Alla scoperta dell'eliminator: intervista a Gaia Tormena
Gaia Tormena ricorda che, da ragazzina, nel bosco, si divertiva a fare impennate: se cadeva, si rialzava come nulla fosse e ricominciava a giocare con quella bicicletta. Non è cambiato molto e non potrebbe che essere così, perché la diciannovenne della Val d’Aosta sa bene che il ciclismo è uno sport troppo faticoso per continuare a farlo se non ci si diverte più, così, se si proietta avanti nel tempo, ha solo una speranza: «Fra cinque anni spero di divertirmi come adesso, altrimenti sarà un problema. Anche perché, per chi è cresciuto come me, è difficile pensare di fare altro nella vita».
Tempo fa, si era iscritta a Strava, ma tutti i suoi percorsi erano privati, nessuno poteva vederli se non lei e lei non si è quasi mai preoccupata dei percorsi degli altri, dei loro tempi, dei loro watt. «Credo sia una perdita di tempo e di tranquillità per un professionista. Per migliorare puoi lavorare solo su te stesso, questi strumenti invece continuano a metterti in competizione con altri e, alla fine, ti tolgono tempo e spazio per lavorare su di te». Già, perché per quanto le piaccia la competizione, Tormena sa che non è tutto, che c’è altro. Così, ogni tanto, chiama il suo allenatore e gli dice che stacca, che va al Bike Park di Pila e si butta in discesa. Giù, in libertà, come qualche anno fa.
Non tutti conoscono la sua disciplina, l’Eliminator, e a lei, che è Campionessa del mondo della specialità, piace raccontarla. Si tratta, ci dice, della disciplina sprint del fuoristrada: tra i cinquecento e gli ottocento metri fra ostacoli naturali o artificiali. Qualificazioni e poi gare a batteria, a torneo. In Italia è l’unica a praticarla a così alti livelli: «Quando mi applaudono alle gare ci penso. Penso che, in fondo, ciò che sarà dell’Eliminator, da noi, dipende anche da me, da ciò che riesco a fare».
Essendo una disciplina recente manca ancora una regolamentazione specifica. Soprattutto in Italia perché in Coppa del Mondo le regole sono rigide. L’Italia non ha una prova mondiale dal 2019. «Mi scrivono giovani allenatori e mi mostrano filmati di bambini che provano le nostre partenze. Sono spettacolari e si divertono molto, ma c’è ancora da lavorare per resistuire all’Eliminator lo spazio che si merita».
In primis vanno sconfitte le concezioni errate. «All’estero non interviene quasi mai un’ambulanza in queste gare. In Italia, invece, si considerano pericolose e forse lo sono ma solo perché mancano regole rigide, così ci sono cadute con conseguenze importanti. Per noi sarebbe un passo fondamentale l’affiancamento delle nostre gare a quelle di cross country, ma gli atleti di cross country hanno timore a correre sui nostri tracciati perché, senza quelle regole, rischiano seri infortuni, rischiano di rimetterci la stagione».
Inoltre, l’Eliminator è una possibilità per i giovani che possono gareggiare da subito accanto a un Campione del mondo, magari stargli davanti alla ruota per un giro, sfruttando quelle fibre veloci che si hanno da ragazzi. «Anche i commissari tecnici studiano questa disciplina. Per questo vado in pista a Montichiari o faccio lavori specifici su strada: cerchiamo di capire come si interfaccino le diverse discipline, cosa aiuta e cosa penalizza».
Diciannove anni e tanta maturità. Perché Tormena sa aspettare e spesso ne parla con papà. «Potrei passare in una squadra più grande rispetto al G.S. Lupi Valle d’Aosta perché le cose più importanti piacciono a tutti, ma sono ancora giovane e ho già tanto. Ho paura che il troppo mi tolga questa “fame”, questa voglia che sento. Mi spaventa l’idea di trovarmi a venticinque anni e avere la sensazione di avere già dato tutto. Per ora mi bastano i risultati per avere stimoli, quando quelli mancheranno, forse, li cercherò nell’ambiente, in una squadra più strutturata».
Se l’esplosività, fra qualche anno, dovesse venire meno si dedicherà alle discipline endurance, discipline di sviluppo più ampio in cui serve più resistenza. Guardare avanti, però, non significa solo questo. «Alcuni sponsor mi supportano ma queste discipline, ad oggi, difficilmente consentono di avere uno stipendio. Fino a qualche anno fa, era papà a comprarmi tutto e già il fatto di avere qualcuno a supportarmi con del personale mi sembra tantissimo. Però si cresce, gli anni passano e bisogna costruirsi una propria indipendenza. Lo sport è l’unico lavoro che ti impegna tutto il giorno, quasi tutti i giorni, è triste pensare che alcuni sportivi non possano pagarsi le bollette col frutto del loro lavoro. Il cambiamento è necessario».
