Van Aert e il primo amore
Può sembrare scontato parlare di maschere di fango in una gara di ciclocross ma non si può fare altrimenti. Almeno oggi, almeno per il Superprestige di Boom dove Wout van Aert è tornato ad assaggiare il fango. Talmente tanto da sembrare quasi sabbie mobili che assorbono le ruote, che ti trascinano a fondo, perché non si limitano a farti cadere, a immergerti nella terra, ma ti assorbono, quasi a lasciare un’impronta, uno stampo da cui è difficile uscire. Prede nella tela del ragno, sono così oggi gli atleti.
Van Aert aveva parlato a “L’Èquipe” in questi giorni. Aveva detto che gli faceva piacere tornare e sperava facesse freddo e ci fosse il classico fango belga. Che a una gara di ciclocross è come l’odore di umido e il profumo di patatine fritte che evapora. Essenza dell’inverno e delle nebbie.
Un assolo quello di van Aert, proprio dopo la scivolata di Toon Aerts, prima della sua scivolata e della rincorsa con la bici in mano, alzata da terra per sfuggire all’attrito, al risucchio. Solo stamani i quotidiani ricordavano i tempi in cui i giovani van Aert e van der Poel duellavano nel cross, quasi con una lieve nostalgia. Che è voglia di ritorno, infatti van Aert torna e tutti se ne accorgono.
Ha raccontato che quando ha scelto di dedicarsi alla strada molti suoi tifosi del cross non l’hanno presa bene, quasi un abbandono. Ma lui non voleva questo: «Avevo già vinto diversi titoli, uno in più non cambiava nulla se non avessi provato la strada». E sulla strada ha messo la stessa grinta che serve per uscire indenni da quei sentieri melmosi. Riguardate la Sanremo del 2020 o il Ventoux al Tour 2021, fra le altre cose e sentirete ciò di cui parliamo. Quella scossa che ha che fare con il modo in cui si batte e, spesso, vince. Qualcosa di primordiale.
Oggi ha fatto lo stesso, davanti a Toon Aerts e Van der Haar, Iserbyt quarto, Pidcock settimo. E non è finita qui perché dicembre è una vigilia continua, non solo di feste. «Se dovesse arrivare il giorno- ha aggiunto- in cui mi mettessero nella condizione di scegliere tra cross e strada, sceglierò. Ma sarà un colpo al cuore perché il ciclocross è il primo amore e credo sia compatibile con l’attività su strada. Fino ad allora in inverno tornerò nel fango». Basta nostalgia. Si vive il presente.
La prima volta della BORA-hansgrohe alla Cape EPic
Quando, qualche settimana fa, Lennard Kämna e Ben Zwiehoff, atleti del team Bora-Hansgrohe, sono partiti per il Sud Africa, per la diciassettesima edizione della Cape Epic non l’hanno detto quasi a nessuno. A frenarli, forse, lo spirito competitivo, sviluppato nel loro percorso nel ciclismo professionistico su strada. Non si erano preparati per questa gara e qui pensare di competere ad alti livelli senza un’adeguata forma fisica è praticamente impossibile visti i 700 chilometri e i più di 16.000 metri di dislivello suddivisi in sette tappe, nell'arcigno Western Cape del Sud Africa. Due partecipanti per ogni squadra e l’obbligo per ciascuno dei due di completare la corsa.
«Chi vuole vincere - spiega Ben Zwiehoff - si prepara tutto l’anno per questa gara, è totalizzante, non puoi affidarti all’improvvisazione. Ho corso in mountain bike, so cosa significa. Sono venuto qui per provare e anche per ritrovare una mia vecchia passione». Il punto, probabilmente, è proprio trovare la capacità per raccontare questo divertimento spensierato da parte di chi abbina da sempre ciclismo e risultati. «È una sensazione strana - prosegue Kämna - perché noi viviamo la competizione e quindi la scorgiamo ovunque. Riuscivamo a vedere la competizione fra gli altri ma allo stesso tempo eravamo sereni, pensavamo solo a goderci il momento. È strano».
Nel mezzo catene montuose gigantesche, dirupi vertiginosi, foreste selvagge, vigneti intatti, coste da togliere il fiato e città sconosciute ai turisti. Ma anche, e soprattutto, per gli atleti la polvere riarsa dal sole delle strade, le rocce delle salite e le insidie delle discese, per non parlare degli attraversamenti dei corsi d’acqua.
Dopo il primo giorno, Kämna è stanchissimo, vorrebbe arrivare alla fine ma, per come si sente, non riesce nemmeno a immaginare altri giorni così. «Mi faceva male ovunque, non ero abituato a tutti questi su e giù. Il segreto è avere la pazienza di aspettare il giorno successivo e provare a ripartire». Al mattino va meglio, riparte e proprio perché non ha nulla da perdere si gode il momento, il paesaggio. Nonostante il mal tempo e quella polvere che diventa maschera, che ricopre il viso e, seccandosi, quasi pietrifica la pelle.
