Tadej Pogačar è speciale

Tadej Pogačar è un po’ come noi, ma più speciale. Come noi alla prima uscita stagionale vuole darci dentro, provare sensazioni che magari da un po’ non trovava senza corse, è come noi, ma è più speciale perché quando ci da dentro se ne va e gli altri lottano per il secondo posto.
Riprende Samitier che diventa un passeggero per alcuni chilometri, poi nulla può: Pogačar è come noi, come lui, ma spesso dimostra di avere qualcosina in più.
Tadej Pogačar è speciale: alla prima gara dell’anno se ne va e vince. È speciale, perché attacca e sembra sorridere. Ha voluto a ogni costo, pare, esordire in una corsa con quel nome un po’ buffo - Clásica Jaén Paraíso Interior - tra sterrati e ulivi andalusi, e ha esaltato il pubblico lungo la strada, come quel ragazzo che chiamava al telefono chissà chi, mentre lui passava velocissimo di fianco, nonostante lo sterrato, nonostante la salita: chissà se in quella telefonata è riuscito a dire qualcosa o si sentiva solo il rumore del vento.
Tadej Pogačar è come noi, ma c’è quel ciuffo che esce fuori dal casco che lo differenzia. A un certo punto c’è quel vantaggio di oltre due minuti da un gruppetto di nomi forti e in forma che si è giocato il secondo posto; un gruppetto che girava e girava e girava, si davano i cambi, loro, mentre il ragazzo sloveno non ne aveva certo bisogno: era solo e il cronometro lo premiava in maniera inesorabile.
Tadej Pogačar è un po’ come noi, ma più coinvolgente, per come attacca, per il coraggio, per come intrattiene col sorriso sul traguardo e subito dopo. La prossima volta gli chiederemo anche se ha intenzione di scrivere qualcosa lui, su di lui, al posto nostro: siamo sicuri ci riuscirebbe molto meglio.
Oggi Tadej Pogačar ha iniziato discretamente la stagione, volessimo usare un eufemismo, ha vinto e sembra abbia detto che questa potrebbe essere solo la prima vittoria dell’anno: che facciamo gli crediamo? Fosse un gioco a premi diremmo di sì e forse anche noi potremmo vincere qualcosa.


Benjamin Thomas col fuoco dentro e altre storie

L’Omnium di ieri sera racconta come a Benjamin Thomas, pur non essendo al massimo della forma, basti (non è poco) la genetica favorevole che si manifesta tramite un motore con pochi eguali in determinati sforzi prolungati in pista, e una capacità, anche quella rara concessione per non molti fortunati, di saper leggere le corse di gruppo.

Il massimo risultato con uno sforzo che visivamente è rappresentato dall’eleganza del gesto in pista, chino parallelo al tubo orizzontale della sua bici da corsa, fluido anche nella fatica, la maglia blu scura della nazionale francese e quelle inclinazioni sul parquet che viste da alcune angolazioni fanno sembrare il corridore come un adesivo appiccicato al terreno. Una crescita costante in tre delle quattro prove dell’omnium (scratch, tempo race, eliminazione, quest’ultima vinta più di testa che di gambe) fino alla battaglia finale, la corsa a punti, disputata a tutta per metà gara, giusto il tempo per mettersi al collo una medaglia d’oro e di vestire la maglia di campione europeo - e mentre la indossa durante la premiazione si gira da Consonni esclamando nel suo fluido italiano: “l’ho chiesta S” .

L’Omnium di ieri sera ha mostrato che quando Benjamin Thomas sta bene senza però avere una gamba dominante, se parte all'attacco ha il fuoco dentro: furbo quanto basta per per conquistare - e poi gestirsi - i giri necessari nella corsa a punti, fondamentali per chiudere la classifica finale con un lucchetto che nemmeno un Simone Consonni indemoniato riesce a scassinare.
Non c’è stato bisogno durante le prove dell'omnium di mettere in sottofondo musiche tratte dai film di Sergio Leone come invece accadeva nelle sfide - senza storia - della velocità maschile: Lavreysen sembra uscito da un film peplum e a quel punto la musica pareva fuori contesto; o nei 500 metri femminili conquistati da Emma Hinze. Dove arriva il quarto posto che sa di beffa per Miriam Vece, ma va così. L’armonica di C’era una Volta il West suonava in sottofondo alternandosi al fischio di Per un Pugno di Dollari. Scelte niente male rispetto ai Take That di Relight My Fire (your love is my only desire) dei giorni precedenti o ai tentativi di accompagnare le gare con le musiche di Hair.

