Il questionario cicloproustiano di Greta Marturano

Il tratto principale del tuo carattere?
Timidezza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità e fedeltà.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità.

Il tuo peggior difetto?
A volte permalosa.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare oppure seguire qualche serie televisiva o film su Netflix.

Cosa sogni per la tua felicità?
Avere con me le persone più care e fare quello che più mi piace.

Cosa vorresti essere?
Sempre me stessa.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Sono un poco patriottica, forse, ma l'Italia va bene.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Tartaruga.

Il tuo corridore preferito?
Van der Poel.

Un eroe nella tua vita reale?
Papà e mamma sempre visti come i miei eroi fin da quando ero piccola.

Cosa detesti?
Le bugie e le persone false.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Ci sono tante imprese che mi sono rimaste impresse ed è forse per questo che mi sono sempre più appassionata al ciclismo.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Non ci si ritira mai, in nessuna gara.

Un dono che vorresti avere?
Serenità.

Come ti senti attualmente?
Bene e serena.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Quando arrivi al limite, superalo”.


Il questionario cicloproustiano di Omar Di Felice

Il tratto principale del tuo carattere?
Riservatezza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La discrezione e l’onestà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La discrezione e la dolcezza.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La capacità di rispettare gli spazi e la diversità che ci caratterizza.

Il tuo peggior difetto?
La testardaggine.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere.

Cosa sogni per la tua felicità?
Un mondo con più gentilezza.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Non poter pedalare.

Cosa vorresti essere?
Sono felice di ciò che sono.

In che paese/nazione vorresti vivere?
In un’Italia con maggior cura per il prossimo, meritocrazia e rispetto per i deboli (anche , e soprattutto, in strada).

Il tuo colore preferito?
Giallo.

Il tuo animale preferito?
I rapaci notturni in generale.

Il tuo scrittore preferito?
Ne ho diversi: Walter Isaacson per le biografie, Murakami per i suoi romanzi, Bonatti e Moro per i loro racconti dalle spedizioni incredibili che hanno affrontato.

Il tuo film preferito?
Notting Hill (si è una commedia, lo so!).

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sigur Ros.

Il tuo corridore preferito?
Lo è stato Marco Pantani, poi ho conservato stima e ammirazione per molti campioni.

Un eroe nella tua vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.

Una tua eroina nella vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.

Il tuo nome preferito?
Marco

Cosa detesti?
L’invidia e l’odio.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Mussolini.

L’impresa storica che ammiri di più?
La liberazione dal nazi-fascismo.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Pantani a Guzet de Neige (dire Les Deux Alpes sarebbe stato troppo scontato).

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Scegliere di ritirarsi non è mai semplice.

Un dono che vorresti avere?
Maggior capacità di fregarmene.

Come ti senti attualmente?
In pace.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Se pensi è la fine, se pedali arrivi”.


Ditta Artigianale, Firenze

Il caffè è pronto, in tazzina. «Calma, avvicinati lentamente e annusa l'anima della bevanda, prima di mettere la bustina di zucchero: cogli le note floreali e quelle di nocciola. Il tuo viaggio sarà suddiviso in tre sorsi. Il primo ti restituirà un'esplosione di gusto e acidità, durante il secondo, invece, avrai la possibilità di cogliere le note dolci, potrebbero essere di cioccolato, di nocciola, talvolta di frutta tropicale. Sarà, però, solo il terzo sorso a restituirti ciò che il tuo palato tratterrà: un sapore di mandorla, di nocciola, oppure di frutta, di mandarino, di ananas, di lime, di arancia». Siamo a Firenze, in Ditta Artigianale, ed a parlare è l'ideatore di questa realtà, Francesco Sanapo. Il suo linguaggio è quello di uno studioso, ma l'esperienza in cui affonda le radici tutto questo è originale, primigenia: il caffè che sua madre gli preparava ogni mattina, prima di svegliarlo per andare a scuola o all'Università. Solo qualche settimana fa, Francesco era in Colombia: più di quaranta ore di viaggi in macchina, almeno dieci aerei interni, da una parte all'altra del paese, su e giù, per conoscere, per capire come il gusto del caffè, in continuo cambiamento negli anni, continuerà a modificarsi, per scoprire nuove varietà, stare in contatto diretto con i produttori locali, visitare le loro piantagioni, scoprire eccellenze e tornare in Italia con dei piccoli quantitativi, trenta grammi, di quello che, probabilmente, sarà il caffè nel futuro. Così il caffè, l'abitudine di casa, quella parola molto simile in quasi tutte le lingue del mondo, con solo qualche venatura differente, l'ha portato lontano, dove non sarebbe potuto arrivare nemmeno con i più bei sogni, ma dove, in fondo, i desideri erano sempre andati. Ad un'altra velocità.


Scintille accese dallo studio, dai libri e Francesco Sanapo è certo che non vi siano molti altri modi per accendere "fuochi" che resistano alle avversità: siano essi sotto forma di passione o assumano qualunque altro aspetto o profilo. «Solo lo studio porta davvero a conoscere e per dedicarsi a qualcosa, anima e corpo, è necessario sapere, altrimenti non si può costruire nulla di duraturo. Lo studio fa "detonare", permette alle fiammelle che ci sfiorano di sorreggersi, altrimenti sono fuochi fatui, destinati ad estinguersi. Tutti i viaggi li ho affrontati così, guidato dalla curiosità, delle nuove varietà, dei processi di fermentazione, della tostatura e, appena conoscevo qualcosa, non vedevo l'ora di condividerlo». Così Ditta Artigianale è costruita anche grazie alle letture e alla conoscenza, non solo grazie ai sogni ed alle passioni. Nemmeno il nome è casuale: ad oggi, quasi nessuno usa più la parola ditta, tutti parlano di "aziende" o "attività", quello era, invece, un termine riferito alle piccole realtà di anni fa, ad un mondo artigianale. Ai periodi in cui le persone tostavano il caffè nei garages, con macchine costruite su misura, poi, l'industria ha un poco cancellato il valore dell'artigianalità: «Il nostro logo riporta ai colori degli anni settanta, noi ci siamo aggrappati a quei significati e abbiamo provato a rivederli in chiave moderna». Anche Sanapo ha iniziato lavorando per varie torrefazioni e, già all'epoca, viaggiava e scopriva diverse tipologie di caffè ma, per un motivo o per l'altro, non riusciva mai a importarle: si dispiaceva, si rammaricava. Intanto vinceva per tre anni il titolo nazionale di miglior barista, di assaggiatore di caffè e partecipava alla finale del Campionato Mondiale dei baristi, un traguardo mai raggiunto prima. «Mentre ero lì, con la coppa in mano, pronto per alzarla, decisi. "Al ritorno, rassegno le dimissioni da tutti i miei incarichi e creo un'attività tutta mia": era il 2013, acquistai la prima tostatrice, di otto chili e mi misi a tostare il caffè». Fare impresa è difficile, Francesco lo ribadisce, eppure la sequenza di fatti da quel momento in avanti è una progressione continua: il primo store, la caffetteria, per vendere il proprio caffè, quello preparato artigianalmente, ed ancora un secondo, un terzo, un quarto, fino al quinto store, di recente apertura.

«Vorremmo raccontare il caffè in tutto e per tutto e ravvivare l'antico legame che c'è tra caffè ed ospitalità, magari l'ospitalità fiorentina, in un luogo bello, da vedere e da vivere. Dico spesso che, negli anni, i bar sembrano aver perso l'anima, quasi fosse stata sfregiata da tante cose che hanno rovinato l'atmosfera e la personalità dei locali. Serve la musica giusta da ascoltare, persino la sedia giusta su cui sedere». Una personalità fatta di tante piccolezze, non a caso Francesco Sanapo spiega di aver introdotto la pasticceria in Ditta Artigianale dopo aver ricercato per anni il gusto del croissant che avrebbe voluto abbinare ai suoi caffè e non averlo mai trovato e sottolinea con orgoglio di non cercare esperti fra coloro che entrano dalla sua porta, ma, semplicemente, persone che abbiano voglia di un buon caffè, bevuto con consapevolezza. Accanto al legame del caffè con l'ospitalità c'è quello con la bicicletta: «Entrambi hanno la capacità di smascherare, di far cadere le maschere, di unire, di far incontrare. Le persone escono di casa per un giro in bicicletta, come escono di casa per un caffè: entrambe sono ottime scuse, per un viaggio nel paese vicino, dall'amico, dai genitori. Nei bar ci si ritrova per l'una o per l'altro, per entrambi capita di sedersi allo stesso tavolino». L'Italian Coffee Tour, organizzato da Francesco, prende spunto proprio da queste caratteristiche in comune: ci si ferma anche nei più piccoli borghi, nei paesini, si incontrano i sindaci ed i giornalisti, si parla e si fa parlare di caffè, magari si racconta anche l'aneddoto di quel coltivatore conosciuto in Honduras e della sua piantagione, del suo modo di lavorare. Ma la bicicletta, in realtà, è esperienza quotidiana e la Toscana offre paesaggi vari in cui spaziare: «Il mio giro classico è di circa cinquanta chilometri, attraversando le colline intorno a Firenze, tra Pontassieve e Fiesole, dove passeranno due macchine ogni ora, dove è possibile pedalare in meditazione, interrotti solamente da quella salita che scali da quando eri adolescente e che ogni volta maledici perché è dura, anzi, sempre più dura».