A vincere, per la cronaca, sono Jordan Sarrou e Matthew Beers, concludere la corsa, però, non ha a che vedere con il numero del tempo o del piazzamento, bensì con la possibilità di mostrare qualcosa di nuovo nel suo genere. Che cos’è il ciclismo? Kämna e Zwiehoff rispondono. «Di certo il ciclismo non è solo il ciclismo su strada. Ci sono molte forme di ciclismo e altrettanti modi di viverlo. È sempre ciclismo, ma declinato in una maniera diversa».
Per Kämna, in fondo, è qualcosa che ha a che vedere con l’apertura mentale, senza il bisogno di incasellare sempre tutto in specifiche categorie che finiscono poi per limitare. Divertirsi può bastare. Per Zwiehoff è qualcosa che riguarda il volto dolce e gentile dell’Africa, la sua accoglienza e le sue possibilità. Per entrambi è solo e semplicemente ciclismo.
Il record del mondo di Christoph Strasser
Cosa può significare stare ventiquattro ore in sella a una bicicletta? Cosa senti dopo dieci o venti ore a pedalare? Fin dove arriva l'acido lattico e quanto tira ogni singola fibra dei muscoli? Qual è la linea di confine tra il piacere, il dolore e la resistenza? Christoph Strasser, trentotto anni, tra il 16 e il 17 luglio, presso la base aerea di Hinterstoisser a Zeltweg, in Austria, è stato raggomitolato su una bicicletta per ben ventiquattro ore, sotto una pioggia battente, ed ha percorso 1026,2 chilometri alla media di 42,75 km/h, stabilendo il nuovo record mondiale. Strasser è stato il primo ad andare oltre i 1.000 chilometri in questa prova. E non si fa per dire, perché, a conti fatti, Strasser ha davvero pedalato 24 ore, solo due minuti di inattività, quelli del cambio gomme.
Strasser non è nuovo a prove di questo tipo. Dopo aver corso la Race Across America, nel 2011, aveva provato a stabilire il nuovo record del mondo di distanza nelle 24 ore a Berlino in Germania e ce l'aveva fatta, ma non era del tutto soddisfatto perché non aveva raggiunto il suo obiettivo, all'epoca 900 chilometri. Era tornato a provarlo in pista, in Svizzera, per avere le condizioni ottimali, e c'era riuscito, per la seconda volta: 941 chilometri, sempre, però, lontano dai mille. Ma c'era il suo allenatore a dire che era possibile andare oltre ai mille chilometri e che lui era l'uomo giusto per farlo.
Quel giorno di luglio era tranquillo, perché il suo tentativo ufficiale sarebbe stato mesi dopo, in Colorado, in fin dei conti quella era solo una prova per verificare a che punto fosse la sua preparazione. Le prime ore sono sempre le più difficili perché la posizione aerodinamica che sei obbligato a tenere per aumentare la velocità crea dolore ovunque; Christoph lo sa, dopo le prime due ore andrà meglio, bisogna proseguire e tentare di non pensarci: «Quante volte può capitare qualcosa del genere nella vita di un atleta? Quando pensi di mollare devi ricordarti che potrebbe non succedere più, perché certe possibilità non ritornano».
Anche il circuito sembra fatto apposta per portare fuori velocità: pianeggiante, 7,58 chilometri a tornata, curve veloci. La parte più difficile è forse quella più affascinante: “pedalare attraverso la notte” come dice lui. Non c'è particolare segnaletica e talvolta, nelle curve, le ruote vanno a toccare la parte di brecciolino a bordo strada. E Strasser si mangia le mani: «Perderai trenta secondi per volta ma è molto fastidioso». Quanti metri potevano starci in quei secondi?
La pioggia che cade è come il tempo. Quando le gocce si fanno più dense, più fitte, pensi di non farcela, poi l'acqua rallenta e tu riprendi a sperare. Solo alla fine è diverso, perché come il traguardo si avvicina quasi non senti più la pioggia e quel tuo body inzuppato che ti rallenta, che pesa come non mai. Non puoi mangiare, così tutto l'apporto energetico lo trai da ciò che bevi. E continui, senza pensare, spingendo solo sui pedali.