Foto: Alessandro Di Donato
La nutrizione di un ciclista: intervista a Erica Lombardi
Erica Lombardi, dietista dell'Astana Premier-Tech parte dal ruolo dell’educazione alimentare per parlare di ciclismo. «Le informazioni non mancano, ma molte, troppe direi, non sono scientifiche. Così i ragazzi e le ragazze si fanno proprie convinzioni, errate, difficili da sradicare. Fare educazione alimentare vuol dire parlare della potenzialità di una corretta nutrizione per ottenere prestazioni importanti, soprattutto vuol dire allontanarli da qualunque pratica illecita». Servirebbe l’introduzione della materia nelle scuole perché, anche al di fuori del ciclismo, investire nell’educazione alimentare significa crescere persone sane e risparmiare sulla spesa sanitaria.
Abbiamo parlato con Erica Lombardi di alimentazione nel ciclismo e di come le tematiche alimentari vengano gestite all’interno delle squadre professionistiche.
Nel ciclismo le cose sono cambiate nel tempo e, oggi, parlare di alimentazione è come parlare di allenamento: qualcosa di quasi scontato. «Ciò non significa che non ci siano più disturbi alimentari legati alla pratica sportiva. Sarebbe scorretta un’affermazione del genere, ma significa che si è presa coscienza del problema e che si sta agendo: le squadre cercano sempre più la consulenza di medici, dietisti e nutrizionisti». Il discorso di Lombardi è chiaro: è cambiato l’approccio. Si è iniziato a considerare il peso in rapporto alla potenza. Nel ciclismo femminile è evidente: «Credo che una volta la spinta alla magrezza venisse da persone non qualificate e non titolate alla gestione della nutrizione, proprio perché queste figure professionali non erano ancora presenti nel team. L'attenzione al peso c'è sempre, soprattutto per scalatori e scalatrici, ma sicuramente c'è anche una maggiore consapevolezza della gestione del peso tra i componenti dello staff e l'atleta stesso. Il confronto “sulla magrezza” tra atleti c'è sempre, ma ci sono figure professionali che riescono a rendere maggiormente consapevole l'atleta del proprio percorso individuale nutrizionale e a non farsi influenzare nel raggiungere pesi non funzionali alla salute e alla performance».
L’approccio, continua Lombardi, è personale, dal camice al pedale perché gli atleti hanno una particolare routine di vita che non consente un controllo sul lungo tempo. «È importante la quotidianità, l’imprinting. Un mese senza confronti, controlli e verifiche è impensabile». Per questo lei stessa si occupa di verificare il fabbisogno di ogni atleta e di guidarlo nelle scelte. «C’è la cosiddetta dieta a watt, ovvero in base ai watt che il ciclista dovrà sviluppare in una determinata tappa. Il ciclismo è uno sport situazionale. I nostri grafici tengono conto della tappa, dell’altimetria, del meteo e persino del ruolo del corridore. In una corsa a tappe gli atleti vivono una situazione di deficit costante e il dopo tappa è essenziale per permettere il recupero. Collaboriamo anche noi alla preparazione della musette degli atleti e siamo in grado di stabilire quanti gel dovrebbe assumere un atleta su quella determinata salita, almeno in linea teorica».
Il problema, spesso, è lo stress legato a questa tematica che porta l’atleta a rincorrere qualunque novità, per risolvere un proprio problema. «Le diete nuove rischiano di essere un problema in quanto ogni dieta deve essere verificata sulla singola persona. Non c’è alcun ingrediente magico, serve tempo e consapevolezza. Accade invece che ci si perda in questa rincorsa alla novità, talvolta dannosa». Tutto perché tenere sotto controllo il peso è difficile: «È una sorta di pendolo di Schopenhauer: la forma è difficile da raggiungere e anche più difficile da mantenere. Le situazioni stressogene, nel giusto limite, favoriscono il controllo dell’alimentazione. Se esagerate, portano al training eccessivo. Serve equilibrio». Per esempio quando si parla di nutrizione e di gusto: «Tendenzialmente ciò che è buono e gustoso non nutre, ma i ciclisti sono uomini. Bisogna abbinare il nutrimento a qualcosa che sia piacevole da assaporare».
Erica Lombardi torna così a parlare di ciclismo femminile. «Quando si verificano situazioni problematiche, bisogna parlare alle ragazze e chiarire l’importanza di una corretta alimentazione che non significa ingrassare. Sono cose diverse». Il punto è che, anche con un’alimentazione corretta, a causa dell’allenamento intenso, a volte, si verificano situazioni di amenorrea in quanto, comunque, il corpo di una donna, predisposto ad accogliere il feto, avrebbe bisogno di più grassi di quelli che ha il fisico di una ciclista. «Sono abbastanza frequenti questi casi e a lungo andare sono causa di problemi ossei. Anche qui la presenza di un apparato medico è essenziale».
