Sarà solo un dettaglio

A Fiera di Primiero c'è un cartello. Anzi, per dirla meglio: a Fiera di Primiero, i cartelli sono molti, come in ogni città toccata dal Giro d'Italia, ma noi ne notiamo uno in particolare. I cartelli sono tanti perché la gente ha voglia di parlare con i ciclisti del gruppo e le scritte sono un modo per farlo e per farlo in maniera universale: scrivere un nome ed un cognome è il modo migliore per arrivare dall'altra parte, per farsi capire da tutti, perché non serve traduzione, il pensiero arriva, è come sentirsi chiamare. Si scrive sulle strade oppure su un pezzo di carta o di cartone ed il messaggio è trasmesso, a qualunque distanza, quasi fosse un messaggio in una bottiglia, da un'isola lontana. Dicevamo, ne abbiamo notato uno, la scritta, colorata: "Sei il mio campione". Un adulto, una bambina, un numero, il dorsale, il 215, ed una bicicletta: nient'altro su quel cartello. A tenerlo fra le mani è un'altra bambina, la figlia di Andrea Pasqualon: il padre è in corsa al Giro d'Italia. Partiamo da qui, non solo perché la partenza è l'inizio della giornata, partiamo soprattutto da qui perché oggi, più che in altri giorni, molte cose che sembrano solitamente importanti, fondamentali, sono diventate particolari. Sì, quella bambina, con la parola "campione", intendeva solo in parte quel che intendiamo tutti: evocava quella tipologia di campione, certamente, colui che vince tanto, che vince spesso, magari corse importanti, ma parlava, in realtà di qualcosa di diverso, di un sentimento: quello che permette di vedere, di sentire, sarebbe meglio dire, attentamente quello che fanno le persone e di rendergli merito, di far davvero sfumare tutto il resto in un particolare.

Lo fanno quasi tutti i figli con i loro padri, ma non sono gli unici. Lo fa il gruppo con la fuga, quando la riprende ed in molti, se non si è in fasi concitate di gara, si voltano verso i fuggitivi per un complimento, un gesto di assenso, per dire "comunque bravi". Nelle retrovie accade spesso, succede fra gli ultimi, che magari faticano a tenere le ruote del plotone, ma nella fuga si riconoscono. Eppure, a guardare il risultato, sono più le fughe che non arrivano di quelle che arrivano, però l'abbiamo detto, alcune cose diventano dei particolari e si sente altro, si ascolta altro. È la storia, ancora una volta, di Mirco Maestri, Andrea Pietrobon, Filippo Fiorelli e Mikkel Honorè: i fuggiaschi della diciottesima tappa, verso Padova. Dicono che Honorè abbia sempre un libro a portata di mano e che i trasferimenti sul bus li impieghi studiando i luoghi in cui si arriva: in fondo, è un modo per rendere un dettaglio tante cose insormontabili, perché la stanchezza e la fatica, dopo tre settimane fanno assomigliare tutte le strade, fanno "pesare" di più qualunque gesto, persino il continuare a sperare, fondamentale per i ciclisti. A loro, quando mancano sessanta chilometri al traguardo, si aggiunge anche Edoardo Affini: un uomo pericoloso ciclisticamente parlando, uno di quelli che affronta il vento e spesso lo batte. Insomma, uno di quelli da non fare andare via. Il gruppo lo sa e agisce di conseguenza: si dice "tenere a bagnomaria", vuol dire controllare e aspettare, vuol dire soffrire.

Perché lo si fa? Forse perché pensando a quello che può succedere, la vittoria, pure quello diventa un dettaglio. Forse perché "essere in fuga al Giro d'Italia" è la situazione che tutti i ciclisti hanno sempre sognato e si farebbe a prescindere. Il resto, pur importante, diventa anche qui un particolare. C'è una visione di mezzo. Le persone a bordo strada seguono lo stesso principio: spesso le abbiamo viste assiepate in tratti in cui non c'era nulla, forse un distributore di benzina, in tratti in cui non sarebbe successo nulla, quasi certamente. Erano in una festa, in una celebrazione, il resto era un dettaglio di poco conto, pur se nella quotidianità non si sceglierebbe quel posto per aspettare, in una giornata dalle nuvole pazze. Tim Merlier, "il Mago", soffia a Jonathan Milan il poker, in questo Giro d'Italia. Lo fa in una volata confusa, frenetica, dove i particolari sono realmente il centro del mondo, dove in un attimo si perde la ruota del proprio "treno" e tutto diventa più difficile, mentre Simone Consonni cerca invano di ristabilire il contatto, di riagganciare il legame. Si lancerà da solo, fra le insidie di un gruppo al massimo dello sforzo, e centrerà il secondo posto: deluso, come lo è un velocista quando non vince. Seduto accanto a una transenna verrà consolato, occhi negli occhi: il tutto di un ciclista, il disappunto per un risultato, è in fondo un particolare per chi lo aspetta a fine tappa e pensa alle insidie di una giornata, di una volata.

Alberto Dainese è senza parole accanto a un'altra transenna: quarto posto, il miglior piazzamento di tutto il Giro d’Italia, come a Napoli ma oggi è peggio. Perché si è più vicini a casa e perché le occasioni, avvicinandosi alla fine sono meno, sempre meno e per un ciclista è sempre più difficile. Ora quella delusione occupa l'intero suo universo, chissà che fra qualche tempo non diventi un dettaglio di una giornata in cui era lì a giocarsela. Le cose cambiano di peso con il tempo, per questo vanno avanti gli uomini, per questo vanno avanti le biciclette.


Chissà se vedremo mai Evil Pogi

È dalle prime tappe di questo Giro d’Italia che coltivo, in silenzio, un sogno. È una piccolezza, riguarda più che altro le sfumature psicologiche e comportamentali di un ragazzo che, da diverse ore, è diventato il ciclista in attività che per più giorni ha indossato la maglia rosa. Inutile girarci attorno, lo esprimo così come lo vorrei, questo desiderio: mi piacerebbe che Pogačar diventasse cattivo. Niente di che eh, chiariamoci: non diventi violento, aggressivo; ma abbiamo bisogno – se posso parlare per noi tutti amanti del ciclismo – di un personaggio cattivo di primo piano, di uno che sia al contempo fortissimo e possa risultare indigesto ai più.