«Quando ho passato le ventitré ore ero sfinito, ma come ho oltrepassato i mille chilometri tutto ha lasciato spazio alla felicità». Il luogo è particolare perché a pochi chilometri da lì c'è il posto in cui Strasser ha provato il primo record sulle ventiquattro ore, soli, si fa per dire, 400 chilometri, l'inizio di tutto. Un cerchio che si chiude o che si apre e fa spazio a tutto ciò che può ancora accadere. Ad attenderlo ci sono circa trecento persone che restano lì nonostante la pioggia in una pazza giornata d'estate. Lui arriva, scende di bici, guarda verso il cielo, quasi a sciacquarsi il viso dal sudore con quell'acqua. Sorride e scherza: «Dopo questa giornata, penso che abbandonerò il ciclismo». Strasser ce l'ha fatta, il suo allenatore, tanti anni fa, aveva ragione.
Julian Alaphilippe, il gusto del ciclismo
Quando pedala, Julian Alaphilippe cerca il piacere. L’ha sempre cercato e, nel tempo, ha capito dove trovarlo. Ben oltre il programma di allenamenti e gare, rigido e dettagliato, predisposto dalla squadra, che si ripete di giorno in giorno, di anno in anno: «Faccio le stesse cose ogni giorno e questo, alla fine, non ti procura piacere. Il piacere - ha raccontato a Vélo Magazine - lo ricerco nelle cose semplici: una pedalata da solo, un bel ricordo, un traguardo da raggiungere».
È stata una scoperta per il due volte Campione del Mondo perché Julian non è sempre stato così. All’inizio pensava solo a migliorarsi, a nuove vittorie sempre più importanti. Quell’indole gli ha permesso di essere il corridore che è oggi, ma adesso basta. Continua a mettere il medesimo impegno, ma si scrolla dalle spalle la pressione dell’essere sempre il migliore e così, sollevato, ammette: «Alla fine, è vero, la salute è l’unica cosa che conta, il resto passa in secondo piano».
Sì, perché quell’indole rischia di far commettere errori, di metterti fretta, costringendoti a forzare i tempi per rientrare da un infortunio, di farti male. Da questo, si è salvato perché ottimista di natura e perché il ciclismo gli ha insegnato la pazienza: «I momenti brutti sono molti di più di quelli belli. Ma basta un momento bello per fartene sopportare molti brutti. Per giorni come quello di Lovanio, al Campionato del Mondo, si può sopportare molto».
Ha avuto timore di lasciare quella maglia, una sorta di malinconia, di nostalgia anticipata e se ci ripensa rivede gli errori che ha fatto con quella maglia addosso. Per esempio, nello sprint perso con van Aert al Giro di Gran Bretagna, per la fretta di vincere con la maglia iridata sulle spalle. Da quei momenti si impara e la lezione è l’unica cosa che deve restare perché, vada come vada, l’atleta ha il dovere di ripartire da zero, eliminando le giustificazioni ma anche la tentazione di assaporare i successi, sedendosi sugli allori. Da un lato la caduta al Fiandre 2020, dall’altro le vittorie al Tour de France o alla Freccia Vallone.
Non vuole confronti fra le stagioni passate, perché non hanno senso e perché ogni anno è diverso. La costante è il coraggio di fare scelte anche difficili: «Non è stato facile non partecipare ai Giochi Olimpici dopo il Tour, ma non sarei stato in forma per il Mondiale se fossi andato in Giappone. Devi porti un traguardo e mentalizzarti su quello».
La nascita di Nino, suo figlio, gli ha cambiato la vita «come cambia la vita a chiunque la nascita di un bambino», la perdita del padre è un forte dolore da sciogliere nel tempo. Il francese tiene ai ricordi e dice che un buon ricordo vale quasi quanto una vittoria. Per il 2022, Alaphilippe punterà alle gare delle Ardenne e lo farà con la lucidità di chi sa ciò che può fare, sacrificherà il Fiandre per la Liegi: essere in forma per entrambe è molto difficile. Con quella maglia proverà semplicemente a vivere ciò che gli accade, ad assaporarlo, con ancor più voglia di vincere e meno paura di perdere.
L'empatia di un direttore sportivo: intervista a Enrico Gasparotto
«Come atleti si è abituati a considerare la propria prova ed il proprio interesse, un direttore sportivo ha un quadro più ampio da considerare. Essere bilanciati è fondamentale; la prima prova per me sarà proprio l’acquisizione di questa capacità». Non è passato molto tempo dal suo annuncio fra i direttori sportivi della Bora-Hansgrohe per la prossima stagione ed Enrico Gasparotto riflette ogni giorno su quello che sarà il suo compito. L’esperienza fra le squadre Continental è importante ma nel World Tour cambia quasi tutto. «Se dovessi riuscire a instaurare il clima di armonia a cui punto fra tutto lo staff, i corridori e me stesso, umanamente sarei già contento. Quando ti ritrovi a prendere decisioni, ad essere l’unico responsabile di venti persone durante le trasferte, non puoi fare tutti felici ma questo è il prezzo del decidere. Devi, però, fare in modo che ciò non influisca sull’armonia e la serenità del gruppo». In quest’ottica il ragionamento va a toccare un meccanismo che in realtà riguarda anche la vita di tutti i giorni.