Perché, se è vero che la pratica sportiva è certamente salutare, la pratica sportiva ad alti livelli può essere usurante e, in questo senso, è dovere di ogni professionista fare attenzione alla prevenzione.
Pidcock tra van Aert e van der Poel
Tom Pidcock non ci sta. Sfrontato come i suoi ventidue anni, cortese come un baronetto del Regno Unito, di Leeds. Elegante e redditizio su strada, deciso quando si destreggia nel fango come un occhio che cerca un varco nel fumo di Londra.
«Non voglio essere sempre terzo, corro per battere Wout e Mathieu» ha detto così a Het Nieuewsblad, chiamando van Aert e van der Poel per nome, un guanto di sfida, e ha gasato tutti perché Tom è uno da prendere sul serio, ciò che dice fa. Va bene il rispetto, la fiducia, l’orgoglio di essere fra loro ma il sale è quella voglia di ribellione, di provocazione, di mettere la propria ruota sporca di terra davanti alla loro. Ce la farà? Lo scopriremo.
Intanto ieri, a Rucphen, in Olanda, pur con l’assenza di van Aert e van der Poel, ha battuto Iserbyt e Vanthourenhout e non in un modo qualunque. Quasi con l’istinto di colui che sente l’odore della preda nella boscaglia e si sfregia coi rovi pur di prenderla. «Ad un certo punto mi sono detto: diavolo, ora dai tutto e vinci». La voglia di riscossa, di rivalsa. Prima Coppa del mondo fra gli élite, una di quelle pietre miliari di cui vi abbiamo parlato in questi giorni.
«Van Aert ha uno stato di forma incredibile ma anche io sto meglio di quanto potessi pensare» come se non lo vedessimo. Anche quando non ci riesce a vincere, come oggi a Namur, su quel fango che sa di Inghilterra, per dirla con le sue parole: due scivolate, qualche insicurezza e Vanthourenhout che va a vincere. Ma ha fatto la gara, ha messo pressione agli avversari, affamato, forse ancor di più dopo una sconfitta.
Van Aert, Van der Poel e Pidcock, rigorosamente in ordine sparso. Un tris d’assi da celare e poi gettare sul tavolo, mentre sotto le noccioline continuano a scricchiolare. La grande sfida è sempre più vicina e sarà una festa, comunque vada.
Testardo come Warren Barguil
Warren Barguil è nato nel dipartimento di Morbihan, in Francia, e i francesi sostengono che chi nasce da quelle parti sia decisamente testardo. Di certo, i medici che lo hanno curato dopo la caduta in allenamento e la frattura al bacino dello scorso settembre hanno saggiato la sua testa dura. Il suo corpo sembra un puzzle, tante sono le cadute che lo hanno martoriato e questa volta l’avviso è stato perentorio: «Ci vorrà tempo e pazienza. Per sei settimane non puoi mettere piede a terra». Barguil ne ha aspettate cinque, alla sesta, senza dire nulla al chirurgo, ha ripreso a camminare per casa.
Non è stata la prima volta che faceva di testa propria. A Carcassonne, al Tour di quest’anno, era messo talmente male che chiunque avrebbe mollato. I suoi direttori sportivi, in Arkéa-Samsic, l’hanno dovuto minacciare per farlo fermare: «Devi ritirarti. O lo fai di tua spontanea volontà o ti escludiamo noi dalla squadra». Così testardo da far quasi arrabbiare; persino sfacciato a tratti. Come al Tour de France 2017 quando, dopo due tappe vinte alla francese, ovvero con tutto l’orgoglio, la sofferenza e forse anche la drammaticità di cui i blues sono capaci, disse apertamente, rivolgendosi alle tattiche delle altre squadre: «Ho attaccato, ci ho provato. Per attaccare non è necessario controllare i watt tuoi o dei rivali».
Probabilmente Wawa, così lo chiamano in patria, è sempre stato testardo. Più probabilmente lo è diventato. Quando gli dicevano di aspettare, di lasciare che fossero gli altri “a fare la corsa” per poi attaccare all’ultimo e lui non capiva più perché, allora, corresse in bicicletta se doveva «farsi portare in giro dal gruppo». Non c’è attendismo nel suo modo di essere e se insegue la vittoria come ognuno, per essere soddisfatto di se stesso gli basta vivere la corsa, farla, non subirla. Fino a quando l’ha subita, si è ritrovato in camera, distrutto, con la voglia di tornare a casa. Come ha iniziato a disegnarla, a casa non ci è più voluto tornare, nemmeno fatto a pezzi dalla strada.
