Mutazioni sensibili
Muta il cielo sopra di noi, sembra più vicino più in alto ti spingi. Muta il paesaggio sotto i nostri occhi, muta al passaggio dei corridori. Estensioni di campi a perdita d'occhio, cime da verdi a innevate. Gente, sempre. Striscioni, una costante.
Mutano le bici, quelle di tre ragazzi appassionati di ciclostoriche sono degli anni dei pionieri: «una volta esistevano solo tre marce: in sella, fuori sella e piede a terra» raccontano.
Muta la montagna valdostana attorno a Cogne, con i suoi giacimenti minerari. Sembra friabile e dà il via all'arte dei lauzeurs. Avete presente la particolarità dei tetti sulle case in Valle d'Aosta? Ecco. Posatori o copritori, da queste parti dicono “la montagna portata sui tetti”.
Muta l'atteggiamento del gruppo, un essere complesso composto da unità multiformi.
Muta il Giro che esplode in una tappa di mezza montagna e invece quando arriva in montagna dorme un sonno leggero, ma complicato.
Muta la forma di Giulio Ciccone, muta il suo Giro, ma non dovrebbe mai mutare la sua indole d'attaccante. Un cambiamento strano perché ritorna a quello che era in origine, un corridore in fuga, dalle gambe nervose. Da tappe in salita, da vittorie in solitaria.
Muta la sua tappa, entra in fuga, insegue, e poi la spacca. Attacca: non c'è mai nessun modo per essere Ciccone. Muta la corsa. Non per gli attaccanti. Loro non mutano mai.
Non muta, finalmente, per Ciccone. Ha cambiato ed è tornato. E ora, magari, non cambierà mai.
Uomini di mondo
La vittoria di Oldani attraverso i sensi di Genova
Un silenzio particolare cala sul traguardo di Genova mentre Stefano Oldani, Lorenzo Rota e Gijs Leemreize imboccano il viale in leggera pendenza che li porta al traguardo. È quel silenzio che si può distinguere anche in mezzo a tanto rumore, quello degli occhi che, mentre scrutano per capire cosa accade, sembrano inibire la parola. Uno strano legame di senso. La città brulica ma la gente, per qualche attimo, guarda solo senza fare nulla.
E sono gli occhi a cercare, abili segugi. Stefano Oldani controlla Leemreize e risponde ad ogni attacco, ad ogni anticipazione di tempesta, poi parte e non lascia a Lorenzo Rota che la possibilità di seguirlo senza quasi poterlo affiancare. Ci siamo chiesti spesso cosa si provi quando ci si sente impotenti in sella, quando vai ma non vai, quando il movimento non è fuga, salvezza o ritorno, ma condanna, asfalto che trattiene, calura che scioglie. Rota, dopo una giornata in fuga, deve avere provato questo.
Oldani vince, si sdraia a terra, si mette su un fianco, quasi a dare aria ai muscoli e piange. È lì, sdraiato e accerchiato da fotografi e giornalisti: non si vede nulla, solo un insieme di persone che guardano, qualcuno lo applaude con le mani sopra la testa. Notiamo una ragazza, dall’altro lato delle transenne, che si abbassa e guarda sotto, nello spiraglio delle transenne e in mezzo al groviglio della gente. Lei ha voluto e potuto vedere solo così Oldani, dopo la vittoria. Lei ha cercato di vederlo così, nelle fessure, nelle pieghe, nel caos. Sono gli stessi occhi segugi, quelli che hanno fatto silenzio in mezzo al rumore. Quelli di cui il ciclismo è pieno.
Pensate alle bandiere dell’Eritrea stamattina a Parma e questo pomeriggio a Genova. Verrebbe da chiedersi perché così tante proprio ora che Girmay non è più qui. Noi lo chiediamo e ci chiedono se davvero crediamo non sia possibile tifare per qualcuno che non c’è, poi aggiungono che quella è la bandiera dei vincitori. Una bandiera legata a un ramo, chissà se di un albero di queste zone o di chissà dove, con un pezzo di cartone attaccato sopra: «Forza Eritrea!». Una piccola lezione: basta strappare un pezzo di cartone, un pennarello, un appiglio e puoi dire a tutti ciò che pensi, quello in cui credi.
