Bizzarrie del ciclismo lusitano
"Menos doping, mais vinho tinto", meno doping più vino rosso, prova a raccontarla così una ragazza che regge un cartello visto lungo la strada durante una delle prime tappe della "Grandissima", o meglio "A Grandissima", se volessimo dirlo in portoghese, il nome con cui è conosciuto la Volta a Portugal arrivata quest'anno all'edizione numero ottantatré e iniziata qualche giorno fa con il prologo di Lisbona.
La prova iniziale l'ha conquistata il più forte specialista contro il tempo portoghese, Rafael Reis, uno dei diversi corridori che assume un contorno quasi misterioso, perché spesso capita come, usciti da quel contesto, improvvisamente valgano di meno. Reis che di recente ha conquistato il titolo nazionale contro il tempo, dominando la prova davanti a Oliveira e Almeida, concedendo poi il bis ai Giochi del Mediterraneo.
Meno doping e più vino rosso, dicono i tifosi portoghesi che letteralmente impazziscono per la loro corsa di casa; meno doping, già, perché il ciclismo portoghese è nel caos. Alla vigilia, l'UCI ha ritirato la licenza alla squadra di riferimento del nord della regione, la W52/FC Porto, e secondo Cyclingtips senza questa squadra salteranno tutti gli accordi commerciali futuri per portare la corsa in alcune di quelle zone e, sempre come racconta la testata nordamericana, il capo dell'agenzia antidoping lusitana è stato minacciato con tanto di proiettile recapitato a casa; la W52/FC Porto è stata così esclusa dopo alcuni casi che hanno portato alla perquisizione e al ritrovamento di sostanze dopanti. Come spiegato da Cicloweb "sono stati sospesi per traffico di sostanze illecite e utilizzo di “metodi proibiti”"; un'indagine che va avanti da diverso tempo con arresti e perquisizioni di atleti e dirigenti del team. Altre squadre alla vigilia hanno dovuto fermare alcuni corridori e in un clima da crime story si è partiti lo stesso, nonostante si fosse arrivati non troppo lontani da una clamorosa cancellazione.
Si va avanti lo stesso per quella che è la festa del ciclismo portoghese, una corsa sentita dalle loro parti come, o forse anche più, del Tour de France e del Giro d'Italia, una corsa che fu un Grande Giro di tre settimane e che ora si corre in circa dieci giorni; che è nata prima della Vuelta a España e che ha avuto nell'albo d'oro il più grande corridore lusitano della storia, quel Joaquim Agostinho che l'ha vinta tre volte (recordman fino alle quattro vittorie di Chagas negli anni '80 e poi di Blanco più recentemente); quel Joachim Agostinho che morirà dopo aver investito due cani randagi in corsa (era la Volta ao Algarve del 1984), quel Joachim Agostinho, tanto brutto da vedere in bicicletta, quanto efficace, capace di chiudere due volte sul podio del Tour e di vincere pure un Trofeo Baracchi in coppia con Van Springel finendo davanti a Merckx (3° in coppia con un giovane Boifava) che al termine di quella gara venne insultato dalla folla al grido di "Droga! Droga!".
Joachim Agostinho era sgraziato come lo è il più forte ciclista portoghese di oggi, João Almeida: anche lui non fa della bellezza in bici il suo marchio di fabbrica, quanto l'efficacia. Almeida non ha mai corsa la Volta, e nei prossimi giorni sarà al via della Vuelta España in nome di un ciclismo che, purtroppo per loro, vede i migliori talenti (così è anche per Guerreiro, e così sarà per Morgado, segnatevi il suo nome), trovare slancio in campo internazionale emigrando altrove.
Ma la Volta a Portugal è questa: una corsa che di internazionale ha poco, hanno vinto praticamente solo iberici, tanto che in 82 edizioni si contano due successi italiani, Lelli e Serpellini, uno svizzero, uno britannico, uno danese, uno belga, uno polacco, uno russo e uno persino brasiliano e il resto diviso tra Portoghesi (59) e spagnoli (13, tutti arrivati dal 1999 in poi). Una corsa che lancia corridori che poi al di fuori di quelle strade - pensate ad esempio ad Alarcon o ad Antunes, nomi mitologici e vincitori di quattro delle ultime cinque edizioni - fanno fatica (eufemismo) a imporsi.
Una corsa che riesce a stupirti per alcune bizzarrie, come ad esempio il magnifico design del traguardo, due enormi braccia che reggono lo striscione d'arrivo; dove succedono cose al limite come il tifoso che scavalca, con un guizzo degno di un saltatore in alto di un'epoca pre Fosbury, le transenne, mentre il gruppo arriva a tutta velocità a giocarsi la volata - scopriamo, grazie a Leonardo su Twitter, che quello non era un tifoso, ma Candido Barbosa, vincitore di venticinque tappe in questa corsa, tra il 1999 e il 2010, altro nome che al di fuori di qui non si è mai imposto; oppure il capolavoro fatto dal corridore spagnolo Xavier Canellas, un gesto che è ormai leggenda.
Nella tappa di qualche giorno fa con arrivo in salita a Covilhã appariva attorno al suo nome la scritta DSQ, squalificato. Squalificato perché? Ha tagliato il traguardo - sorridente e divertito - con un cappello di paglia al posto del casco, sembrerebbe per protesta contro la direzione di corsa, per aver corso con un caldo quasi insopportabile. Tutto questo è Volta a Portugal.
Corsa difficile da non amare. Pensate all'uruguaiano Mauricio Moreira, che, vista l'esclusione dei W52 Porto, arrivava alla vigilia come il favorito assoluto. Forte in salita, si difende molto bene a cronometro, dotato di spunto veloce, attualmente, a poche tappe dal termine, è al secondo posto della classifica generale alle spalle del compagno di squadra Frederico Figuereido, altro mattatore assoluto quando si corre in Portogallo.