In parte, i panni di antagonista (al bene cosiddetto, alle tradizioni, al Vero Ciclismo) sono stati affibbiati a Remco Evenepoel. Il carattere fumantino del belga – sempre sia benedetto – da solo non basta. Più che realmente cattivo, Remco è impulsivo: io vorrei un cattivo vero. Uno che conosca bene e male e scelga con coscienza, se non il male, quantomeno il non-bene. Uno che, tanto per cominciare, sbatta in faccia a tutti la propria superiorità. In questo Giro d’Italia, Tadej Pogačar lo sta facendo solo in parte.

Ieri, per esempio, poteva vincere e non ha voluto. Perché? Ha fatto i complimenti a Steinhauser per il coraggio e la caparbietà di riprovarci una volta riassorbito il primo tentativo, è rimasto sulle ruote del trenino Ineos finché è durato, ha voluto seguire Dani Martínez finché il colombiano ha avuto coraggio. Poi basta. Perché, Tadej? Chissà cos’hai pensato quando Ben Swift tirava il gruppo sull’ultima salita: avresti potuto fare un cenno al cameraman e fingere uno sbadiglio a favor di telecamera.

Che spettacolo strano che è stato, vederti trattenuto, dubbioso sul da farsi. Avrai pensato: «Posso dare due minuti a tutti anche oggi: lo faccio o no?». No, ti sei risposto. Poi però te ne sei andato comunque perché quegli altri andavano troppo piano per te. In qualche modo sei stato costretto a fare ciò che non volevi. Ti sei dimostrato il migliore tuo malgrado: non può essere questo il destino che spetta al corridore più forte del mondo.

Eri a mezzo metro da me ieri, Tadej, quando un bambino ha ricevuto in dono i tuoi occhiali rosa ed è scoppiato a piangere sul traguardo del Brocon. Altri ragazzini ti aspettavano oltre le transenne e li hai resi felici tutti: in questo non cambiare. Le corse, però, azzannale senza pietà, fai tuo ciò che il tuo talento reclama. Abbiamo bisogno di un campione cattivo, dicevo, perché di buoni ne abbiamo già tantissimi: dall’adone Mathieu van der Poel all’erculeo Wout van Aert, dal polivalente Pidcock al tormentato Vingegaard. Tutti personaggi che si ispirano o provengono dal macro-campo dei valori nobili, dal giardino del bene. Perdere contro un supercattivo sarebbe auspicabile anche per i buoni: «L’unica cosa che la gente ama più di un eroe è vedere l’eroe fallire, cadere, morire combattendo» diceva Goblin a Spiderman.

Pensa a quanto renderesti più vario il ciclismo, Tadej. La storyline del ciclismo mondiale sarebbe sconfiggere te, Joker che scherza gli avversari su ogni terreno. Allora sì che la sua trasformazione in villain diventerebbe definitiva. Diceva Ra’s al Ghul a Batman: «Se ti tramuti in qualcosa di più di un semplice uomo, se consacri te stesso a un ideale e se nessuno riesce a fermarti, allora diventerai tutta un’altra cosa. Una leggenda».


Le cinque montagne e Georg Steinhauser

Le cinque montagne: Passo Sella, Passo Rolle, Passo Gobbera, Passo Brocon e ancora Passo Brocon, da un altro versante. È l'ultimo mercoledì del Giro d'Italia e si sale e si scende di continuo, su strade dapprima asciutte, successivamente bagnate, luccicanti di fari di moto e di ammiraglie, quasi fossero giostre. Si sale sulle vette laddove le persone vanno a cercare altro, spesso a dimenticare, ad abbandonare ricordi e malinconie, laddove, invece, un ciclista può provare, in pochi minuti, ogni sensazione raddoppiata, aumentata, decuplicata: è l'intensità la differenza dei monti. In un dolore fisico che può paralizzare, abbandonare su una rampa con uno zig-zag da pugile all'angolo, senza nulla da dire, senza nulla da fare, oppure in una felicità delirante che può esaltare a tal punto da non sentire più male, da non ricordare, almeno per qualche istante, quante volte si è detestata quella strada che tira all'insù, quante volte si è detestato persino il proprio mestiere. La montagna, scriveva Paolo Cognetti, dove le persone di città chiamano tutto natura, in maniera totalmente astratta: invece ci sono rocce, pietre, sassi, torrenti, boschi, «cose che si possono indicare con il dito e che si possono usare», altrimenti non c’è nemmeno il nome, perché non serve, la montagna dove tutto è più forte, anche quello che il cielo rovescia sulle teste. Anche quello che non c'è più e che una tempesta ha sradicato dal cuore delle montagne. Erano alberi, corteccia e fronde, radici aggrappate alla terra. Ora restano i segni della tempesta Vaia, il vuoto, da sei anni, dal 2018. L'intensità è la chiave della montagna, quando si è in bicicletta, perché non c'è modo di non far succedere le cose, quando ci si arrampica.

Gli scalatori sono gente strana: così filiformi, a livello di corporatura, ma con il compito, il destino, di sopportare le fatiche peggiori, di sfidarle con aria sprezzante, di corrergli incontro. Ancora una volta parliamo di Giulio Pellizzari, che qualche giorno fa stava male, sarebbe andato a casa, invece è rimasto fra le storie della carovana e oggi ha attaccato sin da subito per andarsi a prendere qualcosa. Di certo ha conquistato la Cima Coppi di questo Giro, il Passo Sella, la vetta più alta: prendendo a schiaffi i muscoli in quella volata con Quintana, con il colpo di reni finale, forse una delle massime dimostrazioni di intensità quando si parla di biciclette. Domani ripartirà con la maglia blu, che appartiene, in realtà, a Pogačar, siamo convinti che proverà a farla propria, in ogni caso l'avrà addosso e quello che si porta addosso è forte, come le radici nella terra, la forza che si imprime alzandosi sui pedali, lo sfregio di una tempesta o di una caduta che porta via quello che hai addosso. Gli scalatori somigliano spesso all'erica carnea, una pianta così chiamata dal colore dei fiori, simili alla carne e mentre si scala si ricorda bene cos'è la carne.