L'originalità è la chiave dello sviluppo di Ditta Artigianale: ogni store è differente, come è diverso ogni progetto, l'attenzione maggiore è alla comprensione del luogo in cui ci si trova e al modo per valorizzare quel palazzo o quella via. Forse la storia più affascinante a questo proposito riguarda il vecchio monastero che si trovava tra via Carducci e piazza Sant'Ambrogio: una costruzione iniziata nel 1300, proseguita nel 1800 e terminata nel 1900, dove c'erano suore e monaci, abbandonata, però, da circa cent'anni e fatiscente fino a che non è iniziato il recupero per restituirle una nuova luce. Una porzione è stata sottratta al commercio a favore dell'istituzione di un corso di formazione per i ragazzi che lavoreranno in Ditta Artigianale, ma anche per i consumatori. Formarsi su quel caffè che abbiamo in tazzina, delicata armonia, tra acidità, dolcezza, amaro e corposità, bevanda cantata anche dai cantautori, da Bob Marley fino a Francesco De Gregori, forse mai completamente conosciuta, se non superficialmente, certamente cambiata moltissimo anche solo negli ultimi quindici anni. I motivi sono vari, in primis, i figli di quei contadini che anni fa coltivavano il proprio terreno si sono specializzati, utilizzano nuove tecnologie, quindi la produzione si è modificata, ma non solo.

«Il caffè è l'esatto risultato di due componenti: l'aspetto umano, di cui abbiamo detto, e "madre natura", ovvero l'ambiente in cui è stato coltivato, l'altitudine. In Etiopia, la deforestazione ha raso al suolo interi pezzi di montagna, intere coltivazioni di bambù, altrove, nei paesi latino americani, la "roya" stermina le piantagioni, fa seccare le piante. Certo, è romantico parlare di una sorta di ricetta del caffè rimasta immutata negli anni, ma non è così, non può esserlo». Altro discorso rilevante è quello legato alla sostenibilità, al fatto che spesso chi lavora nei bar, nel nostro paese, è sottopagato, che in Italia un caffè arriva a costare al massimo un euro e cinquanta, mentre all'estero ci si trova molte volte sopra i due euro e cinquanta: una questione su cui bisognerebbe interrogarsi. Non molto tempo fa, Francesco Sanapo ha letto un articolo in cui si parlava della bassissima qualità del caffè italiano: «Potrei dire che quel pezzo abbia creato stupore, in realtà, non c'è da stupirsi: abbiamo iniziato a scegliere materie prime di non altissima qualità e tutto questo si ripercuote, per forza di cose, sulla qualità del caffè, con conseguenti strategie di mercato errate». La voce è alta, decisa, come ad indicare una via da seguire: «La mia idea è quella di riportare il caffè, la mia prima passione, al suo splendore, ai suoi periodi più belli, al sapore dell'artigianalità, della semplicità ma allo stesso tempo della competenza e della professionalità».

Siamo a Firenze e da Firenze, in estate, a giugno, per la precisione il 29 giugno, partirà il Tour de France 2024: un'occasione che cambierà la città, la riempirà di voci, colori e festa, della grande carovana della Grande Boucle, di ciclisti, professionisti o semplici appassionati. Non cambia molto, in fondo, ed il caffè resta elemento presente: ci sono macchinette anche sui bus dei professionisti, è un rito anche per loro, un momento di relax e di attesa. «Non vediamo l'ora di quei giorni, li aspettiamo da quando sono stati annunciati, ci pensiamo, fantastichiamo su quello che accadrà in città. Mi piacerebbe poter trasmettere l'idea di un luogo che non vede l'ora di accogliere, ciclisti e non, di prendere una tazzina di caffè e gustarla, in tre sorsi, dopo aver annusato il profumo che evapora, davanti a loro». Alla fine, basta davvero solo varcare la soglia di Ditta Artigianale e tutto questo accadrà, senza dubbi.


Cycle Café, Cuorgnè

I lidi ferraresi non erano cambiati in quell'estate del 2016. Le valli e le saline erano luogo di esplorazione ed escursione, talvolta l'ideale per il birdwatching, la vista, poi, cercava le pinete e le distese verdeggianti, lì vicino si sentivano i suoni ed i rumori di animali in libertà. Si poteva salire a cavallo, sugli splendidi ed agili cavalli del Delta, esemplari coraggiosi, abituati a resistere alle caratteristiche ostiche della zona, e proseguire al galoppo o al trotto, sotto il sole cocente, riprendendo fiato all'ombra di qualche albero. Addentrandosi nei paesi, tra canali e ponti, magari sul filo dell'acqua, attraverso un'imbarcazione tipica della zona, la "batana". A pochi chilometri, Ravenna, Bologna, Ferrara, Venezia, le loro strade di città, i musei ed il pullulare di voci e vita di una vacanza. Sì, era tutto uguale, anche l'afa ed il caldo di una nuova stagione, eppure Simone Magnino non era lo stesso. Era ormai da qualche giorno in quelle zone, ma non parlava, era sempre assorto, talvolta studiava, altre rifletteva, sembrava altrove, chiuso nella propria persona. In qualche pomeriggio in spiaggia, sua moglie gli aveva chiesto cosa stesse succedendo, se ci fosse qualcosa a preoccuparlo, ad inquietarlo: le risposte erano state evasive, fino a che, un giorno, appena arrivati allo stabilimento balneare, aveva iniziato a parlare e a raccontare tutte le idee che aveva riordinato in quei momenti di solitudine apparente. «Perché non apriamo un'attività per nostro conto? Ho in mente un bar, un piccolo bar caratteristico, che abbini il gusto del caffè ed il vento in faccia della bicicletta. Potremmo chiamarlo Cycle Café, anzi lo chiameremo proprio così, è il nome giusto». Lasciamoli lì e torniamo indietro a tutto quello che era successo prima di quella giornata.

Simone Magnino ricorda bene come, sin da ragazzo, sia sempre stato affascinato dalla figura del barista. Anche nelle serate, nelle nottate, in discoteca, lui restava a guardare la manualità, l'abilità di chi serviva i drink e pensava che "da grande", come si dice quando si è ragazzini, avrebbe voluto imparare quel mestiere, assomigliare, almeno in parte, a quella figura professionale. Ne aveva parlato con un amico, si era iscritto all'Istituto Alberghiero e aveva imparato i segreti del lavoro che, fino a quel momento, conosceva solo dall'esterno. Poi aveva iniziato la sua carriera lavorativa: nei locali notturni, nelle discoteche. «Di ogni giorno l'alba», potremmo dire così, e Simone era diventato il suo sogno: l'immaginazione e la realtà, ora, corrispondevano. L'arrivo della famiglia, la voglia di trascorrere la notte a casa, con la moglie e la figlia, che, oggi, ha dodici anni, il lavoro diventa diurno, in altri bar. Giorni, mesi, anni e qualcosa che si rompe proprio prima delle vacanze estive del 2016. L'esigenza di avere più spazio, di dare sfogo alle proprie idee, di interpretare in modo differente quella professione aveva iniziato "a bussare" e Magnino sentiva di dover "aprire la porta", per restare nella metafora, a quei pensieri.

Si torna ai lidi ferraresi: «Mia moglie restò qualche minuto a guardarmi, sapevo che mi capiva, ma siamo differenti a livello caratteriale e lei cercò subito di smorzare quell'entusiasmo, quella che pareva una boutade. Mi fece riflettere sul significato di ripartire da capo, sugli investimenti, sui debiti a cui saremmo andati incontro, nuovo stress, nuove preoccupazioni. Chi ce lo faceva fare? Non lo so. Sta di fatto che, appena tornammo dalle ferie, iniziai a girare per tutta la città, Cuorgnè, dove sono nato, è vero, ma dove non avevo mai lavorato, alla ricerca di un locale da trasformare nel Cycle Café». Lo trovò a inizio 2017: era un bar chiuso da tempo, anzi, chiuso più volte, con gestioni spesso sfortunate ed in particolare con un'ultima gestione che non godeva di buona nomina fra le persone del posto che, proprio per questo, dopo averlo sconsigliato rispetto a questa nuova avventura, a maggior ragione gli spiegavano che, partendo da lì, l'insuccesso sarebbe stato quasi sicuro.