Un nome che potrebbe apparire esotico quello di Moreira, ma su cui qualche squadra del World Tour potrebbe scommettere per il prossimo anno, a patto di fidarsi delle stravaganti notizie che coinvolgono il ciclismo lusitano. Un circo meraviglioso, tra casi di doping e vino rosso, tra passaggi in mezzo agli incendi e caldo insopportabile. Una corsa da andare a seguire e raccontare almeno una volta nella vita.
Foto da: volta-portugal.com
Cosmopolitismo
Forse potrà sembrare qualcosa di poco conto. Come un gingillo di qualche tipo che, piazzato in casa, assume un significato solo per chi ce l'ha messo, perché gli fa venire in mente "quella volta in cui" o qualcosa del genere, pur non essendo particolarmente bello.
Leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" c'è chi storcerebbe il naso, ma leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" bisogna poi andare a interpretare lo spazio tra le righe o semplicemente ascoltare le parole di Sivakov: «Sono felicissimo, un successo mancava da troppo tempo. Ne avevo bisogno».
Arriviamo dalle settimane delle corse travolgenti al Tour de France, è vero, con una forza d'urto tale di emozioni che tutto il resto ci sembra sopraffatto da diventare così piccolo. L'eclettico gigantismo ciclistico di van Aert, il dinamico regolare rigorismo di Vingegaard, l'effervescente avanguardismo spavaldo di Pogačar, ingredienti che ci hanno riempito gli occhi e colmato le giornate di luglio. Di tutto luglio.
Poi è arrivata la Vuelta a Burgos - e altre corse d'agosto e altre ce ne saranno, per fortuna - ed è tornato al successo Pavel Sivakov. Non vinceva da tre anni esatti e in carriera ha vinto così poco da non crederci. Da ragazzo era un gioiello capace di splendere raccogliendo successi da prima pagina e quando cadeva - purtroppo cade spesso - si rialzava il giorno dopo per compiere l'impresa. Ci riferiamo a quel suo magnifico anno 2017 quando conquistò il Giro d'Italia Under 23, quello Ciclistico della Val d'Aosta e poi, quando si pensava potesse infilare una tripletta con l'Avenir, si accontentò (per modo di dire) di vincere in fuga da lontano la tappa di Albiez-Montrond.
Sivakov, che in quella stagione pareva un piccolo despota di quelli che fanno e disfano a proprio piacimento, alla Ronde de L'Isard - altra corsa a tappe di riferimento per la categoria - non passò un giorno senza attaccare da lontano: iniziò nella prima tappa - cancellata per condizioni meteo avverse; dominò la seconda con arrivo a l’Hospice de France lasciando Lambrecht a 1’17”; per finire l'opera da tramandare nella quarta frazione quando si prese il lusso di vincere come i dominatori del ciclismo passato. In maglia di leader attaccò in discesa a oltre cinquanta chilometri dalla conclusione vincendo davanti a Knox, Antunes e al terzetto belga Lambrecht, Cras, Vanhoucke con quasi un minuto di vantaggio; il settimo arrivò a oltre quattro minuti.
Vuelta a Burgos, corse a tappe, Pavel Sivakov e fuga da lontano. Uniamo i puntini. Ha attaccato da lontano per conquistare la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola; ha attaccato, Sivakov, con quella mascella da divo dei film d'azione; è cresciuto, e che possa essere definitivamente esploso non è la breve (e piccola) corsa che ce lo deve dire, quanto forse quella più grande (la Vuelta, se lui ci sarà) tra un paio di settimane, o forse ce lo dovrà spiegare la INEOS se deciderà di fare di lui quell'atleta che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare lontano da stratagemmi tattici volti a incatenarlo, ma lasciandolo libero di interpretare la corsa, magari attaccando un po' quando gli pare e sente, come il ciclismo di queste ultime stagioni, quello dei Pogačar, van Aert o van der Poel, ci sta insegnando.
Scorre il tempo, e noi ci sentiamo placidi sognatori a pensare una cosa del genere; scorre a volte lento come un temporale estivo che si avvicina e sembra non sfogare mai la propria forza sulla sua testa, scorre lenta la crescita di Pavel Sivakov, nato in Italia, prima russo e ora francese, cresciuto in una squadra svizzera e adottato da una inglese che ha spesso fatto dell'intransigenza tattica il suo mantra. Scorre il tempo di Pavel Sivakov, ma prima che possa schioccare le dita e dirsi già perso, lo attendiamo dove tutti pensavamo di trovarlo qualche stagione fa. In mezzo al mondo, in cima al mondo. Alla prossima Vuelta (Carapaz permettendo ) capiremo cosa sarà diventato, se uomo di classifica, se gregario di (extra) lusso, se attaccante ritrovato. L'importante però è vederlo di nuovo lì davanti.
Di Vincenzo Nibali o dell'estate e di un viaggio
L'estate piena, settembre dietro l'angolo, l'autunno che attende: l'ultima estate, l'ultimo autunno da corridore perché quelli come Nibali hanno qualcosa di antico a cui ben si abbina la parola corridore, come avrebbero detto i nostri nonni. Pensare che fra un anno, a Messina, Nibali potrà dire "un'estate fa" e parlare di quando ancora era corridore potrebbe mettergli malinconia; quella sensazione che si prova quando qualcosa finisce, quando i viaggi finiscono, che non è, poi, tristezza perché una parte di bellezza c'è anche nella malinconia. Il punto è che, in questa estate che è ancora, Vincenzo Nibali quel viaggio lo sta vivendo senza pensare alla fine o, per quanto, pensandoci in maniera diversa.