Il Passo Brocon si chiama in questo modo, perché anche così si può chiamare l'erica carnea o almeno così la chiamano da queste parti e qui ce n'è molta. Sì, in montagna tutto ha un nome e un senso. Georg Steinhauser ha attaccato due volte oggi, la prima ad inizio frazione, poi nuovamente e la seconda volta, ora lo sappiamo, è stata quella giusta. Georg Steinhauser ha attaccato diverse volte in questo Giro d'Italia, al Mottolino è stato ripreso e superato da Pogačar, con una facilità imbarazzante. Oggi, sulla salita finale ha compiuto un rito che è noto agli scalatori: una sorta di spoliazione, per essere più leggero, per tenere solo quel che serve davvero. Dapprima si abbandonano i compagni di fuga, pur non volendo, ha detto così Steinhauser del ritmo che ha staccato Gebreigzabhier: non avrebbe voluto, non in quel punto, ma in montagna non si può fare altro. Allora l'ultimo sorso d'acqua, spremuto con gusto, con voglia, poi borraccia svuotata a terra, con rabbia, per abbandonare anche quei pochi grammi in più, via gli occhiali, via anche i guantini, aiutandosi con i denti: testa bassa, occhi sulla strada , pensieri attorcigliati, a tratti stupendi, a tratti amari, perché qui tutto è più grande, a parte il tempo: i secondi, anzi i minuti di vantaggio, sulle montagne, sono sempre pochi, proprio perché da un momento all'altro la luce può andarsene e nulla mette al sicuro.

Da quel turbinio di paure e sospiri, Steinhauser fuoriesce all'ultimo chilometro o, più precisamente, poco dopo, quando compulsa la radiolina, ride e dice qualcosa, forse solo "ho vinto io, ho vinto io". In quel momento ha la certezza che nessuno può riprenderlo, nemmeno Pogačar che dietro ha staccato ancora tutti, non andrà a superarlo, non questa volta, perché "se la meritava". La montagna è disarmata e disarmante, anche se fa male o fa bene. A Georg Steinhauser ha fatto bene: è la sua prima vittoria da professionista, alla terza settimana di Giro d'Italia, la prova di avere i numeri. Suo padre, ex corridore, era davanti alla televisione questo pomeriggio. Dietro al podio, prima di essere chiamato dallo speaker, Georg rifletteva in silenzio, se la portava dentro così quella felicità. Solo pochi istanti prima, aveva preso il volto tra le mani, strabuzzato gli occhi, spalancato la bocca, forse pure gridato. Le cinque montagne l'hanno lasciato così, perché anche la felicità quassù ha radici profonde.

Foto: SprintCyclingAgency


Quegli occhiali, quella maglia rosa: intervista a Giulio Pellizzari

Uno dei protagonisti di queste ultime giornate di Giro d'Italia è, senza alcun dubbio, Giulio Pellizzari. Lo abbiamo intervistato diverse volte durante il Giro e questo è quello che ci ha raccontato.

Giulio, come è stato esordire al Giro d’Italia?

Emozionante sin dalla prima tappa, non avevo mai visto così tanta gente. C’è tanto tifo, davvero tanto tanto tanto. Pedalare al Giro è incredibile.

In tanti parlano di te come una nuova speranza per il ciclismo italiano. Ti fischiano un po’ le orecchie?

Ma a dire il vero no. Sono tranquillo. Dormo benissimo!

Stai scoprendo tutto del Giro. Sei stato anche al Processo alla Tappa. Come è stato?

È una trasmissione che ho sempre guardato sin da ragazzino. È stata una bella esperienza, dai.

In gruppo hai anche tanti compagni giovani come te, si vede che già nelle categorie giovanili sono nate delle amicizie.

Siamo amici prima che avversari, ed è sempre bello ritrovarsi. E vanno tutti fortissimo, siamo una generazione forte.

Hai 20 anni e stai correndo il Giro con Domenico Pozzovivo che è il più esperto del gruppo.

È un grande. Ci insegna un sacco di cose, ci racconta tanti aneddoti. Ogni volta che parla c’è qualcosa da imparare. Siamo felici di averlo con noi.

Pozzovivo è anche una specie di guida vivente a ogni strada d’Italia. Tu hai una tappa in particolare che puoi dire già di conoscere bene?

Sì, quella che parte dalla Val Gardena, che inizia col Sella, poi Canazei. Prima del Giro sono stato a fare altura al Passo San Pellegrino e ho pedalato un sacco su quelle strade. Tranne il Brocon: quello l’ho fatto solo per un pezzetto perché stavano asfaltando la strada.

E in stanza con chi sei?

Con Enrico Zanoncello, il velocista più forte al mondo.

La prima parte di Giro non è stata facilissima per te, ora sembra che tu abbia recuperato.

Sì, nella prima settimana ho avuto un po’ di raffreddore e tosse, prima di Napoli. A Prati di Tivo mi sono ritrovato senza gambe. Ho provato a tenere duro ma non ce la facevo, così mi sono rialzato. Pensavo di aver recuperato nel giorno di riposo, ci voleva, con un’oretta di pedalata e una pausa bar per un bignè al pistacchio e un cappuccino. Invece anche la seconda settimana è stata ancora difficile. La sera dell’undicesima tappa ero già con un piede a casa: ho chiamato Massimiliano Gentili per dirgli che volevo ritirarmi. Invece grazie a lui, alla mia famiglia, a Leonardo Piepoli e alla mia fidanzata sono rimasto.

E alla sedicesima tappa, a Santa Cristina Valgardena, hai sfiorato la vittoria.

Al giorno di riposo di Livigno stavo molto bene, infatti la paura era di non sentirmi più così in forma il giorno dopo. Ma sono ripartito speranzoso. Me la sentivo da subito, e sono contento del mio secondo posto. È Massimiliano Gentili che mi ha detto di non mollare. Quel risultato lo devo a lui.

Alla prima tappa, invece, eri stato il primo a seguire l’attacco di Tadej Pogačar.

Sapevo bene che non l’avrei tenuto, però sono andato di istinto. Quando l’ho visto passare mi sono buttato dietro, ci ho sperato. È stata un’emozione forte, c’era un sacco di pubblico che urlava, avevo la pelle d’oca.

