano nell’ultimo secolo diventandone sotto molti aspetti un elemento rappresentativo, un immobile serpente dalle squame di porfido che ha visto scorrere eventi e cambiamenti e che, se seguito nella sua interezza, sa ancora regalare una panoramica completa sulla varie anime di una città in costante movimento.

Al nostro passo (e con un occhio sempre rivolto alla strada), tra un’annotazione e l’altra, abbiamo provato ad apprezzarle tutte scoprendo o riscoprendo strade poco battute e, soprattutto, tratti più o meno sconnessi che, dopo aver valutato lo stato d’indolenzimento delle nostre braccia, ci hanno portato a stilare la graduatoria che potete leggere tra poco. Tale suddivisione, volendo restare assolutamente soggettiva, si presta ovviamente ad essere rigirata a piacimento e a divenire, si spera, spunto per possibili dialoghi e confronti costruttivi su un tema sempre attuale come quello delle condizioni delle strade milanesi.

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Via Torino-Carrobbio-Via Cesare Correnti (1000m): Settore tra i peggiori e più pericolosi della città. Alla difficoltà data dalla lunghezza si aggiungono quelle di un traffico piuttosto sostenuto e di un cordolo non praticabile. Obbligatorio, se si vuole stare in strada, percorrere la schiena d’asino al centro delle rotaie. Al Carrobbio, c’è la possibilità di tornare sulle corsie esterne ma per poco visto che, anche in via Correnti, si è costretti al centro dove il pavé procura qualche sobbalzo in più rispetto a quello di Via Torino.

Via Santa Margherita-Piazza Duomo-Via Mazzini-Corso Italia (1500m): Si parte con un pavé semplice e scorrevole passando da Piazza Duomo. Entrando in via Mazzini la musica cambia visto che si ripresentano due leggere schiene d’asino. Il cordolo affianco alle rotaie è per funamboli, la via più sicura è quella tra le rotaie dove ci si può risparmiare la difficoltà di dribblare spuntoni di pietre molto acuminati. Verso Piazza Missouri la strada si allarga e il pavé si ricompatta. In Corso Italia si ripresenta la situazione vista in via Mazzini ma il pavé è tenuto un filo meglio e consente (anche grazie alla leggera discesa fino a Piazza Sant’Eufemia) un’andatura spedita. Finale leggermente in salita e un pelo più scomodo quello che conduce allo “scollinamento” di via Santa Sofia. Da lì si prosegue in leggera discesa ma la sensazione di scomodità, anche a causa dei metri già percorsi, resta. Sempre nella corsia centrale, a zone irregolari, capita di fare qualche sobbalzo più importante degli altri. In corrispondenza di via Burgozzo una striscia laterale in asfalto consente di mettere fine a questo settore decisamente lungo.

Corso di Porta Romana (1400m): Tratto infinito. Dopo pochi metri da Piazza Missori, tolto l’impiccio delle rotaie, inizia un pavé che sostanzialmente è uguale per quasi l’intero settore e vede la presenza di lastre larghe, compatte ma per nulla levigate. A tutto ciò si aggiunge, nella parte iniziale, una leggera pendenza fino ad incrociare via Sforza, scollinata la quale lo spazio sulle corsie esterne consente di pedalare abbastanza tranquilli. A Crocetta si attraversano nuovamente le rotaie e da qui inizia l’ultima sezione, decisamente complicata. Finché si può stare sulle corsie esterne, la marcia, seppur con qualche sussulto, procede di buon passo. Con la comparsa dei parcheggi laterali (in corrispondenza della scuola Bertarelli-Ferraris) e il restringimento delle corsie esterne è obbligatorio passare al centro dove le cose sono terrificanti. A tratti si compiono dei veri e propri voli che ti spezzano le gambe. Negli ultimi (o nei primi, in senso inverso) 200-300 metri la carreggiata si allarga nuovamente e si può riprendere la corsia laterale.
Altri: Via Meravigli, Via San Giovanni sul Muro, Piazza Resistenza Partigiana-Corso Genova.

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Via dell’Orso-Via Monte di Pietà (600m): Settore a senso unico diviso in due dall’incrocio con via Verdi. Nel primo pezzo non c’è scampo: la vicinanza dei parcheggi obbliga a preferire la corsia centrale tra le rotaie dove il pavé è tutto sommato in discrete condizioni. Tutto cambia dopo via Verdi: la strada si allarga, le rotaie scompaiono ma il pavé diventa molto più sconnesso e i sobbalzi si susseguono con continuità. Il settore termina (per fortuna) all’incrocio con via Chiesa Rossa.

Via Manzoni-Via Santa Margherita (950m): Cardo del centro di Milano dove il pavé non lascia respiro. L’inizio è accettabile, poi verso l’Hotel Armani le condizioni peggiorano con sobbalzi continui e pietre piuttosto sconnesse. Si continua così fino a Via Romagnosi, nei pressi della Scala, dove gli evidenti lavori di manutenzione rivelano un pavé più compatto fino all’incrocio con Via San Protaso. Lungo e sfiancante. Le rotaie almeno non infastidiscono particolarmente.

Via Ausonio (350m): Settore non troppo lungo ma terribilmente sconnesso. Da leggere continuamente. Nelle prime decine di metri sei costretto a giocare con le rotaie inutilizzate: sulla destra lo spazio non manca ma la presenza dei parcheggi consiglia una via più sicura a centro strada. Qui le imbarcate non si contano e la mal disposizione delle pietre (molto evidente) ti obbliga a cambiare continuamente traiettoria per evitare il peggio. All’incrocio con via Carroccio le rotaie lasciano tregua per qualche decina di metri (tornano in fondo) ma la marcia resta complicata.
Altri: Porta Ticinese-Carrobbio, Via San Vittore, Via San Maurilio, Via Cappuccio-Via Luini, Via Broletto.

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Piazza Repubblica-Via Turati-Piazza Cavour (650m): Tratto con masselli larghi, molto compatto e ben tenuto dove i sobbalzi sono minimi e la scorrevolezza è eccellente. Tre stelle perché mediamente lungo e perché il passaggio nei pressi di Radio 105 comporta l’attraversamento delle rotaie.

Corso di Porta Vigentina (450m): Tratto a lastre larghe piuttosto irregolari, specie vicino alla circonvallazione interna. In quel pezzo si affrontano balzi piuttosto accentuati, per il resto il settore è abbastanza scorrevole e in leggera salita verso Crocetta (al contrario dal lato opposto). Per chi non vuole cimentarsi nello zig-zag tra le rotaie è preferibile imboccare e tenere in entrambi i sensi di marcia la corsia centrale.
Altri: Corso Magenta (fino ad angolo Via Carducci), Via Vico-Olivetani, Via Olivetani- Via San Vittore, Moneta-Ambrosiana-Sepolcro-Bollo, Via Santa Marta, Foro Bonaparte, Via Mercato-Via Ponte Vetero, Via Cusani, Via San Marco ang. Castelfidardo-Via Solferino, Via Battisti-Largo Augusto, Via Lamarmora, Via Armorari-Via Spadari.

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Corso Magenta (fino a via San Giovanni sul Muro), Cordusio-Via Orefici, Piazza S. Ambrogio (lato questura)-Via S. Valeria, Via Circo-Via San Sisto, Piazza San Marco-Corso Garibaldi, Via De Amicis-Corso Genova, Via Carroccio, Via Cesare da Sesto, Via Castelfidardo-Via San Marco, Via Olmetto, Via Cordusio, Via Bocchetto.