Vuelta a Burgos. Quinto nella prima tappa, all'attacco ieri, in un finale mosso con tutta l'intenzione di chi questo viaggio vuole goderselo. Proprio ieri qualcuno ci ha detto: «Certo che vedere scattare lo Squalo...», una frase sospesa che, però, non lascia dubbi. C'è una sorta di ritorno alle origini in Nibali: le proprie e quelle del ciclismo.
Le proprie ovvero quelle di un ragazzo che scattava sulle strade siciliane e faceva a gara con altri ragazzi come lui. Che, tempo dopo, nelle prime gare si affidava alle "vibrazioni" e agiva di conseguenza, talvolta sbagliando. Le origini di Nibali che sono, con tutte le differenze del caso, le origini di qualsiasi ragazzo che inizia a correre in bicicletta e che sono, forse, le origini stesse del ciclismo.
Anche Nibali, il campione che tanto ha vinto, sa che, quando si inizia a pedalare, si ha il sogno di vincere, indubbiamente, ma il ciclismo lo si sceglie per sensazioni genuine che appartengono a tutti e che tutti possono capire: una discesa veloce, il brivido in una curva, la vetta di una salita, gli amici che non tengono più la tua ruota. Vincenzo Nibali in questo non fa differenza: ha sempre fatto tutto questo, solo più in grande: al Giro, al Tour, alla Vuelta, alla Milano-Sanremo o a "Il Lombardia".
Un campione non scorda mai tutto questo anche se per le persone è colui che ha vinto due volte il Giro d'Italia e il Tour de France. Non lo scorda mai e quando tutto si fa più lieve torna a godersi questo viaggio. Anche ora, mentre le sagome dei ciclisti sull'asfalto si accorciano, come il tempo che manca. E quando scatta, chi lo vede, pensa sempre: «Certo che vedere Nibali scattare...»
Mark Padun: vicino all'Ucraina
Nella mente di Mark Padun questo di Giro di Polonia non è come tante altre corse, anche se, in fondo, la gara è sempre la stessa e fa ciò che sempre fanno le gare di bicicletta: attraversano strade, fissano orizzonti, sfiorano confini, talvolta li oltrepassano. Per Mark Padun è tutto diverso perché diverse sono quelle strade, quei confini, perché dallo scoppio del conflitto tar Russia e Ucraina pensare a casa fa particolarmente male.
Casa è lì, poco oltre il confine e quando quel confine si allontana casa è in due colori: azzurro e giallo come la bandiera dell'Ucraina dove lui ha radici e origini. Padun quei due colori li ha sul casco come tanti altri atleti ma ancora più forte perché, si può essere ovunque, ma quando la propria terra sta male, soffre, lotta per la libertà ci si sente lì, si vorrebbe essere lì. Non è più come da ragazzo quando i genitori lo avevano fatto partire allo scoppio dei primi conflitti, non è più come da ragazzo perché oggi Padun sa bene cosa sta accadendo e niente può allontanarlo da quel pensiero.
È successo tutto quando ha saputo che il Giro di Polonia sarebbe comunque passato accanto a quei confini. Sarebbe arrivato a Zamosc, la città delle prime gare, dove era stato da giovane, dove aveva vissuto una settimana e conosciuto le vie, i piccoli dettagli che diventano ricordi. C'è nostalgia in Padun, c'è voglia di tornare anche se le cose per lui non sono mai state facili.
Quei due colori sono nelle bandiere, sono in quelle parole che esprimono parte del senso della gara: "Race for Peace". Correre per la pace che diventa la tua pace, come tua è la terra anche se non la possiedi, ma ti appartiene. Che diventa correre per la pace della tua gente e della tua famiglia che anche quando è al sicuro non è mai davvero al sicuro.
Quei due colori, giallo e azzurro, sono nei braccialetti al polso di tanti e in quello al polso di Padun. Forti per restare al polso e fragili perché insieme di tessuto, di fili. Ci sono foto in cui Mark Padun fissa quel braccialetto e pensa. I pensieri restano a lui, nonostante si possa comprendere quel che si prova ma il dolore, per quanti possano esserti vicini è di chi lo prova, di chi lo vive. Le parole sono superflue.
Quelle biciclette che attraversano strade, fissano orizzonti e sfiorano confini possono anche sembrare poca cosa in un momento come questo. In realtà, sono importanti e non siamo noi a dirlo ma Padun che, nonostante tutto, è fiero di questi giorni al Giro di Polonia.
La storia di Gaudu e Madouas
Il Tour de France di David Gaudu e Valentin Madouas è un insieme di immagini, ricordi, lunghe istantanee, infiniti momenti passati assieme. «È come lo Yin e lo Yang - ha raccontato Gaudu ai giornalisti dopo il traguardo di Parigi, riferendosi proprio alla corsa francese - può farti paura e trasformarsi in qualcosa di catastrofico, ma ti sa anche dare una felicità incredibile».
C'i sono attimi in cui si arriva stravolti come sul traguardo di Peyragudes. Gaudu è accasciato a terra con un asciugamano sul collo, quasi sfigurato dopo essersi lanciato a tutta per rosicchiare qualche secondo a Quintana, rivale per un posto nei primi cinque in classifica, in un interminabile sprint in salita. Qualche minuto dopo di lui arriva Madouas, compagno di squadra e amico; Gaudu gli prende la mano, se la porta sulla fronte e poi vicino alla bocca e gli dà un bacio.
È il suo modo per complimentarsi e rendere merito per quello che ha fatto Madouas (anche) quel giorno. Madouas è davanti in fuga, e, una volta staccato, diventa fondamentale nel supportare il suo compagno di casacca. «Devo ringraziare la squadra per come mi è stata vicina, ma in particolare devo ringraziare Valentin. Ogni volta mi salva il culo».