Come Icaro, a star troppo vicino al Sole (ovvero Pogačar), si rischia di bruciarsi. E rimbalzare.

Esatto. Stessa fine. Ma credo sia una fine comune a parecchi corridori. Ma almeno posso aggiornare l’album delle mie foto con lui. Ne feci una insieme già nel 2019, alle Strade Bianche: era la sua prima gara nel World Tour e io ero là come spettatore, con un amico. Già lo conoscevo perché avevo seguito la sua vittoria al Tour de l’Avenir. Al mio amico dissi: “fatti una foto con lui, che diventerà forte”. E il mio amico: “ma no, ma chi è questo?”. Fu divertente. Non c’era nessuno che lo cercava al bus oltre a me. Ci facemmo una foto insieme, e direi che ha portato bene.

Quando a Santa Cristina Valgardena l’hai visto arrivare cosa hai pensato?

Bastardo! Ancora lui! (ride). Avrei voluto vincere, ma andava bene così. È andata meglio che a Torino sicuramente, sono contento.

Ti ha regalato i suoi occhiali e la maglia rosa, dopo averti ripreso negli ultimi chilometri.

(Ride ancora). Mio fratello il giorno prima mi aveva scritto: "Trova il modo di rimediare gli occhiali di Pogačar". Così all’arrivo sono andato al gazebo delle interviste e glieli ho chiesti. Lui me li ha dati e mi ha dato anche la maglia. Gli auguro il meglio. È il migliore della storia.


Tadej, Giulio e il fanciullino

Mentre le ammiraglie lasciavano Livigno e i corridori, al loro interno, osservavano il contorno delle montagne attraverso le gocce di acqua gelata che lo sfocavano, correndo sul vetro e poi precipitando a terra, fuori, ai bordi della strada, tra ombrelli e mantelline, tra cappelli e giubbotti, molte ragazze e molti ragazzi, giovani studenti, battevano le mani, scandivano le loro grida, mentre cercavano di intravedere qualunque dettaglio di quei ciclisti, dai finestrini che lasciavano enorme spazio all'immaginazione, perché si vedeva ben poco, si intuiva qualcosa, forse. La neve ed il freddo non lasciano altra scelta, ci si trasferisce in auto a Lasa, si riparte da lì, si percorrono gli ultimi 118 chilometri di corsa: i corridori sono stati sul palco firme, ora, però, non saliranno in sella, andranno via così. E quei ragazzi ancora ad esultare, levando le braccia, muovendo le mani e i piedi, avanzando nelle pozzanghere, regno del gioco, inzuppandosi le scarpe, qualche stivale, retrocedendo e tornando a scrutare: abbiamo ripensato a Giovanni Pascoli, abbiamo riletto qualche paragrafo in cui parlava del "fanciullino", quando scriveva che «è dentro noi [...] che non solo ha brividi, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono, sperano, godono, piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello». Al di fuori delle discussioni, legittime, che si sono fatte e si faranno, oggi ci piace concentrarci su quel "tinnulo squillo di campanello" in quei giovani, mentre fanno festa a quel c'è. È l'antica meraviglia.

Resterà fino a sera una giornata dai contorni grigi, nel cielo e nei prati, dall'aria fredda, dalle nuvole basse sulle cime dei monti, una di quelle giornate in cui lassù si potrebbero narrare storie di maghi e streghe, di incantesimi e magie e per qualche istante fingere di crederci, davanti a un camino in cui si è messo ad ardere l'ultimo pezzo di legna. È la giornata giusta per il "fanciullino", per ricordare che c'è, per svegliarlo. In Julian Alaphilippe, ad esempio: nel suo insistere sotto l'acqua, con un volto che, dapprima, è il solito, fatto di "panache" ed eleganza, poi si raggrinza per il freddo e la fatica, gli occhi si rimpiccioliscono, i denti si stringono, quasi a scaldare, come pietre, sembra possa crollare e mollare tutto in un attimo, invece va fino in fondo, esplora il limite, lo sfida, come si fa quando si è giovani, giovanissimi e non si rientra in casa quando un genitore chiama, mentre piove, ma ci si bagna fino all'ultimo centimetro di pelle, di vestito e si va avanti a sudare. Il fanciullino di Mirco Maestri, ancora all'attacco con il francese, dopo la tappa di Fano, è nello stupore: del primo sguardo quando Alaphilippe gli ha portato la propria maglia al bus, qualche giorno fa, nel non riuscire a credere di meritarsi di essere dov'è, di fare quello che fa, nel guardare al francese come un gigante e nell'abbracciarlo come un fratello. Diceva Pascoli che il fanciullino teme il buio ed alla luce sogna o sembra sognare: Maestri, detto Paperino, ha questi tratti.

A ben guardare il fanciullino di Tadej Pogačar è nella sua capacità di non prendersi troppo sul serio, pur prendendo tutto seriamente. Oggi avrebbe lasciato andare la fuga, ne era convinto, come ne era convinta la sua squadra, Movistar ha impresso il ritmo, ha riportato il gruppo a pochi secondi dalla fuga e lì non si è trattenuto. Sono tutti con manicotti e ogni genere di dispositivo preso dalla borsa del freddo, in gruppo: lui va su in maniche corte, fradicio, ma soave, senza smorfie, con uno sguardo sereno, di chi "a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta". Della pedalata si potrebbe scrivere molto o forse si è anche già scritto troppo: resta la facilità con cui fa ogni cosa, con cui supera gli avversari, i rivali, gli attaccanti di giornata, resta perché quante volte può capitarti di vederla in un corridore? Quando arriva alla ruota di Giulio Pellizzari pare tentennare qualche istante, si volta, riparte, ma continua a controllare la posizione del ventenne di San Severino Marche, quasi pensasse di aspettarlo, quasi volesse aspettarlo. La gioia, questa volta, alla quinta vittoria, assume la sembianza di un conto, sulle dita delle mani: felicità pura, distillata, che attraversa la realtà e pesa il valore di ogni gesto. Cinque vittorie, quante sono cinque vittorie? Non numericamente, ma quanto possono esaltare, quanto possono stupire o meravigliare? Quel calcolo coglie la grandezza di quello che sta facendo e la declina. L'album di figurine che riempivamo da bambini, contando quante figurine avevamo ed essendo orgogliosi di quel numero, per tutta la ricerca che ci era costato.