Nella giornata delle fughe, nella giornata in cui si è passati dal Passo del Bocco, quella in cui si è ricordato Wouter Weilandt e il suo numero che non è più solo un numero, le persone a Genova hanno usato tutti i loro sensi per arrivare anche dove non si può o dove si credeva di non potere. A costo di sdraiarsi per terra e sbirciare da una transenna fra i passi dei tanti fotografi: la vittoria di Oldani è bella anche da lì.
Potenza e fantasia
Ci voleva estro, un colpo di fantasia per farsi piacere la tappa di oggi. Ci voleva potenza per sfuggire al piazzamento su quel rettilineo dove una bava di vento ogni tanto portava refrigerio all'ennesima giornata calda. Perché più sali verso il nord e più pare di soffocare, l'asfalto ribolle e i corridori in gruppo hanno di che temere: contro queste temperature non c'è riparo. Nemmeno se freni o corri veloce. Niente.
C'era bisogno di furbizia, o chiamatela sapienza. Conoscenza delle leggi della fisica: prendere la scia giusta e saltare gli avversari stremati verso il traguardo in una delle tappe più veloci della storia del Giro. Ci voleva in fondo, un po' di fondo, di velocità, scaltrezza e doti non comuni.
Ci voleva senso del dovere e passione per seguire una tappa pianeggiante, noiosa, quasi spocchiosa e inefficace, ma il Giro è anche questo, strappa applausi e sbadigli: per chi lo segue in gara è attraversare città, colline, costeggiare il mare, salire passi e infilarsi dentro centri storici; per chi lo segue per strada è aspettare il gruppo che passa per pochi secondi, applaude e poi scompare nei portici come succede a Forlì verso l'ora di pranzo. Si chiama passione, oppure curiosità.
Ci voleva estro per diventare un grande scalatore nascendo sul mare. Siamo partiti, con la nostra giornata Alvento, da Cesenatico. Doveroso. Ieri a salutare Scarponi a Filottrano, oggi a rendere un omaggio a Pantani.
Ci voleva coraggio, o le leggi del gruppo che ti mandano in fuga sapendo come il tuo destino sarà quello delle prede coscienti di essere braccate: così per Rastelli e Tagliani. La legge del gruppo che poi è la legge del regno animale da cui evade, con estro, Dries De Bondt scatenato: per un attimo ha pensato persino di farcela, per spingere più forte, quando si voltava dietro e vedeva il gruppo, quella vaga e incomprensibile macchia multiforme, si sarebbe appoggiato sul manubrio persino con i denti. Avesse potuto.
C'è voluto un rettilineo, qualche sbandata, un treno, un rallentamento, qualche gomito e poi una volata. Ci voleva Dainese a farci saltare sulla sedia: «Ha vinto Gaviria! Ha vinto Bol! Ma no ha vinto Dainese!» Che è spuntato da dietro all'ultimo, all'improvviso. Con le doti di chi sa scrivere un finale ma troppo spesso gli è rimasto sulla punta della penna.
«La volata è venuta fuori un po' così» ha raccontato con quel suo fare sempre umile e costante, a fine gara, lui che diceva a inizio stagione che se non avesse vinto avrebbe iniziato a pensare a fare altro. Ad esempio il pesce pilota. Oggi il suo pesce pilota è stato Bardet.
Di gran carriera, Dainese, per una gran carriera, lanciata da lontano come una volata. Fatta con potenza e fantasia, ideale per farsi piacere una giornata piatta, calda e veloce, come quella di oggi. E alla fine godereccia come la bella Reggio Emilia.
La festa di Filottrano e Girmay
L’arco che porta al centro di Filottrano conduce ad un’altra dimensione: la festa. Qui usano molto questa parola: «Facciamo festa» e apparecchiano un tavolo con bicchieri e piatti di plastica, pane, salame e una bottiglia di vino rosso. Insieme. Si aprono le porte dei negozi per far spazio a più persone sul ciottolato del centro e la corsa è davvero ovunque. Un universo parallelo legato al paese come i palloncini che vengono liberati al passaggio del gruppo, che sono legati ai polsi delle persone ma, in realtà, sono le persone a essere legate a quei palloncini. Per come li guardano mentre orgogliose li lasciano volare via e vi dicono: «Questo è il mio paese».