Ora pensa al 2022. Dopo il Tour de France e la Vuelta, vorrebbe essere al Giro d’Italia. L’Italia lo affascina, il Giro lo attrae. Con Nairo Quintana, in squadra, per quest’anno punterà anche alle brevi corse a tappe e alle corse da un giorno. Intanto attende che Arkéa-Samsic diventi una squadra World Tour e a “L’Équipe” confida: «Se non sarà per il 2022, sarà per il 2023. Ma se il passaggio non dovesse esserci, di certo qualcosa cambierà per me. Mi trovo bene, ma sarà inevitabile guardare altrove a quel punto». Inevitabile come la testa dura di Warren Barguil.
Mamma, mamma ho visto van der Poel
«Ho visto van der Poel, ho visto van der Poel». Erano i primi giorni di marzo, sugli sterrati senesi, quando un ragazzo, tornando verso la propria famiglia, ha gridato così. E noi abbiamo ripensato al mare di Napoli e a chi a centinaia di chilometri di distanza, tanti anni fa, ha gridato: «Mamma, mamma ho visto Maradona». Non ci sono paragoni da fare. Chissà se, con tutte le persone che accorrevano per vedere Maradona, qualcuno lo vedeva davvero. O forse immaginava di vederlo, ne intuiva i lineamenti. Come con i ciclisti perché nel folto del gruppo, spesso, tocca immaginarli, non potendoli distinguere bene. Ma basta una vana somiglianza e tutti sono certi di quello che hanno visto e lo raccontano.
C’era un vento assassino nel giorno del passaggio nei luoghi del terremoto, al Giro d’Italia, roba che nemmeno gli striscioni dei Gran Premi della Montagna erano saldi. Ricordiamo i capelli bianchi di quel signore che tracciava la linea del Gran Premio, arruffati dal vento, gettati all’indietro. Ricordiamo la sua giacca che continuava ad aprirsi, sotto i colpi dell’aria. Perché tutti danno per scontato che lì ci sia la vetta e quasi nessuno si interroga su chi abbia tracciato quella linea o posizionato quello striscione. Su cosa sia per queste persone una gara ciclistica. Loro che il ciclismo lo vivono distrattamente, pieni di sudore o d’acqua. Forse più che vederlo lo intuiscono come chi fa un lavoro di fatica per permettere agli altri di divertirsi.
Quello stesso vento, di giro in giro, era arrivato sopra al Ventoux, all’Osservatorio, in un giorno di luglio al Tour de France. Lì, Blanchard, nome quasi omaggio al bianco lunare di lassù, era salito con amici. Le loro biciclette le trovavi quasi aggrovigliate in un angolo. Sulla sue spalle una sacca, una borsa. “Il mezzo per andare dove vuoi e un sacchetto con le poche cose per poterci restare”. Nello zaino di qualcuno lì vicino dei vecchi giornali.
“A cosa vi servono?”
“Guardiamo le foto e cerchiamo i punti esatti in cui sono scattati i ciclisti per cui abbiamo tifato”.
Roba da matti, verrebbe da dire. Soprattutto con quella polvere che entra negli occhi e li fa bruciare. Loro, però, hanno continuato e a giudicare dall’entusiasmo qualche punto devono averlo trovato. Poi hanno visto van Aert e non c’era più bisogno di cercare nulla.
Perché servono le visioni e servono i ricordi.
Ferruccio, un attempato tifoso di Colbrelli, incontrato mentre mangiavamo una piadina al Campionato Italiano ci disse che, da ragazzino, andava al cantiere dove lavorava suo papà a vedere il mestiere dei muratori e quando tutti gli dicevano che stare lì, sotto al sole o al gelo, gli avrebbe fatto male, lui rispondeva che suo papà era cresciuto in strada, suo nonno anche e chissà indietro nel tempo quanti altri. Forse avevano qualche ruga in più, ma erano felici e lui voleva diventare come loro. Colbrelli che, dopo tanti tentativi, ha vinto ciò che ha vinto, è come Ferruccio. E noi, che su quelle strade abbiamo sempre avuto il gusto di tornare, non siamo poi tanto diversi.
Il coming out nel mondo dello sport: ne abbiamo parlato con Elisabetta Borgia
Le dichiarazioni di Irma Testa, pugile ventitreenne, medaglia di bronzo a Tokyo, in seguito al coming out di qualche settimana fa, hanno fatto molto parlare nel mondo dello sport.
Noi abbiamo voluto parlarne con Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport a stretto contatto con il mondo del ciclismo, per avere un suo punto di vista sulle difficoltà che, purtroppo ancora oggi, permangono nel parlare apertamente del proprio orientamento sessuale, in particolare in ambito sportivo.
«L’omosessualità - esordisce la Dott.ssa Borgia - c’è sempre stata e sempre ci sarà, non è un fatto nuovo. Ciò che è cambiato nel tempo è il modo di percepirla da parte della società. Già solo il fatto che queste dichiarazioni facciano parlare rende evidente come, ancora oggi, permanga un canone che la società considera comune e di cui l’omosessualità non fa parte. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di parlarne».
