Le azzurre ai Mondiali di Roubaix
Vogliamo parlarvi di storia, mentre i Mondiali di Roubaix si sono avviati alla conclusione. Anzi, per la precisione, vogliamo parlarvi di storia e di storie.
Solo poche ore fa, Elisa Balsamo ha riscritto la sua storia personale nella disciplina dell'Omnium. Non era facile dopo l'Olimpiade, dopo quella caduta spaventosa nelle fasi conclusive dello scratch all'Izu Velodrome. Se ci pensiamo, rivediamo la bicicletta dell'egiziana Zayed Ahmed che le passa letteralmente sopra, mentre lei sbatte su quel legno a oltre 55 chilometri orari. Poco il danno a livello fisico, ma quella caduta ha fatto male alla ragazza di Cuneo. Ha fatto male perché l'Olimpiade era attesa, da tanto. Ce lo ha confidato un pomeriggio di febbraio, seduti al centro del velodromo di Montichiari e, si sa, più attendi, più desideri, più la delusione fa male. Così male che, tornata da Tokyo, Elisa non voleva più parlare di bicicletta, di ciclismo. Così male che, forse, nemmeno la vittoria al Mondiale delle Fiandre aveva ricucito quello strappo.
Emotiva, Elisa Balsamo. Quello stato per cui senti tutto più forte, emozioni, delusioni, felicità ma anche tristezza. Lo ha detto al termine della gara. "Dovevo superare la caduta di Tokyo. Questa medaglia è importante". Ancora di più proprio per il suo carattere che avrebbe potuto bloccarla, forse, invece è stata la spinta in più. Perché ogni cosa ha due facce, anche l'emotività. La sua si è trasformata in freddezza: quando avrebbe potuto giocarsi lo sprint con Archibald nell'eliminazione, invece ha accettato il secondo posto e ha continuato a rosicchiare punti alle avversarie. Quando c'è stata una caduta a pochi centimetri da lei ed è riuscita a tenere lontano quel ricordo, salda, ora più che mai. Persino quando Kopecki le ha soffiato l'argento a pochi giri dal termine. Avrebbe potuto innervosirsi e commettere qualche errore, invece no. Elisa Balsamo conosce la sua storia e sa che va bene così. Va bene il bronzo.
Martina Alzini, Chiara Consonni, Elisa Balsamo e Martina Fidanza conoscono anche la storia. Quella del ciclismo, quella che di tanti piccoli episodi si disinteressa, quella che parla per albi d'oro, statistiche e podi. Non quella che preferiamo, perché senza le storie, quelle singole, la storia sarebbe monca. Per questo sanno di aver fatto qualcosa di grande, qualcosa che viene da lontano, qualcosa che è testimoniato dalla storia e dalle storie. Dalla loro giovane età, dall'incredulità e anche dalla delusione che per qualche attimo ha occupato il loro volto dopo la finale dell'inseguimento con la Germania. Dopo l'argento. E anche quella delusione, del tutto momentanea, è da salvaguardare, perché le porterà a far meglio e meglio dell'argento c'è solo l'oro. Qualche anno fa sarebbe stata utopia, ora parliamo di tempi. Di una finale raggiunta con 4'11''978 contro la Gran Bretagna. Di una finale storica, del nostro miglior risultato in una rassegna iridata che resterà nella storia, quella grande, quella che tutti conoscono.
In quella piccola, invece, assieme al timore di Elisa Balsamo, resteranno le parole tra Chiara Consonni ed il fratello Simone, per farsi coraggio, perché per lei era una prima volta assoluta. Resteranno gli occhi lucidi di Martina Alzini che è riuscita anche a scherzare: "No, mi deve essere entrato qualcosa negli occhi". E Martina Fidanza che scrutava ogni centimetro del podio, quasi a memorizzarlo. Tutti ci auguriamo di ricordarci anche di questo quando fra qualche anno le elogeremo, sul tetto di mondo. Perché sarà anche questo a contare. Oltre all'argento e al bronzo che abbiamo festeggiato in questi Mondiali.
Si vince così, nonostante tutto
Cosa hanno fatto Simone Consonni e Michele Scartezzini nella Madison? È una domanda, ma anche un’affermazione. Ce lo chiediamo e lo ripetiamo da diversi minuti. Una prova entusiasmante coronata dalla medaglia d'argento, dietro la Danimarca di due colossi dell'americana, Michael Morkov e Lasse Normann Hansen, e davanti al Belgio di Kenny De Ketele e Robbie Ghys. I nostri due azzurri l'hanno fatta a nazioni altrettanto quotate come Francia e Gran Bretagna. L'hanno fatta anche alla sfortuna, perché la domenica pomeriggio non era iniziata al meglio.