«Il posto lo fanno le persone. Chi arriva a bere un caffè e chi lo gestisce. Ne avevo la certezza ed ho fatto di testa mai. Se fossi entrato qui in quel periodo, avresti avuto la sensazione di una rivoluzione imminente. Cambiai tutto, in una trasformazione radicale». Per molto tempo i vetri del locale si oscurano, mentre i lavori di ristrutturazione sono in corso. Simone Magnino ha attaccato alle vetrate vecchi fogli di giornali sportivi e soprattutto di riviste di ciclismo, già lette ed ancora custodite. Una sorta di prima traccia, di primo indizio su quello che si sta formando lì dentro. Tutt'oggi il locale è su misura, un abito perfetto per lui e per la moglie: vecchie biciclette, messe a nuovo, sono appese al soffitto, persino le luci ed i lampadari sono formati da ingranaggi o parti di biciclette. L'orologio è, in verità, formato da un cerchione di bicicletta ed anche il portabiciclette, all'esterno, è particolare: sembra quasi che, dove si appoggia il manubrio, inizi il bancone del bar. Il pannello che riporta la scritta "Cycle Café" reca anche qualche autografo di ciclisti passati da quelle parti, su tutti leggiamo il nome di Egan Bernal. Qualunque cosa, in un modo o nell'altro, riporta alla bicicletta, mentre il negozio si completa sempre più e, dalla caffetteria iniziale, cerca di introdurre nuovi servizi: esempio ne sono gli appendini con capi personalizzati, i marchi di abbigliamento da mtb, il noleggio di e-bike e un'altra idea che ronza nella testa di Simone Magnino da qualche settimana, mentre la moglie, scherzosamente, lo avverte di non cacciarsi in nuovi problemi, che non è il momento.

«Sai qual è il punto? Qui ci sarebbe tutto lo spazio per un'officina, ma è difficile trovare un meccanico che possa aiutarci. Se, però, domani mattina arrivasse un ragazzo competente e volesse lavorare qui, gli chiederei di iniziare subito. Noi siamo un punto di passaggio, per chi va al Nivolet, a Pian del Lupo, per chi arriva dall'altra parte dell'Europa o dal paese accanto, e molte volte qualcuno, vedendo il locale a tema bici, si ferma e ci chiede se le aggiustiamo anche: talvolta il problema è semplice, registrare un cambio, sostituire una camera d'aria, e posso aiutarli io, grazie agli insegnamenti di un amico, ma vorrei ci fosse un professionista. Vorrei non dover dire più quella frase: "Mi spiace, non posso aiutarti". Sì, qui starebbe bene un'officina». Forse, la prima volta in cui Magnino ci ha pensato era un giorno di pioggia battente, invernale, in cui un gruppo di ciclisti, nel corso di una gara, sfilava infreddolito da quella strada, verso Como, per concludere il tragitto nel tempo limite di una settimana: allora, a sera, Simone si sedeva al tavolo e controllava, sul cellulare, l'applicazione con i passaggi e, se un partecipante era nei paraggi del bar lo aspettava, magari gli lasciava un sacchetto con qualcosa da mangiare e da bere. A costo di cambiare orario di chiusura, di tornare più tardi a casa. Qualche mese fa, il giorno di Natale, fra i regali, una foto della bicicletta gravel che ha donato alla moglie e, soprattutto, la certezza che, ora, Cycle Café è davvero loro, l'hanno comprato, ci sono riusciti. Passando di lì, a Cuorgnè, in via Ivrea 111, si vede spesso un televisore che trasmette immagini di gare ciclistiche, d'estate la voce arriva anche fuori e sembra di essere in un altro tempo, quello in cui tutti si trovavano al bar a vedere le corse: «Anche una signora di più di settant'anni è restata meravigliata da alcuni paesaggi, quelli della Coppa del Mondo in Val di Sole, sulla neve, e ci ha chiesto se anche in Italia succedono queste cose. Altre volte, qualcuno ci chiede perché chi arriva in fondo al plotone è contento o viene festeggiato dai compagni. A noi piace spiegarlo, perché pure il ciclismo è una questione di cultura. Dovremmo farlo vedere più spesso, regalare libri e riviste di ciclismo, sfogliarle assieme, condividere un giro in bici con la famiglia, con un figlio o con i più giovani».

Quelle pedalate che a Simone, a tratti, mancano: sì, la domenica esce ancora e, quando torna, sta meglio, non a caso sostiene che la bicicletta abbia effetti benefici sia sul corpo che sulla mente, ma spesso il pensiero è rivolto al timore di cadere, di farsi male e, con il nuovo lavoro, non esistono giorni di malattia. Eppure, nonostante questo, nonostante il periodo della pandemia, arrivato solo tre anni dopo l'apertura del locale, Magnino non si è mai pentito di quella scelta, in spiaggia, ai lidi ferraresi: «Mi sono tolto la soddisfazione di partecipare alla Maratona delle Dolomiti, di concluderla e, dico di più, al ritorno, giusto una notte a casa, un passaggio dal bar, a controllare che tutto fosse apposto, per, poi, raggiungere mia moglie mia figlia a Sanremo, al mare. Quasi fossi un professionista che viene dall'altura: gli ultimi ottanta chilometri sono stati un incubo, in una calura soffocante. Mi ha salvato una Coca Cola gelata, acquistata ad una macchinetta, da un benzinaio, e un pacchetto di Haribo, mandate giù "a manate", nel corso di un calo di zuccheri. Sono partito poco dopo le cinque e mezza del mattino, sono arrivato alle diciotto: ero stanco, ma contento».

Qualche settimana fa, ad una fiera, a Rimini, Simone Magnino ha visto delle biciclette su cui erano installate, in un caso, delle carapine per il gelato, nell'altro, tutto il necessario per fare il caffè: «Non serve dire che sono partito in quarta, ho chiesto tutte le informazioni possibili e, ogni tanto, lo ricordo a mia moglie che, come qualche anno fa, mi chiede di non mettermi in testa altre stranezze, talvolta si arrabbia pure per la mia insistenza ma io non riesco ad essere che così. Mi sto immaginando spesso la bellezza del salire con una bicicletta simile sul Nivolet o a Pian del Lupo e stare lì: otto carapine di gelato o un caffè. Sono posti meravigliosi, in cui, però, mancano alcuni servizi. Potremmo portare noi qualcosa. Resta solo da convincere mia moglie». Simone Magnino sorride, è convinto che, con il suo entusiasmo, accadrà presto. Ne siamo convinti anche noi, mentre lassù, al Nivolet, la sera porta un freddo pungente, che fa da contrasto al gelato che, in estate, rinfrescherà le idee di molti. Ed è dalle idee fresche, di mare o di montagna, che si può ricominciare. Cycle Café, nel torinese, ne è la prova.


Le volate, la pista, i Giochi Olimpici: Chiara Consonni a tutto campo

Very very super: bastano queste poche parole per iniziare a ridere di gusto con Chiara Consonni. Una sorta di flashback che riporta, in un istante, all'otto settembre 2019, all'ultima tappa del Boels Ladies Tour ad Arnhem, la prima vittoria World Tour della ventiquattrenne di Ponte San Pietro, non lontano da Bergamo. Un microfono sotto il naso, poco dopo la linea del traguardo, senza tempo per pensare, per riordinare le idee, e Consonni parlava del suo treno, raccontava una sensazione di felicità devastante che le scompigliava le parole, i gesti, persino gli occhi lucidi che, ad intervalli di qualche secondo, stropicciava con le mani, mentre ripeteva ritmicamente "non lo so".
In quelle parole traspariva una visione romantica del ciclismo e della vittoria, espressa in maniera talmente genuina da suscitare un contrasto: «Forse avrei potuto vergognarmi di quell'intervista. Non sapevo quasi per nulla l'inglese, mi facevo capire a stento, mostravo, comunque, una mia mancanza, qualcosa che non conoscevo, e non è facile, temiamo sempre il giudizio per le nostre lacune di conoscenza. In più era una felicità scomposta, non controllata, bambina, e anche quella cerchiamo sempre, bene o male, di controllarla. Sì, forse avrei potuto vergognarmene e, probabilmente, potrei vergognarmene ora, rivedendola, invece ne sono orgogliosa. Io sono così, spontanea, non posso farci nulla: chi guarda quell'intervista vede esattamente come sono. Perché dovrei mascherare e raccontarmi diversamente?». Quel "very very super" è diventato un suo simbolo: ai tempi di Valcar lo aveva anche fatto scrivere sulla sua bicicletta.
La spontaneità pervade l'intervista, per esempio, quando le chiediamo delle prime volate di questa stagione, dei suoi due podi, terzo e secondo posto, dietro a Lorena Wiebes all'UAE Tour, la corsa di casa per la sua squadra, quella che le ha messo qualche tensione, qualche preoccupazione, come sempre "l'essere a casa", pur se ormai conosceva a memoria le insidie, il vento principalmente e pure la salita di Jebel Hafeet, provata sin troppe volte, «ma lì ormai non era più il mio terreno, non dovevo dimostrare nulla, quindi ero tranquilla». Ma, allora, come si batte Lorena Wiebes? Di astuzia, sostiene Consonni. «Devi considerare che parliamo della velocista più forte del momento che, in più, si ritrova come ultima donna del treno Lotte Kopecky: ti pare poco? Mettiamoci anche una ciclista del calibro di Barbara Guarischi. Con Tereza Neumanova e Karlijn Swinkels abbiamo rivisto gli errori e continueremo a lavorarci, soprattutto in gara, perché in allenamento si può migliorare relativamente il lavoro di un treno. Ma sono proprio le volate ad essere cambiate: due anni fa, bastava buttarsi per fare una volata, oggi il livello è così alto che è necessaria una forte preparazione». A giudizio di Consonni, il suo errore principale, negli anni, era quello di prendere le volate da una posizione troppo arretrata per il timore di prenderle di testa: una scelta che, però, impediva di concentrarsi sul proprio sprint per pensare alla rimonta, quando, invece, negli ultimi centocinquanta metri, afferma oggi, bisogna essere davanti e pensare solo al proprio operato, poi accadrà quello che accadrà e, se si viene saltati, ci si riproverà. «Continuo ad avere il giusto pelo sullo stomaco per non avere paura a gettarmi negli sprint e con tutti gli errori che ho fatto sono diventata più consapevole».