2023 UEC Track Elite European Championships - Grenchen (Suisse) Day 4 - MenÕs sprint - 11/02/2023 - Henrie Lavreysen (NED) - photo Tommaso Pelagalli/SprintCyclingAgency©2023

Ma si diceva dell’omnium e dell’assenza di musica in sottofondo che avrebbe fatto benissimo da colonna sonora (non) originale a Simone Consonni ormai celebre per il baffo che gira per tutto il velodromo e lui lo insegue con una condizione di forma eccezionale: il miglior Simone Consonni di sempre che strizza l’occhio, chissà, a qualcosa di importante anche su strada. E volendo non è finita: tre medaglie conquistate su tre gare disputate. E oggi ci sarebbe pure la madison.
E mentre le passistone tedesche dell’inseguimento conquistavano oro e bronzo, e qui pure ci sarebbe una varietà di musiche da scegliere per fare da contorno, chiudeva la giornata la corsa a punti femminile: Anita Yvonne Stenberg, norvegese di Mallorca, fa letteralmente quello che vuole delle proprie avversarie conquistando il secondo titolo europeo in pochi mesi (nel 2022 vinse lo scratch). Il tutto mentre le altre un po’ stranite inizialmente curavano - esclusivamente - la ruota di Neah Evans. Pensavano - ingenuamente - fosse lei l’atleta da battere. Sarà stata la maglia iridata che indossava a far venire questi strani pensieri...
Oggi, invece, ahinoi, ultimo giorno per il ciclismo su pista, rassegna divertente, colorata, di quelle che vorresti non finissero. Oggi è un giorno per altre storie, altre colonne sonore, chissà magari altri baffi, anche se ci faremmo bastare sinceramente quelli di Consonni, o magari sarà di nuovo tempo di Thomas col fuoco dentro. I nomi gira e rigira in pista sono sempre quelli e anche per questo finisce poi che ti ci affezioni.


E che oro sia

La bocca era secca in partenza. L’acido lattico fischiava persino nelle orecchie mentre Jonathan Milan percorreva i quattromila metri dell’inseguimento individuale.
Quella fatica che si addensava nell’aria era lo sforzo di oggi, di questa mattina, di ieri, quando per restare appesi a quel tizio di nome Filippo Ganna bisogna sempre concedere qualcosa in più alla propria soglia dello sforzo. Era fatica residua di qualche giorno fa quando al Saudi Tour, su strada, sprigionava tutto quello che aveva dentro: potenza e talento.
La sfida di oggi, contro Daniel Bigham, non un nome a caso, ma uno che investe tempo e mezzi per migliorare questa disciplina, arrivava dopo un risultato in mattinata che pareva non il migliore possibile per il friulano, ma quanto bastava per decidere che alla fine sarebbe stato un testa a testa con il britannico.
Di nuovo Gran Bretagna contro Italia in una sfida che ormai è un dualismo e che sarà, soltanto a suon di quartetti, però, vista la scellerata idea di togliere l’inseguimento individuale dal programma olimpico, uno dei motivi più interessanti in ottica Parigi 2024 - ma a quello ci penseremo a tempo debito.
Oggi c’era in palio un titolo europeo, non poca roba. E per tre chilometri stavamo celebrando Bigham, provando a spingere Milan.
E quell’ultimo chilometro pareva arrivare troppo velocemente tanto da dire, bravo Daniel Bigham, ti meriti questo titolo. Bravo anche Jonathan Milan, tra strada e pista ti diverti e ci fai divertire, e se oggi non va, sarà per un’altra volta.
E che argento sia, inseguitore Jonny, sembrava così fino a quell’ultimo chilometro dove, una volta che la grafica riprendeva a funzionare, Milan macinava terreno, divorava quello spazio che lo divideva, sulla fotocellula, dal suo avversario. Una progressione, un finale forse ispirato a quel Filippo Ganna dal quale è diverso in tutto anche per caratteristiche eppure ci sono sin troppe cose che li accomunano.
E quell’ultimo chilometro è arrivato, esaltante (58’’117 il tempo, “mica male”), mentre quello totale si faceva migliore di quello dell’avversario con le gambe inasprite da uno sforzo disumano.
Bravo Milan, oro Milan, altro che argento. Anzi diciamolo meglio: bravissimo Milan. Ribadendo come questo per lui è soltanto l’inizio.
PS E ancora grazie a quell'uomo che si vede in foto di spalle, artefice di quello che stiamo vivendo in pista in questi anni.