«Tutti vogliamo vincere, essere i migliori e ottenere risultati, il punto è che siamo inseriti in un’organizzazione e ciò comporta anche delle rinunce personali a favore del gruppo. Il cammino di un ragazzo, giovane e meno giovane, verso il successo deve passare da qui. Bisogna sapere che la rinuncia personale a favore del gruppo è fondamentale talvolta. L’egoismo non fa bene». Gasparotto sorride e ripensa al corridore che è stato, alle scelte che ha fatto e alla sua indole. «Io questi errori li ho fatti. Ero un testardo, spesso concentrato sui miei risultati e basta. Ho sbagliato diverse volte e, forse, anche per questo sono la persona giusta per parlare di questo ai ragazzi. Con alcuni mi scontrerò di sicuro perché capire queste cose, da giovani, in un ambiente di alto livello e dalle forti ambizioni personali è difficile».
Enrico Gasparotto è consapevole dei propri errori ma è altrettanto consapevole che ha avuto la fortuna e il tempo per comprenderli e magari porvi rimedio. «Col ciclismo di oggi quel tempo non c’è più, vorrei lo capissero questo i ragazzi. La velocità del mondo di oggi è tale per cui è sempre più difficile porre rimedio agli errori. Certe cose vanno capite subito, altrimenti è tardi». Se ha accettato l’incarico in Bora è stato anche perché si è parlato del tempo: «Sono sempre meno gli ambienti in cui si comprende che dopo i cambiamenti serve tempo per fare in modo che tutto funzioni. Bisogna lavorare sodo, ma anche concedersi il tempo che serve».

La parola chiave è fiducia, qualcosa per cui si lavora già da adesso. Gasparotto sta andando a casa dei vari ragazzi che non conosce o che conosce poco, per parlare e, soprattutto, per ascoltare. «Credo che nella vita riesca bene chi ha la capacità di ascoltare tutti. È difficile perché basta poco, una giornata storta, per dimenticarsi di ascoltare gli altri. Se non ascolti, non conosci e se non conosci non puoi capire». Già perché a casa dei ragazzi non si parla solo di ciclismo: qualunque esperienza personale, qualunque problema degli anni trascorsi può influire su ciò che sarà e Gasparotto ha necessità di capire tutto questo.
«Si tende a ridurre tutto a numeri e i numeri sono importanti, però un direttore sportivo ha necessità di conoscere gli uomini che ha di fronte. Di essere loro amico, nel rispetto dei ruoli. In questo senso basta guardare Davide Bramati: i successi che ottiene sono spesso frutto dell’empatia che instaura. Abbiamo suddiviso la squadra in vari gruppi con cui ciascun direttore sportivo lavorerà, in modo da intensificare questa conoscenza, questo rapporto». Lo stress e la tensione saranno l’altra chiave di volta, saperli affrontare la possibile soluzione del problema. «Essere un corridore che ha smesso da poco può essere un vantaggio o uno svantaggio. Anche qui dovrò essere bravo a pesare le cose: se non riuscirò a togliermi la veste da corridore per indossare quella da direttore sportivo, sarà un problema. Se la veste da direttore sportivo mi farà scordare ciò che si prova da corridori sarà un problema altrettanto grosso».
Appena ha saputo del proprio incarico ha parlato con Bramati e con Franco Cattai, colui che l’ha messo in bici e che in dialetto veneto gli ha insegnato ciò che oggi sa. In Bora sarà a stretto contatto con Rolf Aldag, professionista che stima e con cui si confronta abitualmente, però il fatto di trovarsi in un ambiente nuovo, in cui molti non lo conoscono è uno stimolo in più: «Dove nessuno ti conosce, sai che sarai valutato per ciò che farai e non per ciò che hai fatto. È difficile perché riparti da capo e hai tutto da dimostrare. Da atleta ho cambiato molte squadre e mi è successo spesso. La crescita passa da lì, non puoi migliorare se non sei disposto a lasciare da parte un poco di tranquillità e di comfort».