Oggi l’omosessualità è considerata uno stato esistenziale come molti altri e il gesto di uno sportivo importante che la dichiara apre alla possibilità. «È un bene che sportivi di rilievo facciano questo gesto perché si tratta di un messaggio lanciato alle persone più giovani, a chi si sente più debole e non ha il coraggio di vivere allo scoperto la propria sessualità. Un gesto di ispirazione. È come dire: “Si può dirlo, si può ammetterlo”. Questo, però, apre la via a tutta un’altra serie di considerazioni». Le considerazioni di cui parla Elisabetta Borgia sono quelle relative, in primis, all’accettazione personale di questo stato esistenziale.
«Se non si accetta personalmente, si è maggiormente esposti alle ferite che possono venire dal mondo esterno. Sempre e soprattutto in alcuni mondi, per esempio il ciclismo che è un piccolo universo, fortemente predisposto alla condivisione, alla comunione di spazi e tempi. Fare coming out senza una completa accettazione di se stessi può essere pericoloso, in quanto poi si rischia di non essere in grado di reggere ciò che accade perché, purtroppo, per sbagliato che sia, non si può sapere come le persone reagiscono, cosa dicono. Accettarsi vuol dire mettersi, almeno parzialmente, al riparo da quelle ferite».
Il focus della dottoressa Borgia va proprio sul ciclismo e sulle modalità con cui si vive. «Un gregario che lavora per il proprio capitano ha, e aggiungerei deve avere, una confidenza e un feeling maggiore rispetto a quello che esiste fra colleghi in qualunque altro lavoro. Questo, da un lato, dovrebbe portare a una maggiore facilità nella comprensione di ciò che vive l’altra persona, dall’altro, però, espone a problematiche importanti in quanto tutti abbiamo timore del giudizio, in particolare da parte delle persone con cui abbiamo più rapporti. Nel ciclismo è molto difficile separare la sfera personale da quella lavorativa».
Nel ciclismo questo fatto è inevitabile e si estende a più fattispecie: partendo dal rapporto privilegiato fra compagni e arrivando alla condivisione di circa duecento giorni in giro per il mondo, delle camere di albergo. «Capite benissimo che il rischio di esporsi a battute e giudizi, per come va la società di oggi, c’è e ha un peso rilevante. Scegliere di esporsi vuol dire assumersene le conseguenze e fare i conti con ciò che la tua realtà lavorativa, e non, ti porta. Non è un caso che Irma Testa abbia deciso di parlarne solo dopo la medaglia olimpica, come a ricercare una sicurezza prima, una forza che le consentisse di essere veramente libera».
Borgia considera questa dichiarazione come la fase finale di un’elaborazione di un conflitto interno, un processo di accettazione intimo e consapevole. «Sai perché certe cose ci fanno star male più di altre? Certe affermazioni di persone ci feriscono in maniera particolare? Perché alcune “fanno risuonare” certe parti intime, alcuni “nervi scoperti” in tutti i campi della nostra vita. Ad esempio, capita che qualche atleta rimanga molto male per un commento di un tifoso particolarmente offensivo, ad esempio “sei un corridore finito”: ecco, questa affermazione avrà spazio nel corridore se, forse, intimamente ogni tanto questo pensiero o questo interrogativo gli è balenato nei momenti di difficoltà, se invece è un atleta sicuro di se stesso non subirà un condizionamento così forte. Questo avviene anche per quanto riguarda l’orientamento sessuale: se si è sicuri e tranquilli rispetto a questa sfera, se si è consapevoli di non essere sbagliati, ogni affermazione offensiva e discriminatoria, che chiaramente va perseguita, non avrà un potere deflagrante così forte».
Maggiori difficoltà sussistono nel ciclismo maschile rispetto a quello femminile in cui questa realtà è, invece, più accettata. «Dipende dalla caratterizzazione che la società offre di un determinato ruolo. Nell’arte, nello spettacolo, in alcuni casi è più semplice vivere la propria omosessualità in quanto non c’è quel machismo che nello sport abbiamo. Il ciclista deve essere perfetto, forte, senza macchia e senza paura e l’omosessualità, nello stereotipo della società, non si abbina a questo. Quando qualcuno dice: “È uno sport da uomini” inconsciamente fa riferimento a questa caratterizzazione. E pensare che, a livello di personalità, è la donna a essere maggiormente predisposta al sacrificio e alla fatica».
È il peso degli stereotipi e dei pregiudizi che la società si porta dietro da sempre. «Forse i nostri figli si troveranno a vivere una realtà differente e saranno in grado di sconfiggerli. Io sono positiva rispetto a questa cosa, il processo è iniziato ed inizia a farsi strada la predisposizione ad una visione diversa. Questi bambini cresceranno in un mondo dove inizia a entrare nell’immaginario collettivo la possibilità che la famiglia possa essere felice anche se con due uomini o due donne e dove anche i giocattoli, le fiabe e le pubblicità televisive prendono in considerazione la vera forma del mondo».