Grenchen 2023, giorno 1: un recap

Prima giornata dell’Europeo su pista in poche (?) parole. Manifestazione in cui maglie e medaglie hanno il giusto valore: si lavora principalmente per crescere (e in alcuni casi qualificarsi) in vista di Parigi 2024. Si è tornati nel luogo in cui Ganna, ma anche Bigham poco prima di lui... sapete già cosa. E in mattinata hanno guidato le proprie nazionali nelle qualificazioni dell’inseguimento a squadre.

Disciplina olimpica e dunque di una certa importanza. Italia al completo, segna il miglior tempo e per il resto poche sorprese. Chi scrive sperava in un ulteriore salto di qualità del giovane Belgio, ma per il momento una solida Germania non si fa da parte. Questione Giochi Olimpici abbastanza circoscritta alle squadre note: Italia, Gran Bretagna, Danimarca, Germania, Francia alle quali si aggiungeranno Australia e Nuova Zelanda e probabilmente una tra USA e Canada), ma se ne parlerà più avanti, intanto stasera si lotta per andare a caccia di una medaglia, sia tra i ragazzi che tra le ragazze.
Balsamo, Fidanza, Guazzini e Paternoster, seconde, sono un po’ lontane dalla Gran Bretagna, ma stasera sfideranno la Francia per l’accesso alla finale valevole per l’oro. Bisognava rompere il ghiaccio e perlopiù è un’altra tappa di un lavoro che porterà verso Parigi.

La gara che apre e chiude la giornata è quella della velocità a squadre: specialità olimpica. Gli omaccioni olandesi fanno paura e senza paura stracciano la concorrenza con quella solita superiorità imbarazzante per gli altri che riescono a mettere in pista. Muscoli che sembrano brillare riflessi sui 730 metri cubi del legno lamellare della pista svizzera. I ragazzi italiani invece crescono, crescono, crescono, sono meno in carne rispetto a gran parte della concorrenza, ma una bellezza da vedere. Due volte migliorano il record italiano, Tognoli, Bianchi e Predomo, con un’età media da quinta liceo o poco più (19 anni) chiudono sesti mostrando evidenti miglioramenti nella velocità su pista: per loro Parigi rischia di essere (per usare un eufemismo) un divieto sacrale, ma non si vive di solo Parigi e la loro contagiosa giovinezza li porterà in alto, a patto chiaramente di continuare a investire e puntare sul movimento della velocità.
Diverso il discorso tra le ragazze dove invece si fatica maggiormente, mentre la gara vede la solita solida Germania - Friedrich, Grabosch, Hinze - superare in finale la Gran Bretagna.

2023 UEC Track Elite European Championships - Grenchen (Suisse) - Day 1 - Men’s Elimination Qualifying - 08/02/2023 - - photo Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Non c’è pausa per il ciclismo, per noi che lo amiamo che passiamo da un evento all’altro, che sia strada, cross o pista, per loro che pedalano e così ti ritrovi ancora e ancora gare una dopo l’altra. Prima di concludere le due prove di velocità, infatti, ieri sono andate in scena anche gare molto attese per l’Italia perché vedevano al via Fidanza e Viviani, nello scratch e nell’eliminazione, entrambi accomunati dalla maglia iridata che li rendeva con tratti quasi sfarzosi in mezzo al gruppo, ma meno riconoscibili del solito con una mise diversa da quella azzurra. Ebbene: la condizione, evidentemente, in due specialità non olimpiche ma nelle quali i due sono di casa, deve ancora arrivare e non c’è nulla di male. Fidanza chiude quinta in una gara in cui, a differenza di qualche mese fa, Mondiale a Saint-Quentin-en-Yvelines, si attacca dalla media, breve distanza, e da uno di questi attacchi se ne esce fuori Maria Martins che dopo aver inseguito una vita la medaglia d’oro su pista, dopo tanti piazzamenti vince, esultando alla fine come Ronaldo. E i portoghesi stanno bene bene in questo periodo a due ruote: l’eliminazione - che vede Viviani eliminato, appunto, precocemente, chiuderà quinto, la vince un giovane di grande talento (da seguire anche su strada) e figlio d’arte, il tedesco Tim Torn Teutenberg, per tutti, o quasi TTT, con quella che fino al momento è l'azione più interessante e da ricordare della manifestazione. Vince davanti a uno dei gemelli Oliveira, ancora Portogallo. E fra qualche ora si ricomincia.