Giro d'Italia Donne 2023 - 34th Edition - 9th stage Sassari - Olbiai 126,8km - 09/07/2023 - Chiara Consonni (ITA - UAE Team ADQ) - photo Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2023

Un anno importante il 2024, l'anno olimpico, a Parigi, segnato già da un cambiamento importante a inizio stagione, riguardante il preparatore che, per Consonni, non sarà più Davide Arzeni, detto "Capo" da tutte le atlete del team, ma Luca Zenti. Un cambiamento che, all'inizio, è stato affrontato con difficoltà proprio per la complessità dell'anno in corso. Chiara Consonni non si nasconde: «Capo era ben più di un preparatore, era ed è un punto fermo nella mia carriera, nei primi tempi non volevo questo cambiamento e mi spaventava il fatto che avvenisse a pochi mesi dall'Olimpiade. Era questione di imparare a conoscere Luca, un professionista che sui dati materiali è imbattibile, che ha una conoscenza scientifica amplissima e che, numeri alla mano, mi sta aiutando a migliorare sulle salite brevi, quelle di uno o due chilometri in cui conta la potenza. Mi riferisco a lavori specifici di cinque o sei minuti in salita, ma anche ai lavori sui wattaggi, nel quartetto, in pista, che sono fondamentali. Da qui valutiamo, passo passo, la preparazione». Il pensiero è alla stagione delle classiche, in particolare al periodo delle Fiandre, dove Consonni vuole arrivare al meglio, con un'idea fissa legata alla Roubaix. Descrive la sua prima volta, in realtà la prima volta della gara stessa nel 2020, in una giornata da tregenda, nel giorno della vittoria di Colbrelli, all'arrivo non sentiva più i muscoli, era distrutta, eppure quella gara la affascina. Proprio in vista dell'Olimpiade, il lavoro su pista sarà più che mai importante. L'arrivo di Marco Villa ha cambiato il modo di affrontare la disciplina e, dopo un anno perfetto, il primo, con la vittoria del Mondiale, l'anno scorso qualcosa non è andato come avrebbe voluto. Nel ragionamento si sofferma sul piacere di andare in velodromo, sul fatto che il gruppo pista sia cresciuto assieme, dalla ragazza più piccola di età alla più grande, tutte più o meno coetanee, e su quella prassi presa negli ultimi tempi: «Ogni tanto ci scriviamo su un gruppo whatsapp e ci accordiamo per andare ad allenarci, rispettando le esigenze di tutte. Siamo atlete mature ormai ed è necessario fare così». I cinque cerchi olimpici le fanno tornare brutti ricordi, l'esclusione dall'Olimpiade di Tokyo brucia ancora: «In quell'anno avevo concentrato davvero tutto su Tokyo e, come non sono stata convocata, mi sentivo nel vuoto. Non sono riuscita a seguirla quell'Olimpiade e fatico a parlarne. Devo salvare la parte buona, il fatto di aver capito di dover lavorare ancora per migliorare e per volare a Parigi, ma la parte di dispiacere è lì, in agguato».

UAE Tour Women 2024 - 2nd Edition - 2nd stage Al Mirfa Bab Al Nojoum - Madinat Zayed 113 km - 09/02/2024 - Chiara Consonni (ITA - UAE Team ADQ) - photo Ivan Benedetto/SprintCyclingAgency©2024

Questa volta non farà lo stesso errore: spiega di aver messo anche altri punti fermi nella sua stagione, per fare in modo che Parigi non sia un tutto, ma una parte del tutto: «Questa la filosofia, quel che mi racconto. In realtà so già che se non dovessi essere convocata, starei male come tre anni fa, perché non è un traguardo come un altro. Però credo che questa volta riuscirei a seguirle, a sentirmi, comunque, parte dei risulati e di ogni prova. Quegli allenamenti assieme aiutano». Sì, anche Chiara Consonni, la serenità in persona, la battuta sempre pronta, la risata naturale e contagiosa, attraversa momenti difficile, come tutti, com'è ovvio che sia, se non sembra è perché Chaira stessa ha scelto di raccontare altro, sui social, nelle interviste e nel colloquio con i tifosi: «Non mi piace soffermarmi su quello che non va, che non funziona. quello c'è, si sa che c'è, ma se devo mostrare qualcosa preferisco mostrare altro: un poco di spensieratezza, di leggerezza, per questo tutti mi conoscono così. Come atleti comunichiamo con molte persone e credo sia giusto provare a restituire serenità. Per il resto c'è tempo, quando siamo con le persone più care o soli, a pedalare».


Gaia Masetti vuole assomigliare a Marianne Vos

Nell'ottobre 2021, dopo due anni in Top Girls Fassa Bortolo, Gaia Masetti, a soli vent'anni, a fine stagione, era senza contratto: il passaggio nella categoria under23 aveva portato molti problemi fisici, lei stessa non si riconosceva più, nei pensieri c'era un altro lavoro. Se le cose non fossero cambiate, avrebbe provato il praticantato presso lo studio di qualche geometra, pur dubbiosa, a causa della sua indole di ciclista, di fronte all'idea di stare tutto il giorno alla scrivania, in ogni caso quel curriculum da inviare era già pronto. I rimpianti non facevano parte di quelle giornate autunnali, si ripeteva che più di così non poteva fare e, per rendere il ciclismo il suo mestiere, aveva davvero messo in campo tutto l'impegno dovuto ed ogni rinuncia necessaria. Ricorda che era poco più che una ragazzina, ed il ciclismo era solo un gioco, quando rifiutava ogni invito a ballare, la sera, anche in inverno, per il resto, nessun drink alcolico e le persone accanto a ripeterle: «Gaia, sei giovane. Se non le fai adesso queste cose, quando mai le farai? Lascia perdere il ciclismo, divertiti!». Non le ha mai ascoltate ed è certa di aver fatto bene: «A me non interessava: fosse anche restato solo un divertimento, volevo che fosse un divertimento serio. Non era ancora un lavoro, io, però, mi comportavo come se lo fosse. Difficile da capire e difficile da spiegare, ma io non so fare che così con gli impegni che mi prendo». Il rammarico, invece, era ben presente. Suo padre era stato amatore, aveva smesso rendendosi conto che il mondo amatoriale non gli corrispondeva più, suo fratello, Simone, aveva corso diverso tempo in bici, si era dovuto fermare a causa dell'asma da sforzo, così forte da rendere impossibile una carriera professionistica. Lei, cresciuta a pane e ciclismo, tra le mura di casa, «succede sempre così con la bicicletta», aveva avuto molti dubbi sull'iniziare a gareggiare, in quanto si trattava ancora di uno sport praticato maggiormente a livello maschile: all'improvviso una gara, un'altra, risultati, vittorie e pure l'orgoglio di essere dapprima una bambina, poi, una ragazzina che ce l'aveva fatta, in mezzo a tanti ragazzi. Non avere un contratto significava rimettere tutto in discussione, decidere che anche per lei era finita. Su tutto prevaleva un dolore sottile e pungente, perché aveva sentito quel che alcune persone, a lei vicine, dicevano: «Mi è arrivato addosso tanto schifo. Non ero preparata, non lo meritavo. Erano parole pesanti, di quelle che fanno davvero pensare di smettere. Non è successo perché il ciclismo era più importante, ma quello schifo sputato addosso mi ha fatto male, fatico a non pensarci».