Foto: ASO / Alex BROADWAY
Come cristalli
Sembrerebbe sabbia, vista dall’alto. Magari di qualche spiaggia a ridosso del mare del Nord. Sono cristalli di neve, invece, a Vermiglio, in Val di Sole. Qualcuno racconta che ognuno abbia una forma particolare, diversa dagli altri, come le impronte digitali umane. Non ti aspetteresti biciclette da cross qui.
Se qualche giorno fa, vi avessimo raccontato la storia di Fem Van Empel, certamente vi sarebbe tornata in mente, vedendola davanti dall’inizio. Questa ragazza che giocava a calcio e provava qualunque ruolo perché le interessava correre, insistere. Il calcio l’ha lasciato perché ha capito che non tutti in campo davano il loro meglio, che c’era chi si risparmiava. Ha preso la bicicletta perché lì dipendeva tutto da lei. È stata una delle poche a riuscire, qualche volta, a saltare gli ostacoli in sella, senza scendere.
Non è facile con queste canaline che si formano tra la neve farinosa: c’è il rischio siano ghiacciate, puoi sprofondare, di certo sbandi, ne esci sbilenca, quasi scomposta, la prospettiva futurista di un corpo umano. Il sole qui arriva per poco tempo, il resto è ombra e luce biancastra che imbroglia.
Marianne Vos è quella di sempre, anche se ha un incidente meccanico e una scivolata che sembra impedirle di ritornare su Van Empel proprio dopo una rimonta incredibile.
Un brutto presagio come un malinconico tramonto, il sole che se ne va, poco dopo le due del pomeriggio. Dietro si continua a prendere la bici in spalla e rincorrere. Dopo cinque giri sembra di sentire il fiato che finisce e l’aria fredda che dalla bocca spalancata gela la trachea, si impossessa del respiro.
Vos e Van Empel arriverebbero allo sprint se non fosse per la neve o forse per un paletto in una curva che Vos non vede e frana a terra. Sembra infinito anche il tempo per rialzarsi qui, invece sono pochi secondi, quasi di agonia, perché scivoli e perché sai che l’altra se ne va.
Van Empel, a soli diciannove anni, vince davanti a colei che ha vinto tutto. Seguono Vos e Rochette, Eva Lechner è quarta, Alice Maria Arzuffi settima, Silvia Persico decima. C’è chi dice che Van Empel, dopo ciò che ha fatto, meritava la vittoria e chi sostiene che per quello che ha fatto Vos oggi è un peccato sia finita così. Forse sono vere entrambe le cose, com’è vero che, comunque vada, vince uno solo, giusto o meno che sia. Basta poco per una ciclista, dura e fragile come cristallo di neve.
Foto: Giacomo Podetti
Il valore del lavoro: intervista a Matej Mohorič
Nel paese in cui è cresciuto Matej Mohorič in Slovenia ci saranno state trenta case, non di più. La sua famiglia aveva una fattoria e lui aiutava i suoi genitori: «Avevamo maiali, pecore e galline. Gli animali non hanno giorni di riposo e c’era sempre da lavorare. In estate avevamo anche l’erba da tagliare». Quando parla di lavoro, Matej ha in mente quei giorni: «Non ci si poteva sottrarre a ciò che c’era da fare e se dovevamo andare in stalla non c’erano storie da raccontare. Cercare scuse è solo fatica mentale in più. Oggi, se ho quattro ore di allenamento da fare, le faccio senza titubare perché il dovere è dovere».
Quando non aiutava in famiglia, andava nei boschi insieme agli amici e con la mountain bike si divertiva a saltare i tronchi d’albero che trovava. Era divertente, per questo a casa ha più di sette biciclette: una per ogni specialità. L’unico rimpianto? «Ogni giorno vorrei provarle tutte, fare un tratto di strada con ciascuna, ma non è possibile». L’attenzione è sempre molta: per non esagerare, per rimanere lucidi. «Certo, voglio vincere, come ogni ciclista, e quando vinco mi emoziono, non dimentico, però, che il ciclismo è soprattutto il mio lavoro. Un lavoro che mi piace ma sempre un lavoro. La mia vita non cambierà di certo se invece di vincere venti gare ne vincerò quaranta. A sessant’anni non sarà questo a fare la differenza. Bisogna averlo chiaro».
Ed è questo lavoro a diventare sempre più difficile con il passare degli anni. Perché da giovani si vuole migliorare, si ha tutto da imparare e la spinta è molta, quando inizi a realizzarti tutto cambia. «Siccome hai raggiunto un livello alto ti viene chiesto di mantenerlo e se possibile di migliorare ancora. È sempre più difficile. Quando hai una famiglia diventa ancora più complesso perché partire per mesi e mesi e lasciare tutti a casa non è poi così bello come può esserlo da ragazzo».