Giulio Pellizzari, ottimo secondo di tappa, lottando con Dani Martìnez, salutandolo nel tendone in cui gli atleti si cambiano, gli indicherà gli occhiali: "Posso?". Pare dire così. Lui li toglierà e glieli consegnerà. "Aspetta", con un gesto della mano: via anche la maglia rosa, dono anche quello. Anche Pellizzari lo osserva come un gigante, un mostro sacro, ma gli picchietta la mano sul casco, come con un coetaneo, perché questo sono, coetanei. Ragazzi in bicicletta. Nelle partite di calcio fra giovanissimi talvolta succede lo stesso, seppure nessuno di loro sia Pogacar e abbia la sua risonanza: è uno scambio. Quel "tinnulo squillo di campanello" sa benissimo di cosa parliamo. Basta un altro pezzo di legna nel camino quasi spento e il fanciullino resterà qui ancora qualche istante.

Foto: SprintCyclingAgency


Condividere la strada con i Pro

Essendo giorno di riposo, ieri mattina niente sveglia. E magari, al primo occhio aperto, anziché forzare anche l’altro, si torna a dormire. Gli insani orari del Giro d’Italia, però, ti entrano sottopelle, cambiano il tuo ritmo circadiano. Quindi verso le nove di mattina ero in piedi e ansioso di pedalare per la prima volta sulle strade attorno Livigno.

Questo faticare vagabondando in prima persona, la mattina, è un modo come un altro per scacciare la malattia peggiore, la malinconia da pedale, e sfogare la staticità di ore e ore passate in sala stampa. Inforcata la bici, l’obiettivo era la doppietta Forcola di Livigno – passo del Bernina. Cielo terso e montagne imbiancate, temperatura altina, tantissime persone in bicicletta attirate dal Giro d’Italia: difficile immaginare uno scenario migliore. La strada verso Forcola e Bernina, però, è chiusa per neve. Ecco perché un paio di ragazzi della Tudor e tutta la Arkéa, all’ultima rotonda, hanno deciso per un’altra strada.

Non resta dunque che virare sul piano b: Eira, Foscagno, tornando indietro magari Mottolino, se proprio vogliamo esagerare. Al primo tornante del passo dell’Eira, i cui versanti appartengono nientemeno che al bacino idrografico del Danubio, capisco che le gambe non girano. Devo ingurgitare la mia salvezza sotto forma di orsetto gommoso, cioè qualche manciata di Haribo, per riprendermi. Mentre mastico l’ultima massa di zuccheri semplici, Jan Tratnik passa a mezzo metro dalla mia bici. Sta salendo con calma, tanto che io e un ragazzino polacco riusciamo a stargli a ruota. Per noi non è una passeggiata di salute, già così, poi vediamo Attila Valter sfrecciarci accanto.

Tratnik se ne disinteressa, io voglio provare a capire cosa significa stare dietro un professionista. Come ha detto Valter stesso quando si è visto sfrecciare Pogačar sul Foscagno: «Volevo vedere cosa significa stargli a ruota. Non sapevo se sarei riuscito a stargli a ruota manco per un minuto, sapevo mi avrebbe staccato, ma comunque volevo vedere. È stato qualcosa di assurdo».

Provo a seguirlo. Ha due polpacci grossi quanto un mio quadricipite, un’andatura compostissima e regolare. Gli sto a ruota a malapena per un paio di minuti, finché non decide di buttare giù due rapporti e mollarmi lì. Gli avrei voluto dire che ero lì con lui il giorno prima, all’arrivo, quando diceva di aver «provato grande dolore ovunque» dopo aver tentato di seguire Pogačar sul Foscagno. Lo stesso dolore, nelle gambe e all’apice dei polmoni, moltiplicato per mille perché io professionista non sono, l’ho provato io il giorno dopo, provando a seguire te, Attila.

Staccato dal campione nazionale ungherese, riprendo un attimo di fiato e torno sul mio vagone preferito, a ruota di Tratnik. L’Eira sta per finire e professionisti salgono e scendono tutti i minuti. C’è la Movistar schierata in due file da tre, con Milesi unico attardato. «Grande Nairino!» urla qualche tifoso. Quando arriva in cima, è atteso dallo scherno degli italiani della Bahrain, che fanno foto e bevono qualcosa. Franco Pellizotti passa una bibita a Zambanini: «Ahh come me lo godo, questo cochino a duemila metri» dice festante il giovane corridore del lago di Garda. Il più gentile e affabile di tutti è Antonio Tiberi, salutato dai tifosi come «il primo italiano in classifica generale».

Un altro pro si è già buttato a capofitto nella discesa verso Trepalle e l’attacco al Foscagno. Ha la divisa della Bardiani, ma non riuscirò mai a guardarlo in faccia, tanto va forte. Non forte in senso assoluto, sia chiaro, ma in relazione alle persone normali: avere il tempo di osservare, metro dopo metro, la perfezione del loro gesto atletico è un lusso notevole. Poco prima di staccarmi anche da questo treno, esausto, riesco a leggere il nome sul casco: è il valtellinese Alessio Martinelli, giovane interessante sebbene non parte del roster al Giro.

Dopo tutti questi fuorigiri, completare il Foscagno e ripetere l’Eira dal versante opposto per tornare a Livigno è un calvario. Vado regolare, e piano. Anche se mi passasse Contador, penso, non devo cedere alla tentazione di provare a seguirlo. Per fortuna nessuno si palesa, ma quindi il Mottolino? Non lo facciamo? Certo che lo facciamo, e con me tanti amatori. Quelle rampe al 20% bastano una volta sola: nessun professionista avvistato.

Si è fatto tardi e ho un appuntamento per pranzo, devo rientrare. Iniziata piano piano la discesa dall’Eira verso Livigno, saluto Larry Warbasse della Decathlon e mi accorgo di avere Ruben Fernandez della Cofidis a ruota. Gli faccio presente che ha battezzato un pessimo discesista e con un sorriso mi passa salutando. A metà discesa, qualche ciuffetto sbuca da un casco rosa: Tadej Pogačar sta risalendo l’Eira circondato da compagni di squadra e tifosi.