Il 5 febbraio 2023 a Hoogerheide

Non è il 30 ottobre del 1974 a Kinshasa, non è The Fight o Rumble in The Jungle. Non può essere Alì contro Foreman, perché è il 5 febbraio del 2023, a Hoogerheide, ed è van der Poel contro van Aert e viene presentato come il Mondiale di ciclocross più atteso di sempre.
Non c’è più niente da nascondere, basta pretattica: quello che si ha lo si tira fuori, sul percorso oppure altrove, comprese le foto che sui social vengono mostrate da stamattina: van Aert contro van der Poel in ogni forma ed età. Bambini in uno studio televisivo, uno con la faccia imbronciata, l’altro un po' stupito, contento, curioso, oppure sul podio a darsi un pugnetto poco convinto, o ce n'è una, più ricostruita, che raffigura un braccio di ferro tra i due, dove uno tiene lo sguardo fisso negli occhi dell’altro come un duello ripreso per il momento di maggiore tensione di uno spaghetti western.
Un western del Nord, belga e olandese, una questione per qualcuno di statistiche: van Aert ha vinto tot gare mentre van der Poel gli è superiore in questo e quello. È uno scontro fatto di polemiche, come ogni diatriba, serve a colorare la vigilia; è qualcosa in cui tutti si fanno da parte e lasciano la scena a loro. È l'apoteosi della superiorità. È devastante per gli altri. È un anticipo della stagione su strada, è il finale della stagione nel cross.
Non vorremmo mai spostare l’attenzione dalla corsa, ma bisognerebbe almeno citare, e lo facciamo, la quantità di gente, di colori e di rumori lungo tutto il percorso di Hoogerheide, Olanda.
Non vorremmo mai spostare l’attenzione dal colore tutto intorno, ma ci tocca ritornare in corsa: è quel che conta oggi. Dopo tre minuti attacca van der Poel, quarantatré secondi dopo i due se ne vanno, inizia il braccio di ferro, non li rivedono più. È un continuo logorarsi a vicenda, un domandarsi, giro dopo giro, chi vincerà? Chi è più forte dell’altro? Dove attaccherà Wout? E Mathieu sfrutterà le barriere?
Uno è spalluto, l’altro una sfinge. Uno attacca, l’altro risponde.
Uno prova ad allungare in un punto, l'altro cerca il proprio limite per evidenziare quello del suo avversario.
Avremmo voluto vederne ancora, e poi ancora, e ancora, ancora, fino a dire basta. Un altro giro, ma poi quell’ultimo giro è arrivato. C’è silenzio per un attimo, o almeno così pare di percepire, come in una di quelle piazze vuote a El Paso, Texas, oltre un secolo fa. C’è tempismo, potenza, c'è lo spiccato senso tattico che da un po’ di tempo è diventato parte del corredo agonistico di van der Poel che scatta sul rettilineo finale e vince.
E poi c'è quella domanda che sorge spontanea: l'idea dell’uno di andare così a tutta dall'inizio, può aver logorato l’altro svuotandolo dell'energia necessaria per fare la differenza prima della volata? Van Aert dice, più o meno, che è andata così, il 5 febbraio del 2023 a Hoogerheide.


Cresce, esplode, De Lie

La facilità con la quale Arnaud De Lie ha vinto ieri la prima frazione dell’Étoile de Bessèges, classico appuntamento di inizio stagione in Francia, ha ricordato la medesima inclinazione di un certo Peter Sagan per quel tipo di arrivi: pochi minuti in cui sprigionare potenza e saltare gli avversari in vista del traguardo.

E per certi versi simile - anche se al momento giocano su terreni differenti di coinvolgimento - è quella sorta di spavalderia genuina che esprimono nel godersi una vittoria. Ieri niente segno delle corna, lui è "Il Toro di Lescheret", ma si guarda indietro, scruta i corridori dribblati e che affannosamente tagliano la linea del traguardo alle sue spalle, e si esibisce in un gesto quasi di liberazione per la fatica fatta sulla rampa finale.