L'impegno per l'ambiente di Michael "Rusty" Woods
Michael Woods da ragazzo correva a piedi, non è nato sportivamente nel ciclismo e forse proprio questo gli ha sempre reso evidenti problemi che a occhi abituati all'ambiente possono sfuggire. Il canadese dell'Israel Start-Up Nation si chiede da tempo se davvero non si possa far nulla per ridurre l'inquinamento che il ciclismo professionistico genera. «Sono sempre stato disilluso su questo tema, sono sincero. Ogni anno riceviamo tanti prodotti dagli sponsor, tutti imballati nella plastica: bisogna cambiare» ha detto a Procycling. Woods ha deciso che si presenterà sul bus della sua squadra con una scodella e una forchetta e i suoi pranzi li farà così. Qualche giovane lo stimerà, altri lo prenderanno in giro, a lui non interessa. Chi vuole cambiare deve avere il coraggio di disinteressarsi di queste cose. La squadra gli ha assicurato che anche i veicoli cambieranno: due saranno elettrici, i restanti ibridi plug-in.
L'idea è quella di ridurre l'impatto che ogni uomo ha sull'ambiente. Woods è un ciclista e può cercare di cambiare il ciclismo, ad altri, ognuno nella propria professione, il tentativo di portare avanti questa idea. Nessuno può cambiare da solo la situazione globale, ognuno, però, può cambiare la propria e non è poco. Secondo il suo calcolo, nel 2019, la sua impronta a livello di carbonio è stata di 60 tonnellate di CO2 , circa tre volte quella di una persona media ad Andorra. «Quando sei completamente concentrato sulla tua attività è difficile rendersene conto, lo capisco bene. Da quando sono diventato padre, però, la mia consapevolezza dell'ambiente è cresciuta. Tutti dovremmo rifletterci perché ridurre il proprio impatto ambientale dovrebbe rientrare nella normalità delle cose, non rappresentare un gesto straordinario».
Con il ciclismo Woods ha ragionato in maniera diversa, rispetto a quanto aveva fatto da ragazzo con la corsa. Da ragazzino si era dedicato anima e corpo al mezzofondo, per migliorare e tentare di entrare nell’Olimpo dei più forti, una ‘ossessione’ che aveva finito per logorarlo fisicamente, procurandogli due fratture da sovraccarico al piede sinistro, che lo avevano costretto a cambiare sport. Col ciclismo ha sempre ragionato diversamente. A trentacinque anni, dopo otto anni di professionismo, si è domandato se nella sua carriera avrebbe potuto ottenere di più; forse sì o forse sarebbe scoppiato e, come con la corsa, avrebbe dovuto abbandonare il ciclismo. «Non siamo tutti Michael Jordan. Lui era il migliore, un fenomeno. Pensava solo al basket, viveva per il basket. C'è chi è capace di vivere così e chi ha bisogno di un altro approccio. Non c'è nulla di male» ha raccontato, più di una volta. Ci saranno un paio di gare in meno nel suo palmarès ma è felice e questo gli basta. Con quella serenità, vorrebbe stare in gruppo almeno altri tre anni. Nel frattempo, la sua famiglia continuerà a viaggiare con lui, a imparare le lingue, a vedere il mondo e quindi a conoscerlo.
In fondo, è sempre questione di conoscenza per la propria carriera come per l'ambiente. Michael Woods stesso non sapeva molte cose, era convinto di avere uno stile di vita buono, si sentiva tranquillo con la sua coscienza. Poi ha capito che si poteva migliorare e che, in fondo, non serviva neanche molto: mangiare meno carne, fare attenzione ai rifiuti, comprare prodotti locali e magari andare ad acquistarli in bicicletta. Perché, tra le tante cose, questa è da conoscere assolutamente: il mondo si cambia solo passo dopo passo.
L'altra faccia di Primož Roglič
Come Chris Froome, anche Primož Roglič ha iniziato a suscitare le simpatie dei tifosi quando si è mostrato nel suo lato più vulnerabile, quello più umano che sportivo, quello che, per molto tempo, era quasi rimasto nascosto dietro l'apparenza del campione che, pur arrivando tardi al ciclismo, stravolge ogni pronostico e vince. Non che l'avesse chiesto Roglič, se l'era ritrovato addosso quel pregiudizio, il suo carattere poi, a tratti freddo, imperscrutabile, aveva fatto il resto.
Le persone, però, si scoprono quando le cose vanno male e nel caso degli sportivi questo vale ancora di più. Perché, quando resti lì a osservare qualcuno che non vince, che anzi si stacca, patisce e arriva al traguardo a minuti dai primi, stai cercando qualcosa che va oltre il gesto atletico. Roglič, nel dolore fisico e psicologico delle cadute (lo ricordiamo tutti all'ultimo Tour de France), ha notato come lo guardavano i tifosi, ammirati e stupiti, quasi non si aspettassero questa umiltà della sofferenza. «Non sono un Terminator del ciclismo, non sono così» ha recentemente dichiarato in un'intervista a Cyclingnews.