Gaia Masetti  - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©202

Nel giro di un anno o poco più, il quadro era cambiato quasi completamente: il contratto l'aveva firmato con AG Insurance-Soudal Quick Step e, passato qualche mese, aveva capito che, se l'impegno fosse rimasto costante, il ciclismo sarebbe davvero stato il suo mestiere per diversi anni. Nelle prime settimane, tuttavia, a fronte di quel contratto, le difficoltà erano tante, forse ancora maggiori. Il Belgio non è così lontano, però, la prima volta in cui, ad inizio 2022, le è stato detto «al termine del ritiro di gennaio, resti con noi fino al Fiandre», anche Gaia Masetti ha avuto dubbi, timori. «Il carattere delle persone si forma, è qualcosa di dinamico. Il ciclismo per definizione contribuisce a modificarlo ed una delle prime volte in cui avviene è quando fai la valigia e vai lontano da casa per mesi. A molti sembra solo una valigia, in realtà, è enorme quell'istante, uno di quelli in cui ripensi all'essere donna ed alla scelta che hai fatto, che quella valigia ti costringerà a farla spesso. Partivo per tre mesi e, di fatto, partivo con estranei, con abitudini completamente diverse dalle mie e, anche volendo prescindere da questo, con persone che non conoscevo per nulla e con cui dovevo condividere tutto».

Gaia Masetti (ITA - AG Insurance - Soudal Quick-Step) - - Foto Luis Angel Gomez /SprintCyclingAgency©2023

L'inglese è da perfezionare, Gaia Masetti è abbastanza introversa, tende a chiudersi, Jolien d'Hoore, suo direttore sportivo, le confesserà tempo dopo che, al primo ritiro, era talmente silenziosa ed in disparte, che lei non l'aveva quasi notata. «Mi capita di pensare alle volte in cui sono restata attaccata al ciclismo solo per la passione che ho e quel ritiro ne fa parte. Sarei tornata a casa, poi ho pensato a me, al fatto che quello che volevo diventare era più importante, lo era sempre stato». In quei mesi, i genitori, a casa, vedevano le sue gare in streaming: dure, talvolta durissime. Sicuramente si tratta di situazioni a cui Gaia Masetti non è abituata, le gare open a cui partecipava in Italia non avevano nulla a che vedere con la nuova realtà: «La classica gara open italiana prevede circa novanta chilometri con uno strappo di tre, quattro chilometri. La mia prima corsa all'estero è stata la Omloop Het Nieuwsblad: ho sofferto come un cane. Mi sono detta che forse avevo sbagliato a non andare a lavorare». Spiega Masetti che, in un percorso simile, «le mazzate sui denti sono all'ordine del giorno, se non ti stacchi, resti attaccata al fondo del gruppo a bocca aperta, altrimenti ti ritiri e pensi ai tuoi genitori che a casa hanno visto un altro tuo ritiro, l'ennesimo». Si tratta del periodo in cui, al termine di ogni gara, Masetti parla con D'Hoore, le dice che per lei è un altro ciclismo, completamente diverso da quello italiano, votato all'attendismo e all'azione finale, un ciclismo in cui, forse, si è sempre riconosciuta, per questo si definisce "italiana atipica", ma ha bisogno di tempo, deve capire, migliorare, imparare ad usare tutte le energie, con intelligenza, senza risparmiarsi mai, convincersi del fatto che, a forza di fare tutta quella fatica, i risultati arriveranno. Pare impossibile, dato tutto l'acido lattico che, in quei continui sforzi, le invade i muscoli, ma accade. Il 5 maggio 2023, Gaia Masetti conquista "La Classique Morbihan".

Gaia Masetti (Italy) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2023

«Ho detto finalmente. Finalmente quella rabbia e quel dolore che mi portavo dentro per non essere stata capita si erano trasformati in una dimostrazione. Avevo lavorato per mostrare che, quell'autunno, si erano sbagliati e ci ero riuscita. Quella vittoria è stata soprattutto una rivincita. Forse sono fatta male, ma, in qualche momento, penso che vorrei farla vedere a chi mi ha deluso, far vedere cos'è successo». Sorride quando le chiediamo del Tour de l'Avenir, la sua prima volta in maglia azzurra, con atlete che non conosceva, con cui ha subito cercato di fare squadra, uno dei pilastri del ciclismo, nella sua filosofia, una delle più belle esperienze della sua carriera: «Credo di poter far bene su tutti i terreni. Ho scoperto, e non me l'aspettavo, di tenere anche a cronometro. In salite brevi, dai due, tre, ai sei chilometri, riesco a essere incisiva. Non sarò mai una scalatrice da grandi montagne, non è nella mia genetica, ma posso ancora crescere. Mi piacciono le classiche, sogno l'Amstel Gold Race e vorrei assomigliare a Marianne Vos». L'Amstel Gold Race l'ha scoperta alla seconda partecipazione, alla prima l'aveva detestata, odiata. Al ritorno, non solo ha capito che potrebbe essere la gara perfetta, ha anche avuto la certezza di quanto sia vero che il pubblico riesca a farti andare più forte, a fare meno fatica. Quando lo sentiva dire, lo leggeva, faticava a crederci. Marianne Vos, invece, l'ha sempre scrutata, cercando di cogliere ogni segreto, ogni dettaglio: quando, al Fiandre, le si è affiancata per complimentarsi del lavoro della sua squadra non voleva crederci: «Marianne Vos che parla con me? Che mi fa i complimenti? Ma ci rendiamo conto?».

Gaia Masetti (Soudal - Quick Step) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency@2023

Da bambina che guardava il ciclismo in televisione e ammirava l'eleganza di Alberto Contador, insomma, Gaia Masetti ce l'ha fatta davvero e, oggi, per sua stessa ammissione, la sua vita è al novanta percento legata al ciclismo: «Questo tipo di quotidianità tende ad allontanarti dalle amicizie, perché sei all'estero e perché è una vita che è difficile da capire e da accettare. La mia più grande amica mi conosce da anni eppure spesso ha dubitato, non ha compreso. Ora, che è un lavoro, sono aumentate le responsabilità, è aumentato quel che pretendo da me stessa, ma forse è aumentata anche la comprensione dall'esterno». Alle gare, ogni tanto, c'è anche Simone, il fratello: non da molto tempo, a dire il vero. Dopo aver lasciato le corse, a lungo è stato lontano dall'ambiente, abita vicino a Maranello, e lavora in un'azienda che costruisce le scocche per Ferrari, talvolta le fotografa anche, perché è appassionato di fotografia: «Un piccolo passo, ma mio fratello è tornato. Quella macchina fotografica ha iniziato anche a far foto alle cicliste. Averlo lì significa tanto, soprattutto significa poter parlare, confidarsi con sincerità estrema. Sono felice ed anche dispiaciuta perché so quanto avrebbe potuto dimostrare in sella. Però è tornato, va bene così».

Gaia Masetti (ITA - AG Insurance - Soudal Quick-Step) - Foto Luis Angel Gomez /SprintCyclingAgency©2023

Dopo tanti giorni lontana, quando torna a casa, Gaia Masetti prende la bicicletta e va verso Rocca Malatina: lassù c'è solo natura e tre rocce gigantesche, nelle cuffie soft rock e Indie, attorno il silenzio. Mentre lei che voleva diventare continua a diventare quel che vorrebbe essere, una ciclista molto simile a Marianne Vos.


Questionario cicloproustiano di Damiano Caruso

Il tratto principale del tuo carattere?
Schiettezza e sincerità.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La femminilità.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Che la loro amicizia è riferita alla mia persona e non alla mia figura.

Il tuo peggior difetto?
Sono un poco lunatico.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Quando è possibile, dedicare il mio tempo a famiglia e amici.

Cosa sogni per la tua felicità?
Seguire il percorso di crescita dei miei figli.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere la voglia di vivere.

Cosa vorresti essere?
Una brava persona e un buon padre.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Omero.

Il tuo film preferito?
Rocky.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Freddie Mercury.

Il tuo corridore preferito?
Damiano Caruso.

Un eroe nella tua vita reale?
Qualsiasi persona che aiuta un’altra persona in difficoltà.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia moglie.

Il tuo nome preferito?
Oscar e Greta.

Cosa detesti?
L’ipocrisia.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Tutti quelli che sono stati causa di morte di persone innocenti.

L’impresa storica che ammiri di più?
Il sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
La mia, sull’Alpe Motta, al Giro d’Italia nel 2021.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Da nessuna,

Un dono che vorresti avere?
Mangiare senza ingrassare.

Come ti senti attualmente?
Felice.

Lascia scritto il tuo motto della vita
Puoi mentire agli altri, ma non puoi mentire a te stesso.


Bike Academy, Lucca

All'inizio c'era la casa dei genitori di Simone Massoni. C'erano i suoi balconi, le sue finestre e la sua porta d'ingresso, rivolte verso la via dove i passanti erano intenti ad indirizzare la loro giornata e dove i rumori della vita di paese non mancavano mai. Il paese era, in realtà, un paesino, vicino a Lucca, ma fuori dalla città, piccolo, raccolto. Uno di quei luoghi in cui, nei silenzi, si potevano ancora scorgere i suoni, i rumori, i fruscii, che lo scorrere quotidiano porta quasi a dimenticare, a cancellare, oppure a sentire distrattamente, quasi fossero una scontata parte del tutto. In qualche mattina ed in qualche sera di primavera, in qualche pomeriggio d'estate o d'autunno, però, da quella via passavano ragazzi e ragazze in bicicletta, in mountain bike, e lassù, se avessero guardato, dietro i vetri di quelle finestre, su un balcone, sull'uscio di casa, avrebbero visto un bambino con gli occhi sgranati, a osservare. Si chiamava Simone, quel bambino, ed abitava lì. Era intraprendente, potremmo anche dire coraggioso per la sua età. Sì, perché, quando gli anni sono pochi, prendere una mountain bike ed iniziare a pedalare, senza nemmeno dirlo ai genitori, è un'avventura, anche più importante e, forse, meno riconosciuta di tante altre cose che si fanno da grandi, da adulti. E le avventure, si sa, sono fatte di coraggio. Ed anche di paura, è vero, ma questo è un altro discorso.