La crescita di Arnaud De Lie appare netta, anzi lo è, così come il modo con cui sconfigge gli altri corridori su terreni che si assomigliano: vincere su uno strappetto che taglia le gambe sembra diventare un marchio di fabbrica.

Sale di livello lo scontro, e il classe 2002 belga cresce a sua volta. Ieri a Bellegarde ha messo la sua squadra davanti a metà gara, spezzando il gruppo ed esasperando la fatica dei suoi, sportivamente parlando, nemici. Poi sullo strappo che portava al traguardo, dopo il lavoro di un altro suo compagno di squadra, ha lasciato sfogare Mads Pedersen nel tratto più impegnativo prima del plateau finale dove, dopo aver stretto i denti, ancora pieno di energie bruciava un corridore come il danese, che lo scorso anno, su quello stesso arrivo vinse con (estrema) facilità: un momento che fu prodromo della sua miglior stagione in carriera, almeno in fatto di continuità.

Cresce, esplode De Lie, che solo un anno fa si presentava raccontando della sua vita a Vaux-sur-Sûre, della fattoria e di come, la mattina prima del suo successo più importante tra gli Under 23, si alzò presto, come ogni giorno da quando era bambino, per mungere le vacche. Poi salì in macchina, raggiunse Grotenberge, preparò bici e vestiti e andò a vincere in volata la Omloop Het Nieuwsblad di categoria. Disse di aver sentito la fatica di quella levataccia, in gara. Almeno fu sincero.

Impressionante è la facilità con la quale in questi primi 13 mesi di professionismo De Lie abbia alzato le marce della competitività: passando dall’essere un ottimo prospetto a dare nemmeno troppi ambigui segni di predestinazione. È sicuramente presto (ma nemmeno troppo), pensare fin dove potrà abusare della pazienza dei suoi avversari, maltrattandoli su arrivi dove in passato hanno vinto o dominato, avendo pur sempre solo 20 anni.

L’idea di vederlo prima o poi (più prima che poi) scontrarsi con i più grandi del ciclismo di oggi, e su traguardi via via più prestigiosi, ci sta facendo venire l’acquolina in bocca.


Affinità

C'è un rapporto particolare tra Thibaut Pinot e l'Italia, particolare e reciproco. Qualcosa che si potrebbe sintetizzare in quel "Tibò", scritto così, come si pronuncia, oppure nella scritta sul suo braccio destro, "solo la vittoria è bella", quasi uno scambio di linguaggio, di comprensione. Per descrivere questo rapporto, questa reciprocità, noi torniamo a Como, in un fine settimana autunnale del 2018, in un angolo della sala stampa, dopo quell'assolo di 14 chilometri circa di Pinot, dal Civiglio alle acque calme del lago.
Già, perché proprio quel giorno "Tibò" Pinot descrisse l'Italia, aiutandosi con la mimica, con gli occhi: parlò delle sue strade, dei suoi vicoli storici, caratteristici, dei suoi scorci sempre diversi, anche a distanza di pochi metri, e poi del suo linguaggio, della sua lingua, dei suoni che a Pinot piacciono. Quel giorno, dopo il duello con Nibali, questi erano i suoi pensieri. Quel giorno, dopo il dolore di qualche mese prima, queste erano le sue parole.
Quegli stessi occhi, ma con uno sguardo diverso, li avevamo visti a maggio, a fine giro, a un passo dal podio, anzi, a un giorno dal podio di Roma, afferrato il giorno prima a Bardonecchia. Eravamo a Cervinia, ormai oltre quaranta minuti dopo l'arrivo di Nieve, vincitore di quella frazione. Thibaut Pinot sembrava svuotato, non c'era mimica, non c'era niente, forse solo la speranza che quella sensazione passasse, anche solo per arrivare a Roma. Anche quella speranza era bella, non solo per Pinot, perché quel giorno di Pinot chiedevano in tanti nel via vai di un arrivo in salita. Crisi profonda, ritiro.
Le delusioni che feriscono, che spengono i fuochi o li accendono, li fanno divampare. In quel Lombardia il fuoco è divampato, descritto, raccontato come un esperto d'arte, come all'amico che arriva nella tua città, nella tua nazione, quella che senti tua. Quel fuoco si era acceso da ragazzo, alla vittoria del Giro della Valle d'Aosta, a diciannove anni. Era lì, una fiamma, in attesa, in divenire, tra sogni e desideri. Raccontati allo stesso modo in cui mostra quelle parole sul suo braccio.
Quello di tornare, ad esempio. A fine Giro d'Italia 2017, addirittura, l'unico desiderio. Tutto in quel pensiero, tornare dove "non ho visto nulla di negativo". Anche se era stato quarto, alla fine, sempre di poco, sempre giù dal podio. Eppure il legame si stringe, si amplia, diventa più forte. Non è più solo ciò che si desidera, ma quel che si vuole. Perché a Superga, pochi giorni prima di quella vittoria e di quella storia sull'Italia, Pinot, vittorioso alla Milano-Torino, è un corridore che ha voluto la vittoria, che ha voluto questa vittoria in Italia. Lo sottolinea lui stesso. Avvicinamento e allontanamento continui.
È giusto parlarne perché, proprio in questi giorni, Pinot ha annunciato che nel 2023 sarà al Giro d'Italia. Di più: che, al Giro d'Italia, le montagne saranno il suo grande traguardo, ciò a cui punta. Sono accadute tante cose da quel 2018, tante delusioni, sì, le stesse di quei fuochi che si spengono e si accendono, le stesse delle affinità che sono somiglianze da cercare e vivere, le stesse, anche, della bicicletta, degli esseri umani. Eppure Thibaut Pinot continua ad avere quella voglia, la stessa che l'ha fatto piangere sotto la pioggia, a Lienz, al Tour of the Alps dello scorso anno, dopo una vittoria, dopo tanto tempo. E sarà proprio con quella voglia che tornerà al Giro d'Italia, cinque anni dopo. Si tratta delle affinità.