«Noi non vinciamo solo per noi stessi. Vinciamo per tutte le persone che ci guardano e che magari vedendo quella vittoria possono cambiare qualcosa nella propria vita o anche solo essere contente per qualche istante. Vinciamo per le persone del nostro staff che non possono vincere» è qualcosa di cui Mohorič si è reso conto dopo la vittoria delle due tappe al Tour de France. Ricordarsi questo serve soprattutto in inverno quando le gare sembrano lontane e la motivazione può diminuire. «Se non ti alleni bene adesso, a luglio non sarai in forma e quando le persone ti aspetteranno tu non potrai fare nulla. Se non ho molta voglia, penso a questo».
Poi c’è ciò che bisognerebbe cambiare nel ciclismo e non sarebbe così difficile, in fondo. Per esempio, la sicurezza: «Noi non corriamo su piste e le strade non sono pensate per i ciclisti. Sono progettate per le auto con strettoie e rotonde per rallentarle. Duecento ciclisti a tutta velocità trovano ovvie difficoltà a transitare». Mohorič ha le idee chiare: come evolve la società, deve evolvere il ciclismo, magari cambiare regole. «Penso a una neutralizzazione anticipata nelle tappe di pianura, magari a dieci chilometri dal traguardo. Sarebbe più bello per il pubblico che vedrebbe passare gli uomini di classifica staccati, in tutta tranquillità e più sicuro per tutti».
Proprio per cambiare, per migliorare, nei giorni scorsi, Mohorič ha presentato la sua Fondazione, dedicata soprattutto ai giovani perché da loro parte tutto. «Al ciclismo sloveno un grosso apporto viene proprio dai giovani, dalla categoria juniores. È giusto esaltarli come enfant prodige, quando è il caso, ma prima di tutto bisogna affiancarli e aiutarli a crescere. Essere disposti a investire su di loro. Penseremo anche ai bambini, proveremo a metterli in bicicletta, a raccontare anche a loro cosa può essere una bicicletta. A spiegarlo alle loro famiglie».
Ciò che ha vissuto in bicicletta, Mohorič lo racconterà volentieri soprattutto «se lo vorranno, perché chi ti chiede di raccontare è predisposto ad ascoltare» e ascoltare è importante. Lui, per esempio, ha passato molto tempo ad ascoltare Damiano Caruso, a guardare la meticolosità del suo essere professionista e per Caruso questi sacrifici hanno pagato. Con Colbrelli ha invece condiviso le classiche: «Ha un motore enorme, chissà quanto avrebbe potuto vincere. Quest’anno, al Tour, era sempre al posto giusto, spesso sfortunato. Quando vincevamo era contento per noi, io però scorgevo quella voglia, quella fame nel suo modo di fare. Sono contento per il suo momento».
I progetti di Mohorič, invece, sono concreti. Come le pietre del Fiandre o lo scatto di un dente sulla catena sul Poggio alla Sanremo. Come la canicola estiva sulle strade di Francia al Tour, dove la Bahrain vuole da sempre fare bene. La condizione c’è, la voglia non è mai mancata. E per ogni cosa che non andrà ci sarà il lavoro, quello che Mohorič ha imparato in quei pomeriggi di ragazzo e ha custodito come valore.
Il prato ricrescerà o di Arnaud Démare
Non è stato un anno facile per Arnaud Démare. Lo ricordiamo a Tignes, nella nona tappa del Tour de France, mentre saliva la rampa finale ben oltre il tempo massimo. «Ci sono anni in cui gira tutto bene, altri in cui non funziona nulla. È frustrante, non sai più come rimediare, ma è così. Continuo a dare il massimo, posso solo fare questo». Aveva confidato all'arrivo, prima di tornare a casa appena dopo una settimana di Tour de France.
Demoralizzato, ma non completamente sfiduciato anche durante la Vuelta. Un episodio lo aiutava: nel 2018 riuscì a vincere una tappa al Tour de France e fino alla settimana prima stava malissimo. Quando le cose vanno male ti aggrappi a tutto, anche perché nel ciclismo può succedere di tutto, ma, soprattutto per un velocista, quando la vittoria non arriva, c'è poco da fare mancano tutte le certezze. Anche pensare a uno sprint è difficile e dubiti di cose che hai sempre fatto con apparente facilità. Lo sapevano in tanti, lo sapeva la sua famiglia.
Sul traguardo della Parigi-Tours, quest’anno, c'era suo padre Josuè. Arnaud ha raccontato più volte che papà è sempre andato a trovarlo alle gare, sin da giovanissimo, e mentre tutti gli altri genitori gridavano e si esaltavano, lui stava lì, tranquillo, a guardare. Qualche settimana fa è successo lo stesso, proprio mentre Démare, dopo tempo, tornava alla vittoria sul Viale di Grammont, dove ha trionfato Richard Virenque, idolo dei francesi, soprattutto dove l'ultimo francese trionfò quindici anni fa: era Frédéric Guesdon, oggi direttore sportivo dell'atleta della Groupama FDJ.