*
Piazza S. Ambrogio (lato case), Via Dante, Via Sacchi, Via Brera, Via San Protaso, Via Porrone, Via San Marco-immissione angolo Via Castelfidardo, Via Chiossetto, Via Corridoni, Via della Palla, Piazza Sant’Alessandro, Via Lupetta, Via Zebedia, Via delle Asole, Via Cardinal Federico, Via Valpetrosa, Via Fosse Ardeatine, Via del Bollo e Via dell’Ambrosiana, Via della Posta, Giro Piazza della Borsa, Via Santa Maria Fulcorina.

 


Nella mente di Silvia Persico al Fiandre

Giusto qualche giorno fa, Davide Arzeni, detto "Capo", direttore sportivo della UAE Adq, ha detto un grazie particolare a Silvia Persico e l'ha motivato così: «Grazie perché è stato bello sognare, non mollare mai». Arzeni si riferiva a domenica pomeriggio, alla Ronde van Vlaanderen e alla prova di Persico. Probabilmente, il momento in cui è stato più bello sognare è stato proprio quando Lotte Kopecky, Marlen Reusser e Lorena Wiebes, sul Koppenberg, hanno messo in riga tutte le avversarie, andandosene via di convinzione e prepotenza. Tre atlete, tutte e tre del team SD-Worx, già, ma non sono sole. Con loro c'è una ragazza dalla maglia dai colori simili, ma diversi: è Silvia Persico. L'unica atleta a tenere il passo della corazzata.

A dire il vero, Silvia Persico ci racconta che il sabato pomeriggio non si sentiva proprio bene. Si sentiva strana, ma prima delle gare succede spesso. Nel tempo si è convinta che il suo corpo metta in atto una sorta di meccanismo di "risparmio energetico", quasi automatico, prima delle prove importanti. Per questo il giorno precedente ci si sente spenti: «Il venerdì abbiamo massaggi più intensi, se c'è la corsa. Credo che dopo quelli, i miei muscoli si mettano in una sorta di standby fino alla gara». Proprio perché conosce questo meccanismo, Persico alla partenza di domenica era tranquilla, della serie: "vediamo come va". Almeno questa è la sua prima risposta, poi, però, arriva la seconda che è, forse, la più vera.

«Sai, negli ultimi tempi, ho visto molte gare da casa, dall'altura, e non è sempre facile guardare le altre che gareggiano, anche se sai che ti stai preparando pure tu. Vedevo le gare e notavo questo dominio SD-Worx, soprattutto al Nord. Non nego che ci ho pensato: "Quando torno, voglio far vedere che ci sono anche io, che ci siamo anche noi. E, se vogliono batterci, devono sudarsela». Ecco, in quel momento, nel momento in cui Arzeni (e non solo) sogna, la promessa è mantenuta, tanto più che Reusser e Wiebes lasciano il gruppetto e davanti restano solo in due: Kopecky e Persico.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Lotte Kopecky (BEL - Team SD Worx) Marlen Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Così Silvia Persico si attacca alla radiolina: «Davide, cosa devo fare? Cosa faccio?». La risposta è chiara: collabora. «Chiedo sempre come muovermi, cosa fare, per me è importante il consiglio di chi ci segue, anche perché, in corsa, capitano momenti in cui non si è lucidi». In quel momento no, Persico sta bene, Kopecky fa un buon ritmo, ma lei lo tiene con apparente facilità. Le concede anche cambi e il loro vantaggio sul gruppetto inseguitore cresce. Si stupisce anche lei: «Non correvo sulle pietre da un anno e il giorno prima avevo provato tutti i settori in pavè a ritmo gara per ritrovare la pedalata. Devo ammettere che non ho un particolare modo di pedalare sulle pietre, mi viene naturale. Però, ecco, dopo un anno, erano sensazioni perfette».

Metro dopo metro, pietra dopo pietra, muro dopo muro e chilometro dopo chilometro, la fatica inizia a consumare e Persico se ne accorge. Non può farsi capire da Lotte Kopecky, ma il suo corpo non la inganna: le energie stanno iniziando a mancare. Non siamo ancora sul Kwaremont: «Non puoi farci molto quando succede così. Ho preso un gel, mi sono aggrappata a lui. Tavolta la lampadina si spegne in un colpo solo, un vuoto totale dal nulla, talvolta invece lancia dei segnali. Questa volta i segnali c'erano tutti». Per giunta nel momento peggiore, perché sul Kwaremont ci si aspetta l'attacco di Kopecky.

Così avviene: Lotte Kopecky forza l'andatura, aziona il turbo e Persico perde contatto. In molti hanno notato uno scivolamento della sua ruota sul bagnato, lei lo ammette, ma precisa: «Vero, c'erano tratti bagnati abbastanza infidi. La ruota è scivolata, però non mi sono staccata per quello. Mentirei se lo dicessi. Quel gel non è stato abbastanza e appena il ritmo è aumentato le mie gambe mi hanno lasciato». Spiega che non sarebbe servito molto, parla di "tre minuti di autonomia in più" sufficienti, forse, per vedere un altro finale. Proprio lì, la lucidità se ne va. Per la stanchezza, per la fatica, forse anche per la sensazione di aver buttato via una possibilità.

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Lotte Kopecky (BEL - Team SD Worx) Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Non so nemmeno esattamente cosa mi dicessero dall'ammiraglia. Ricordo che ripetevano di stare tranquilla, di provare per il podio, ma che sarebbe stata una grande giornata a prescindere, ma non ricordo molto. Ero in confusione». Persico prova ad andare del proprio passo, sperando di tornare su Kopecky, invece è il gruppetto di Reusser, Vollering, Longo Borghini, Niewiadoma e Labous, a rientrare su di lei: «Mi chiedevano cambi e io li saltavo. Non perché non volessi, ma perché non riuscivo. Avevo timore nell'affrontare i tratti in discesa, le curve. Non mi sentivo sicura. Ero svuotata».

Ronde van Vlaanderen - Tour des Flandres 2023 - Women 2023 - 20th Edition - Oudenaarde - Oudenaarde 156,6 km - 02/04/2023 - Silvia Persico (ITA - UAE Team ADQ) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Sebbene, per sua stessa confessione, Silvia Persico non sia solita rivedersi, non le piace nemmeno, questo Fiandre lo ha rivisto con attenzione e con l'occhio di chi sa che il passato serve al futuro. Quando lo ha rivisto, ha avuto la consapevolezza di aver impostato in maniera errata la volata che poi le ha consegnato il quarto posto, a un passo dal podio: «Curavo Reusser, poi la volata l'ha fatta Vollering e anche Longo Borghini mi ha superato. Ero di una posizione indietro, forse anche essendo più avanti di mezza bicicletta, sarebbe andata meglio». Felice sì, ma di quella felicità agrodolce, Persico aggiunge che la sua famiglia è soddisfatta ma, in fondo, sa che anche per loro un pizzico di delusione c'è, dopo una corsa così. Suo fratello le ha scritto: «Ti rendi conto che stavi correndo il Fiandre? Ti rendi conto di cosa sei riuscita a fare al Fiandre?». Anche mentre chiacchiera con noi, Silvia ci pensa, forse se ne convincerà.

La testa ora è alle Ardenne: non ha mai corso queste gare. Una volta è partita, ma, poi, si è ritirata causa infortunio ad una mano. Insomma, nel mirino Amstel, Liegi e Freccia? «Sì, più Amstel e Liegi, probabilmente. Anche se, tra le due, sono più da Amstel. Ora so cosa mi è mancato qui. All'Amstel avrò qualcosa in più, una nuova esperienza. Ci rivediamo lì». Sì, ci rivediamo proprio lì.


Prosecco e speranze: quei pomeriggi in mezzo al ciclismo

Al primo piano dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una maglia in una teca. Una maglia tricolore in una teca di vetro, per la precisione. Unico oggetto su un’intera parete, è giustificata da una piccola targhetta, ma nessuno la legge: chi frequenta la stanza sa benissimo vita, morte e miracoli di quella maglia tricolore. Appartenne a Guido De Rosso, il più forte ciclista di sempre di Col San Martino.