Le cronache del ghiaccio e della neve

Per raccontare la gara di oggi in Val di Sole serve mettere da una parte il contorno, notevole, e dall’altra i contenuti tecnici, in una gara che ha visto corridori in difficoltà nello stare in piedi su un tracciato che doveva essere una gara di ciclocross sulla neve, ma alla fine si è rivelato un ciclocross sul ghiaccio.
È tutto all’ombra il percorso, con la neve battuta e spalata in diversi tratti e un terreno duro, durissimo, ghiacciato; i corridori battono i denti alla partenza, mentre il pubblico si scalda guidato dallo speaker e accompagna il via muovendo le mani a ritmo. Per incitare, per scaldarsi.
Il ritmo è una parola chiave, c’è chi lo trova subito, come Kuhn: il binomio neve e Svizzera, se pensiamo, tanto per fare un nome, a Odermatt, in questo momento è tornato molto in voga da un punto di vista dei risultati e l’elvetico veste per un po’ i panni di quel fenomeno che non sbaglia una gara - in altro sport - e parte forte, come per altro ci sta abituando in stagione, tenendo davanti la sua maglia rossa di campione nazionale che risalta sul bianco accecante che caratterizza il percorso.
Il ritmo lo tiene quella solita apoteosi portata avanti da campanacci e motoseghe che pare davvero una gara di sci alpino oppure nordico e che fa da colonna sonora a chi rimonta, cade, frena, tiene, spigola, spinge. In alcuni momenti pensavamo pure di vederli andare via in alternato oppure a spazzaneve.
Si fa fatica a prendere il ritmo perché si rischia di cadere, pensate a van der Poel finito lontano, troppo lontano: non prende alcun rischio (e fa bene), e la notizia è non vederlo a fine gara davanti a tutti, lui che spesso, oppure sempre, in gara prende rischi, ma oggi non era quel giorno. Non era giorno nemmeno per Iserbyt che il ritmo lo tiene pure bene finché non cade, sbatte il ginocchio e si ritira, portato via in barella. Speriamo bene.
La spunta Vanthourenhout che ci mette poco a trovare ritmo e feeling, vincitore degno, degnissimo campione europeo, con quella faccia simpatica come pochi: lascia gli altri a distacchi abissali come un tappone alpino (d’altra parte siamo sulle Alpi) di decenni fa.
Sul podio con lui Vandeputte e Kuhn, entrambi alla loro prima volta tra i primi tre in Coppa del Mondo, e l’impennata di uno, e il pugno liberatorio dell’altro dopo aver resistito al ritorno di Sweeck ,ne certificano l'importanza del risultato acquisito.