«Sono stati mesi difficili - ha spiegato a "L'Èquipe"- è stata una stagione difficile, grazie alla mia famiglia, però, ci ho sempre creduto ed ecco il risultato». Ritorna la famiglia, ritorna il ringraziamento alla famiglia e alla moglie Morgane, come primo pensiero, proprio da lui che sull'importanza della famiglia non ha mai avuto dubbi nemmeno nelle stagioni prospere e qualche parola per i propri familiari l'ha sempre avuta perché «la famiglia è fondamentale, sempre».
Pensare che quando, nel 2018, la corsa fu rinnovata e vennero inseriti tratti di sterrato e di pavé, Démare si mostrò stizzito, dichiarò di preferire il percorso classico e che sarebbe stato giusto mantenere quello. Invece proprio Tours gli ha riconsegnato la vittoria, in modo quasi rocambolesco, all'ultima gara della stagione, dopo aver inseguito a lungo la fuga di giornata e aver ricucito solo ai cinquecento metri dall'arrivo su Bonnamour e Stuyven. Proprio a Stuyven aveva pensato nei chilometri precedenti: a quanto fosse difficile andarlo a riprendere e anche solo provare a giocarsi la vittoria. Poi l'asso nella manica, il coniglio dal cilindro, il rapportone o semplicemente la classe dei velocisti e la vittoria.
Il fuoco di Evie Richards
Al secondo giro dei Campionati del Mondo di Cross Country-Mountain Bike, Evie Richards avrebbe potuto andare in crisi. Sarebbe bastato ascoltare quella voce che la annunciava in seconda posizione, dietro a Pauline Ferrand Prevot. Richards non vedeva già più la rivale e questa distanza avrebbe potuto metterla in crisi. Se solo avesse ascoltato quella voce. Invece l’ha sentita, certo, ma non l’ha ascoltata. C’è una sottile differenza.
«Normalmente avrei iniziato a pensare che ormai era finita - ha raccontato a Cyclingweekly - e avrei iniziato ad accusare la stanchezza. Questa volta ho fatto la mia gara, mi sono detta: “Se la riprendo, la riprendo. Altrimenti va bene così”». È importante il fatto che Richards abbia ripreso Ferrand Prevot e abbia vinto la maglia iridata, ma ancora più importante è il racconto di questa debolezza su cui spesso si è confrontata con la sua psicologa. Il coraggio di parlare delle proprie paure e delle proprie delusioni.
Una è abbastanza recente: l’Olimpiade di Tokyo. Quando Richards ha saputo che sarebbe stata rimandata al 2021, è stata delusa, ma anche fiduciosa perché c’era più tempo per lavorare. In quei giorni di attesa, però, si è sfinita, facendo di tutto, dai lavori in casa, appena comprata, a un allenamento molto rigido, al punto di non riuscire quasi più a scendere le scale. Qualcuno, vedendola, glielo ha chiesto: “Ma cosa ti stai facendo? Perché?”. Aveva bisogno dell’umidità e del fango per ritrovare se stessa.
Forse anche per questo, all’Olimpiade è arrivata stanca, distrutta mentalmente prima che fisicamente, e quando gareggi in queste condizioni in mountain bike, dice Evie Richards, sai che cadrai. Così è successo e ha concluso in settima posizione.
Poteva essere un sogno rovinato perché aveva sempre desiderato di andare alle Olimpiadi, fin da ragazza. Poteva ma non è stato così. Quando Richards è arrivata al ciclismo non aveva quasi mai visto una gara, non sapeva come fosse fatta una bici, dove mettere le mani in caso di foratura o di incidente meccanico, eppure, a soli venticinque anni, è diventata campionessa del mondo. Non si butta via tutto per una sconfitta perché, col tempo, Richards ha capito che la sconfitta non tocca il valore di una donna o di un’atleta. Accade e passa, come le vittorie, in fondo.
Sua madre le invia un messaggio prima di ogni gara. Non sappiamo cosa le avesse detto prima dell’Olimpiade, forse qualcosa che ha a che vedere con il cogliere ogni occasione per imparare ed essere felici anche se impari da sconfitto. Sì, perché ancora oggi Richards è orgogliosa del risultato di Tom Pidcock, suo connazionale, ed è certa che se ha vinto il mondiale è anche perché ha visto lui gareggiare e ha avuto la pazienza di guardare e imparare, nonostante si sentisse triste e scoraggiata. Anche prima del Mondiale sua madre le ha mandato un messaggio “Il cielo sopra di me, la terra sotto di me, il fuoco dentro di me” e ci viene da pensare che avesse visto bene dentro Evie perché, nonostante le sconfitte e le delusioni, quel fuoco non era ancora spento e aveva solo bisogno di nuova legna da ardere.