Michele Scartezzini era caduto a terra a pochi giri dalla partenza e ci aveva messo del tempo per tornare in sella. Solo Consonni a girare in pista, a tutta, con gli occhi ovunque e la mente a cosa avrebbe potuto essersi fatto Scartezzini. Il primo respiro di sollievo è stato al suo ritorno in pista, il secondo quando l'abbiamo visto buttarsi negli sprint e lanciare Consonni nei cambi.
Il terzo respiro è felicità. Perché se dopo un inizio di questo tipo si ha la grinta di andare a fare lo sprint e vincerlo vuol dire che, alla fine, non è davvero accaduto nulla. C'è di più: perché la Madison di solito era terreno per la coppia Viviani-Consonni, una coppia rodata, dalla pista e anche dalla squadra che i due hanno condiviso negli ultimi anni. Non era scontato che con Scartezzini il meccanismo funzionasse. È accaduto, a riprova del fatto che c'è una formula vincente in questa nazionale che va oltre i successi: è il gruppo. Scartezzini lo disse in tempi non sospetti: "L'importante è che a Tokyo vadano i migliori. Il resto non conta".
Tenacia, resistenza e astuzia in una miscellanea esplosiva. Come esplosivo è il gesto del cambio, quella mano che prende e rilancia. Gesto di assenso e di equilibrismo, perché le sbandate sono all'ordine di ogni secondo, di ogni vibrazione d'aria. Scartezzini e Consonni che vanno in caccia per guadagnare il giro e prendere venti punti, Scartezzini e Consonni che non vogliono lasciare nulla a Roubaix, così rallentano prima di rientrare, vincono lo sprint e poi chiudono sul gruppo. Primi in classifica, sempre nel vivo della corsa, di una corsa più che mai viva, che sembra addormentarsi qualche istante e poi si risveglia con la suspence che la pista impone, soprattutto quando è sfida di eccellenze.
Il secondo posto è tutto da guadagnare perché si lotta su ogni centimetro. Scartezzini e Consonni sudati, stanchi, con l'acido lattico fin sopra i capelli, che digrignano talmente forte i denti da arrossire di dolore. Scartezzini e Consonni che sulla scia della Danimarca si prendono un altro giro e vanno a sprintare sul finale. Un finale sospeso, come sospesa è la pista, luogo in cui rette e angoli lasciano spazio a linee e curve. La curva, il momento della paura, della perdita di equilibrio, del cambio, talvolta del sorpasso per questi funamboli dei pedali.
Scartezzini e Consonni che salvaguardano il secondo posto. Consonni che a Tokyo aveva avuto problemi prima di questa gara, si era parlato di ansia, di panico. Non stava bene, ma volle scendere in pista. Come andò, lo ricordano tutti. Da oggi, ricorderemo meglio com'è andata questo pomeriggio. Nonostante la caduta, nonostante i ricordi, nonostante la coppia non fosse la solita. Forse proprio per questo. Perché gli esseri umani inseguono la perfezione nei velodromi, ma sanno bene che è utopia. Si migliora, si insiste e poi si vince. Si vince così, nonostante tutto.
Tutta la determinazione di Elia Viviani
Probabilmente non è stato un Omnium perfetto per Elia Viviani. Il valore di quella medaglia di bronzo è tutto in questa affermazione. Certamente non lo è stato se pensiamo che, alla vigilia della corsa a punti, ultima delle quattro prove previste, la sua posizione era più complicata di quanto ci si potesse aspettare. Eppure, la partenza era stata buona: terzo nello scratch, solo ottavo nella tempo race che abbiamo capito essere la prova più ostica per il veronese, Elia era quarto prima dell'eliminazione, perfettamente in linea con le aspettative di medaglia.
Ma l'imprevisto è una tappa ineliminabile nella vita di ogni sportivo e i fuoriclasse sono coloro che riescono a fronteggiarlo al meglio, senza alibi, senza scuse. Lo abbiamo detto più volte: basta poco per essere eliminati, l'eliminazione è una gara che tesse tranelli e li nasconde fra le pieghe del gruppo. Per Elia il tranello scatta per una questione di posizionamento, non di gambe, non di mancanza di condizione. Certo, non è Ethan Hayter che si mette in testa al gruppo e lo trascina per tutti i giri. Ma nessuno glielo chiede. Se la pista è diventata ciò che è diventata per l'Italia, è anche merito suo e di quell'oro a Rio, ormai cinque anni fa. Quasi inumano il britannico, per la forza e la freddezza che lo fa spostare a quattro giri dal termine, accettando un'eliminazione anticipata, che a molti sembra uno spreco, a lui la scelta più intelligente, tanto ha forza nelle gambe. Ma torniamo ad Elia.