Nella neve in Val di Sole

Bianco ciclocross. Domani ai Laghetti di San Leonardo, località Vermiglio, Val di Sole, decima tappa (su quattordici, siamo ormai in dirittura d’arrivo) della Coppa del Mondo di ciclocross, seconda volta - di fila - per la località trentina. L’obiettivo, nemmeno troppo nascosto, si sa, è quello di convincere chi di dovere a far entrare questa disciplina all’interno del programma olimpico. Milano-Cortina è fuori tempo massimo, magari nel 2030, sarebbe un salto di qualità enorme per il ciclocross sotto tantissimi aspetti, a volte ci immaginiamo cosa sarebbe (stata) una lotta per l'oro olimpico tra van der Poel, Pidcock e van Aert e quasi non prendiamo sonno, ma tutto questo è un discorso a parte sul quale non ci dilunghiamo. Non ora.
Ci si prepara da tempo a Vermiglio, invece, per la gara di domani, anzi le gare. L' inverno fa l’inverno, tra freddo e neve. Lo scorso anno sul campo ci si è divertiti al netto di Capitan Temperatura Bassa ma con van Aert, Vos, Pidcock, tutto bianco intorno, le montagne a dare un contorno totalmente inusuale per una gara di ciclocross, piuttosto poteva apparire mountain bike, sci di fondo, specialità di cui la Val di Sole è ghiotta; quest’anno si ripete e il cast vede soprattutto van der Poel e la sfida di altissimo livello che sta tenendo banco al femminile; sfida entusiasmante in pieno svolgimento da un po’ di settimane, sfida tra due 2002, una generazione d’oro, olandese, rappresentata da Fem Van Empel e Puck Pieterse. Van Empel qui vinse lo scorso anno. Fu la prima vittoria nella categoria élite per lei. Van Empel guida la challenge di Coppa del Mondo con oltre cento punti di vantaggio, forte soprattutto (ma non solo) dei due successi negli Stati Uniti, in contumacia della coetanea.
Si esce dalla tradizione di erba, fango e sabbia, sperando che il cross sulla neve dei Laghetti di San Leonardo possa diventare tradizione.
Ci sarà da battagliare con il freddo. Vestitevi pesante: non lesinate. Si combatterà bevendo birra (suggeriscono in alternativa vin brulè), con cautela come sempre. Si combatterà il freddo (ci sarà anche un tendone riscaldato) spostandosi da una parte all’altra del percorso - occhio alle cadute. Urlando, applaudendo. Evento intenso come solo il ciclocross sa regalare dal vivo. Con un percorso leggermente modificato rispetto al 2021, con due collinette in più e zone dove la neve sarà dura, battuta, scivolosa e altre dove, con la neve più morbida, sarà più simile a un percorso con la sabbia ed è per questo che si dice di buttare sempre un occhio su Sweeck, abile guidatore su certi percorsi e leader di Coppa del Mondo, oltre al solito noto, il signor Mathieu van der Poel.
Saranno fondamentali le scelte tecniche, e in questo assumerà una certa importanza la ricognizione - poi che van Aert lo scorso anno abbia vinto arrivando la sera prima e provando il percorso solo il giorno della gara è un altro discorso. Ma di van Aert ce n’è uno solo. Ci vorrà potenza e tecnica, insomma, anche se non a tutti convince l’idea del "ciclocross sulla neve", sarà comunque quello sport lì, potenza e agilità assieme, partenza in griglia, bici in spalla; sarà differente, inusuale, ma non per questo meno bello, entusiasmante e con la solita parola che gira e rigira è sempre quella: spettacolo.
98 corridori al via: 47 donne (partenza alle ore 13) e 51 uomini (partenza alle ore 14:30). Nutrito il contingente italiano che vedrà il ritorno in una gara di massimo livello di Silvia Persico, Eva Lechner, Filippo Fontana, ma non solo. C’è van der Poel, lo abbiamo già detto ma lo ripetiamo, gli occhi saranno su di lui, e anche le urla e il tifo e ogni sua azione, ogni suo passaggio, errore, rimonta eccetera, sarà accompagnata dal frastuono e ci aiuterà a non ghiacciare il fondoschiena.


Attaque de Pierre Rolland!