Madouas è così, un piccolo guerriero lo definisce Marc Madiot, colui che guida la Groupama-FDJ. Come chiamereste un corridore che, da neopro e più giovane al via, arriva 20° alla Strade Bianche? Era il 2018 e quell'edizione la ricordiamo per la pioggia e il fango e persino per la neve caduta il giorno prima: va in fuga (uno dei suoi motti è «Attaccare sempre!» mentre uno dei suoi riferimenti in gruppo è Nibali: «impressionante, fantasioso, formidabile per come si adatta a ogni situazione in corsa»), va in fuga tutto il giorno e rimane, fino alla fine, in scia ai migliori.
Ma la storia che raccontiamo è quella di entrambi, di Gaudu e Madouas e che parte da quando i due sono bambini, in Bretagna, e sono speciali per quanto vanno forte in bicicletta. "Le Telegramme" li definisce " le due pepite d'oro del ciclismo bretone".
Rivali («gli altri lottavano per il 3° posto, io arrivavo quasi sempre 2° e Valentin, quasi sempre, vinceva» ricorda Gaudu), se si può parlare di rivalità a quell'età, amici e poi inseparabili al Tour 2022. «Negli ultimi mesi ho passato più tempo con lui che con qualsiasi dei miei familiari» sempre Gaudu.
Se l'intreccio di Valentin, figlio di Laurent, 12° al Tour del 1995, con la corsa francese, parte da quando, ancora in fasce, insieme a sua mamma andava a trovare il papà corridore al villaggio di partenza, quello di Gaudu inizia nel 2008 quando i due, appena dodicenni, si sfidarono sulla Grand'Rue di Brest in un torneo di bici che in premio dava una divisa Cofidis e un biglietto per assistere all'ultima tappa del Tour de France a Parigi. Vinse (rarità) il più piccolo fisicamente («Gaudu era piccolo e fragile, mio figlio era già pronto, quadrato e potente» racconta papà Laurent), e quella differenza oggi è rimasta. Insomma, Gaudu vinse allo sprint, nella finale a due, e 14 anni dopo Valentin e David si ritrovano a sfilare per i Campi Elisi, stavolta dall'altra parte della barricata, a festeggiare il 4° posto in classifica dell'occhialuto scalatore e l' 11° del fedele compagno di squadra, premiato a fine corsa anche per essere stato "il miglior gregario della terza settimana".
«Una 4X4» definisce così Madiot Valentin Madoaus. «Per le mani - sostiene l'anziano team manager francese, vincitore di due Roubaix nel 1985 e nel 1991 - non ho mai avuto un corridore così completo». Quest'anno è finito sul podio del Giro delle Fiandre, quel giorno si faceva la corsa per Küng, ma nel finale Madouas stava meglio e piombò insieme a van Baarle sul duo di testa - van der Poel e Pogačar - cogliendo un incredibile podio. «Da lì si è come sbloccato dopo una stagione difficile», parola di David Han uno dei suoi allenatori. «Ma nessuno si sarebbe aspettato questo rendimento un salita. Ha dimostrato nella terza settimana di essere uno dei dieci migliori scalatori del Tour». Anche David, parlando del suo amico e compagno di squadra: «Me lo aspettavo davanti nelle tappe miste, ma quello che ha fatto in montagna è stato incredibile».
Il rapporto tra David e Valentin è fatto di ricordi, non solo strettamente legati al rendimento e ai risultati, non solo la mano portata sulla fronte e poi baciata, ma anche qualcosa successo quando avevano solo 9 anni: «Valentin attaccò e mi staccò. Lui primo, io secondo, ma ciò che mi rimane impresso ancora oggi fu il momento in cui tirammo fuori dalle tasche una merenda e ci fermammo a mangiarla davanti a un recinto pieno di animali. Poi siamo tornati a casa».
La storia di di Gaudu e Madouas è un insieme di immagini, ricordi, di lunghe istantanee, di infiniti momenti passati assieme. E altri ancora ce ne saranno da raccontare.
Cercare Bernal
C'è poco da fare. Chiunque faccia il mestiere del ciclista ha un suo modo di pedalare, di scattare o prendere una borraccia, di vincere o perdere tutto ed è questo modo che riconosciamo e cerchiamo. Quando individuiamo un corridore senza vederne il numero, da lontano, ma siamo certi che sia lui. Anche solo per come muove la testa, per dove tiene le mani sul manubrio. Cerchiamo e, se non troviamo, avvertiamo la mancanza che altro non è se non desiderio di altra ricerca.
Dal 24 gennaio, dal suo incidente vicino a casa, da quando tutto sembrava perso, tutti abbiamo iniziato a cercare Egan Bernal. Esattamente dall'istante dopo, anche se sapevamo che ci sarebbe voluto tempo, tanto tempo. Lo cercavamo, lo ricercavamo, ovvero cercavamo qualcosa che avevamo già trovato e ci aveva già emozionato. Se non trovavamo quel modo di fare il ciclista, cercavamo qualcosa di lui, una notizia, una parola solo per sentire quel modo più vicino. Perché, per quanto sembri assurdo, ma all'interno del gruppo gli stili dei vari corridori sono simili alla composizione di un brano musicale. Chi di musica se ne intende, spiega che è possibile non cogliere il suono basso quando c'è, ma se manca si avverte subito. Così per i ciclisti.
Per esempio, cercavamo lo sguardo al momento dello scatto. Tutti guardano davanti, voltandosi talvolta. Ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Cercare Bernal ha significato cercare quel tipo di sguardo rivolto verso le montagne nella fatica. Cercare Bernal dentro e fuori la corsa. Cercare ciò che avrebbe potuto succedere se Bernal fosse stato in corsa, pensare a duelli già adrenalinici ancor più adrenalinici.