Parlare di Michele Scarponi è difficile o forse sin troppo facile. «Era come noi» ed oggi ci sembra più vero che mai. Perché abbiamo rivisto queste persone mentre fanno un occhiolino, mentre guardano la corsa in un bar e non riescono a non commentare, mentre gesticolano, anche mentre dicono tutto in maniera così spontanea che ti chiedi se, poi, non sia più semplice. Persino nelle rughe di espressione che ricalcano le forme che il viso prende spesso: il piacere e la fatica. Mentre gridano per l’arrivo del gruppo che è ancora lontano ma chiunque passi lì in mezzo si sente atteso. E Pavese aveva ragione: da ragazzi si può pensare che il proprio paese sia il centro del mondo, girando tanto, poi, ci si accorge che tutti i paesi sono così perché il mondo è fatto di paesi. Quanto ti eri sbagliato? Quanto avevi ragione?
Il gruppo va via da qui mentre poco più in là, nei bar, si parla della fuga ripresa e i ragazzini prendo i gelati e li scartano in piazza. I giornali sui tavoli, aperti, spalancati e sfogliati e il classico odore della carta assieme al suono della lattina Coca Cola che viene aperta. «Vuole vincere per Michele» dice il proprietario quando Nibali prova ad allungare. «Gliel’ho detto io» aggiunge indicando la moglie. E appena scatta qualcuno ci si mette in punta di sedia, si appoggiano i gomiti sul tavolo e si proietta il corpo in avanti, come un ciclista su una salita, meglio su un muro o uno strappo da queste parti.
Lo stesso accade sul bancone del bar mentre Biniam Girmay parte in volata e Mathieu van der Poel gli prende la ruota. Sembra quasi un percussionista van der Poel, un percussionista che per unico strumento ha la bicicletta, insiste e si gasa mentre il suo viso prende proprio la forma dello sforzo. Deve cedere prima del tempo perché Girmay è sempre più avanti e qualunque movimento sembra inefficace. Cede alla sua maniera: quella degli attacchi folli, delle imprese incredibili, dei colpi geniali e delle batoste. Si siede e alza il pollice: «È tua». Poi lo abbraccia.
Si parlava di paesi. Asmara, la città natale di Biniam Girmay, è certamente più grande di Filottrano ma è comunque un paese, una città, e somiglia agli altri perché ti permette di essere aspettato, di riconoscerti, di riconoscere.
Accade a Girmay, il primo ciclista africano di colore a vincere una tappa al Giro d’Italia, che nei suoi tifosi riconosce le sue stesse epressioni, i modi di fare e persino di gioire. Accade a Filottrano, in cui, dopo la corsa, le persone tornano al lavoro e lo fanno con la stessa dignità, lo stesso orgoglio, con cui hanno festeggiato. Insieme. E chi manca, nel paese, è atteso e non manca mai del tutto.
Forti e gentili
Forte e gentile si dice così degli abruzzesi e te ne accorgi dalla quantità di gente che ti ferma su Passo Lanciano e ti stringe la mano. Ti raccontano di tutto: chi del suo passato da ciclista, chi di quando correva contro Ciccone da bambino, chi della propria squadra del cuore, chi ti spiega nel dettaglio tutti i versanti per arrivare in cima alla Majella.
Ti parlano delle differenze esistenti tra un versante per arrivare in cima al Blockhaus e l'altro; chi ha vinto dove e quando. "Da lì vinse Merckx", "Qui su vinse Basso". "Lì, Di Luca fece il diavolo a quattro contro Menchov. E se c'era ancora un chilometro, il russo quel giorno sarebbe tornato a casa con una gamba su e una giù".
Ti offrono birra, vino e arrosticini e se la prendono nell'intimo se osi di dire di no, anche se gli spieghi che ne hai mangiati una decina prima arrivando su: "ma provate questi che sono più buoni, anzi se stasera andate giù a Pescara... quel signore lì, lo vedete? ha un ristorante dove fanno gli arrosticini più buoni di tutto l'Abruzzo".
I nomi pure da queste parti, sono forti e gentili: Lettomanoppello, Pretora, Roccamorice. Da lì partono i versanti per arrivare in cima alla “Montagna Madre”. Venerata e adorata dagli abruzzesi.