In questa frazione di Farra di Soligo, mi spiega Mario, nipote di Guido, il cognome De Rosso è piuttosto comune. Col San Martino non fa comune, anche se ha circa 4000 abitanti, è benestante e tanto grazioso che stride ridurlo al ruolo di frazione. C’è stato un momento, addirittura, mi dice tra le righe Mario De Rosso, in cui Col San Martino era per il ciclismo italiano ciò che era New York per il basket americano: la Mecca del gioco. Guido De Rosso vinse il Tour de l’Avenir del 1961 e – erano tempi diversi – tornò a casa in treno. Scese a Cornuda, una ventina di chilometri a sud-ovest di Pieve di Soligo e non si sa come tutti erano al corrente che quel valoroso ciclista sarebbe sceso dal treno. Ogni paese brulicava di gente a bordo strada per salutare il giovane campione.

Arrivato finalmente a Col San Martino, vi fu una grande festa in piazza. Mario mi mostra una foto incredibile di suo zio tenuto sulle spalle da qualche tifoso. Sbuca col petto dalla folla, che lo acclama: tutti sembra vogliano fargli le congratulazioni, gridargli evviva, toccarlo. Un braccio proteso ci riesce, mentre una bambina è a cavalcioni sulle spalle degli adulti per poter ammirare la ventunenne speranza del ciclismo italiano. Da tutte le finestre si affacciano le persone, De Rosso tiene in mano e sventola orgoglioso un bouquet di fiori. Fausto Coppi era morto da poco più di un anno e il corridore più forte del mondo, nei primi anni Sessanta, non solo non era italiano, ma era pure francese: Jacques Anquetil. A Col San Martino bastava Guido De Rosso.

De Rosso è passato professionista e ha avuto successo. Due Milano-Vignola, un Giro del Piemonte, due Trofeo Matteotti, un podio finale al Giro d’Italia: nel 1964, l’anno in cui forse andò più forte. Mario ricorda soprattutto un aneddoto che gli raccontava lo zio: al Giro del Trentino del 1963 (all’epoca si correva su giornata unica) nei chilometri finali Ercole Baldini gli disse «Guarda Guido, tirami la volata e ti do diecimila lire». Forse pensando di non potercela fare, De Rosso accettò. Tirò per tutto il chilometro finale, tirò fino a che non sentiva male ai polmoni, tirò la volata finché non chiuse gli occhi per la fatica. Quando li riaprì, vide la linea bianca sotto la ruota anteriore. Si voltò, Baldini era dietro. Guardò avanti a sé: non c’era proprio nessuno. Aveva vinto lui. Dopo il traguardo Baldini gli disse che se le poteva anche sognare, quelle diecimila lire.

«Ricordo benissimo i pomeriggi d’estate con mio zio e mio padre a mangiare anguria e guardare il ciclismo» dice alla vigilia del 74° Trofeo Piva il presidente dell’A.C. Col San Martino, società organizzatrice della corsa, Mario De Rosso. Il giorno della gara si sarebbe svegliato al più tardi alle 5:30 e il giorno dopo è dappertutto: lo trovo al pranzo con la polizia e la scorta tecnica, sulla salita di Combai dove uno sponsor regala a tutti flûte di Prosecco (gentilezza di cui ho abusato), all’arrivo e alle premiazioni, ad oltranza.

Una persona che invece non mi aspettavo di trovare alla partenza di Col San Martino è Gianni Savio. La squadra del Principe non partecipa, ma lui è qui a parlare con chiunque. Trentacinque squadre al via realizzano un notevole via vai di persone, mezzi di corsa, meccanici: la giostra colorata intasa tutta piazza Rovere. Di tutti i corridori presenti, Tyler Hannay è particolarmente interessante. Viene dall’isola di Man e vive a Lamporecchio perché corre con la Mastromarco, ha svariati denti sbeccati da cadute in bici e voglia di correre perché, abituato al freddo britannico, questi nuvoloni neri senza pioggia equivalgono per lui ad un clima quasi tropicale. Nicolò Buratti del Cycling Team Friuli è arrivato secondo alla Gent-Wevelgem pochi giorni fa ed è quindi uno dei favoriti per la corsa di oggi: «Credo di essere, sì, tra gli uomini più forma». Non ha i guanti e sta iniziando a piovere: sto andando a metterli, assicura, anche se dopo il tempaccio belga non teme più nulla.

La corsa è massacrante. Circa 3000 metri di dislivello disposti su quasi 180 chilometri sono un’enormità per la categoria. Nove volte Combai (2,2 km al 7,4%) e tre volte, nel finale, il terribile strappo di San Vigilio (mezzo chilometro al 12%, con punte al 22% e in parte cementato) selezionano i corridori giro dopo giro. È una corsa a eliminazione sulla quale, per la gioia di molti corridori, è spuntato uno splendido sole che ravviva il verde delle colline del Prosecco. L’ultima ascesa verso i cipressi affianco la chiesetta di San Vigilio è affrontata benissimo da Alessio Martinelli della Green Project-Bardiani, Sergio Meris della Colpack e Davide De Pretto della Zalf. In discesa, però, ripidissima picchiata verso il centro di Col San Martino, rientra Giacomo Villa della Biesse-Carrera e anticipa la volata, beffando i tre di testa.

Nel ricostruire il concitato finale, Alessio Martinelli confessa che negli ultimi 500 metri non c’era accordo nel terzetto di testa. Lui ha sfruttato il lavoro dei compagni di squadra Pinarello e Pellizzari, ma si è fatto sorprendere: «Il rientro di Villa, ai 300 metri penso, mi ha colto alla sprovvista. È partito subito, quindi sono partito anch’io, ma era troppo tardi. Per rientrare dev’essere andato fortissimo in discesa». Mentre finisce la frase, il massaggiatore della Green Project-Bardiani («il signor Piro, Piro per gli amici») tira fuori un asciugamano e glielo passa energicamente sul viso, ripulendolo da sudore e polvere.

Sul palco, Martinelli è più che presentabile. Giacomo Villa è al settimo cielo, ma composto. Non è una vittoria arrivata a caso: è andato molto forte al GP Industria di Larciano e un suo compagno di squadra, Anders Foldager, ha già centrato il podio in una corsa tra i professionisti, la Per Sempre Alfredo. Con Foldager avevo parlato già allo scorso Trofeo Piva, quando mi aveva stupito per determinazione a parole e grinta sui pedali. Quest’anno è un po’ diversa: «Arrivo da una settimana di raffreddore e febbre», mi dice in partenza. All’arrivo, invece, descrive con una sola parola la sua corsa: «Fuck». È contento di aver aiutato Villa, certo, ma gli ho di nuovo visto negli occhi quel guizzo del vincente, quello per cui "ok ha vinto un mio compagno ma volevo vincere io", che lo farà andare lontano al piano di sopra.

Villa è stato tatticamente perfetto nel finale, ma proprio negli ultimi metri ha avuto un brivido. L’arrivo è leggermente in salita e non appena si è assicurato della vittoria si è alzato sul manubrio per festeggiare emulando le ali di Wout van Aert a Calais. Così facendo ha rischiato di cadere e di perdere la volata. «Proprio ieri ho visto il video di Van Aert che esultava facendo il condor: non ricordo quale tappa fosse, ma mi è rimasto in mente. Allora ho pensato lo faccio anch’io. Poi mi sono girato, ho visto Martinelli e mi sono rimesso a pedalare». Non sa di quanto ha vinto, quindi magari non ci sarebbe stato bisogno di tornare a pedalare, ma l’arrivo gli «sarà di lezione». Ha vissuto un momento di terrore, certo, ammette in modo più colorito.