Cercare Bernal su una strada del Giro d'Italia, da un furgone in corsa, come è capitato a noi e riconoscerlo dalla forma della pedalata, dalla posizione che è l'altra forma di un uomo che pedala, che è inconfondibile, quasi il tratto di un pittore noto o meno noto, non conta, ma fatto solo e solamente da quel pittore, da quel ciclista. Cercare Bernal, come cercare qualunque altro ciclista, è cercare una diversità.
Sapere che Bernal sta per tornare è un insieme di tutto questo. Già vederlo tornare a pedalare aveva suscitato riflessioni, sensazioni. Vederlo di nuovo in gruppo sarà diverso, ancora meglio. Dicono sarà alla Vuelta a Burgos, il direttore della Vuelta a Espana afferma che correrà anche lì. Suggestioni e realtà, talvolta un confine stretto, di certo uno spazio per continuare a cercare.
In questo tempo di ricerca, Bernal ha parlato di paura, di fare anche ciò di cui si ha paura, forse proprio per questo timore. Ha parlato e scritto di Roma, di come non sia stata costruita in un giorno e per questo sia così bella. Succede qualcosa di simile con la ricerca: il tempo che abbiamo usato per cercare sarà poi il senso di ciò che troveremo quando rivedremo Bernal in gruppo. Il luogo da cui parte un ciclista per andare lontano.
Il paradosso di Simon Geschke
Il paradosso di Simon Geschke è arrivare a tre Gran Premi della Montagna sui Pirenei dalla possibilità di vincere la maglia a pois, perderla, ma avere comunque il dovere - per regolamento - di indossarla fino a Parigi.
Ieri a fine tappa non teneva le lacrime. Liberato e affranto. Affaticato già sul primo strappo non riusciva a resistere ai migliori che andavano in fuga e poi, nonostante il grande lavoro della squadra sull'Aubisque, dove gli servivano i punti necessari, forse, chissà, per vincere - ricordiamo anche il salto di catena il giorno prima costatogli una manciata di punti fondamentali - si staccava definitivamente anche dal gruppo maglia gialla, capendo che non sarebbe stata più quella giornata immaginata alla vigilia.
A 36 anni, Geschke è arrivato vicino al punto più alto - almeno simbolicamente - della carriera, dopo aver vinto pochissimo, ma bene: un solo successo nel World Tour, proprio al Tour de France. Era il 2015, la tappa arrivava a Pra-Loup e lui, con la più classica delle azioni di anticipo che definiremmo "la fuga nella fuga", vinse per distacco, attaccando in un tratto di falsopiano, davanti a Talansky, Uran e Pinot.
Dopo le lacrime, ieri, ha spiegato così: «Indossarla fino a Parigi non sarà la cosa più bella, potessi scegliere correrei con la mia divisa, ma questo è il Tour e i nove giorni che ho vissuto in maglia a pois sono stati lo stesso un sogno per me».
Il Tour degli ultimi
Cinque ore. Non parliamo spesso di numeri, ma questo non è un numero casuale. Ha a che vedere con gli ultimi di questo Tour de France: è, infatti, di circa cinque ore il ritardo dell'ultimo corridore in classifica generale alla vigilia dell'arrivo della tappa di Hautacam. Cinque ore ovvero una tappa e anche abbastanza lunga. Chi arriva in fondo alla classifica è come se avesse percorso una tappa in più. Questo per dare una misura temporale a quella sofferenza degli ultimi, alla loro difficoltà, perché diciamo tutti che gli ultimi fanno più fatica: così c'è un modo di misurarla quella fatica. E non è finita perché non saranno solo cinque ore, aumenteranno ancora.
Ma proprio perché i numeri non bastano, dobbiamo guardare cosa c'è dentro quelle cinque ore, quella tappa in più. Viene da pensare a Caleb Ewan a Mende e a quel ringraziamento ai compagni: un grazie che ha a che vedere con la solitudine e il lavoro, con la paura e il coraggio e anche la responsabilità. I compagni che non lasciano solo il capitano in difficoltà, molte volte, potrebbero staccarlo perché per loro può essere difficile tenere il suo ritmo, non per questioni di velocità, per questioni di lentezza: talvolta si voltano, lo guardano e, appena si rendono conto che stanno forzando troppo, tornano a rallentare. Ci si assume un rischio: quello di arrivare tutti fuori dal tempo massimo, di tornare a casa eppure anche per loro, per quei gregari, finire il Tour, arrivare a Parigi, ai Campi Elisi, è un sogno. Un sogno messo a repentaglio da un dovere. Sì, è un dovere, non una scelta morale, ma nulla cambia. C'è qualcosa di straordinario lo stesso, per come quel dovere viene portato a compimento. Un capitano ci pensa, ci pensa spesso quando non riesce ad andare avanti.
Anche un gregario ci pensa, perché quando è da solo pensa a tutto. Michael Mørkøv a Carcassonne ci credeva, ci ha creduto fino ai venticinque chilometri dal traguardo: non nella possibilità di vincere, non in quella di fare bene, solo in quella di arrivare in tempo per continuare. Non si può nemmeno immaginare quanto sia difficile quando resta solo questa. Allora perché si continua? Per se stessi ma, se si è uomini come Mørkøv, soprattutto per gli altri. Già, perché con quel poco che resta magari puoi lanciare un'ultima volata. Irrazionale un ciclista quando soffre: spera che basti una notte per cambiare tutto e l'incredibile è che talvolta basta, talvolta in quelle poche ore di sonno le cose cambiano e si torna a rendersi utili. Se non succede si aspettano giorni fino a che succede o fino a che si scende di bicicletta per sfinimento. Mørkøv non ha avuto questa possibilità perché non è riuscito a stare nel tempo massimo, ma ad aspettare, insieme a tutta la gente che non se n'è andata, c'era il direttore del Tour de France all'arrivo. Poche parole, una sorta di inchino.