Anzi, è una storia diversa ma non così diversa. Non fosse anche perché, ad un certo punto, quel ragazzo inizierà a correre in bicicletta e sceglierà la mountain bike come "destriero". Forse quella via, forse suo zio, anch'egli legato alla terra, alle pietre e ai sentieri sconnessi di quella bici "selvaggia". Quando qualche pezzo di quella bicicletta si rompe, si rovina, manca, al ritorno da scuola, va a Lucca, in periferia, da Bike Academy: ha trovato un negozio diverso dalle botteghe a cui era abituato. Lì dentro, incontra Marco Isola, il titolare, con cui, per qualche ragione, entra in sintonia: «Ha visto aprire la porta un ragazzino, così preso dalla sua bicicletta che l'istinto l'ha portato, in qualche modo, a farsi partecipe del mio percorso. Ricordo la volta in cui gli chiesi delle ruote: "Non voglio niente, tienile, poi me le riporti dopo l'utilizzo". E succedeva sempre così». In quel momento nessuno lo sapeva, ma, da Bike Academy, in un certo senso, Simone Massoni non sarebbe più uscito e quello sarebbe diventato il suo mestiere.

C'entra una piccola delusione, una piccola paura. Non passeranno, infatti, molti mesi e Simone parlerà ai suoi genitori dell'idea di comprare una bicicletta da strada. Gli diranno di no e lui tornerà in quel negozio, piccolo e raccolto come il suo paese natale: «Marco, vorrei una bicicletta da strada, però non posso spendere molto. Ne hai una economica? A me va bene anche usata». Marco Isola non resta tanto a pensarci: «Non sto nemmeno a cercarti la bici che mi chiedi. Prendi quella, te la presto io!». Dapprima sarà una bella bicicletta in alluminio, poi, qualche tempo dopo, addirittura la bicicletta stessa di Marco. Non solo: qualche volta anche un completo per correre, qualsiasi cosa mancasse e potesse essergli utile. Passo dopo passo, quei due cementano il rapporto: maestro e discepolo. Il lavoro inizierà d'estate, mentre Massoni va ad aiutarlo, a scuole finite: «Non avevo ancora la patente, così mi accompagnava mia mamma e mi veniva a prendere la sera. Quante mezz'ore ha trascorso in auto, con la radio accesa, ad aspettarmi ed io non uscivo mai perché ero intento a parlare con Marco, a chiedere, ad imparare nuove cose e mi scordavo delle ore che passavano». Dice Simone che, per descrivere Isola, non basterebbero ore: un signore con il classico fare da bottegaio, parola che riporta all'artigianalità di una professione, persona semplice, legata alle origini e con un rapporto raro con i clienti.

Pare che Marco, negli anni, abbia sviluppato una particolare dote nel riuscire a empatizzare con chi arriva in negozio e che, spesso, dica a chi lavora con lui che è importante capire al primo sguardo ciò che desidera il visitatore per riuscire a consegnargli non solo una bicicletta, ma anche la soddisfazione di aver trovato ciò che cercava. Un desiderio di chiunque quando si fa un acquisto, una legge non scritta in Bike Academy. «Non siamo degli indovini, non possiamo prevedere nulla, ma farsi un'idea della persona che si ha di fronte serve soprattutto a metterla a proprio agio. Il rispetto si declina in varie forme: nell'usare un linguaggio semplice con chi chiede quel linguaggio, nel non complicare le cose, nel non mandarlo a casa con le idee confuse. Dove serve semplicità dobbiamo mettere semplicità. Allo stesso modo, però, dobbiamo essere pronti alla complessità, alle tante nozioni, perché qualcuno vuole saperle e ne ha pieno diritto, come noi abbiamo il dovere di essere preparati». Un aspetto importante, quanto difficile perché la sintonia con chi c'è dall'altra parte non si può spiegare, non si può insegnare.

Quel piccolo negozio dei tempi del liceo di Simone ne ha passate tante, tra cui due furti importanti e varie vicissitudini, fino ad ingrandirsi, su un fondo di seicento metri quadrati, quello che ospita tutt'oggi Bike Academy. Un luogo costruitosi piano piano, pezzo-pezzo, nel tempo, che, probabilmente non ha mai avuto un preciso disegno uniforme, dal punto di vista dell'arredamento, dell'imbiancatura, ma è sempre stato unito da qualcosa di differente che ha il suo centro in un certo modo di intendere la bicicletta. Il colore predominante è il grigio, camminiamo su un parquet. Al piano terra troviamo le diverse bici, gli accessori ed i ricambi, l'officina è sulla destra ed ha un ingresso autonomo, in modo che i visitatori possano accedervi direttamente, al bisogno. Al piano superiore, c'è il negozio con ogni tipo di abbigliamento e varie tipologie di occhiali. Poco più in là la zona dedicata al bike fitting, dove lavora il biomeccanico, un ragazzo laureato in Scienze Motorie che si occupa di tutti gli aspetti legati alla messa in sella. In officina troviamo Lissano, il meccanico di Bike Academy, quello degli inizi, affiancato da qualche tempo da Federico. Lissano ha padre italiano e madre originaria della Repubblica Dominicana, proviene dall'endurance e prova a conoscere la bicicletta sotto ogni sfumatura, anche quella legata alla responsabilità: «Ogni tanto ne parlo con Marco- prosegue Simone- poi vado in officina e mi raccomando con i meccanici. Mettere le mani su una bici è davvero un compito delicato: per il costo che ha, per la spesa che sostiene chi l'acquista ed anche e soprattutto per il fatto che viaggerà sulla strada e, per questo, deve essere sicura, è necessaria cura, attenzione ad ogni dettaglio, nessuna negligenza».

In questa direzione vanno anche i primi consigli che Simone ed i suoi colleghi danno a chiunque acquisti una bicicletta: si parla di freni, dell'utilizzo dei fanalini, del radar, dell'abbigliamento all'avanguardia, degli inserti riflettenti, del casco migliore, delle adeguate protezioni. Senza mai prescindere, però, dal fatto che la strada è luogo di condivisione, di rispetto degli utenti più fragili e nulla può ovviare a questo principio che dovrebbe diventare patrimonio comune.

«Un pizzico di dubbio resta sempre. Certe volte non ci sentiamo all'altezza, abbiamo timore di non esserlo. A me succede quasi sempre prima di iniziare la giornata lavorativa e non credo sia necessariamente qualcosa di negativo. Penso, invece, che attraverso quel timore si possa crescere, si possa continuare a studiare, a migliorarsi. Sono certo che quel timore sia il fondamento dell'umiltà di fronte a chi viene in Bike Academy. Mi dicono o mi chiedono qualcosa che non so? Devo ammetterlo e mettermi al lavoro per rimediare alla lacuna, senza fuggire, senza prendersela». Lucca è un luogo privilegiato per pedalare in direzione Versilia, per salire al Monte Serra o al Monte Pisano, per dirigersi verso l'Abetone o andare in Garfagnana, ma è anche luogo di grande passione e competenza ciclistica: «Io direi, innanzitutto, che la prima caratteristica dei lucchesi è di essere "braccini corti", penso ci conoscano in tutta Italia per questo. A parte gli scherzi, qui la bicicletta è vissuta a pieno, abbiamo ex professionisti in città, su tutti Mario Cipollini. Questo per dire che ci piace anche l'aspetto agonistico del ciclismo». Anche Simone Massoni gareggia, fra gli amatori, e, talvolta, accompagna amici alle gare. Qualche settimana fa, ad esempio è stato in Belgio, per il ciclocross, in veste di meccanico: «Se sei attento, in corsa vedi delle chicche rare che, ovviamente, non si trovano nella quotidianità. Io osservo ancora meravigliato e poi cerco di "rubare" qualche segreto che porto nel mio mestiere». L'interesse è genuino come la sorpresa, nonostante le ore ed ore vissute a contatto con il mondo della bicicletta e con ogni suo ingranaggio: «Qualcuno che ha fatto questo stesso lavoro per anni e, successivamente, ha cambiato settore, mi ha confessato di essersi allontanato da questo ambiente, di far fatica anche solo a riprendere in mano una bicicletta. A me non sta succedendo, mi auguro che non accada mai e, in un certo senso, sono certo che non accadrà, perché il mio legame con questo mezzo viene da troppo lontano».