Il segreto è lasciarsi un varco per poter sprintare liberamente sulla linea ed evitare di transitare per ultimo. Elia non può farlo perché è chiuso, imbottigliato. Non è padrone del proprio destino, deciso dagli altri che accelerano e lo superano, eliminandolo. Quelle bici, poi, non hanno freni. Solo nono. Ci si poteva aspettare di più? Certamente. Serve qualcosa di eccezionale per tornare sul podio, qualcosa che a tutti sembra lontano. Basterebbe pensare a Tokyo e a come si è preso quel bronzo che rischiava di essere argento. Ma di fronte alle difficoltà tendiamo a scordarci di ciò che è già accaduto. Forse perché non lo crediamo più possibile, forse perché temiamo la smentita o, più banalmente, perché non crederci è più facile che crederci.
È la determinazione che fa la differenza per Viviani. Chi vede quella determinazione si pregusta l'attesa. Non si può sapere se andrà come tutti si augurano. La certezza è che Elia Viviani proverà qualcosa. Lo ha sempre fatto nella sua carriera. Forse a Tokyo stava per rinunciarci e allora serviva Villa. "Cosa sta succedendo, Elia?" e Viviani ha ritrovato le risposte che da tempo non si dava più. Anche ieri Villa gli avrà detto qualcosa, non molto, perché non serve, ci ha confessato il tecnico. Avere fiducia, invece, è indispensabile: intendeva questo Ganna quando ha ringraziato il tecnico per averci creduto anche quando le finali si vedevano da casa, sul divano. Pazienza se qualcuno, nella notte, ha rubato venti biciclette agli azzurri, non ne sapeva niente di fiducia e comprensione, è inutile stare a spiegare.
Villa ci crede, Viviani ci crede. Quando un corridore parte all'attacco nella corsa a punti e conquista un giro, si usa dire che va in caccia. Non ce ne intendiamo di caccia, sappiamo che è anche mimetismo, silenzio, soprattutto attesa. Questa è la corsa a punti di Viviani, che dapprima si vede poco, appare e scompare. Sempre di più, fino a quando battezza la ruota giusta e parte. E quando parte non c'è nulla di diverso da cinque anni fa, siamo tutti ai bordi di quel velodromo, a voltare la testa come bambini increduli quando riprende il gruppo e torna in zona podio oppure quando, a due giri dal termine, si prende la posizione migliore per la volata e sono gli altri a faticare a tenere la sua velocità. Qualche secondo e la certezza: il portoghese Leitão non ha fatto punti, Viviani è bronzo. Ancora sul podio. Ancora nell'omnium.
Hayter è imprendibile, vince per questioni di matematica, ancora prima di vincere. Aaron Gate no e senza quell'errore nell'eliminazione Viviani poteva essere argento. Non crediamo sia questo a fare la differenza. A fare la differenza è il fatto che, ancora una volta, Elia ha dimostrato che fino all'ultimo si può cambiare qualcosa. È vero, non crederci è più facile. Crederci, però, fa la differenza. La fa preferire ciò che può cambiare qualcosa a ciò che lascia tutto uguale. Per questo ci sono i ciclisti, per questo ci sono le biciclette. Per cambiare.
La crescita e l'orgoglio
La giornata era iniziata con una mezza delusione perché, diciamocelo, ci aspettavamo Filippo Ganna in finale per l'inseguimento individuale. Magari in una finale tutta italiana con Jonathan Milan, ve la immaginate? Ma, alla fine cosa puoi dire a Ganna? Qualcosa si può dire: non toccategli l'orgoglio per quella finale mancata, perché si inventerà qualcosa di assurdo. E assurdo, parlando di Ganna, significa incredibile, bello. Basta guardare la prestazione che ha tirato fuori nella finale per il bronzo. Ha raggiunto Claudio Imhof, ha vinto e avrebbe tirato dritto per ribadire che stamattina è stato un errore ma lui, su quei tempi, non si batte. È stato fermato dalla giuria, mentre i compagni al centro della pista invitavano il pubblico alla standing ovation, altrimenti chissà che tempo avrebbe realizzato. Non ufficiale certo, ma è una gran bella risposta. Della classe nemmeno parliamo perché sarebbe scontato.
Erano in attesa Ashton Lambie e Jonathan Milan. Trenta anni contro ventuno, Usa contro Italia, Nebraska contro Friuli Venezia Giulia. I baffoni americani contro i 194 centimetri del ragazzo di Buja. Quei baffi che sembrano uno scherzo all'aerodinamica, quei centimetri che sembrano inconciliabili con l'armonia che Milan mostra su quella sella mentre spinge sul parquet.