Di tutte le cose che è stato il 74° Trofeo Piva, due pianti mi rimarranno impressi. Sono molto diversi tra loro. Il primo è quello di David Ruvalcaba, messicano 9° all’arrivo, alla prima prestazione di questo livello in una corsa internazionale. I suoi compagni della AR Monex lo hanno circondato e riempito di complimenti e a un certo punto David non è più riuscito a trattenere le lacrime. Il secondo pianto, invece, è quello della signora Franca del Ristoro Collagù, un delizioso posticino in cui sfamarsi sulle colline del Prosecco. Quando le chiedo delle origini di quel capanno adibito a locanda, risponde che era il sogno di Andrea Bortolin, agricoltore travolto da un trattore in una vigna poco distante. Bortolin aveva lavorato molto per la promozione del territorio, che dal 2019 è tra i Patrimoni dell’umanità UNESCO e la cui cura va molto oltre la produzione del vino, come assicurano Silvia dell’azienda agricola Riva Granda o Luca, cerimoniere della Confraternita di Valdobbiadene.

Il lavoro in questi vitigni particolarmente scoscesi è definito non a caso eroico: al piano terra dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una scritta, grossa, che sintetizza bene le persone che lavorano qui: «Viticoltori di pendio». Salite, biciclette, Prosecco: il Trofeo Piva è la più precisa rappresentazione di una parte di Veneto tanto bella che non sembra vera.

Foto: Alessio Pederiva


Il ciclismo di quelli lì

Continua a essere il ciclismo di quelli. Quelli che hanno alzato il livello e scavato un solco con la concorrenza. Quelli che sono due e poi quattro, e diventano cinque e se gliene togli un paio fa tre, almeno fino a quando la matematica non diventerà un’opinione. Continua a essere, anzi in realtà lo è da (relativamente) poco, ma ci stanno prendendo gusto, il ciclismo di Roglič ed Evenepoel che settimana scorsa al Catalunya hanno monopolizzato una corsa schiacciata dall’ingombrante presenza delle Corse del Nord, ma loro due non lo sanno o se ne fregano e hanno cercato di valorizzarla pure con numeri da record nonostante due maglie troppo brutte per essere vere: bianche con qualche inserto, uno verde e l’altro arancione. Una roba inguardabile.

Che c’azzecca il colore delle maglie con le loro prestazioni? Considerato che uno vestirebbe la più prestigiosa e riconoscibile del gruppo, quella iridata, l’altra un paio di anni fa ne sfoggiava un’altra altrettanto bella, quella di campione nazionale sloveno con il Triglav in bella vista - a proposito se non ci siete stati in Slovenia andateci, occhio solo al tratto dopo Postumia perché all’improvviso anche in una giornata di piena primavera si può scatenare l’inferno sotto forma di tempesta di ghiaccio e neve e non è un romanzo fantasy, né una corsa in Belgio - insomma considerato questo è giusto porre l’attenzione su quei pigiamoni da leader delle varie classifiche. Oltretutto così simili tra loro non si capiva chi fosse leader di cosa. Soprattutto a guardare le immagini dallo schermo di un computer.

Volta Ciclista a Catalunya 2023 - 102nd Edition - 7th stage Barcelona - Barcelona 136 km - 26/03/2023 - Remco Evenepoel (BEL - Soudal - Quick Step) - Primoz Roglic (SLO - Jumbo - Visma) - photo Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Il ciclismo di Roglič ed Evenepeol è spettacolo ma pure avanspettacolo e qualche rubrica da seguire nel dopo cena. In Belgio ne vanno matti e per una volta pure in Spagna hanno apprezzato lo sceneggiato. Si beccano, scattano e si staccano, fingono, arrancano, concedono poco o nulla se non qualcosa a un velocista di cui si parla troppo poco - Groves, numero notevole il suo: vince la volata sulla bici di un compagno di squadra - e a un mezzo scalatore, di nome Ciccone: mezzo non perché non sia forte, ma perché l’altra metà sembra altro, un cacciatore di tappe, miste o di montagna, e chi scrive vorrebbe bramoso aizzatore di folle nelle classiche ardennesi, uno di quei corridori su cui bisognerebbe puntare per rimpinguare la magrissima pancia del ciclismo italiano ormai sempre più rachitico alla stregua di tutte le altre nazionali del ciclismo che contano da pochi anni o hanno sempre contato. Insomma quell’abruzzese che a 29 anni come da tradizione nostra è pronto e maturo per traguardi più importanti ed è pronto a lanciare una scialuppa al 2023 italico.

Catalunya, o Catalunya, dunque: cosa ci hai detto di memorabile? In a nutshell scrivono o persino dicono quelli che parlano male: al Giro Roglič ed Evenepoel continueranno a dare spettacolo, a punzecchiarsi, lo faranno per loro e per noi, ci faranno divertire e sinceramente a oggi non sapremmo nemmeno dire chi potrà prevalere sull’altro. Magari come già successo ne esce fuori un terzo, ma al momento quella lista è totalmente priva di nomi e idee. Evenepoel è uno che non le manda a dire, forse in questo senso è quello che appare più impulsivo e naturale. Prepariamo un bell'agenda per prendere appunti nei dopo tappa, il bimbo belga ci darà pagine da riempire.

Gent Wevelgem 2023 - 85th Edition - Ypres - Wevelgem 260,9 km - 26/03/2023 - Wout Van Aert (BEL - Jumbo - Visma) - Christophe Laporte (FRA - Jumbo - Visma) - photo Vincent Kalut/PN/SprintCyclingAgency©2023

Il ciclismo di quelli lì poi tocca il Nord in un pomeriggio di un giorno da cani, per loro ad Harelbeke, anzi da gattoni, perché si graffiano e trovano l’unico momento di tregua dalla pioggia tra il mercoledì di La Panne (oh finalmente Philipsen, che vittoria!) e la domenica pomeriggio del “Jumbo Visma Show" sulle strade della Gent-Wevelgem; spettacolo che non piace a tutti, e si capisce come una vittoria in parata possa far storcere il naso. Per chi scrive nulla di male nel vedere il capitano concedere la vittoria in una corsa dove tutto appare già scritto nel momento in cui Laporte e van Aert se ne vanno sul Kemmelberg lasciando gli altri a zigzagare e a fare equilibrismi per stare in piedi sulle pietre scivolose delle Fiandre Orientali. Anzi l'invito è: leggete questo pensiero ben articolato da Ilenia Lazzaro, giornalista di Eurosport, sull'argomento van Aert, corridore che come si muove sbaglia. Destino dei più grandi.

E insomma dicevamo: qualche giorno prima della Gent-Wevelgem, nel mini Fiandre che arriva ad Harelbeke, c'è stato un antipasto di quello che sarà questa domenica nella gara delle gare tra Bruges e Oudenaarde: Pogačar, van der Poel e van Aert che staccano tutti. Ecco il ciclismo di quelli lì. Uno che scatta qualche centinaio di volte, l’altro che accende la gara lontano dal traguardo come una sigaretta in mezzo a una platea di non fumatori, il terzo che è quello che fa più fatica a tenere certe sgasate, resiste e poi vince.

Un pomeriggio qualsiasi impreziosito dal modo di fare ciclismo di quelli lì.

Chissà come andrà in quello che sarà il Fiandre vero e proprio, la festa dei belgi, ma pure la nostra che quando si tratta di corse a quelle latitudini non capiamo più nulla, la nostra testa si riempie di spiriti come la casa de gli invasati di Shirley Jackson, e se poi i tre di cui sopra decidono di dare spettacolo in questo modo allora per noi è finita, preparate calmanti e camicie di forza.