Dietro a lui, come dietro a Soler, distrutto dai problemi di stomaco, la Voiture Balai, la vettura scopa, per gli ultimi. Cosa si prova a sentire quella macchina alle spalle, ad avere la sensazione di essere attesi dall'ultima macchina della corsa? Qualcuno alla guida delle vetture scopa ci ha detto che capita di immedesimarsi nell'ultimo uomo che hai davanti, di sentirsi davvero impotenti, perché nulla si può fare se non guardare e aspettare. Forse chiedersi se tutta quella fatica abbia un senso.
Quello stesso senso di impotenza che hanno provato i compagni e lo staff di Fabio Jakobsen ieri a Peyragudes. Di nuovo i numeri: diciassette secondi di salvezza per ore di fatica. Hanno gridato, chiamato, mosso le mani, lo hanno tifato come se stesse vincendo, più forte che nelle volate. Non poteva essere che così, perché il tifo serve soprattutto a loro, agli ultimi. Quando vai forte, stai anche bene da solo. Quando sei quasi fermo, hai bisogno di tutti. In fondo è questo il segreto di chi aspetta fino all'ultimo atleta sulla strada e sembra non finire mai la voce.
C'è un dettaglio, lo abbiamo visto più volte sulle strade: per i primi si tifa con tutto il corpo, con strumenti e movenze, per gli ultimi si aggiunge qualcosa. Per gli ultimi si aggiunge lo sguardo: ci si guarda a vicenda, tifosi e ciclisti, e in quel momento si tace. Tutto quello che si vuol dire è in quegli occhi che si incrociano: chiedetelo a un tifoso, chiedetelo a un ciclista.
Non per magia, ma per disappunto
Uno sloveno è in cima al mondo - Pogačar au Sommet - intitolava stamattina L'Équipe. Un altro sloveno, invece, sembra che con le sue sfortune, lo alimenti.
Che la nostra esistenza sia toccata dalla magia come se stessimo in riva a un fiume che ogni tanto ci bagna i piedi non appare un'idea così folle, e così ci viene in mente che il triangolo tra Roglič, Pogačar e il Tour al suo interno abbia come qualcosa di appartenente a un campo inesplorabile, almeno per chi scrive, irrazionale, che tocca altre dimensioni.
Planche des Belles Filles 2020. Penultima tappa del Tour de France. Stiamo tutti ormai per celebrare il primo successo della storia di uno sloveno al Tour (che poi in effetti sarà così), quando succede qualcosa. Il giovane Tadej Pogačar, bello come sono belli tutti i predestinati che vestono la maglia bianca, corre una cronometro che lascia a bocca aperta tutti - ricordate la faccia di Dumoulin e van Aert, compagni di squadra di Roglič, al traguardo, mentre guardano il megaschermo?
Primož Roglič, partito dopo il giovane rivale e forte di un vantaggio in classifica intorno al minuto (basterà sicuramente si diceva), perde progressivamente, sembra persino soffrire fisicamente più del dovuto, mentre le immagini inchiodano la sua pena lungo la salita con gli occhi che diventavano fessure sempre più strette e quel casco pareva ballare sulla sua testa come uno spirito dispettoso sopra una tomba.
Roglič cede - di schianto oppure no, prova mostruosa dello sloveno giovane oppure tonfo di quello meno giovane non è questo il punto. E mentre Roglič cede Pogačar sale in cima alla classifica e vince il Tour de France che il giorno dopo arriva e si conclude come d'abitudine a Parigi.
Tour 2021, siamo alla terza tappa. Pogačar è nella sua - quasi di diritto - maglia bianca. C'è una curva verso sinistra, si sbanda, vanno giù in tanti - Haig, tra i protagonisti delle prime due tappe gli cade davanti e si ritira. Pogačar resta in piedi per miracolo, perde del tempo, insegue, recupera.
Il giorno dopo, manca ancora poco al traguardo e c'è un'altra sbandata. Roglič colpisce la ruota di Colbrelli e finisce a terra malamente. Riparte, tutto fasciato e chi ha buona memoria avrà in mente la foto di Roglič bendato e la sua frase sui social: "La situazione non è delle migliori. Ma ho sorriso leggendo tutti gli auguri e i pensieri positivi che mi avete inviato. La mummia partirà oggi e vedremo come andrà! Grazie". Durerà qualche ora ancora il suo Tour, quattro tappe di estrema sofferenza, ma nella giornata in cui Pogačar chiude la corsa attaccando sul Col de Romme e andando a vestire la maglia gialla, Roglič si ritira, straziato dai dolori.
Tour 2022... la sagra continua. Quella delle cadute di uno mentre dell'altro si raccontano gli aneddoti a scuola. Siamo alla tappa numero cinque, fresca fresca nella mente degli appassionati. Pogačar corre magnificamente su ogni settore fino ad attaccare in scia a Stuyven. Roglič, attento per tutta la tappa, in una rotonda colpisce una balla di fieno - doveva essere lì a protezione - finita in mezzo alla carreggiata perché colpita da una moto staffetta. Kung la sfiora appena, Roglič dietro lui no, e cade, ancora rovinosamente. Ci risiamo, come un anno fa. Come due anni fa quando la sua caduta fu più sportiva che altro. Le immagini ci mostrano Roglič estremamente sofferente a una spalla. Lussata, se l'è rimessa a posto da solo prima di salire in bici e concludere la tappa. Stoico non basta.
Il giorno dopo, che poi è ieri, Roglič sale in bici, e lo fa fino alla fine del giorno, e sullo strappo che conduce al traguardo è lui a dare il via al colpo finale con cui Pogačar prende a calci tutto il Tour. Nonostante i dolori e le contusioni (problemi, pare, anche all'anca) il corridore della Jumbo Visma è lì davanti a lanciare la volata mentre Pogačar salta tutti e vince. Roglič chiude nei dieci, non per magia, ma per disappunto. Non per chissà quale macabro gioco di forze misteriose, ma per volontà e gambe. Tuttavia ci viene da pensare: chissà se prima o poi arriverà il suo momento al Tour o ci sarà ancora qualche prezzo da pagare.