Marco Isola, oggi, lascia sempre più spesso spazio a Simone, alle sue idee, ai suoi progetti: per esempio il sito internet di Bike Academy, qualcosa che Marco pensava da tempo, ma che ha realizzato veramente solo con l'arrivo di Massoni. Oppure al noleggio, un'altra possibilità di familiarizzare con la bicicletta e partire, per un viaggio o per una gara. «Il nostro è un essere a disposizione. A me piace interpretare così lo stare in negozio o in officina: la possibilità di esserci per il bisogno di qualcun altro. Di dare una mano, di aiutare a risolvere un problema o a scegliere». Nello spazio antistante al locale, c'è qualche macchina: chissà se c'è qualcuno a bordo, chissà se sta aspettando un figlio, un parente, un amico, all'interno del negozio, magari a chiacchierare, come qualche anno fa faceva Simone che, ora, è la voce narrante di Bike Academy.


Cicli Mattio, Piasco

Tutto è iniziato nel 1996, a Piasco, «un paese che pare dimenticato da Dio», poco più di duemilaottocento anime, il primo paese sulla strada che porta al Colle dell'Agnello, le montagne ad un soffio e "l'anima di legno", quello delle piante che con le loro radici sostengono le vette, lassù, dove in questo strano inverno la neve si fa desiderare. Piasco, ovvero il "paese delle arpe" e delle loro corde che pizzicate emettono il classico suono angelico, morbido, delicato, quasi magico. A circa duecento chilometri da qui, a Sanremo, Gabriele Colombo, il 23 marzo, conquistava la "classica di primavera", la Milano-Sanremo, davanti ad Oleksandr Hončenkov e Michele Coppolillo; da queste parti, invece, in un locale grande come il soppalco, dove, seduti su degli sgabelli, appoggiati ad una botte, trasformata in un piccolo tavolo, dialoghiamo, Silvio Mattio ricominciava. Aveva ben poco con lui: qualche chiave a brugola, qualche chiave a filiera inglese, una cassetta Campagnolo, «che all'epoca costava quattro milioni e mezzo», e un cavalletto, ma bastava questo per lavorare su qualunque bicicletta arrivasse in negozio. Anche il bagno era all'esterno, d'inverno l'acqua gelava e chi si trovava lì a lavorare, se aveva necessità di usufruire della toilette, doveva chiudere il locale e tornare a casa. All'interno, i metri quadri erano pochi, è vero, eppure le mensole, dove si esponevano gli oggetti e gli ingranaggi, sembravano sempre scarne, allora si riempivano gli spazi con le scatole vuote degli articoli già in mostra. In quel paese, qualcuno gli aveva detto che, ormai, nessuno sarebbe più andato in bicicletta, perché «ci sono le macchine», qualcun altro l'aveva avvertito: «Se ce la farai, ti considereranno un evasore, se non ce la farai ti daranno dell'incapace. Il merito non te lo riconoscerà mai nessuno». Terzo di tre fratelli, lui aveva fatto, parafrasando il gergo ciclistico, qualcosa di simile a Colombo alla Sanremo o, forse, a suo fratello Claudio, detto "Giari", "topo" in dialetto piemontese, che aveva iniziato a correre in bicicletta a seguito di un problema all'anca. "Giari" non era molto alto di statura, così tendeva agguati quando nessuno se lo aspettava e il vento contro avrebbe respinto chiunque, «figuriamoci lui, che sarebbe dovuto rimbalzare, invece vinceva». Una follia, insomma.

Suo suocero l'aveva preso da parte e gli aveva parlato, mentre Silvio pensava all'opportunità di usare a questo fine i trentacinque milioni di liquidazione dal suo precedente incarico in Michelin, appassionato di auto, fine conoscitore della meccanica dell'automobile, probabilmente sulla scia dell'altro fratello, che gareggiava nei rally e seguiva la Formula1: «Un posto a casa lo hai, comunque vada. Credo tu debba provarci, altrimenti non lo farai più». La meccanica delle biciclette è certamente più semplice di quella delle macchine, Silvio Mattio si sente a proprio agio con le mani fra l'olio e gli ingranaggi: «Avevo imparato molto bene a fare le ruote. Ricordo che l'incrocio dei raggi era particolarmente complesso, eppure mi piaceva lavorarci. Del resto, del ciclismo mi ha sempre affascinato il fatto che sia l'esatto opposto di ciò che è scontato, dell'ovvio. Puoi non essere il più forte, ma non partirai mai con la certezza di arrivare secondo, perché vincono anche i gregari, talvolta gli sfortunati, spesso i dati per sconfitti in partenza. Sembra romanticismo, è realtà». Quel romanticismo che parrebbe spazzato lontano, quando Mattio esclama: «Ho pensato almeno cento volte, in realtà molte di più, di chiudere tutto e gettare le chiavi da qualche parte, in modo che fossero introvabili. Non mi vergogno a dire che ho fatto assegni postdatati per molti anni della mia vita. Ho pensato di abbandonare tutto, ma, quando arrivi ad un certo punto, non puoi nemmeno più lasciar perdere. Hai troppe responsabilità addosso». Invece ne esce rafforzato, come tutte le cose vere.

Da quel negozio, se ne formeranno due, poi tre, poi ancora due ed infine uno solo, più grande, quasi duemila metri quadrati di superficie, quello in via Donatori di Sangue, numero uno, dove ci troviamo, sempre a Piasco, non lontano da Cuneo. Nei primi mesi del 1996, erano molti i giorni trascorsi in banca, a chiedere liquidità, ma anche in quel 2010 in cui è nata questa sede le cose non erano facili. Si trattava del periodo della crisi del sistema bancario e i Mattio avevano da pagare idraulici, imbianchini, falegnami, fabbri, tutte persone che avevano dato forma a questi locali.

Il legno alle pareti è la cornice di Cicli Mattio, perché fa casa ed è un richiamo al paese, alla montagna e alla campagna, qualcosa di familiare: alle pareti del soppalco qualche ritaglio di giornale, qualche foto, poco più in là una libreria, dove ci sono riviste, ma anche libri. Non solo di ciclismo: romanzi, novelle, avventure. Ogni tanto qualcuno ne chiede uno in prestito, lo porta a casa, lo legge e lo restituisce, con sottile orgoglio di Silvio. Un tavolino ed i divanetti completano il quadro. Altrove solo biciclette, di media e alta qualità: «Il centro sono loro. L'arredamento doveva essere semplice per mettere chiunque a proprio agio. Vedi le luci là in fondo? Erano del vecchio negozio, come molte delle vecchie maglie appese e altri oggetti. Questo locale è nato a pezzi, è una sua caratteristica, a richiamare lo spirito di adattamento che abbiamo scritto anche sulle nostre magliette». L'officina è valorizzata, in un locale a parte, con accesso separato, al piano superiore gli usati, il magazzino e gli imballaggi. Il grande tavolo della sala riunioni è utilizzato anche per il pranzo dei dipendenti e gli spogliatoi sono dotati di doccia e stendino: «Parliamo spesso dell'importanza di utilizzare la bicicletta: parole sante. Ma il problema sono sempre state le infrastrutture: non dobbiamo solo chiedere alle persone di pedalare, dobbiamo metterle nelle condizioni di farlo. Una doccia sul luogo di lavoro può aiutare, ad esempio. Un fatto che segue alle parole». Piasco è legato a doppio filo al ciclismo, merito di due squadre cittadine, il Velo Club Esperia Piasco, nato nel 1972, Elisa Balsamo è passata da lì, ed il Team Vigor, nato vent'anni dopo, segnate da una sana rivalità sportiva. Negli anni, hanno vestito quelle magliette migliaia di ragazze e ragazzi, di bambine e bambini, pochi oggi sono professionisti e hanno fatto del ciclismo il proprio mestiere, ma non conta: «Una corsa ciclistica dura quattro, cinque, fino a sei o sette ore. Quante cose passano nella mente in tutto quel tempo? Ancor di più in una corsa a tappe in cui ogni giorno è un capitolo nuovo, già intriso della fatica dei capitoli precedenti. In un istante si sente di potercela fare, nell'altro ci si chiede come si arriverà al traguardo, un pomeriggio si attacca e nell'altro si maledice chi, là davanti, allunga il plotone, mentre i muscoli chiedono pietà e l'acido lattico ti divora. Non succede anche in una qualunque nostra giornata? La gente aspetta ore sui tornati perché lo sa, perché anche noi persone comuni facciamo di tutto per "andare avanti", per resistere un altro giorno o un'altra ora. Allora capiamo quei meravigliosi gladiatori in sella». E Cicli Mattio è anche un luogo di comprensione e di ascolto. Non a caso, Silvio lo descrive come una sorta di confessionale ed ogni tanto si alza, va a salutare un cliente, qualche domanda, una pacca sulla spalla, talvolta un abbraccio, vecchi amici o nuove conoscenze. Ogni tanto senti qualche cliente sorridere o ridere di gusto, sono i suoi aneddoti a scatenare la risata.