Ieri ha annunciato il ritiro Pierre Rolland. Un corridore che a noi è sempre piaciuto in modo particolare e infatti ne abbiamo parlato all'interno di #Alvento14.

Era un numero dedicato alle fughe e quella di Rolland al Tour de France 2011, tappa 19 con arrivo sull’Alpe d’Huez, meritò di essere ricordata quella volta, merita di essere menzionata nuovamente.

“Alpe d’Huez 2011, terzultimo giorno di corsa. Mentre Voeckler soffocava il proprio sogno e quello di tutti i francesi cedendo in salita con indosso la maglia gialla, il suo giovane compagno di squadra cavalcava vittorioso verso una delle salite simbolo della storia del ciclismo. Non una vera e propria fuga da lontano, ma emblematica: dopo aver raggiunto Contador sulle rampe finali dell’Alpe d’Huez, Rolland si scrollava di dosso la sua compagnia (e quella di Samu Sanchez) regalando alla Francia la prima e unica vittoria in quell’edizione della corsa francese. Rolland correrà la stagione successiva con il profilo della tappa vinta inciso sul telaio”.

Quel giorno Rolland rimase di fianco a Voeckler, in maglia gialla a due tappe dal termine, finché il leader della classifica gli diede via libera. «Non ho mai pensato di perdere la tappa, non avrei mai lasciato solo Voeckler per arrivare secondo o terzo», raccontò, in modo quasi sfrontato, un corridore che sfrontato lo è stato soltanto in corsa, amante delle fughe, spesso bizzarre, delle maglie a pois, della visibilità in salita.

Rolland lascia il ciclismo a 36 anni. 16 stagioni tra i professionisti e 12 vittorie. Un bel palmarès: due tappe al Tour, una al Giro, un quarto posto nel 2014 nella Corsa Rosa dietro Quintana, Uran e Aru, davanti a Pozzovivo. Un ottavo posto al Tour del 2012 quando vinse anche la tappa con arrivo a La Toussuire e un decimo con maglia bianca finale al Tour del 2011.

Lascia dopo una carriera passata perlopiù in compagini francesi, ma con una parentesi alla Cannondale, squadra americana, che inizialmente Rolland commentò così. «Finché si parla di ciclismo me la cavo. Se dovessi parlare di letteratura sarebbe un problema. Ho dovuto imparare l’inglese perché la Cannondale è una squadra americana. Dopo una vita passata in ambienti francesi, chissà che questo cambiamento non mi faccia bene».

Lascia dopo aver speso una carriera con la consapevolezza dell’importanza del circondarsi di persone per lui importanti. Nei giorni scorsi ha ricordato la figura di Gautier, compagno di allenamenti e di vacanza, amico fraterno con il quale ha diviso gli ultimi anni in squadra. «Il ciclismo è uno sport di sofferenza, durissimo, per questo ritengo essenziale avere con me le persone che amo».

Lascia dopo che la sua squadra, la B&B Hotels-KTM ha annunciato la chiusura: «La mia carriera si chiude qui, ma non è per me che saranno giorni complicati», raccontava giorni fa pensando ai suoi compagni di squadra e ai componenti dello staff rimasti a piedi. Forse gli sarebbe piaciuto continuare ancora, chissà: «Ma il destino ha deciso diversamente», scrive su Twitter.

È stato un gran bel talento in salita Rolland, di quelli sempre all’attacco: L’Equipe ricorda come a un certo punto “Attaque de Pierre Rolland!” divenne una sorta di slogan al Tour ed esistono anche pagine sui social network che si chiamano così.

È stato uno scalatore con un timbro caratteristico: la strada si impennava e lui partiva, non importa se poi spesso dopo qualche centinaio di metri veniva ripreso, lui magari ti scattava di nuovo in faccia per poi essere ancora ripreso. Era fatto così: poca paura di stare al vento, a volte di quelli che aspetti e che non arrivano, di quelli su cui la Francia ci scommetteva come grande speranza, ma dove grande speranza per loro significava (significa) vincere il Tour de France. Si è portato sulle spalle l’onere e l’onore, ma alla maglia gialla ha spesso preferito una più comoda maglia a pois.

È stato un bel corridore non c’è che dire, poco vincente, molto appariscente, è stato Pierre Rolland, anzi, “Attaque de Pierre Rolland!”, detto proprio così.