La corsa in collina
Nella “Casa in Collina” Cesare Pavese descrive le fughe serali in collina del protagonista del romanzo per evitare i bombardamenti su Torino durante la seconda guerra mondiale. Nella lettura del libro il ricordo va ad una mia insegnante della scuola media che era solita raccontare delle sue fughe nella collina torinese durante la guerra, anche lei per evitare le bombe. Quindi fin da piccolo ho vissuto con un'immagine, un’idea di una collina torinese protettiva, materna, sicura.
Poi il caso volle che venni ad abitare proprio ai piedi della collina torinese, presente ogni mattina come sfondo alla mia colazione. La luce che passa tra i campanili di Superga vale più dell’orologio al polso per sapermi regolare con gli orari.
Pochi forse sanno che la collina torinese è stata dichiarata assieme al parco del Po “Riserva di Biosfera italiana UNESCO” all’interno del programma “Man and Biosphere”.
L’area è prevalentemente agricola, ma ricca anche di boschi e con una presenza urbana non ancora aggressiva. Fino all’arrivo della pandemia da Covid erano pochi i torinesi che si avventuravano nei sentieri e boschi a ridosso del centro città, molti invece i cicloamatori in bici da corsa o mtb.
Con la pandemia e il divieto di uscire dal territorio del proprio comune, la collina è diventata oggetto del desiderio di scampagnate in cerca di libertà e natura dopo il confinamento.
Le cartine dei sentieri della collina sono andate a ruba, ma soprattutto è rinato l’amore tra la collina e la città. La collina, che fa da sfondo alla città, è sempre lì pronta a regalarti momenti di relax dallo stress cittadino.
Finalmente quest'anno per la seconda volta nella sua storia il Giro percorre quelle strade. La prima volta fu nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, fu organizzata una tappa a Torino in cui era prevista la salita dell’Eremo dei Camaldolesi passando da Villa della Regina, ma mai è stata sfruttata in tutta la sua potenzialità ciclistica prima di quel sabato 21 maggio.
C'è stato un cambio di percorso rispetto al disegno originale che non ha scalfito il nostro entusiasmo, anche perché il secondo circuito era solo poco meno duro della prima versione e aggiungeva il muro micidiale di Strada della Vetta e come veri e propri tifosi si facevano discorsi scaramantici: una serie di contro-gufate per esorcizzare la nostra fremente attesa.
Finalmente il 21 maggio arriva.
Di buon mattino decido di percorrere il circuito in scooter, pensavo in un primo momento di farlo in bici, ma avrei compromesso la possibilità di pranzare con un amico.
La luce dell’alba, già calda, rendeva luccicanti i prati e le piante; nei camper già appostati il silenzio dell’ultimo sonno mattutino; i primi camion dell’organizzazione iniziavano a scaricare le transenne e gli archi lungo il percorso.
Stava iniziando la vestizione della collina: tutto sarebbe dovuto essere perfetto.
A metà mattinata ancora non ho deciso dove seguire la tappa. Il primo progetto era un pic-nic al Parco del Nobile con la famiglia, ma la lunga salita a piedi con le borse del cibo sotto un caldo afoso come non mai ci ha fatto desistere.
Fortunatamente ho l’intuizione giusta, portare lo scooter dentro la zona rossa del circuito prima che questo venga chiuso al traffico.
Pranzo con mio figlio e un amico al seguito del Giro: non si parla che della tappa e di quello che può succedere.
Mai ho azzeccato un pronostico, ma una birra fresca all'ora di pranzo deve avermi ispirato per bene. Racconto di quanto possa essere decisiva la salita che porta da Revigliasco all’ingresso del circuito del Parco della Rimembranza, del caldo infuocato che ci sarà lì e di come volendo una squadra possa far scoppiare proprio in quel punto la corsa. -La Bahrain? La Ineos?- mi chiede l'amico -No, la Bora- rispondo.
E sapete com'è andata, no? La corsa scoppia a 80 km dal traguardo grazie proprio alla squadra del futuro vincitore del Giro; una corsa che ci regalerà distacchi e spettacolo come e forse più di un tappone dolomitico.
Intanto dopo pranzo mio figlio ed io raggiungiamo lo scooter e iniziamo a risalire la collina. Il primo intento è di salire a strada del Nobile, da dietro, ma la polizia ed un volontario alpino ci impediscono di fare l’ultimo tratto a piedi.
Non tutto il mal vien per nuocere. Non ci avevo pensato, ma il secondo tratto della salita che porta all’eremo è libera, da lì raggiungere la strada della vetta ci sarà circa un chilometro a piedi.
Rimontiamo in scooter, ancora delusi ma fiduciosi, e partiamo. Lungo la salita vedo ciclisti e pedoni sudati fradici risalire la strada.
Quanto grande può essere la passione per il Giro, da rischiare un collasso su una salita in una giornata afosa che nemmeno a luglio?! Pantaloni inzuppati, maglietta bagnata incollata, gocce di sudore sulla fronte, ma il passo in salita non cede, non manca molto al passaggio!
Mio figlio e io siamo più fortunati, ma tocca anche a noi farci la nostra bella sudata. Lascio lo scooter su un piccolo piano vicino ad un passo carraio, prendiamo la bottiglia dell’acqua e si inizia a salire.
Raggiungiamo Strada della Vetta, l’inferno, il punto più duro di tutta la tappa, forse la pendenza più dura di tutto il Giro 2022.