Una giornata da Nord Europa

«Veramente non conosci Jukka Vastaranta?»
Rimango di sasso, certo che non lo conosco. La domanda proviene dall’unico finlandese alla partenza del 73° Trofeo Piva, Veeti Vainio, a cui sembra impossibile che qualcuno non sappia del «Remco Evenepoel finlandese». Nato una ventina d’anni prima di Remco, Vastaranta è stato uno dei più forti corridori del mondo a livello junior, prima di perdersi un po’ tra i professionisti. Vainio è abbondante nei dettagli e col sorriso descrive la carriera del suo mentore «Kari Myrryylainen, compagno di squadra di Miguel Indurain negli anni Ottanta alla Reynolds».

Di ciclismo scandinavo parliamo in lungo e in largo anche con un compagno di squadra di Vainio, lo svedese August Haglund. Sono gli unici due non impegnati a battere i denti. Piove così forte che viene coperto persino il rumore dei freni a disco. Qualcuno con un manico di scopa fa defluire l’acqua accumulata su una tenda e sembra di stare sotto una cascata. «Non è questo il tipo di clima che finisce sulle cartoline che rappresentano l’Italia» scherza Haglund.

Chi non sta scherzando affatto è Manuel Oioli della Eolo U23. Tremando come una foglia, sussurra che la corsa dovrà partire forte per far scaldare i muscoli di tutti. «Potrebbero esserci anche Zoncolan o Mortirolo ma partiamo sennò prendo freddo». Un signore attempato si rivolge a un corridore irriconoscibile, nascosto com’è da giubbotto e scaldacollo, dicendogli che per la prima volta non invidia chi dovrà pedalare sotto l’acqua: come risposta ottiene un paio di bestemmie, seguite da uno sguardo consolatorio al cielo: «Almeno non nevica».

Fermi alla presentazione delle squadre, in attesa della chiamata sul podio, non tutti i corridori temono il freddo. «Per me questa è la temperatura ideale» assicura il danese Anders Foldager della Biesse-Carrera infilandosi guantini a mezze dita. Addosso, oltre a una canottiera, non ha granché. Diversi atleti messicani della AR Monex, invece, si stringono le mani sotto le ascelle nel tentativo di scaldarle un minimo.

Mentre il vento fa cadere diverse bici appoggiate sugli stalli vicino al foglio firma, Giosuè Crescioli della Mastromarco rivela che il suo nome deriva da quello del figlio di Roberto Benigni in La vita è bella. Sta cercando riparo sotto una tettoia, a fianco di cilindri metallici alti diversi metri, tra i quali ci sono biciclette tirate a lucido e damigiane di vino. Il Trofeo Piva, infatti, prende il via dal quartier generale di un’importante azienda vinicola della zona, da cui viene uno dei vini più apprezzati al mondo: il Prosecco.

La corsa si snoda in un paesaggio a mosaico nel quale si alternano viti, boschi e piccoli paesini: Col San Martino, frazione di Farra di Soligo, è uno di questi. Camminando verso la chiesetta della Beata Vergine Addolorata di Collagù si notano i ciglioni, ovvero particolari terrapieni che consentono di coltivare le viti anche su pendii così scoscesi. Non passa lontano da qui la corsa, tanto che una vista aerea perfetta sui corridori è possibile dalle Torri di Credazzo.

Da sempre il Trofeo Piva è sinonimo della salita verso Combai, una frazione del comune di Miane, ma di recente è stata inserita nel percorso anche la Riva di San Vigilio: 400 metri al 16% con un tratto finale in cemento. Tre passaggi qui rendono la corsa un vero inferno: «la pioggia ha reso quello strappo scivoloso, dovevi pedalare sempre costante e fluido» dice Davide Toneatti all’arrivo. Martin Marcellusi, che vincerà la corsa, ammette di aver scollinato oltre quella mulattiera solo grazie ad un rapporto, il 39x33, montato appositamente.

«Go provào a fare chela corsa chì quando corea, ma dopo due Combai me son fermào lì» dice Diego in spiccato accento veneto. È un accompagnatore della General Store e assieme a Gianmarco Carpene stanno aspettando l’arrivo di Samuele Carpene: «Abbiamo fatto la corsa per mio fratello ed è lì davanti che se la sta giocando» afferma speranzoso mentre cerca di pulirsi la faccia dallo sporco accumulato sotto la pioggia.

Sta prendendo molto freddo, ma rimane per vedere il finale: suo fratello maggiore è un esempio per lui e «certo che può vincere oggi, è un finale adatto». È un finale meno adatto alle caratteristiche di Marco Frigo, invece, ma il ventiduenne di Bassano del Grappa conosce quelle strade a memoria ed è sostenuto dal fan club più rumoroso del Veneto: «Sulla salita del Combai si sono appostati con motoseghe, trombe, con tutto. Questa è veramente una bella gara, con tanto pubblico» continua Frigo. «Nei passaggi verso Riva di San Vigilio ho cercato di accelerare perché passare di lì e andare piano non è neanche godurioso».

Tra le vigne che circondano la chiesa di San Vigilio qualcuno prepara da mangiare, altri condividono i cellulari per la visione del simultaneo Giro delle Fiandre. Con la voce rotta dalla fatica, spingendo sui pedali in punta di sella, combattendo per non farsi passare dal fine corsa, Giosuè Crescioli chiede al fotografo di scattargli una foto con le vigne sullo sfondo. Col cielo nero, col cuore a tre battiti al secondo, la bellezza di queste colline è l’unica cosa a cui aggrapparsi.


Quella prima volta in Belgio

Il Cycling Team Friuli si affaccia nel mondo del ciclismo dal 2005 e negli anni ha scalato le gerarchie di quello che una volta avremmo definito dilettantismo - mentre oggi quel tipo di definizione lascia il tempo che trova: tra Continental, squadre Under 23, team di sviluppo, appare quasi obsoleto parlare ancora di dilettanti come categoria che prepara al salto tra i professionisti, ma questo è un altro discorso. Il Cycling Team Friuli, col tempo, è diventato un punto di riferimento in Italia di quella categoria trait d'union con il professionismo, quella categoria fondamentale per insegnare ai ragazzi quello che verrà.

Ha scaldato i motori qualche stagione fa lanciando al piano superiore uno dei nostri corridori preferiti - e più alvento di tutti - ovvero Alessandro De Marchi, vero simbolo della CTF della prima ora e ha proseguito nelle stagioni successive con i fratelli Bais (Davide e Mattia), Alessandro Pessot (oggi parte dello staff della squadra), Nicola Venchiarutti, Matteo Fabbro, Giovanni Aleotti, Andrea Pietrobon, Jonathan Milan, Fran Miholjevic e nel 2024 farà salire nella categoria maggiore Nicolò Buratti e Alberto Bruttomesso, per la verità quest'ultimo arrivato solo pochi mesi fa con l'obiettivo di prepararsi al meglio per il grande salto con il Team Bahrain Victorious, squadra di cui il CTF da un paio di stagioni è a tutti gli effetti il team di sviluppo.

Negli anni, i ragazzi guidati da Roberto Bressan e Renzo Boscolo, e in ammiraglia da Alessio Mattiussi e Fabio Baronti, si sono sempre distinti per far crescere gradualmente i propri atleti preparandoli al professionismo facendogli maturare esperienza all'estero, soprattutto nell'est Europa, ma dal 2023 qualcosa è leggermente cambiato. Attività al di fuori dell'Italia, sì, ma un po' più su di quella che ormai è la consolidata tradizione degli ex bianconeri friulani.