Se ho raccontato tutti questi piccoli eventi, è per un unico motivo: è ciò che è successo non solo a me, ma a chiunque abbia pedalato a Livigno ieri, o nelle varie località dei giorni di riposo durante gli scorsi Giri d’Italia. È un’esperienza comune a tanti quella di – in giorni particolarmente fortunati – ritrovarsi a pedalare tra i campioni, condividere la strada coi professionisti. E questo è uno dei pochissimi sport in cui si può ancora vivere un sogno del genere. Uno dei pochissimi sport in cui è possibile che, arrivato alla fine di una salita, un ragazzino polacco chieda a un signor professionista, vincitore di una Omloop e di una tappa al Giro, dove vada ora, e questo risponda: «Non lo so, ma se vuoi andiamo insieme».


Con gli occhi di Attila

Neanche il tempo di scattare e Pogačar è già sul mio gruppetto. Siamo in fuga da molte decine di chilometri, siamo andati d’amore e d’accordo. Qualche cambio a dire il vero è stato rimandato, qualche vaffanculo è stato detto. Siamo rimasti io, un Bardiani che non so chi sia, un giovane della Polti che sembra venire da queste zone, Storer e Geschke, che è riuscito nell’impresa di non vincere manco un GPM oggi. O almeno così mi sembra. Davanti ci sono Nairo e Steinhauser: ci sono sfuggiti, maledizione. Hanno una gran gamba.

Noi fuggitivi, comunque, pensavamo di andare forte. Eravamo quasi 60: un bel drappello. Nella mia squadra siamo rimasti mica in tanti (Christophe, Olav e Cian ci mancano parecchio), per cui ho fatto affidamento soprattutto sul lavoro altrui: sembrava di stare nella pancia del gruppo fatta e finita, solo tre minuti davanti a essa. Pensavamo di andare forte, ripeto, finché non ci ha affiancato quel razzo rosa. Avessi avuto fiato in eccesso, gli avrei chiesto se fa lo stesso sport nostro, quando l’ho visto sfrecciarmi accanto.

Ha provato a saltarci di slancio proprio nei pressi di un camper ricoperto da un bandierone tedesco. Dev’essere il fan club di Maximilian Schachmann. Se lo ricordo bene è perché, nello sforzo massimo di inseguire quella freccia rosa, mi sono rimasti impressi alcuni dettagli. Nessuno lo segue, ma io devo provarci. Da un paio di minuti mi sento urlare nella radiolina che dovrò dare tutto per seguirlo: forse vogliono sapere qualche dato in più sulla sua potenza, forse vogliono che gli dia fastidio gratuito, che ne so. Fatto sta che io sono Attila Valter, mica ho i superpoteri, né il potere contrattuale di infischiarmene. E quindi non posso fare come voglio: se mi dicono di sputare un polmone per rimanere con lui, io quello devo fare.

La prima cosa di cui mi accorgo è la differenza di pedalata. La sua agilità è un violino, io sono un piatto che si rompe cadendo per terra. Ma mi sembra di essere salito su di un treno: in un amen sverniciamo Nicola Conci (lo riconosco perché è uno dei pochi corridori che non gira uno dei due #13 che porta sulla schiena), poi un’orrida visione mi coglie alla sprovvista. Ha su la corona grande. Questo pazzo sta affrontando la prima salita del Giro oltre quota 2.000 col padellone. Non ci voglio credere.

Forse anche per quello, o per la sfiga portata dal #13 di Conci, o perché quello lì non è fatto di carne e ossa come noi, o per chissà quali altri motivi, beh insomma mi stacco. Cedo di schianto, anzi. Arriverò al traguardo quasi cinque minuti dopo Pogačar.

Ai giornalisti che mi hanno chiesto com’è stato provare a seguirlo ho farfugliato frasi banali, tutte stronzate. Cos’ho visto realmente non so dire. Non mi era mai capitato di vedere qualcuno andare così in bicicletta.


Manifesto di Pogačar

Alle cinque, l'ora dei toreri, come scriveva qualcuno, Tadej Pogačar, sulle rampe del Mottolino, ha "matato" il gruppo, ha fatto esplodere, una volta di più, il Giro d'Italia: è il re, il re rosa. La semantica legata alla Spagna e ai tori non è casuale, perché esattamente trent'anni fa, esattamente alle cinque, Luis Ocaña finiva di vivere, dopo uno sparo, all'ora di pranzo, nella tenuta di Caupenne d'Armagnac. Preso a sputi e sassate dai francesi, quando era poco più che un bambino, per essere “lo spagnolo di Mont de Marsan", ripudiato dagli spagnoli, dalla Federazione Ciclistica, con la "colpa di essere comunista", era un figlio di nessuno: suo padre, un genitore autoritario, lo vide piangere solo una volta, con una maglia di campione spagnolo sul letto, divorato da un tumore allo stomaco e rimase fino alla fine dei suoi giorni convinto che quelle lacrime potessero essere di dolore fisico, rimase con il dubbio di non essere riuscito a farsi amare abbastanza, di non poter "appartenere" nemmeno alla sua famiglia. Ripudiato, rinnegato. Non sono paragoni, non sono confronti, non avrebbe alcun senso, ognuno ha la sua storia, questo è solo un ricordo. Tadej Pogačar, poco dopo le cinque di una domenica di maggio, su una strada stretta, meglio sarebbe dire su una rampa, appartiene, più che mai, al ciclismo e alla sua gente. L'appartenenza non è proprietà, non è possesso, non è bandiera da sventolare, confine da imprimere, l'appartenenza è la possibilità di riconoscersi in un gesto, di vedersi simili, magari, più spesso completamente diversi, eppure sentirsene attratti, andare in delirio, impazzire. Non si basta mai, Pogacar. Non basta mai. Avrebbe potuto controllare la corsa, attaccare negli ultimi chilometri, racimolare altri secondi: è scattato ai meno quattordici dal traguardo e, uno a uno, ha superato tutti coloro che gli erano davanti, quasi "mettesse la freccia" e proseguisse. Lasciava soli gli altri, restava solo lui: un punto minuscolo, rosa, in mezzo a una montagna avvolta nella neve e nel freddo che qui dorme.