I tempi parlavano chiaro: Lambie era favorito. Ex meccanico di biciclette, l'americano, che a forza di averle fra le mani si è deciso a provarle. Era partito con la gravel, poi ha provato la pista. Dalla polvere al velluto del velodromo, lisciato dopo ogni impatto che potrebbe rovinarne la superficie. Si prende la scala per lisciare il legno, perché l'inclinazione è tanta, perché a piedi non sali.
Milan è lì. Ieri ha lanciato il quartetto, oggi si è lanciato, forse anche troppo veloce nelle fasi iniziali. Villa glielo ha detto subito. È rimasto lì, perdeva qualche centesimo ma non naufragava, denti stretti, saldo in sella. Si è scomposto solo nel finale, quando ormai Lambie era lanciato verso l'oro. Si potrebbe dire che ha perso l'oro, vogliamo dire che ha vinto l'argento. Non era facile. Non era facile perché c'era Lambie, non era facile nemmeno a livello psicologico essersi guadagnati quel posto, sostenere la tensione di quella finale in cui tutti aspettavano Ganna. Alla fine, però, è così che si cresce: affrontando ciò che sembra più grande di te e che momentaneamente, magari, lo è anche. Lanciandosi nel velodromo e portando a casa l'argento mondiale.
Ashton Lambie sorride sotto i baffi, si avvolge nella bandiera americana. Ad agosto, in altura, aveva frantumato il record sui quattro chilometri, scendendo sotto il muro dei quattro minuti. C'è qualcosa in sospeso con Ganna, una sfida lanciata. Come, dopo oggi, c'è qualcosa in sospeso con Milan e chissà che nei prossimi anni la sfida non si ripeta e sia Milan a spuntarla. C'è la fantasia di una finale italiana e che bello sarebbe. Ci sono un argento e un bronzo in più nel medagliere ma non finisce qui. Nei velodromi, ogni sfida è un preambolo di altro che verrà, una motivazione, un pungolo di quelli per costruire qualcosa di migliore. E se le premesse sono queste...
Il ritorno di Letizia Paternoster
L'eliminazione ovvero il timore di quella luce che si accende sul casco, il tabellone che indica il tuo nome, la tua nazionalità, la ruota posteriore che taglia la linea bianca del velodromo in ultima posizione, l'atleta che scende a bordo pista: gara finita. Ogni due giri una spada di Damocle che pende su una ciclista. Nel mezzo la lotta per limare, per essere nella posizione giusta, per non stare nelle retrovie e dover continuare a rilanciare, ma anche per non stare troppo esposti, sempre davanti, evitando il timore, sprecando troppo e rischiando di restare svuotati quando è il momento di sprintare. Già, perché non ci sono storie: da ventuno si resterà in due e lì vince chi è più veloce, più scaltro.
C'era tutto questo, poco dopo le 21:00 di ieri, nella testa di Letizia Paternoster. Lei che aveva lasciato a Chiara Consonni il posto nel quartetto, per andarsi a giocare la propria possibilità, una possibilità a cui pensava dall'Europeo e forse anche da prima. È stata impeccabile Letizia: nelle posizioni buone del gruppetto, apparentemente senza alcuna fatica, qualche rilancio, ma con facilità, con leggerezza. Il brivido, il timore di quella condanna non ci ha sfiorato quasi mai.
Scendono a bordo pista Canada, Messico, Gran Bretagna, più avanti Giappone, Kazakistan, Spagna e Svizzera, poi il momento delle condanne eccellenti, quella della Francia, ad esempio. Sì, perché basta un attimo, una distrazione e chiunque può cadere in trappola. Diminuiscono le atlete e aumenta il rischio. Eppure Paternoster è sempre lì. Cinque, poi quattro e infine tre. Qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, il podio c'è, che una medaglia c'è. Nella testa di Paternoster c'è altro: ci sono due anni difficili, tentativi a vuoto di ritornare quello che era, quello che è sempre stata ed è ancora. I momenti no accadono. Paternoster ha ventidue anni, anche se non sembra per quell'elenco di vittorie e di medaglie così ampio. Verrebbe da dire che si può sbagliare sempre, a ventidue anni forse ancora di più, perché c'è tutto il tempo. Spesso per gli atleti non è così, un continuo rimpallo dalle stelle alle stalle, anche per il minimo errore. Non è giusto, ma accade e non è il caso di imbastirci tante storie. Saperlo sì, rifletterci sì.
Jennifer Valente scende dalla pista. Restano Paternoster e Kopecky, Italia e Belgio. Letizia controlla, poi parte. È la più veloce, una velocità costante e rilanciata, che la proietta su quella linea bianca in prima posizione. Alza le mani, grida, guarda lo staff e poi piange. A dirotto. Dentro a ogni abbraccio, a ogni complimento. Le salviette asciugano gli occhi e le lacrime che tornano a scendere. Probabilmente Paternoster di qualche anno fa non sarebbe scoppiata in quel pianto, lei così forte, lei abituata a vincere su tutto e tutte. Ieri sì.