Abbiamo ascoltato uno dei tecnici della squadra, Alessio Mattiussi, fresco proprio della trasferta in Belgio alla Youngster Coast Challenge, e in procinto di ritornare lassù al Nord per disputare una della gare più attese del calendario Under 23: la Gent-Wevelgem che si correrà in una giornata piena zeppa di ciclismo da quelle parti, una sorta di mini-mondiale: quel giorno infatti, domenica 26 marzo, su quelle strade correranno anche gli juniores e ovviamente le due massime categorie rappresentate da donne e uomini élite.

Quest’anno un passo importante: per voi è la prima volta in Belgio.

Come Cycling team Friuli sì: lo scorso anno invece Buratti andò a correre proprio la Gent-Wevelgem con la maglia della Nazionale. Per questo 2023 abbiamo deciso di cambiare: noi di solito andiamo a disputare le corse nell’est Europa ma abbiamo sempre avuto il pallino di andare in Belgio, ma organizzare quel tipo di trasferte non è per nulla facile. Ci siamo riusciti grazie anche al supporto del Team Bahrain, e così abbiamo corso Youngster Coast Challenge e poi correremo la Gent.

Uno dei miei cavalli di battaglia, che porto avanti da sempre, è: per essere davvero competitivi tra i professionisti, nelle categorie giovanili bisogna andare al nord e quindi in Francia, Olanda e Belgio e scontrarsi contro le squadre che fanno abitualmente quel calendario e misurarsi su quel tipo di percorsi. Questo tipo di esperienza in che modo può servire ai ragazzi per essere poi pronti al piano di sopra?

Lo abbiamo visto sin dalla recon della Gent: un approccio diverso al modo di correre, percorsi vari e ricchi di ostacoli, l'imbocco dei muri è totalmente differente da un inizio salita in Italia. E poi ti trovi il pavé in mezzo ai paesi o all'improvviso nelle strade di campagna e ciò ti costringe ad alzare la soglia dell’attenzione: capitano imprevisti, cadute e forature. Questo porta a un interpretazione della corsa differente: ti tiene sempre sull’attenti, ti sollecita, un modo di correre più nervoso: dall'ammiraglia tutti chiedono di prendere davanti i muri o quei tratti particolari dal punto di vista tecnico, e il risultato è che il gruppo si allunga e si alza in maniera decisa il ritmo della corsa.

E senza dimenticare il vento.

In Italia, Slovenia, Croazia, dove corriamo spesso noi, puoi capitare la giornata di pioggia e vento, ma lì è all’ordine del giorno e infatti alla Youngster - dove per altro siamo stati fortunati con il meteo, niente pioggia e vento solo a tratti - in un momento in cui tirava un po’ di vento, le squadre development, Lotto e Uno-X su tutte, hanno provato ad attaccare aprendo i ventagli. È questa la chiave: o stai davanti e impari a correre in quella maniera, oppure se fuori dalla corsa.

 

Cosa ha dato ai tuoi ragazzi questa prima esperienza in Belgio?

Per loro è stato importante andare su qualche giorno prima. Di solito per far fronte al budget si va sempre a ridosso della corsa, mentre noi grazie al supporto della Bahrain siamo rimasti su per una settimana da lunedì a venerdì, abbiamo provato i percorsi e abbiamo vissuto quasi come un team World Tour: cinque giorni di trasferta, ricognizione di tutta la Gent e questo ti porta a capire già cosa vuol dire imboccare davanti un punto cruciale come il Kemmelberg ad esempio. Abbiamo provato il vero pavè belga e lo abbiamo fatto in bici, anche per capire i vari setup da usare: le ruote più adatte all’occasione, che rapporto utilizzare sui muri, perché la scelta è vasta, ma ti devi chiedere: qual è il più efficace? Anche per evitare cadute di catena e altri imprevisti. E poi è stato fondamentale fare la Youngster Coast Challenge prima della Gent-Wevelgem per farci un'idea di quello che troveremo domenica sia a livello di avversari che di percorso.

E qualche loro impressione?

Che si sgomita tanto per le posizioni.

Anche a livello di staff avete fatto un’esperienza tutta nuova. Vi siete avvalsi del supporto di qualcuno?

Lo staff era composto da me, Fabio Baronti e Alessandro Pessot, ma con noi c’era Borut Božič che ha corso molti anni anche in Belgio e ha portato la sua esperienza in questo tipo di percorsi, ci ha aiutato nell’analisi della gara, spiegandoci soprattutto quali sono i punti caldi di corse di questo genere.

Come si vive dall’ammiraglia una corsa così?

Da una parte con tranquillità, perché il meteo venerdì è stato clemente: non ha piovuto e ci sono stati pochi tratti battuti dal vento. Dall’altra tensione. Bruttomesso ha forato proprio su un ventaglio e quindi c’è stata un po' di concitazione: quello è stato il momento più critico, forse. Poi però dai muri in poi è stato molto emozionante: se generalmente le “nostre” corse si accendono nel finale e l’adrenalina sale nei chilometri che portano all’arrivo, qui la gara si anima da metà corsa con l'imbocco dei primi muri.

Ho visto un video del Kemmelberg dove i vostri ragazzi erano davanti, tutti nelle prime posizioni, c'era Olivo, Buratti… poi cos’è successo, troppo forti Segaert e Vangelhuwe?

I ragazzi hanno messo in pratica ciò che ci siamo detti e sul Kemmelberg, punto cruciale della corsa, erano davanti, nelle prime posizioni del gruppo, poi a causa di una caduta un paio dei nostri hanno messo il piede a terra e così ci siamo ritrovati a inseguire. A fine Kemmelberg il gruppo era allungatissimo prima del Roderberg, che si affronta praticamente subito dopo, e i Lotto hanno fatto un'azione di squadra, di forza, e da lì sono usciti Vangheluwe e Segaert (che poi si giocheranno il successo: vincerà Vangheluwe della Soudal Quick Step Devo, NdA), mentre a noi è mancato veramente pochissimo per agganciarli e mettere dentro uno dei nostri in quella che poi si rivelerà la fuga decisiva.

Il livello poi era molto alto.

Con nove squadre Development alla partenza, direi proprio sì. È stata un'esperienza importante, una gara riferimento.

E si torna al discorso fatto prima: per diventare un professionista a tutti gli effetti devi passare da qui, banalmente si dice: è una scuola.

Il nostro obiettivo infatti è quello di dare la possibilità ai ragazzi di misurarsi in queste gare e di affacciarsi poi al World Tour con delle basi solide da cui partire. Come team sviluppo della Bahrain dobbiamo riuscire a presentare loro corridori pronti e per farlo devono misurarsi su terreni di diverso genere. Più corse a tappe possibili, più esperienze al Nord possibili e, passami il termine, dobbiamo essere in grado di fornirgli un “prodotto completo”.

Anche perché il tempo "della scuola" finisce proprio in questa categoria, poi diventa un mestiere.

E nel World Tour il tempo per imparare è poco. Se arrivi che ti mancano le basi ti trovi a inseguire, e le squadre non aspettano.

 

Alla Gent-Wevelgem si alzerà l’asticella, sia come livello, che come obiettivi per voi, dopo l'esperienza alla Youngster Coast Challenge.

Le squadre saranno quelle viste alla Youngster Coast Challenge quindi il livello è il medesimo: molto alto. Se l'altro giorno si arrivava in volata come prevedibile, la Gent è più dura e verrà fuori anche più selettiva dell’anno scorso, perché hanno messo la doppia scalata al Kemmelberg con meno chilometri di distanza l'uno dall'altro e a una ventina dal traguardo. Aspettando anche di capire il meteo, noi non nascondiamo che saremmo agguerriti, ma soprattutto che andiamo lì per fare qualcosa di buono.