In cima a Passo Lanciano aprono la strada centinaia di amatori. La bicicletta prende possesso della montagna e unisce. Un gruppo di ciclisti di diverse parti d'Europa fa amicizia e si ferma a un ristoro e dopo qualche ora sono ancora lì con il tavolo pieno di birre vuote e rimasugli di porzioni di arrosticini. Mauro, cuoco di uno dei rifugi in cima ci apre le porte della sua piccola cucina dove prepara da stamattina presto la carne nei tipici bracieri a canalina. Si ferma a chiacchierare e non sa dirci quanti arrosticini ha già cucinato in queste ore: «Di gente ne è venuta tanta, ma speravamo anche qualcosa in più, purtroppo però già da ieri han chiuso le strade: qui d'inverno vengono così tante persone a sciare che le macchine sono parcheggiate una sopra l'altra». Con il suo accento abruzzese, forte.
Forte, molto forte, oggi è stato Diego Rosa. “Gamba paurosa” dicono i tifosi che attendono il suo arrivo cercando di capire da smartphone e tablet quanto manca al passaggio. Prova la fuga da solo, poi in compagnia, vuole la maglia azzurra. Quando la fuga si spacca lui la riprende. Quando Tesfatsion in fuga con lui cade, non si turba. La sua sorte è segnata, ma va bene così, ci saranno altre volte in questo Giro dove mostrare la sua forza, il suo viso, dai lineamenti così gentili.
Porca Majella, ti viene da dire poi, ripetendo divertito uno striscione e osservando poi il gruppo dei migliori riprendere Rosa e salire verso l'arrivo del Blockhaus. Porca Majella, gustosa, grondante fatica come quei pezzettini di carne infilati in un lungo stuzzicadenti che i ristoratori offrivano persino ai ciclisti che assiepavano la terribile salita abruzzese. «Prendine uno! Prendine uno!», urlavano.
Forte e gentile, il viso di Pozzovivo: lasciateci dire di quanto forte è andato. Ha un'età che potrebbe fare tutt'altro eppure resta lì a soffrire. Va su tutto storto che ti chiede come faccia. La risposta è semplice: è Pozzovivo. Forte è Nibali, che si salva pochi giorni dopo aver annunciato l'addio al ciclismo. Mentre Landa, Carapaz e Bardet, forse i più forti oggi di questo Giro, giochicchiano un gioco tirato all'estremo, si passano la palla senza andare a rete. Forti, loro sin troppo gentili, forse potevano osare di più.
Forte e poco gentile il caldo per tutta la tappa, Yates lo soffre, salta e si stacca, all'arrivo si accascia come tramortito sulle transenne, mentre una calca di persone attorno cerca di capire il perché. Come poi fosse facile per un corridore dare una risposta di questo genere.
Almeida fa un gioco strano, brutale, è forte ma non appare mai gentile in bici nonostante quegli occhi che intorno sembrano sempre aver un filo di matita come a rendere più morbidi i suoi lineamenti. Si stacca e poi rientra, sembra saltare e invece resta lì come se dovesse fondere il motore da un momento all'altro: resisterà fino alla fine del Giro andando così?
Juanpe Lopez è la scoperta. Sia come corridore forte che come corridore gentile. Forte: salva la Maglia Rosa per pochi secondi; gentile come le sue parole a fine tappa: «Voglio scusarmi con Oomen per avergli tirato una borraccia. Lui mi ha fatto andare fuori strada e ho perso la testa per un attimo».
Due parole poi su Hindley, forte e gentile: non poteva che essere così, lui il più abruzzese di tutti gli australiani che vince in quella che è stata una terra che per un periodo lo ha visto crescere come ragazzo e corridore.
E domani riposo per la carovana. Sulla Majella orsi e lupi stanno nascosti mentre il sole viene coperto da nuvoloni grigi. Il ristoro del ciclista erano birra e arrosticini. Il riposo della grande montagna segna la fine di un'altra lunga giornata al Giro d'Italia.