«Qui le persone si raccontano. Magari si sfogano per i problemi a casa, perché la moglie non vuole che escano in bici o che l'acquistino. Altre volte sono le prestazioni a frustrarli o il dubbio, quando si accingono a comprare una bicicletta costosa, di alto livello. Forse non fa per loro, ma un ciclista è un appassionato, sceglie sulla base della bellezza e di un richiamo primordiale che non si può contrastare. Alla fine lo dico: "Non credi di meritartela?". A quella domanda escono tutte le fatiche, le sofferenze e i problemi della quotidianità, ti guardano ed esclamano disarmati: "Sì, me la merito, senza dubbio". Sono nati così quegli "zainetti" con quella scritta». Spiega Silvio Mattio che, alla fine, è questa la parte più bella del suo lavoro, una parte da tenere sempre ben collegata a un principio: al visitatore bisogna consegnare ciò che gli serve, non ciò che si vuole vendere a tutti i costi. Altrimenti non si manca solo di professionalità, ma si è anche scorretti, a livello etico.

Silvio Mattio ci accompagna in officina, dice di volerci mostrare i meccanici all'opera: «Senza tutte le persone che lavorano qui e senza i miei soci non ci sarebbe nulla di tutto quello di cui ti ho parlato. Non sono io il protagonista, si tratta di un'attività corale con alla base regole ben precise, declinate e appese alla parete: sicurezza, amore, competenza, responsabilità ed empatia. L'errore ci sta, siamo umani, non tollero, però, la sciatteria, la mancanza di cura e di voglia e quando le noto grido, ah, se grido». L'officina è il luogo in cui, da bambini, sono cresciuti i suoi tre figli: Mattio spiega che molte cose pratiche, della bicicletta e non solo, le hanno imparate dai meccanici, dalle ore in cui restavano ad osservarli e da quanto si divertivano. Al sabato partecipavano alle gite aziendali, momenti utili a fare gruppo, a smaltire le piccole tensioni che possono generarsi sul lavoro. Poi, tutti e tre, hanno corso, Pietro gareggia ancora, quest'anno con la Visma-Lease a Bike, ma, tutt'oggi, quando possono vengono qui a dare una mano: «Ho sempre detto a loro quello che dico a tutti i giovani: non ditemi che non potete studiare, se pedalate. Certo, dovrete fare a meno di qualche momento libero, ma è la vita e, nella vita, un piano b è essenziale. Mentre gli alibi sono da bandire, sempre». Fu proprio Pietro, però, durante una gara in notturna, in maglia Vigor, da ragazzino, a dare una lezione a suo padre. Quella sera, Pietro inseguiva una fuga, in un circuito, assieme ad un altro ragazzo del Velo Club Esperia. Silvio arrivò in moto, in ritardo, trovò un varco tra le transenne e, dopo qualche giro, vedendo suo figlio sempre in testa a tirare ed il margine che non si riduceva, gridò all'atleta di Esperia: «Potresti anche dargli un cambio, ogni tanto». La gara finì, Silvio e Pietro si ritrovarono e fu proprio Pietro a prendere la parola: «Sai una cosa, papà? In quel frangente ero sempre io in testa, dall'altro lato del circuito, però, era lui a fare il ritmo. Perché hai parlato senza sapere le cose? Quel ragazzo non ha nulla da rimproverarsi».

Silvio Mattio sta in silenzio, ci pensa, i suoi occhi cambiano: «Ci illudiamo di aver visto la gara e vediamo qualche metro. Noi genitori siamo quasi tutti così. Dobbiamo cambiare, dobbiamo capire che è il divertimento dei nostri figli e devono viverlo a modo loro, senza intromissioni o giudizi». Ancora qualche racconto, proiettato nel futuro, all'orizzonte, infatti, c'è aria di cambiamento: la zona abbigliamento sarà più in vista, ad esempio. Poi, Silvio, apre la porta dell'officina e, là, in fondo, c'è Pietro intento a sistemare la propria bici, tornato da pochi giorni da un ritiro e pronto a ripartire, per la nuova stagione. Padre e figlio si avvicinano, guardano quella bicicletta, noi ci spostiamo, li osserviamo da una postazione appartata. Un altro giorno di lavoro si è concluso e, come sempre, a sera, ci si ritrova.


Štybar bedankt

L’ultima pietra, quella della Roubaix, Zdeněk Štybar non è riuscito a portarla a casa. Una carriera, su strada, con un chiodo fisso: vincere L'Inferno del Nord. Lo spazio, in bacheca, l’avrebbe trovato: quello spazio sembrava pronto per essere riempito già nel 2013, 6° dopo essere stato in lotta con i migliori. «Ero davanti con Cancellara e Vanmarcke, avevo le mie chance, sono veloce e ho pensato di farcela. Ho urtato uno spettatore, o era un fotografo, poco cambia, se non che ho perso l’attimo giusto. Cinque secondi, forse dieci…» ed ecco che il treno buono se ne va. Arriva sesto ma con in testa il pensiero di tornare a vincere. Nella stagione dopo, ormai una vita fa, Zdeněk Štybar c'arriva fresco del suo terzo titolo mondiale nel ciclocross a Hoogerheide, il primo lo aveva conquistato proprio a Tabor nel 2010, a Tabor dove, pochi giorni fa, ha certificato il suo addio al ciclismo. In quella Roubaix vinse Terpstra («ho vinto, come compagno di squadra, la Sanremo di Alaphilippe, la Roubaix con Terpstra e Gilbert, il Fiandre con Gilbert, mi ritengo soddisfatto da questo punto di vista») e Štybar chiuse 5°, dopo avere difeso in tutti i modi l’allungo del corridore olandese; fu 2° la stagione successiva, forse il miglior Štybar mai visto su quelle strade, dove riuscì a portare ai massimi la sua attitudine cresciuta a pane e fuoristrada: venne battuto in volata soltanto da un John Degenkolb in stato di grazia, che poche settimane prima aveva trionfato alla Milano-Sanremo. Nel 2016 la Roubaix la disputò nonostante fosse ammalato, durante la gara gli sembrò di essere uno di quei marinai imbarcati senza una data di ritorno: sconfortato e pieno di nostalgia di casa. Roubaix non fu mai così lontana, così dura, travolgente come un destino infame che ancora una volta gli volse le spalle. E nel 2017, ancora 2°, arrivò per l’ultima volta così vicino (fu 9° nel 2018 e poi 8° nel 2019, sempre però a distanza dai primi) a portarsi a casa quel pezzo da museo, battuto allo sprint da Greg Van Avermaet, precedendo Langeveld, Moscon e Stuyven quest’ultimi due piombati sul terzetto davanti soltanto una volta entrati nel velodromo. Ha vinto una Strade Bianche, la corsa che più si avvicina a quello che è sempre stata la sua predilezione, amava il Fiandre per la sua atmosfera, ma sui muri fiamminghi non è mai riuscito a esprimersi come voleva: tre volte nei dieci con il miglior risultato l’8° posto del 2016.

Per l’addio alle corse, Zdeněk Štybar, elegante in bici come ai microfoni, ha scelto proprio il suo primo amore, il ciclocross, ha scelto proprio la corsa di casa, Tabor, ha scelto quel tipo di competizione, il Mondiale, vinto tre volte, che lo ha consacrato, nei primi anni del 2010, come uno dei più forti interpreti della disciplina. Ha chiuso in lacrime, con gli occhi gonfi così, prendendosi la giusta ovazione del pubblico, dicendosi dispiaciuto per non aver trovato un contratto per questa stagione su strada: «Ma tra un’operazione al cuore, una all'arteria iliaca, il Covid avuto quattro volte, capisco sia andata così. Peccato, perché ho sempre lavorato duro per tornare ai miei livelli e non ero pronto per chiudere già quest’anno». Avrà tempo, però, per dedicarsi ad altro. «Prenderò uno zaino e partirò sei mesi in solitaria in India dove cercherò delle risposte che probabilmente non avrò, ma di sicuro troverò la pace. Poi mi dedicherò interamente alla mia famiglia prima di prendere una decisione sul mio futuro. Gli ultimi anni sono stati duri, non solo per me, ma anche per casa, e ora è tempo di dedicarmi completamente a loro. Mia moglie ha avuto problemi di salute, ha abortito due volte e pochi mesi fa ha subito un intervento chirurgico. Per diversi motivi la nostra relazione ha sofferto seriamente, ma stiamo insieme da vent’anni e abbiamo deciso di andare avanti: sarebbe un peccato se dicessimo: “ora basta”». E poi c’è anche il loro figlio a cui è stato diagnosticato l’autismo e che lo ha seguito proprio a Hoogerheide qualche settimana fa, nella sua penultima uscita nel ciclocross a livello internazionale. «È stato un momento magico, quando inizialmente gli ho chiesto di venire mi ha risposto fermamente di no, credo che tutto ciò abbia a che fare con la folla e con il fatto che tante persone si fermano a parlare. Poi ha deciso di venire ed era felicissimo». Ci mancherà la sua classe, grazie Štybi, ma come pare, stando ai si dice, ci vedremo presto in ammiraglia.