La sofferenza degli altri non si può capire, si può rispettare e forse intuire pensando alla propria sofferenza. Di certo bisogna sapere che la forza è fatta di fragilità e anche di debolezza. Per questo Kopecky la cerca e le dà una pacca sulla spalla. Letizia Paternoster che vince l'oro nell'inseguimento a squadre è più forte di prima. Perché ha visto e ha capito. "La dedico alla mia squadra, alla mia famiglia: solo loro mi sono restati accanto, tutti gli altri se ne sono andati in questi due anni". A queste condizioni non è facile tornare. Mai e a ventidue anni ancora meno, perché sei giovane, perché a certi tagli non sei abituato. Lei è tornata. Con quell'oro ha fatto felici tutti quelli che sono sempre restati lì ad aspettarla ma soprattutto si è fatta felice. Ed è questo l’importante.
Troppo bello per non essere vero
E adesso diteci chi non ci ha pensato sin dalla qualificazione per la finale per l'oro? Chi non aspettava da questa mattina le 19:30 per vedere il quartetto scendere in pista al velodromo Jean Stablinski contro la Francia? Perché sì, eravamo più forti, lo sapevamo, ma fino a quando non sei su quel parquet può succedere di tutto.
E il momento non arrivava più, nemmeno quando li abbiamo visti posizionarsi. Tre caschi d'oro, per ricordarci ancora una volta ciò che è successo a Tokyo, quella medaglia olimpica che ci ha fatto gridare di gioia in un'estate italiana che più di così non si poteva. Jonathan Milan, Filippo Ganna, Simone Consonni e Liam Bertazzo che a Tokyo era riserva, qui invece è parte di quella scia di suono che passa e se ne va, che puoi solo immaginare fino a quando non entri in un velodromo e la senti. Insieme all'aria che si sposta, all'attrito rovente delle ruote lanciate a tutta velocità sul legno. La pista è perfezione, in ogni dettaglio. E fuori da qui c'è il velodromo di Roubaix, c'è ancora sospeso l'urlo di Colbrelli.
Ci abbiamo pensato tutti e abbiamo osservato quei centesimi scorrere, girare vorticosamente, numeri su numeri. Qui è tutto fatto di numeri. Italia in testa, poi Francia, di nuovo Italia e di nuovo Francia. Si sono superati i francesi, perché correvano in casa, perché Roubaix è un tempio a cui non puoi resistere. C'è devozione, rispetto, timore.
E poi diteci chi, guardando, non ha scandito a voce alta i nomi degli azzurri che si alternavano in testa al quartetto. A tutta, quasi senza fiato. Come Consonni a ruota di Filippo Ganna, lui che strapazza il tempo. Potenza dirompente quella di Ganna, spettacolo di cinetica e aerodinamica. Come il quartetto che si riporta sul tempo della Francia e lo sopravanza. Un gruppo, il quartetto.
Ultimi cinquecento metri, siamo in testa. Ultimi duecentocinquanta metri, la Francia si sfalda, resta con tre uomini, basta gettare un occhio dall'altro lato della pista per vederli in difficoltà. Hanno fatto il possibile ma certi tempi, certe velocità, devi averli nelle gambe e i muscoli dei nostri azzurri li conoscono, li praticano, hanno con loro un'affinità rara. Anche a costo di sentire male, di rischiare di svenire, ma devi resistere. La linea bianca del traguardo è lì.
Abbiamo gridato anche noi, un'altra volta, come quel giorno d'estate, come ieri sera, perché ora è vero: siamo Campioni del mondo dell'inseguimento a squadre. Non succedeva dal 1997, ben ventiquattro anni fa. Perché siamo veloci, lo dice il tempo: 3'47"192. Perché siamo un gruppo che va oltre i quattro atleti in corsa. Lo dicono i ragazzi che, prima di festeggiare, hanno chiamato Lamon, l'hanno voluto lì con loro, l'hanno preso in braccio e fatto saltare. O semplicemente perché era troppo bello per non essere vero. Ora è vero. Ora è oro.
E siamo solo all'inizio...
Forse basterebbe dire che Martina Fidanza, bergamasca, appena ventuno anni, ieri sera ha vinto la medaglia d'oro nello scratch ai Mondiali su pista di Roubaix. Ma noi non vogliamo fermarci qui. Vogliamo soffermarci su quanto sia bello il fatto che una ragazza di soli ventuno anni porti a casa un risultato come questo e sul bene che fa a un gruppo di ragazze altrettanto giovani che continuano a crescere e che in questi giorni sono attese da prove molto importanti. Non ci sbilanciamo, non facciamo pronostici, ma ci crediamo perché, prima del risultato, vediamo ciò che stanno costruendo. Crediamo a ciò che stanno costruendo. Da anni, non da ieri o da oggi.