Per chiudere: da friulano ti chiedo di due miei corregionali che seguo con particolare attenzione: Bryan Olivo e Nicolò Buratti. Stagioni e profili diversi: Buratti doveva passare, non è passato, ma ha in mano un contratto per il 2024. Olivo ha qualità importanti e lo si attende a un passo successivo dal punto di vista del rendimento. Che obiettivi hanno in stagione?

Buratti dovrà principalmente fare esperienze importanti e formative come queste in Belgio ad esempio, in vista del salto con la Bahrain nel 2024, ma soprattutto dovrà riconfermarsi, che è la cosa più difficile, perché hai addosso gli occhi di tutti e ci sono le normali pressioni. Ma dalle poche gare sin qui disputate ha dimostrato di esserci. Alla Youngster era davanti per giocarsela e lo sarà anche domenica alla Gent.

Olivo lo scorso anno ha avuto un problema al ginocchio che lo ha tenuto fermo per tre mesi. Io ora lo vedo molto cresciuto e maturato, e come hai fatto notare bene tu all’imbocco del Kemmelberg era davanti. Se vogliamo dirla così, queste gare lo motivano un sacco, un po' anche perché lo riportano ai tempi di quando correva nel ciclocross e sono un tipo di corse in cui può dire la sua. Lui deve soprattutto riuscire a sbloccarsi: è forte su pista, va bene a crono, ma ora deve trovare il suo giusto spazio anche per capire come vincere su strada.

 


La Promenade de Pogačar

Una giostra si affaccia sugli ultimi cento metri della Parigi-Nizza. Otto tappe, quasi millecento chilometri, alcuni dei migliori corridori del mondo, un paio di arrivi in salita e altrettante tappe molto mosse: il tutto per arrivare a un’attrazione per bambini. Non è l’unica giostra sulla Promenade des Anglais, ma sicuramente la più bella: ombreggiata da alcune palme e pini marittimi, piena di lucine e colori, sulla quale si può salire – sogno di un bambino dai lunghi capelli castani – col gelato in mano.

Due gemelle bionde, entrambe vestite con una minuscola giacchetta di jeans e le scarpine rosa, sono in sella a un cavallo bianco dalla sella celeste. La giostra si sviluppa su due piani: il primo a livello del terreno e un secondo, molto più piccolo e limitato, verso il tetto della giostra stessa, verniciato da scene frugali o nature morte. Si arriva al piano rialzato grazie a due scale di legno, che nella loro semplicità risaltano tra orpelli disposti ovunque. Non sono molti i bambini che si avventurano al piano rialzato: esso contiene molti meno animali e diverse sirene con la coda biforcuta, che spaventose si susseguono lungo tutto il perimetro della giostra. Solo un bambino siede da diversi minuti lassù e sembra divertirsi come un matto, da solo.

La Parigi-Nizza non è andata in modo diverso. Un solo corridore può abitare il piano rialzato di quella giostra che è il ciclismo: Tadej Pogačar ha di nuovo sbaragliato la concorrenza in una corsa a tappe di breve durata. L’ultimo insuccesso (per così dire, arrivò comunque sul podio finale) in questo tipo di corse risale al Giro dei Paesi Baschi nel 2021. Quest’anno ha preso parte a 15 giorni di corsa: sette vittorie, più due classifiche generali. Prima di Pogačar , l’ultimo corridore ad aver registrato nove vittorie prima di metà marzo fu Tom Boonen nel 2006.

Qualcuno lo chiama “il bimbo” per i lineamenti rotondi e il sorriso fanciullesco, ma il modo in cui ha distrutto la Parigi-Nizza non ha nulla di infantile o improvvisato. Disdetta la partecipazione alle Strade Bianche per cause logistiche, fa il diavolo a quattro già nelle prime due tappe, perlopiù piatte, dove riesce a prendere preziosi secondi di abbuono. Lavora ai margini perché sa che la Jumbo-Visma di Vingegaard è favorita nella crono-squadre: i calabroni vincono, ma senza dominare. Nel primo arrivo in salita della Corsa del Sole (è un soprannome meteorologico come La Primavera per la Milano-Sanremo: con essa torna la bella stagione) Pogačar scherza col resto del gruppo. È una salita da Pogačar , circa 7 chilometri al 7%, quelle che durano una ventina di minuti in cui lo sloveno sembra alieno.

È Vingegaard ad attaccare per primo. Se ne vanno in due, i soliti due. Il danese chiede il cambio, Pogačar non accetta, lo affianca per alcune decine di metri come a dire beh? Tutto qua? Poi si rimette a ruota, guarda la telecamera e sorride a bocca chiusa, quasi fosse a passeggio la domenica dopo pranzo. Vingegaard si spegne abbastanza presto e Pogačar batte Gaudu allo sprint.

Tre giorni dopo, sul Col de la Couillole, un momento significativo è ai –6. Vingegaard esce fortissimo da un tornante e rilancia l’andatura alzandosi sui pedali, ma appena si siede è Pogačar a fare la differenza. Nello stesso momento, in fondo a quel gruppetto, Aurélien Paret-Peintre cade: è una strana riproposizione, forse, dell’effetto farfalla nella teoria del caos. Il vento frontale consiglia a Pogačar di non insistere nell’azione, ma allo sprint di nuovo non ha rivali. È la messa in scena di un copione: glaciale nella programmazione, sovrabbondante e quasi eccessivo nell’esecuzione.

Riesce ad andare via davvero, invece, nell’ultima tappa, rapsodica altalena tra le colline attorno Nizza. Il Col d’Eze è divenuto, negli ultimi anni, l’ascesa finale tipica della Parigi-Nizza: a volte è stato addirittura sfruttato un altro versante per una cronoscalata. È una salita conosciutissima dai tanti professionisti che vivono in zona e ci si aspetta un attacco lì.

Chi sta mangiando ostriche nel privé all’arrivo posa la conchiglia per indicare il maxi-schermo, chi passeggia per la Promenade des Anglais anziché sedersi sulle famose panchine azzurre corre alle transenne per prepararsi al passaggio della corsa. Un uomo regge l’Equipe e il suo titolone a tutta pagina sul rugby (la Francia ha rifilato 53 punti all’Inghilterra a Twickenham) con una mano e con l’altra guarda la corsa con lo smartphone. Si sono svuotati The service course e il Café du cycliste, due ciclo-bar che vanno per la maggiore per la pausa a metà pedalata. Questa parte di Nizza, che sembra un po’ il lungomare di Rimini e un po’ il rinnovato e finto quartiere Isola a Milano, ecco anche questa Nizza trattiene il fiato per Tadej Pogačar sul Col d’Eze. Attacca.

Simon Yates lo vede partire, proprio al suo fianco, senza nemmeno che si alzi sui pedali. Non pensa nemmeno di accelerare per provare a stargli dietro. Con Gaudu, Vingegaard e Jorgenson prova a dare cambi, a inseguire con quanto ne ha, ma nemmeno quattro contro uno riescono ad avvicinarsi, a riprenderlo. Pogačar scollina per primo e la picchiata verso Nizza è perfetta: la giostra, la folla e la bandiera a scacchi attendono solo lui.

Un azzeccato paragone tra corse ciclistiche e circo fu portato avanti da Vasco Pratolini inviato al Giro d’Italia 1947. Il grande mattatore delle giostre, un Gino Bartali rinominato Buffalo Bill, non era in gran forma e le batoste che subiva da un Coppi lanciatore di coltelli avvolsero la corsa di un manto triste, decadente. È una sensazione simile a quella che traspare dalle parole di Romain Bardet dopo il dominio di Pogačar alla Parigi-Nizza: «Non continuerò a correre a lungo se ciò comporta esclusivamente dover prendere mazzate come questa». Eppure, ancora per diverso tempo su queste giostre si parlerà sloveno. È un circo, il ciclismo moderno: una esibizione attira tutto l’applauso del pubblico e gli altri attori sbirciano da fuori il tendone.