E noi vogliamo ribadirlo proprio oggi: lo sloveno è un uomo e un ciclista forte, ma non tanto o non solo perché vince. Forte perché in ogni problema che gli si pone davanti cerca l'opportunità o la soluzione, senza lamentele. Se possibile in silenzio perché è da sempre convinto che gli esseri umani abbiano la possibilità di cambiare ciò che li circonda con i fatti; le parole e la visibilità sono invece un di più. Dice che in molti, arrivati al ciclismo da altri sport, hanno dovuto imparare i fondamentali di un nuovo sport, lui ha dovuto imparare a soffrire.
«Tornerò al Tour de France - spiega - per provare a vincerlo, ma non finirà il mondo neppure se lo perderò. Sarò sereno con i risultati che avrò ottenuto». Forse ha sempre pensato così, forse ha imparato a pensare così dopo la pandemia, quella che, a suo avviso, ha ricordato a tutti come si debba provare a vivere e a lui che prima di tutto desidera essere felice.
Dopo la caduta al Tour non poteva fare molto, era evidente a chiunque lo vedesse e a lui in primis. Per questo non trova particolari meriti nell'aver saputo fermarsi e aspettare, perché per un ciclista e forse per un uomo era l'unica cosa da fare, a meno di lasciarsi andare all’auto-commiserazione. Ha ripreso ad allenarsi non molto tempo prima delle Olimpiadi di Tokyo e in ogni viaggio sul pullman della squadra in Giappone ha avuto crampi e dolore al muscolo piriforme, nella zona del plesso sacrale. Dall'hotel alla partenza delle prove, alcune volte, ci sono tre ore di trasferimento, una tortura per Roglič che non riesce nemmeno a pensare a cosa possa essere una prova contro il tempo in quelle condizioni.
Il dolore, quello fisico, però questa volta lo sorprende perché, proprio prima della gara olimpica a cronometro, sta bene, sembra non avere più nulla. Si va a prendere l'oro, poche settimane prima di conquistare la Vuelta a Espana, una gara a lui più che mai congeniale in cui è al terzo successo consecutivo.
In questo percorso di ripresa dall’infortunio un grazie Roglič lo dice anche all’altro grande talento sloveno, Tadej Pogačar, nonostante un certo dualismo, forse più mediatico che reale di cui si parla spesso, perché con i suoi risultati lo spinge ad essere la miglior versione di se stesso e lo convince, ancora di più, a non fermarsi perché in definitiva l’importante nella vita, come nello sport, è continuare a tentare di migliorarsi.
La filosofia di Marlen Reusser
Marlen Reusser è felice, ma, in realtà, la felicità non le interessa nemmeno più di tanto. È capitato anche alla trentenne svizzera di sentirsi infelice, nonostante il ciclismo e le vittorie: andava tutto bene, ma il morale era a terra. Non c'è alcuna difficoltà ad ammetterlo. «Non è obbligatorio essere felici. Puoi esserlo oppure no» ha raccontanto in un’intervista a Procycling. «L'importante è che tu impari a conoscerti, a sentire il tuo corpo e a capirlo. Una volta che lo hai imparato ti servirà in ogni circostanza, in qualunque lavoro, io lo sto imparando correndo in bicicletta». Questo ragionamento l'ha sempre aiutata nella sua prova prediletta: la cronometro.
Nel tempo, molti le hanno chiesto quale sia il suo approccio mentale alla cronometro e lei ha sempre risposto che non c'è una regola, semplicemente perché la nostra mente fa ragionamenti nuovi e ci sottopone una realtà diversa ogni giorno, quindi è inutile proporsi di vedere le cose in un determinato modo, perché quel giorno potresti non riuscirci. Quando ti sveglierai, saprai chi sei in quel momento e con quello dovrai fare i conti. Regola aurea visti i risultati di Reusser contro il tempo nel 2021: argento alle Olimpiadi di Tokyo, oro agli Europei di Trento e ancora argento ai Mondiali delle Fiandre.
Marlen Reusser approda relativamente tardi al ciclismo professionistico, a causa di un infortunio. All'inizio, forse, nemmeno le piace molto pedalare, però le viene facile, estremamente facile così qualcuno le suggerisce di provare a farlo come lavoro. Oggi dice che, se non ha mai mollato, è solo perché, in fondo, le cose che non le piacevano del ciclismo erano meno di quelle che le piacevano, per esempio quello stato costante di imprevedibilità, la possibilità di conoscere luoghi e persone e, qualche volta, di sentirsi meglio perché sai che qualcuno è interessato a te, anche se fai fatica, piove e fa freddo.