La bellezza di un mondiale su pista a Roubaix, città che si intende tanto del liscio pavimento dei velodromi quanto delle pietre asimmetriche. Roubaix, città manifesto del ciclismo, come le Fiandre. Lì Elisa Balsamo davanti a tutti in linea, qui Martina Fidanza, in pista, in una gara in cui contano i nervi saldi, l'esperienza, la capacità di scegliere l'attimo. Non ci credeva Martina, non ci credeva e se qualcuno glielo avesse detto ieri sera non lo avrebbe ascoltato. Pensava di potersela giocare? Forse sì, forse nel finale, allo sprint. E già sarebbe stato un bel giocare.
Quello che ha realizzato, invece, è troppo bello per aspettarselo ed è meglio così perché chiunque veda una corsa vuole stupirsi, la pista, poi, è il regno ideale per sorprenderti perché nei metri di un velodromo c'è un universo e puoi vederlo tutto, sentirlo, viverlo tutto. Martina che a cinque giri dal termine incrocia la voce di Dino Salvoldi che le dice: «Vai a tutta». Si fida, si fida ciecamente e parte. Attacca, domina, non lascia scampo alle avversarie. Veloce, potente, inscalfibile.
Si è resa conto di quello che ha fatto a mezzo giro dal termine, quando ha visto che il gruppo più di tanto non recuperava: meglio così, perché quando fai qualcosa di questo tipo è giusto che tu abbia la possibilità di goderti il momento mentre si svolge. Non solo nei ricordi, non solo nei racconti. Come quando disegni e intuisci il risultato quando ancora mancano i dettagli. Lei di disegno se ne intende, come di pista.
Paziente, commossa, appassionata. Felice che questo oro sia arrivato dopo tanti sacrifici perché significa che è stato giusto farli, che è stato giusto crederci. Felice come era felice quando è volata a Tokyo, lì ha scoperto che non avrebbe preso parte ad alcuna specialità e le è spiaciuto, ma era felice lo stesso perché poteva essere di supporto alla sua squadra, alla sua Italia. Quella a cui ieri ha regalato un oro memorabile.
E i Mondiali, lasciatecelo dire e sperare, sono appena appena iniziati.
Giulio Ciccone, fra passato e futuro
Non è stata una stagione facile per Giulio Ciccone. Ma il ragazzo di Chieti è rimasto quello che abbiamo conosciuto anni fa: «Se dovessi trovare un modo per raccontarti come vivo il mio mestiere partirei da quel ragazzino che girava per Chieti con la sua bicicletta rossa e aspettava impaziente che i genitori gli comprassero una sella nuova, un tubolare particolare, un nuovo pezzo per quella bicicletta. Ricordo ciò che sentivo quando aprivo quei pacchetti e tutti i progetti che facevo. Bene, oggi accade la stessa cosa: appena c'è una novità per la bicicletta, ho la stessa curiosità, la stessa forma di entusiasmo». In realtà, Ciccone ha lasciato Chieti quando aveva solo diciotto anni e forse anche per questo è rimasto così legato a quei luoghi.
«Quando vai via presto succede sempre così. C'è un richiamo costante per tornare perché, in fondo, ti mancano le sensazioni che ti dava la tua terra e ti manca la quotidianità della tua famiglia. Il fatto di fare il ciclista accresce tutto questo perché appena arrivi a casa le persone ti cercano». Dice che lo ha salvato il fatto di restare grintoso e genuino come è la terra d'Abruzzo, in fondo, quella terra che torna a scoprire negli allenamenti: «L'allenamento perfetto è quello che tocca mare, colline e montagna. Se riesco a salire a Passo Lanciano, sono felice». Poi c'è il carattere: «Anche da quel punto di vista non sono cambiato e credo non cambierò mai: non so essere distaccato da ciò che vivo. Sono come tutti mi vedono, com'ero già da ragazzo».
È così anche se parla delle difficoltà della stagione trascorsa. «Al Giro ero soddisfatto perché stavo facendo bene al primo anno in cui provavo a far classifica. Quando sono caduto a Passo San Valentino e ho pagato dazio a Sega di Ala, ero deluso, ma vedevo il bicchiere mezzo pieno. In fondo, era stata la sfortuna a bloccarmi». Ciccone racconta che questa sensazione l'ha avuta per qualche tempo: arrabbiato con la sfortuna, però sereno perché con quello che aveva dimostrato la stagione lo avrebbe ripagato.