La folla è enorme, non è nemmeno scontato trovare qualche centimetro a bordo strada libero.
Dopo tanti anni di corse viste dal vivo, scelgo strategicamente l’ultimo tratto duro della salita. In questo punto, dopo che la salita ha fatto gran parte della selezione, è più facile vedere i corridori sgranati uno a uno oppure in piccoli gruppi.
Due battute con i vicini, regalare un po’ d’acqua a chi l’aveva finita e poi cellulare in mano a seguire la diretta.
Dietro di me si forma un capannello di appassionati, non tutti esperti di ciclismo, ma sinceramente presi da questa tappa.
I corridori sono sulla panoramica, rotonda Margaria, manca poco! Ripongo il cellulare, niente foto o video. Voglio godermela all’antica, senza l’ansia del ricordo, di una foto sbiadita, di un video mosso. I migliori arrivano. C’è Vincenzo Nibali tra loro e lo incito alla vecchia maniera. Gli urlo un lungo “Vai Vincenzo, forza!” con una grinta pazzesca.
Lui mi vede e mi fa un cenno con la testa - almeno così mi piace pensare - in realtà parlava a se stesso e alla sua fatica. Poi si fa il tifo per tutti, nessuno escluso. Un tributo a Valverde con uno spagnolo con la maglia di campione del mondo Movistar che gli corre accanto per qualche metro. Il giusto quadro che mi porterò dietro come uscita di scena di un fuoriclasse.
Al primo passaggio vedo ancora volti lucidi, tranne il povero Julius Van den Berg, che a mandibola aperta e storta disegna sul suo volto una smorfia da urlo di Munch.
Non mancano domande tipo: “Tu che li conosci, chi è questo?” Ovviamente non è facile rispondere, alcuni li riconosco, altri li manco completamente. Primo passaggio auto di fine corsa e nuovamente si torna al cellulare.
Nibali è ancora tra i migliori. Nel primo pomeriggio avevo ricevuto un messaggio da mio cognato “Vedo Nibali favorito”, tra di me ho pensato “Forse mio cognato segue poco il ciclismo ultimamente, preso dal suo Milan che sta soffiando lo scudetto alla mia Inter”.
Invece Nibali è ancora con i migliori. Io amo lo sport perché è giusto che vinca il più bravo e non il più forte, altrimenti è inutile gareggiare.
E oggi Vincenzo è davvero bravo, gestisce i tratti duri, tira fuori tutta la sua esperienza, controlla i ragazzini che lo affiancano come un fratello maggiore alla prima uscita serale del minore.
Al secondo passaggio Nibali è staccato di qualche metro da Carapaz e Hindley. Gli urlo, lo so sono ingenuo ma l’istinto mi ha detto così, -li riprendi subito perché sopra spiana!- Come se lui già non lo sapesse.
Al passaggio di Landa mulino il braccio velocemente, come se lo stessi tirando su con una corda. Un poeta si aiuta sempre!
Sempre più sgranati passano il resto dei corridori, alcuni in solitario, altri in coppia, spesso della stessa squadra, per incoraggiarsi.
Un bambino è preso di mira dai corridori per il regalo della borraccia. Lui è felicissimo, così tutti noi con lui.
Gli consiglio di non tenerla in mano, altrimenti non ne riceverà altre. Lui con uno sguardo sveglio capisce al volo, lascia la borraccia al nonno e riprende posizione. Verrà premiato altre due volte.
I due gruppi, quello di van der Poel e poi, dopo qualche minuto, quello di Démare sembrano soldati al ritorno dal fronte, con poca voglia anche di salutare e preoccupati solo del tempo massimo.
Infine passa di nuovo Van Den Berg, sembrava impossibile ma è avvenuto, la mandibola ancora più storta, ora tutto il corpo si contorce sulla bici, sta dando tutto! Da domani tiferò per lui!
Chi fatica di più e non molla è il vero campione di una corsa come il Giro. Non è retorica, guardate i loro volti, le loro smorfie, i tendini affilati e capirete che non c’è nulla di retorico in questo. Poi se avete sofferto una crisi in bici su una salita, sarà più semplice capirlo e rivivrete con orgoglio quel giorno in cui non hai mollato (sul Finestre, per quanto mi riguarda).
La macchina di fine corsa è passata, si riprende il cammino verso casa.
Il caldo è meno opprimente rispetto a prima, tutti sorridono, qualcuno si ferma a prendere un gelato all’Eremo dove una gelataio da strada ha parcheggiato la sua ape.
Scendiamo a Torino desiderosi di una buona birra per cancellare l’arsura e sentire e leggere subito i commenti della tappa.
Sono orgoglioso delle ”mie” colline, hanno fatto vedere al mondo cosa valgono. Speriamo RCS le sappia valorizzare a dovere, magari facendo della Milano-Torino, la vera decana, una corsa da sogno con un circuito in collina simile a questo del Giro.
Un mondiale? Perché no. Ma avere una corsa spettacolare come questa ogni anno è il mio desiderio.
Con lo scooter taglio per Val San Martino, la mia valle preferita della collina, amata anche da Salgari, a tal punto che la scelse come luogo dei suoi ultimi attimi di vita.
La temperatura è più primaverile qui e gli odori dei fiori si sentono bene. Il Giro è passato, la festa di Maggio. Sarebbe stato perfetto se avesse vinto Nibali, ma è stato bello così. Un quarto posto, conquistato con classe e fatica, è la migliore metafora della giornata.
La materna collina ci ha accolto, entusiasmato, protetto da un sole cocente e ci ha regalato l’ennesima lezione di vita: non c’è età per smettere di pedalare e divertiti in bici e anche se non arrivi primo, qui sarai sempre felice, affaticato, protetto.
Per Alvento magazine - Kristian Perrone
Foto Daniele Molineris