Probabilmente, proprio per questa facilità innata, anche se non lo ha mai detto, Reusser ha sempre creduto alla possibilità di fare bene nel ciclismo. «Può sembrare arrogante dirlo, ma non lo è. Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma per emergere devi lavorare sodo e io l’ho fatto. Mi sono posta degli obietti e mi sono impegnata al massimo per raggiungerli: prima o poi i risultati dovevano arrivare». Una delle più grosse difficoltà è stata riuscire a stare in gruppo nelle gare su strada, quelle in cui se non hai qualcuno che ti aiuta, di cui ti fidi e che si fida di te, difficilmente riesci a fare bene perché stare nella pancia del gruppo è davvero difficile. Lei ha imparato provandoci, con una tranquillità di fondo, però: «Se non ci fossi riuscita, probabilmente avrei smesso di gareggiare su strada. Che senso ha continuare a fare una cosa che non ti diverte?».
La Reusser ha le idee chiare, per prossimo ha voluto fortemente l'approdo in Sd-Worx, una squadra di campionesse. Ma fra loro non c'è rivalità, bensì apprezzamento. «Non credo sia un bene che in una squadra ci sia un solo campione e tante seconde linee che gli girano attorno. Non mi piacerebbe neppure se la campionessa fossi io. Per avere la possibilità di correre al meglio ogni gara occorre che tutta la squadra sia di alto livello».
Per il futuro, Reusser ragiona come per la felicità. Arriverà comunque e non ha nemmeno senso farsi tante domande. Lei è dottoressa e prima di dedicarsi al ciclismo lavorava in ospedale, è appassionata di politica e le piace impegnarsi per aiutare gli altri. Il ciclismo, per Reusser, è fatto di traguardi, ma la vita porta tante cose e fra quelle bisogna scegliere. Così, se è vero che vorrebbe vincere un titolo mondiale a cronometro, è anche certa di non voler invecchiare nel ciclismo: «Annemiek van Vleuten ha trentotto anni, Mavi Garcia trentasette. Non credo che continuerò così a lungo. Voglio fare molte altre cose nella vita, ho ancora troppe cose da imparare».
La normalità di Geraint Thomas
Ricordiamo tutti il volto di Geraint Thomas ai microfoni, al termine del Tour de France 2018. Un pianto liberatorio e quelle parole ripetute: «Non ci posso credere, ho vinto il Tour. Non è vero». Non riusciva nemmeno a parlare il britannico, eppure, al giornalista che gli chiese se quella fosse l'emozione più importante di tutta la sua vita, rispose subito, senza indugiare un secondo. «No, l'emozione più grande della mia vita è stata il mio matrimonio, andare verso l'altare con mia moglie. Non si possono paragonare queste cose». Già, ogni cosa al posto giusto, col giusto valore. Tempo dopo, quasi si scusò per quelle lacrime: «È imbarazzante piangere davanti alle telecamere, ma in quel momento mi stavo rendendo conto di cosa avevo fatto».
Da quel momento, le cose non sono più andate come Thomas avrebbe sperato, forse creduto. Una storia di cadute e sfortuna. Fu lui stesso, dopo la caduta al Tour dell'anno successivo a parlare di frustrazione, a dire che non c'era una spiegazione per quella caduta e questo peggiorava le cose. Lì il danno fu poco e Thomas finì in seconda posizione la Grande Boucle. Come il podio di Parigi, però, nei ricordi resta l'assurda caduta nella tappa dell'Etna al Giro d'Italia 2020. Assurda per le modalità, cadde a causa di una borraccia, assurda per l'esito: arrivò al traguardo con più di dodici minuti di ritardo fra lo stupore di tutti e le critiche che iniziavano a muoversi. Perché uno dei candidati per la vittoria finale pagava dazio già nella prima tappa di montagna? Aveva una frattura del bacino, Thomas. Scalò l'Etna così.
E ancora cadute, frustrazione e delusione. Geraint Thomas ha saputo anche ridere, scherzarci su, quasi ad anestetizzare l'amarezza. Per esempio quest'anno, quando al Giro di Romandia è caduto a cinquanta metri dal traguardo. Se non bastasse aver vinto il Tour de France per parlare di un campione, basterebbe questa ironia. Difficile, soprattutto quando tutti chiedono, aspettano, giudicano. Quando, forse anche tu, inizi a non capire più che ti sta succedendo.
A Cyclingweekly, Thomas ha raccontato che l'inizio di questa stagione è stato forse uno dei migliori inizi di sempre. Nonostante tutto. «Non sono diventato un ciclista mediocre, all'improvviso» ha detto ed ha ragione. Per le caratteristiche atletiche e anche per come parla, per come si racconta e per le idee che continua a mettere in campo nonostante tutto vada storto. «Continuerò a impegnarmi e a buttarmi nella mischia per vincere, perché ora conta solo vincere, tornare a vincere. Poi tornerò ai Grandi Giri, non solo però. In fondo ho sempre avuto stagioni con lo stesso programma in tutti gli anni di carriera, ho voglia di cose fresche, di cambiare, di mettermi alla prova su altri percorsi».