Accade alla fine della seconda settimana del Giro d'Italia, accade nella tappa del Mortirolo, tra le altre cose. Anzi, «nella tappa del Mortirolo da Edolo», come sentiamo da giorni, non da Mazzo di Valtellina: sì, dal versante più "facile", tutto è relativo, ci mancherebbe, ma è davvero più facile. Pure il Mortirolo da Edolo "appartiene meno” alle persone del ciclismo o, se vogliamo, alle persone delle montagne del ciclismo. Ma le strade restano comunque, anche senza riconoscersi in nessuno, per le persone è diverso. Le persone delle montagne del ciclismo hanno un rapporto particolare con i monti: magari, durante l'anno, vanno altrove, magari è "gente di mare", ma, se arriva una corsa, non c'è gente migliore a cui chiedere informazioni, perché, quel giorno, la montagna la conoscono come il palmo della propria mano. Il Mortirolo, nome mortifero, come i briganti che vi bazzicavano e che gli hanno restituito, suo malgrado, l'appellativo di "Selva bella". Il Mortirolo che, oggi, non fa danni, li farà il Passo del Foscagno, dove lo sloveno innesca un'andatura velenosa, per cui l'unico antidoto è lasciare andare ed evitare che il veleno entri in circolo: veleno, oggi, è acido lattico.

C'erano Georg Steinhauser e Nairo Quintana in testa: il primo, con un cognome da filosofo, il secondo per cui non occorre presentazione. Forse, c'era una lieve malinconia quando notava che, ormai, non aspirava più ad essere la stella del ciclismo colombiano, in fondo, c'è sempre quando i tempi cambiano, forse c'era solo del sano realismo, obbligo a trentaquattro anni. Anche Quintana ha ricominciato a sentire di appartenere, di far parte: la bandiera colombiana che gli sventola davanti in salita è un dettaglio significativo. Ancor più significativo è il modo in cui conclude al secondo posto, superato da Pogačar, nella sua rincorsa, a 1900 metri dal traguardo: era importante resistere, ha resistito, è stato "il primo degli umani". È stato uno scalatore, come sempre, anche se gli anni sono passati e l'ultimo è stato più difficile di altri. In questa difficoltà ha voluto parlare poco, «per non ferire nessuno». Nessun commento, solo un fatto.

Gli indiani, si dice, in salita, parlando dei tifosi assiepati. Gli indiani sulla neve, con cappellini di lana e giubbotti, con tutto quel che serve per fare rumore al passaggio del "re": vicini al re mentre il re è vicino a loro, nel momento del suo sacrificio, perché la salita è salita, ma pieno di gioia. Tadej Pogačar è colui che si sente nel posto giusto, al momento giusto, così continua a completarsi, a crescere, a essere parte di un qualcosa più grande, ad avverare completamente la propria persona. Un'altra persona era al posto giusto, nel momento giusto, questo pomeriggio, un ragazzo, in salita, su una curva: lo stesso a cui Pogačar ha lasciato i guantini. Quel ragazzo saltava di felicità. Abbiamo detto tutto.


Un'ultima cosa, Tadej, ti chiediamo

Il tema più interessante del finale del Giro d’Italia riguarda, nuovamente, Tadej Pogačar. L’andamento della corsa rosa ha seguito il battito del suo cuore dal giorno zero e seguendo la stessa pulsione si avvia verso l’ultima settimana. Anche dopo la cronometro di ieri, ennesima tappa in cui ha dimostrato di poter guadagnare su tutti i rivali su ogni terreno, pur dominando, Pogačar non ha ucciso la corsa. A forza di rosicchiare quaranta secondi qua e là, è arrivato a quasi quattro minuti di vantaggio su Thomas e Martínez (per trovare un distacco del genere a due terzi del Giro, bisogna tornare al 2006 e ai nove minuti cumulati che José Enrique Gutiérrez e Paolo Savoldelli avevano di ritardo da Ivan Basso), un vantaggio enorme grazie al quale sarebbe facile giocare in difesa.

Pogačar non è uno così. Non ha bisogno di scoprire la guardia per sferrare il colpo del KO ad avversari già tramortiti, ma mi rifiuto di credere che non voglia dare un ultimo sfoggio della sua classe folgorante. E oggi c’è la più bella tappa del Giro d’Italia: oltre 220 chilometri brutali, con quasi 6.000 metri di dislivello, l’arrivo su una pista da sci inutilmente asfaltata. Per questo ieri gli ho chiesto, più o meno, se e quando avesse intenzione di tirarlo questo pugno del KO. «Come i pesi massimi sul ring», gli ho proprio detto. Insomma, Tadej, quand’è che farai l’impresa?

E lui mi ha risposto: «Il pugno del KO definitivo dovrà essere sul Monte Grappa, è l’ultima tappa [di montagna]. Oggi ho preso altro vantaggio il che è positivo, ci permette di essere più tranquilli». Sottintende forse che oggi non accadrà nulla? Che non cercherà l’impresa, accontentandosi di guadagnare altre manciate di secondi? E così anche nelle prossime tappe magari, facendosi scortare fino a Roma e pensando poi al Tour de France? Magari intende tutto questo e non può dirlo. Magari è davvero già sazio così: a brevissimo, per dire, diventerà il ciclista in attività con più giorni in maglia rosa. Io, però, non ci credo che si accontenti.

Secondo me non ha alcuna voglia di aspettare ancora. Dopo il giorno di riposo di Napoli ha soprattutto sonnecchiato: in due tappe (Bocca della Selva, Fano) è stata concessa la luce verde alla fuga; nelle altre due (Francavilla al Mare, Cento) è stata volata. La cronometro di ieri è servita per mettere qualche ago nei muscoli altrui, ma saranno le salite alpine a fungere da richiamo all’impresa del campione. Morde il freno anche lui. Se la simbologia del ciclismo ha un valore – e lo ha eccome, enorme –, se è davvero l’anno in cui potrebbe essere rinnovata la doppietta pantaniana Giro-Tour, se a Oropa ha già vinto, beh quale punto esclamativo migliore ci sarebbe di un attacco sul Mortirolo, domani, salita sulla quale al Pirata è stata dedicata una statua, sebbene su un altro versante?