E tu sai ca' nun si sulo
I suonatori di chitarra in via Caracciolo suonano le prime note di “Napule è”. Solo musica, le parole arrivano da chi passa ai lati della strada e fischia o canticchia. Ad un certo punto, il testo dice “E tu sai ca' non si sulo”, noi ci pensiamo accanto al fruttivendolo che mostra la verdura e la descrive, alla pasticceria e a quei “babà” su piccoli vassoi che girano per i Quartieri Spagnoli, alle mani infarinate di un pizzaiolo che torna a casa ancora così, di fretta, al piattino del caffè che sembra un’opera d’arte. Ci sono loro e quelle voci che non si fermano mai.
Voci e maglie azzurre, alcune in tessuto vecchio, con un numero, l’unico che ha senso: il dieci, che è un numero è una persona. Mentre Mathieu van der Poel va via subito, scatta, quasi una burrasca vederlo partire così presto. Lui a queste cose è abituato, come ad andare via mentre mangia un panino. È abituato a sentire il suono della ruota che insegue come va davanti al gruppo.
Non sappiamo se Girmay, che va via con lui e gli altri, avesse mai visto Napoli prima di oggi. Non sappiamo se ha sentito come tutti qui storpiano il suo cognome ma lo gridano forte, lo cercano. E le bandiere del suo paese sono arrivate anche qui e sventolano senza arricciarsi, mentre lui e van der Poel nel finale si gettano da soli all’inseguimento di De Gendt, Gabburo, Arcas e Vanhoucke e quasi li riprendono. Loro sono i contrattaccanti: coloro che attaccano nell’attacco, le ruote che van der Poel sente inseguire, poi vede andare e si trova a inseguire a propria volta.
Proprio in quel momento una signora belga, si affaccia a una transenna e chiede: “van der Poel?”. Chiede di lui per sapere di De Gendt, chiede di lui perché se rientra sono problemi per tutti. È lei la prima a gridare Thomas dopo il traguardo. O forse semplicemente lo grida più forte perché la sua voce arriva prima. Prima che De Gendt scenda dalla bicicletta, abbracci Vanhoucke, inizi a sospirare e vada a sedersi su una sedia nel tendone giornalisti. Una sedia bianca del tipo di quelle che si trovano fuori dalle case nei borghi al passaggio del Giro.
Mani sul volto, mentre tutto lo fotografano, lo cercano, chiedono. Lui, la personificazione della fuga, dell’essere soli. Lui che oggi che non era solo, ha vinto e al traguardo si è allontanato da tutti cercando quella stessa solitudine mentre qualcosa dentro cercava di uscire.
In fondo, il Vesuvio che a Napoli è anche un punto di riferimento per indicare le strade. È “il vulcano”, come “il dieci”, come “il fuggitivo”, tutto quello di cui vi abbiamo parlato e quelle voci che arrivano anche all’interno dei locali. Punti di riferimento e “tu sai ca’ nun si sulo”.
Su a Viggiano tra le foglie
Per arrivare a Viggiano da Diamante, tagliando - si fa per dire - per la strada che porta verso le Grotte del Romito e poi per il Parco Naturale del Pollino, non è facile come sembra dalle indicazioni studiate con attenzione certosina e riportate poi su Google Maps.
Chi guida - che non è chi scrive - ha la situazione sotto controllo, i passeggeri - tra cui chi scrive - , maledicono invece il momento in cui hanno preso un'arancia dal fruttivendolo. Quel frutto così gustoso in un primo momento, decide di fare su e giù nello stomaco a ogni curva, buca, tornante.
Interessa poco al racconto della corsa, è vero, ma è importante per capire che, prima o poi a Viggiano, per seguire il passaggio del Giro d'Italia, ci siamo arrivati veramente. E se lo scriviamo è perché non sembrava di fatto così scontato. Abbiamo attraversato zone che lasciavano a bocca aperta, dove il verde intenso della macchia calabrese (se uno decidesse di "darsi alla macchia" qui probabilmente non lo ritroverebbero più) a un certo punto lasciava spazio alle infinite vallate della provincia di Potenza. Una sorpresa. Alpeggi, borghi mozzafiato appesi alle montagne che ricordavano le biciclette colorate di rosa che avevamo visto penzolare da alcune finestre poche ore prima dalla partenza di Diamante.
Quando si arriva Viggiano, in paese, la luce si fa forte, gialla come nascosta da una lente color limone. Gruppi di persone salutano, bambini vestiti di rosa battono le mani e urlano, scritte ovunque per l'idolo lucano: Domenico Pozzovivo.