E questa spensieratezza preservata a colpire e a farlo restare in sella. Nei gesti e nelle parole, come in Watts Occurring, il podcast che Geraint Thomas gestisce con il compagno di team Luke Rowe. «Raccontiamo di noi. Certe volte ridiamo anche e prendiamo in giro qualcuno, solo per divertimento. Inizialmente non ci riflettevo, adesso invece ci penso perché le nostre parole le sentono tutti e non sai mai come vengono interpretate».
Thomas che a inizio carriera, lo ha raccontato spesso, avrebbe desiderato vincere ogni corsa, su strada, su pista, oggi ha capito che bisogna saper scegliere. Saper scegliere e continuare a lavorare sodo. Con grande impegno, ma anche con grande serenità e perché no con la giusta dose di leggerezza.
Team Novo Nordisk, un esempio per cambiare le cose
Le persone che attendono la discesa dal bus dei corridori del Team Novo Nordisk hanno un motivo in più per aspettare. Un padre, in attesa degli atleti con suo figlio Marco, ragazzo diabetico appassionato di ciclismo, ce lo disse qualche tempo fa: «Ai figli puoi dire di tutto e possono anche crederti, penso, però, che solo dimostrare faccia la differenza. Qualunque genitore direbbe al proprio figlio che, nonostante il diabete, può fare tutto ciò che vuole nella vita. I genitori lo dicono spesso, per questo accade che i figli non ci credano più e pensino sia una consolazione. Marco deve crederci perché ha visto in prima persona, non perché glielo ha detto papà». Il bus era lì, a pochi metri.
I ciclisti del team Novo Nordisk, all'apparenza, hanno solo una caratteristica in comune: sono affetti da diabete. In realtà, c'è più di qualcosa ad accomunarli. Per esempio, tutti respingono un certo modo di approcciarsi alla malattia, al diabete, ma in realtà a qualunque malattia. Andrea Peron, diabetico dall'età di sedici anni, lo ha ripetuto più volte. «Non mi è mai piaciuto piangermi addosso. Perché non è bello e soprattutto perché non serve a nulla. La realtà del diabete non si cambia così». Non lo dice per dire Peron. Ha fatto fatica a passare professionista perché alcune squadre gli hanno chiuso la porta in faccia, senza apparente motivo, a parte il fatto di essere diabetico. Ci è stato male ma ha sempre detto che quella è una forma di ignoranza. Non puoi farci molto, però, puoi lavorare per smentirla. Anche qui: è questione di fatti, perché alle parole si può non credere, però, se una cosa succede, non puoi negarla. Quel giorno, ai bus, il papà di Marco voleva dirci proprio questo. Chi ha a che fare con una qualunque malattia ne è consapevole.
Sulle maglie dei ragazzi c'è scritto “changing diabetes” che è un invito, una speranza e una possibilità. Perché gli incontri fuori dai bus fanno la differenza anche per i corridori. Diversi fra loro lo testimoniano: «Un conto è sentirsi incitare, applaudire, magari firmare un cappellino o una maglietta. Vedere che qualcuno viene a chiederti consiglio sul diabete, a dirti le proprie difficoltà e a chiederti come fai, è diverso. È molto di più». Con gli anni, la tecnologia ha cambiato quasi tutto, gli atleti possono avere dati sulla loro glicemia anche in corsa, più spesso è una sensazione ad aiutarli, capiscono quando qualcosa non va, anche senza controllare un numero.
L'annata appena trascorsa non è stata una delle più facili per il Team Novo Nordisk. Il leader della squadra americana, Charles Planet, ha preso ben due volte il Covid, sviluppando un problema ai polmoni che lo ha tenuto lontano dalle gare per metà stagione. La differenza, invece, nell'anno nuovo, potrebbe farla il talento di Matyáš Kopecký: diciottesimo al Campionato del Mondo juniores, il ragazzo della Repubblica Ceca promette davvero bene.
A Velonews il co-fondatore del team Phil Southerland ha raccontanto il senso dell’aver creato un team di atleti affetti da diabete di tipo 1: «Vogliamo rappresentare un esempio concreto per i bambini affetti da diabete, vogliamo che guardino i nostri ragazzi correre e sappiano che possono ottenere tutto ciò che sognano. Voglio che i miei ragazzi si divertano perché quando si divertono corrono bene e, quando corrono bene, cambiano il mondo, una persona alla volta». Così che ci siano sempre meno porte chiuse in faccia, perché le persone credano a questa possibilità. Ma soprattutto affinché ci creda chiunque sia affetto da diabete. Perché, se ne sei consapevole tu, le barriere dell'ignoranza le abbatti giorno dopo giorno.