Foto: Aurelien Vialatte


Vittoria Bussi: quando sull'Etna si fa sera

Appena sull'Etna si fa sera, Vittoria Bussi, dopo una giornata di lavoro in bicicletta per preparare il record dell'ora, telefona a sua madre, poi a Rocco, il suo compagno, e la prima domanda è sempre quella: «Quanti problemi hai risolto oggi?». Se lo chiedono reciprocamente, da due settimane a questa parte, da quando lei è lassù, in altura. Bussi spiega che ogni giorno incontra un problema in ciascun ambito: l'allenamento, l'equipaggio, il meteo, i contatti da tenere, le preoccupazioni di casa, talvolta il fisico messo a dura prova. A questo si aggiungono gli imprevisti: la neve, la volpe sul vialetto d'ingresso dei locali in cui soggiorna, il vento, la corrente che salta e lo scantinato in cui si cerca di ripristinarla per continuare a rispondere alle mail, a programmare viaggi e a prenotare voli. Il tutto da sola, nel silenzio, non vedendo nessuno per ore ed ore: «Starò qui ventuno giorni, perché so che mi fa bene, che serve per il traguardo che voglio raggiungere, ma l'altura, almeno durante la prima settimana, mi causa un vero e proprio malessere fisico. Confesso che, quando torno a casa, passo il primo giorno a piangere, a liberarmi della corazza che devo portarmi addosso: di donna forte, sicura, come si chiede ad una atleta».

Qui mancano i rumori di Roma, quel caos che diventa parte di chi ci vive, un suono da ricercare ovunque, ma anche Torino, dove Bussi abita, pare difficile da immaginare. Vittoria, in realtà, ha dovuto abituarsi a Torino, che sembrava una "città silenziata" rispetto a Roma: «Ho scoperto che mi piace guardare l'arco alpino. Che passo minuti a osservarlo e, se la quotidianità non incombesse, resterei ore così. Quei monti sono un punto fermo». Un punto da cui, col passare del tempo, è sempre più difficile staccarsi, andare via perché, a trentacinque anni, si è già viaggiato molto, si sono già visti molti luoghi e si sente necessità di fermarsi da qualche parte, di un ambiente familiare.

«Me ne sono andata lontana già da ragazza, per il dottorato, in Inghilterra: era necessario, ma comunque difficile. E oggi, dopo molti anni, anche quando non sono in altura, devo ancora andare altrove per trovare un velodromo in cui allenarmi: in Svizzera, in Norvegia o chissà dove. Forse per questo sento così tanto bisogno di casa. Per questo, dal giorno in cui sono arrivata, conto i giorni che mancano per tornare». Qualche settimana fa, alla dogana con la Francia, l'hanno fermata delle motostaffette della polizia francese: le hanno fatto smontare tutto, mostrare la bicicletta e i materiali che aveva. Minuti e minuti: «Non credevano che fossi una ciclista perché sostenevano che i ciclisti hanno una squadra e non fanno tutto da soli. Non credevano neppure che fossi lì per allenarmi: "Perché non si allena in Italia?". Dal loro punto di vista, avevano pienamente ragione: probabilmente quello è stato uno dei giorni in cui ho avvertito maggiormente il senso di ingiustizia per queste lontananze che devo sempre impormi».

Una lunga traversata in traghetto, poi la macchina e si sale. Avrebbe voluto chiedere a sua madre di accompagnarla, non l'ha fatto perché ha pensato che quella solitudine non le avrebbe fatto bene, ha portato solo i suoi gatti, «l'unico legame con casa che c'è qui», e, al mattino e alla sera, passa tempo a spazzolarli: «Sai che, quando parti in solitaria, tutti ti chiedono se davvero sarai solo e perché hai scelto di fare un viaggio da solo? Perché è difficile, come essere indipendenti, come diventare grandi. La prima volta in cui mi è accaduto è stato quando è mancato mio padre: non c'era più nessuna coperta a proteggermi, dovevo essere adulta e imparare io stessa a proteggere gli altri. Anche mia madre. Probabilmente impari in quei momenti a mostrarti più forte di quella che sei, a lasciarti andare quando nessuno ti vede». Spiega Vittoria Bussi che la solitudine dell'altura è fra le più difficili, quasi straniante.

Qualche sera fa, è scesa dall'Etna per andare a prendere Edoardo Frezet, fotografo del progetto, che resterà con lei per diversi giorni, e ritrovare la città, le persone nei bar e nei ristoranti, le ha lasciato una sensazione particolare addosso, nonostante la sua romanità si nutra dello stare assieme agli altri. Si è quasi sentita in imbarazzo: «Devi imparare a stare con te stesso ed è un apprendimento difficile perché ti conosci e vedi anche parti di te che non ti piacciono. Quassù non ho molte convenzioni sociali da seguire, ma quando ritrovo le persone mi chiedo se sarò a posto, se andrò bene». Sorride e racconta di quando Edoardo stava iniziando a fotografarla sui rulli, in una giornata di brutto tempo: «È stato un flash: "Aspetta, io non mi sono depilata". Sembrava un problema, non lo era e voglio che le foto di questo record siano vere, restituiscano l'immagine di una donna nella quotidianità e dei giorni in cui non c'è tempo, dei giorni in cui facciamo tutto di corsa e a sera siamo stanche e spettinate. La realtà di una donna e di un'atleta è anche questa».

 

Le giornate di Bussi iniziano alle otto e mezza: riscaldamento, attivazione e verso le dieci si esce a pedalare. Non sopporta la neve e quando la trova ghiacciata, sul vialetto che percorre con la bici in spalla. Si sfoga, parlando da sola in romanesco e quasi si vergogna, quando qualcuno la sente: «Anche questo, forse, molti non lo direbbero. Lo dico perché sono casereccia, sono così, e mi piacciono le cose naturali. Sto detestando questa neve, la cancellerei se potessi, e gliene dico di tutti i colori, come con le cose che non sopporto». In camera ci sono sempre libri e fogli perché sull'Etna si scopre il proprio corpo, i propri muscoli, come reagiscono. Il primo ritiro non va mai bene, il secondo meglio, il terzo, di solito, è quasi perfetto. Complicato, però, spiega Bussi, essere una sportiva ha anche questo significato: «Non accettare ciò che altri ti dicono passivamente, voler scoprire perché le tue gambe fanno più male oggi di ieri, sapere perché hai dolore, sapere come variare l'allenamento in base all'altitudine. Essere ciclista significa esplorare quell'indipendenza a cui le circostanze, talvolta, ti obbligano e vederne il lato buono, quello che ti fa andare avanti e ti cambia. Se diventa questo, essere ciclista è un atto estremo di libertà».

Come crescono le persone, anche se già adulte, così fanno i progetti. Ora c'è un periodo preciso per tentare il record, l'autunno, e anche il velodromo in cui si proverà si sta definendo. La prima opzione è in Argentina, la seconda in Norvegia, in un velodromo di nuova costruzione che vorrebbe iniziare la sua storia con il record dell'ora di Bussi, la terza in Svizzera, a Grenchen, ma, per quest'ultima, il costo è eccessivo, quindi è necessario pensare ad altro.

Nel bar, in città, in cui Vittoria ed Edoardo si sono collegati per questa intervista, inizia ad arrivare gente, le voci si mescolano e Bussi, guardando l'ora, progetta le prossime cose da fare, i prossimi problemi da risolvere in vista di quel giorno. Sì, in realtà, il record dell'ora inizia molto prima di quell'ora.

Foto: Edoardo Frezet