Ricordi cosa ti disse il tuo direttore sportivo, Fabio Baldato, quando attaccasti Mathieu van der Poel al Giro delle Fiandre? «Andiamo campione, andiamo campione! Distruggili tutti!». Sì Tadej, spazzali via tutti sulla strada verso Livigno. Solleva l’asfalto dietro le tue ruote, non dar scampo a chi vivrà una giornata storta, apri e chiudi i mari. A un cenno della tua mano si muoveranno i gregari, a un tuo colpo di pedale si livellerà ogni salita. Vola come una farfalla, pungi come un’ape.

Un’ultima cosa, Tadej, ti chiediamo. Fa’ in modo che sia memorabile. Dacci, una volta di più, un capitolo nuovo di storia del ciclismo da raccontare a chi si approccerà allo sport tra vent’anni, facci riaprire i libri di Buzzati e Pratolini, riportaci con la mente a quelle imprese là, vecchie di decenni. Se tanto ti chiediamo, è perché tu tanto puoi.


La sfida

Era una sfida, un duello cavalleresco. Era una sfida e Filippo Ganna, questa volta, l'ha vinta. Era il dieci maggio, eravamo tra Foligno e Perugia, Filippo Ganna era seduto sulla stessa sedia su cui era seduto poco più di un'ora fa, quella destinata al miglior tempo provvisorio della cronometro: il video inquadrava Tadej Pogačar, dapprima sulla salita conclusiva, poi sempre più vicino al traguardo. Ad un certo punto, la grafica, un piccolo rettangolo su cui scorrono numeri, su cui scorre il tempo, dapprima verde, è divenuta rossa: è la campana a morto per qualsiasi ambizione, significa che l'altro, lo sloveno, in quel caso, è andato più veloce: sedici secondi e settantatré centesimi. Filippo Ganna si era alzato dalla sedia, aveva salutato, se ne era andato da quella telecamera che lo inquadrava: non era più il primo. Questo è ciò che abbiamo visto, quel che ha sentito era dentro quella macchina perfetta e curata allo spasimo, denominata corpo, denominato atleta. Una settimana e un giorno ed il momento è tornato. Sì, i momenti, molto spesso, tornano, si ripresentano, come le occasioni, anche se quando le perdiamo ci sembrano irrecuperabili. Questa volta tra Castiglione delle Stiviere e Desenzano del Garda, accanto al lago, "l'occhio della terra", come lo definì qualcuno, e quel ragazzo, quello con addosso la maglia tricolore, viene da Verbania, città di lago. Filippo Ganna è ancora seduto su quella sedia, davanti ad uno schermo e ad una telecamera. Sono le 16:43, parte l'altro, parte la maglia rosa, scende Tadej Pogačar. Il duello, a distanza, ricomincia.

Filippo Ganna era partito più di due ore prima ed aveva attraversato l'aria: veloce, più di cinquantatré chilometri orari di media, solido, un blocco compatto, fermo pur nello spostamento, guardategli la schiena, una tavola, perfetta, affascinante questo contrasto, elegante, nelle linee, del corpo in bicicletta e delle ruote sull'asfalto. Dentro qualcosa tra rabbia e amore, trovate voi un nome esatto alla sensazione, sappiamo che l'avrete provata: la rabbia di non avercela ancora fatta quest'anno, di non aver ancora vinto, l'amore di volercela fare, di tornare all'assalto, anzi, alla conquista. Direte che ha già vinto tanto Ganna, avete ragione, ma non si pesa la rabbia, non si pesa l'amore, non hanno a che fare con una somma o una sottrazione, hanno a che fare con gli esseri umani. Sensibile, nel senso di chi riesce a sentire, a percepire, a "toccare con mano": la sua sensibilità è esibita anche in sella, nel suo rapporto con la strada, in come vi scorre sopra, nelle curve in cui non smette un attimo di pedalare. Aveva fatto la ricognizione sul tracciato di gara, più volte, "per conoscere a memoria ogni curva": ha memorizzato tutto, non solo nella mente, anche nel corpo, che vi si orienta con delicatezza, nonostante lo morda, con finezza, nonostante lo divori. Un insieme di contrasti per cui le persone si affacciano dalle transenne al fine di osservarlo qualche secondo in più, perché il passaggio di Ganna è questione di vento, di una folata d'aria, allora serve allungare l'osservazione. Il sublime. Saranno 35'02" per percorrere 31.2 chilometri. Una bottiglia d'acqua rovesciata in gola, la mano nell'acqua di una fontana e di nuovo quella sedia, di nuovo l'attesa.

All'inizio non sorrideva, Ganna, guardava e basta, occhi fissi, dritti verso il monitor, quasi perso in un altrove. Quel rettangolo in grafica che indica i tempi riappare, è il primo intermedio: Tadej Pogačar ha quattro secondi di vantaggio. Pare un fermo immagine, è Ganna: immobile. Un'inquadratura tra il primo ed il secondo intermedio lo sorprenderà con la testa fra le mani, forse stanco di aspettare. Aspettava da una settimana o, forse, da quel giorno, ad Andora, il sette maggio, quando il gruppo riuscì a chiudere, a catturarlo, a lanciare la volata e aveva gli occhi lucidi, la voce spenta, perché avrebbe voluto vincere. Che oggi sarebbe andata diversamente l'ha capito al secondo intermedio, ne ha, però, avuto la certezza solo quando a Pogačar mancavano sei secondi per tagliare la fettuccia bianca dell'arrivo, ma il traguardo era troppo lontano. Era con Jonathan Milan, altro atleta che di velocità se ne intende: ha riso, ha riso forte.

Questa volta la voce ha fatto fatica ad uscire, nella prigione di una "e" prolungata e poi annacquata. Di un «non è mai facile» vibrato come vibrano le corde di una chitarra, ma quando agli uomini trema la voce di solito stanno per piangere o stanno già piangendo, di tristezza o di felicità. Cosa c'era dentro quella macchina perfetta che tutti abbiamo osservato, ammirato esaltato? Non possiamo saperlo. Sappiamo, però, ciò che sta venendo fuori adesso e questa volta è tutta felicità.

 

Foto: SprintCyclingAgency