«Purtroppo, non è stato così: alla Vuelta un'altra caduta mi ha tolto di mezzo. È stato il momento più difficile di tutto l'anno perché a quel punto mi sono reso conto che non avrei più potuto fare nulla e la stagione stava finendo. Farsi male quando non ci sono più opportunità per rialzarsi è la cosa peggiore che possa succedere». Non è tipo da lamentele, Giulio Ciccone, anche perché sa sin troppo bene che lamentarsi non serve. Per esempio, rifiuta la nostalgia di ciò che è stato e del modo di vivere il ciclismo nei primi anni da professionista.
«Le cose cambiano perché passano gli anni e cresci. Ho sempre vissuto il ciclismo in maniera seria, anche quando avevo otto anni ed era solo uno svago. Volevo divertirmi seriamente, non so se mi spiego. Le pressioni che aumentano ti fanno gareggiare in maniera differente e vivi anche gli allenamenti diversamente, nei primi anni sei più leggero. Non ho nostalgie però vorrei dire a tutti i giovani che si affacciano al ciclismo di non avere fretta di crescere. Mi sembra che spesso abbiano troppa fretta di assomigliarci. C'è tempo, è inutile prendere la rincorsa». Suo padre gli ha sempre detto che avrebbe potuto fare qualunque cosa nella vita e, se avesse scelto il ciclismo, lo avrebbe aiutato ma «prima si finiscono le scuole». In Colpack il passaggio decisivo, perché lì ha capito che quella bicicletta stava davvero diventando un lavoro.
Nelle difficoltà che ha vissuto Ciccone nell'ultimo anno, un punto saldo è stata la famiglia che per lui è un concetto ampio. «Per me sono famiglia anche gli amici, le persone che ti sono spesso vicine e che ti conoscono bene. Quando le cose non vanno, la famiglia ne viene toccata per forza. Come atleti siamo fuori casa molti giorni all'anno e abbiamo bisogno di un punto saldo, per questo, nonostante la lontananza, tutto ruota attorno alla famiglia».
Da scalatore non resiste al fascino del Mortirolo, non solo perché lassù ha vinto, ma perché quella salita più di altre lo fa sentire a proprio agio. C'è anche una grande classica, però, nella testa di Ciccone: «Ho corso solo una volta la Liegi-Bastogne-Liegi e l'ho fatto con freddo e pioggia, vorrei ritornarci». Col tempo, chissà.
Ora, qualche giorno per staccare e poi pensare al 2022: «Non chiedo molto: vorrei solo avere una stagione libera da fattori esterni che la condizionino. Le prestazioni, secondo me, ci sono. Un po’ di tranquillità e ci divertiremo».
Jaco van Gass, solo un uomo
Jaco van Gass, in realtà, è nato a Middelburg in Sudafrica, nel 1986. Nel 2009 era da più di cinque mesi in Afghanistan, paracadutista delle forze armate britanniche. Non gli era mai successo nulla, mancavano sole due settimane a tornare a casa. Il momento in cui i soldati pensano che, anche questa volta, nonostante la guerra, sono ancora vivi, padri, figli, fratelli. Un'ora di scontro a fuoco con le forze nemiche: ha perso il braccio sinistro, si è ritrovato in ospedale con il polmone sinistro collassato, organi interni perforati, ferite da esplosione e da schegge, fratture ovunque. Lo hanno rimesso insieme con undici operazioni e da quel giorno Jaco è cambiato.
Nel fisico, certo, sarebbe assurdo negarlo, ma non solo. Van Gass è cambiato perché da quel giorno ha iniziato a fare ciò che forse non avrebbe mai fatto. Di più: ciò che forse non avrebbe mai pensato. Sciatore, maratoneta, ha scalato il Monte Denali e, per poco, non arrivava sulla vetta dell'Everest. Non c'è spiegazione, è la mente che reagisce, è la forza dell'essere umano, inspiegabile, assurda, a volte dannata, altre meravigliosa.
La storia di van Gass non è la storia di un eroe o di un superuomo e lui stesso non vorrebbe mai essere chiamato così, tanto è fiero di essere un uomo, solo un uomo. La storia di van Gass è la storia di un paraciclista britannico che a Tokyo ha vinto l'oro nell'inseguimento individuale sui 3.000 metri, battendo in finale il connazionale Fin Graham, trascorsi due giorni ha conquistato il bronzo nella prova a cronometro individuale sui 1.000 metri e per concludere si è aggiudicato lo sprint a squadre misto sui 750 metri insieme ai compagni di squadra Kadeena Cox e Jody Cundy. Il giorno in cui era partito per Tokyo lo aveva detto chiaro e tondo «Non vado per tentare, vado per vincere». Sentiva di doverlo alla sua nazione perché quando corri con i colori della tua nazione addosso ti sembra assurdo anche solo il pensiero di poterti risparmiare. Sentiva di doverlo alla sua famiglia, per tutto il tempo che le aveva sottratto per gli allenamenti, per perfezionare ogni dettaglio.