Su, invece, sulla Montagna Grande di Viggiano (che da ora in poi chiameremo per semplificare semplicemente Viggiano), situata a circa sessanta chilometri dall'arrivo, una bella salita; strada larga, ben asfaltata e con tratti di pendenza davvero infidi. Da fare in bicicletta. La luce fatica a passare in mezzo al verde degli alberi - e a dire il vero anche il segnale di ogni compagnia telefonica: un paio di ore, per noi, di totale black out in attesa del gruppo.
Ma su a Viggiano abbiamo dato un senso a tutto vedendo i corridori passare al massimo del loro sforzo, mentre comandavano perfettamente la loro arte. Davide Formolo appariva bello in viso, prendeva una borraccia dal primo massaggiatore, rifiutando quella offerta dal secondo pochi metri più avanti: segno di freschezza o poco lucidità? Vedendo il finale di gara di Formolo, che quella fuga l'ha portata via convinto, scegliamo la prima ipotesi. Ha osato troppo nel finale, forse, è vero, ma verso Potenza è stata una lotta anche di nervi e di attimi. E lui ha scelto le sue armi migliori: grinta e rapportone.
Dumoulin, con i suoi labbroni e il naso ingrossato da occhiali e fatica, comandava quel gruppo di fuggitivi: conosceva già la sua sorte personale e quella poi vincente del compagno di squadra Bouwman? Villella zigzagava, segno di fatica estrema. Buttava via la borraccia, che come altre raccolte dal ciglio della strada era piena, probabilmente calda, caldissima, e quasi si fermava per prenderne un'altra fresca. Ulissi, in quel tratto di forte pendenza, chiudeva invece il gruppo della maglia rosa. Rosso in viso, chiedeva a gran voce: "avete acqua?".
Su a Viggiano un tifoso francese quasi fermava l'ammiraglia della Groupama: «Merci Démare! merci Démare!», gridava scalmanato. Su a Viggiano, Cavendish, invece, malediceva il gruppetto - la rete. «State andando forti come se fossimo in una c**** di fuga! Se volevate andare così potevate stare davanti!».
Su a Viggiano bastava un urlo, una serie di "alè alè alè" per dare forza ai corridori che ringraziavano. Giù a Potenza, invece, Koen Bouwman batteva Bauke Mollema e Formolo, specialisti delle evasioni in giorni duri. Da oggi anche Bouwman si scrive al circolo; ricorderà la luce fioca che passava tra le foglie e quello strano silenzio interrotto solo dalle urla di qualche tifoso. Su a Viggiano è andata proprio così.
Le infinite possibilità di Démare e Rosa
Se potessimo farvi sentire le voci dei tifosi dietro le transenne, dopo l'arrivo, vi faremmo sentire solo quelle perché non serve molto altro per comprendere la giornata di Scalea. Solo voci, nemmeno un'immagine, e potreste capire. Solo un "assurdo" e potreste capire. Assurdo com'è assurdo che tanta noia e tanta adrenalina si trovino nello stesso posto. E via a una lunga serie di considerazioni su chi l'ha spuntata, Ewan o Démare: non saperlo, sembra ancora meglio, perché lo si chiede a chiunque e si mostra la propria visuale sul traguardo che la conferma o smentisce. Qualcosa che continua anche dopo la certezza che a vincere è stato Démare, perché, dove c'è stato il dubbio, c'è la possibilità di vedere altro. Abbiamo capito così che l'assurdo ci fa bene.
Proprio quello che non sai spiegare. Come si spiega a un americano il significato della parola "Terún"? Innanzitutto non avendo paura di chiamare qualcosa con quel termine: una squadra, un ristorante ma potrebbe essere altro. Franco e Rossano lo hanno fatto. Succede così che le parole difficili, quelle che si portano addosso un significato complesso, cambiano volto e portano l'orgoglio di chi sei.