Ha vinto e potrebbe dire solo questo, perché questo voleva. Invece racconta di quel ciclista colombiano deluso fuori dalla camera d'albergo. Di quando gli si è avvicinato e ha ascoltato tutto ciò che non andava, perché la gente non lo sa, ma anche nell'Olimpo, certe volte, manca l'aria. Di quando lo ha guardato e ha iniziato a parlare: «Sai quante persone vorrebbero essere qui? La medaglia è un riconoscimento, importante, ma già esserci deve renderti orgoglioso, perché in molti vorrebbero essere qui, invece qui ci sei tu».
Jaco van Gass che dalla vita è stato cambiato, Jaco van Gass che, poi, ha cambiato la propria vita per viverla come desiderava ed esserne orgoglioso. Jaco van Gass che, oggi, rende orgogliosi molti uomini che, forse, ascoltandolo avranno ancora più chiaro quanto possa un essere umano, se solo lo vuole.
Battistella e le possibilità di sfruttare
Venezia è un pesce, scriveva Tiziano Scarpa, per raccontare la forma della città dei marinai e delle gondole. Venezia è una possibilità, all'alba della prima edizione della Veneto Classic. Può dirvelo Andrea Piccolo, che dopo un anno da dimenticare che gli ha impedito il debutto in Astana, in maglia Viris Vigevano, in questi mesi, sta cercando di riprendersi quella possibilità. A noi lo dicono le azioni di Federico Burchio e Matteo Zurlo che cavalcano i 330 metri de “La Tisa” come fossero agli ultimi chilometri, invece sono solo all'inizio di giornata. Ripida, nascosta, a tratti di paura, a tratti di sollievo, come tutte le possibilità. Quella di avere una squadra per il prossimo anno, quella di poter continuare a fare il proprio lavoro, a pedalare.
Bassano del Grappa è ancora lontana. Lì tutti fotografano un rinoceronte in acciaio fuori da Palazzo Sturm. Una signora ci affianca mentre lo ammiriamo e ci racconta una storia. Quella di un rinoceronte che nel 1515, dalle colonie orientali, fu portato a Lisbona. L'animale, legato da possenti catene, sarebbe dovuto arrivare anche a Roma: la nave, però, affondò in Liguria. Quel rinoceronte non riuscì a liberarsi dalle catene e nessuno lo vide mai. Com'era fatto, però, lo scoprirono presto tutti, grazie ad Albrecht Dürer, matematico e pittore, che da una lettera che lo descriveva trasse una xilografia. Per dire delle possibilità e di quanto, a patto di avere pazienza, non finiscano dove sembrano finire. Ve lo avremmo potuto dire con quella ragazza che sul ponte di Bassano, mentre ammirava un pianista, ha detto alla madre: «Oggi sembra impossibile, ma un giorno suonerò anche io un pianoforte come quello». Ve lo diciamo così.
Ma basterebbe andare a “La Rosina” per capire quanto in questa terra siano legati alle possibilità. Basterebbe conoscere la storia di Rosina che, in quelle vie, aprì una locanda per dare ristoro ai militari durante la guerra mondiale, quando un tozzo di pane era la possibilità. Oppure parlare con qualche ceramista della zona, per esempio con chi ci dice che la storia della ceramica è una storia di possibilità e libertà. Come quella dei pori della porcellana che lasciano traspirare il cibo: «I pori lasciano passare l'aria, per questo il cibo è più buono lì dentro».
Matteo Trentin e Samuele Battistella la loro possibilità l'hanno inventata sin dall'inizio della gara, insieme ai compagni. A Trentin non è bastato. È la legge della strada. A Samuele Battistella sarebbe potuto non bastare e ai due chilometri dal traguardo tutti avrebbero detto così perché gli inseguitori avevano aperto la caccia, quasi teso un'imboscata nel momento della sofferenza maggiore.
Per un attimo c'erano solo cento metri tra lui e gli inseguitori. Solo per un attimo. Poi duecento, poi l'ultimo chilometro. Ha vinto così Battistella. Non gli si sarebbe potuto dire nulla in ogni caso, del resto cosa vuoi dire a un ragazzo di ventitré anni che racconta di credere nel gregariato, nella necessità di partire dal niente e di fare più fatica degli altri per riuscire? Diversamente devi essere un fenomeno, ma Battistella non si sente tale. Si sente un ragazzo che crede nel lavoro e nelle possibilità. Perché ve lo dicevamo: le possibilità non finiscono dove sembrano finire. Crederci dopo le vittorie è semplice, noi, alle storie che abbiamo incrociato in questi giorni, auguriamo di essere così impregnate di libertà da crederci prima. Battistella insegna.