Potremmo chiamare un fuggitivo a spiegare l'assurdo, perché le fughe sono una sorta di apologia dell'assurdo, una difesa, un'arringa. Ci ha fatto riflettere chi si è chiesto cosa sarebbe stata la noia di oggi se non ci fosse stato Diego Rosa all'attacco? Allora qualcosa di apparentemente inutile, come una fuga in solitaria in un tappa dal finale scontato, è in realtà utilissimo perché cambia tutto. Il punto è che senza assurdo non ci sono le possibilità e senza le possibilità anche il ciclismo è più povero. Le possibilità che, poi, sono dietro il significato del sorriso di Diego Rosa quando intuisce il gruppo alle spalle e ognuno può leggerci ciò che crede. Noi vogliamo vederci la soddisfazione per essere riuscito a fare ciò che ha fatto: innanzitutto è stato l'unico a farlo e già questo dice molto. Gli atti di coraggio si fanno più facilmente in compagnia, perché, per quanto siano assurde le tue ragioni, almeno non sei solo. Quando sei anche solo la faccenda è ancor più complessa.
«Nonostante l'età e il mal di gambe sono ancora riuscita a scendere da casa e venire qui» ha detto una signora in fondo al viale del traguardo. Nonostante che è la preposizione dell'assurdo, del coraggio, di quando fai una cosa malgrado tutto direbbe il contrario. Succede in volata, chiedete a Démare e Ewan, succede in fuga, ma soprattutto succede a tutti e per il ciclismo è questo l'importante.
Nibali, borracce e ragazzini, in una calda giornata siciliana
I ragazzi dietro le transenne che urlano "borracce! borracce!", più che chiederle sembra che stiano trattando i prezzi al mercato, per il modo, la cadenza da venditori smaliziati, per quell'insistenza che è l'insistenza ingenua e tipica che si ha quando si è giovani.
Scene di un ordinario Giro d'Italia che se le racconti sembrerebbe di sfociare nella finzione. Come i due bambini senza casco che in zona pedonale sfrecciano su uno scooter che dal rumore pare elaborato.
Stanno inseguendo Lennard Kämna - ci stiamo ancora chiedendo cosa ci facesse la maglia azzurra in via Loggia dei Mercanti a fine tappa. Kämna si gira e gli passa una borraccia come di solito l'ammiraglia la passa al corridore.
Messina è questa. Calore e passione. Tifo sfrenato per Vincenzo Nibali che dopo la tappa si commuove annunciando il ritiro a fine stagione: «È arrivato il momento di restituire alla mia famiglia tutte le ore che ho dedicato al ciclismo». Ha scelto la sua Messina per dirlo, oltre che gran corridore, mossa da narratore navigato.
Quella Messina dove sua sorella stamattina nella cartoleria di famiglia sorrideva, timida, riservata, e ci raccontava quasi con un filo di voce: «È una cosa bellissima quella che ci fa vivere Vincenzo, ma – sorride - è anche un po' stressante». Sulla parete dietro la cassa una foto con Antonio e Vincenzo, e poi la maglia gialla incorniciata. C'è anche Manuel, il nipote di Vincenzo, sta seguendo l'inizio della tappa sul computer nel retro del negozio.
La Messina di Nibali è quella di Salvatore "il re degli arancini", un fiume in piena che ci racconta di quando il corridore siciliano girava in bici fin dentro la sua rosticceria: «Faceva avanti e dietro e non se ne andava finché non gli davamo un arancino».
La Messina dei tifosi è quella di altri due ragazzini, hanno la tuta e lo zaino del Team Nibali e fanno foto a ogni ammiraglia che passa accompagnando tutto con un “olè!”.
Messina oggi non è stata né di Cavendish né di Ewan, ma di Démare, che si sfilava in salita con intelligenza, soffriva come può soffrire un velocista in salita, ma lo faceva per non perdere un filo di energia. Rientrava mettendo subito i suoi a tirare e poi battendo tutti sul rettilineo controvento di via Garibaldi.
Messina è quella del signore che ci racconta di suoi figlio che ha corso in una squadra toscana per qualche anno: «Ma costava troppo, le trasferte, la bici... sapete quanto l'ho pagata la sua Colnago? Cinque milioni di lire, e quando ha voluto mollare gliel'ho tagliata in due».
Ciclismo, passione, e un po' di follia: siamo in Sicilia, non potremmo che definirla trinacria. A fine giornata il sole batte ancora forte sulle nostre teste e sullo sfondo si vede la Calabria, da dove domani la carovana riprenderà il suo viaggio.