Grazie, Elisa!

Un capolavoro. È un capolavoro quello realizzato dalle azzurre a Leuven, al Campionato del Mondo delle Fiandre. Certe volte nello sport si esagera, oggi no, oggi si può dirlo forte e chiaro. L'Italia non ha sbagliato un colpo e la spietata meritocrazia dello sport, in questo sabato di inizio autunno, ha omaggiato il talento genuino di Elisa Balsamo, una ragazza di soli ventitrè anni, di Cuneo. Una ragazza che crede nel potere delle storie, che ha scelto una penna per sconfiggere la timidezza e una bicicletta per raccontare che è possibile. Anche per i più timidi, anche per chi, caratterialmente, stenta a crederci e si sente sempre un gradino inferiore, è possibile.

Una corsa allo sfinimento. Il concetto di marcatura a uomo non è un concetto ciclistico, ma questa è stata la tattica delle ragazze di Dino Salvoldi. A controllare le olandesi e ripartire, perché oggi le favorite erano loro. Era Marianne Vos, un cannibale delle due ruote, che sembrava quasi non fare fatica. E non è facile continuare a rispondere quando le tue avversarie non mostrano un minimo segno di cedimento. Non ce n'è.

Non ce n'è perché, ad ogni attacco, le ragazze azzurre erano lì. Quanto ha fatto Maria Giulia Confalonieri? Fino all'ultimo sulle ruote di Vollering, Blaak, Brand. A voltarsi e a controllare che dietro stessero rientrando, perché non c'è spazio per follie personali, si lavora per Elisa Balsamo. Quanto hanno fatto Elena Cecchini, Vittoria Guazzini e Marta Cavalli? In testa, a chiudere il gruppo, prima all'inizio e poi alla fine.

Marta Bastianelli sa cosa vuol dire vincere un mondiale in giovane età e stasera dirà tante cose a Elisa Balsamo. Tante gliene ha dette in questi giorni. Lei che è in questo gruppo con l'orgoglio di essere la maggiore di età e per questo la più ricca di consigli. Lei che dopo le sfuriate olandesi ha fatto un solo cenno alle compagne: «Avanti, andiamo avanti a tirare».
Quanto bene ha fatto a questo gruppo Elisa Longo Borghini? La sua tenacia, la sua forza, la sua umiltà. Il suo essere ovunque, quasi incollata alla ruota di Annemiek van Vleuten, come a dirle «oggi non scappi, oggi non molliamo un metro». Si meritava questo mondiale Elisa, meritava che a vincerlo fosse l'Italia per il suo rispetto dei ruoli, per quel «faccio quello che mi chiedono e fino all'ultimo non mi tiro indietro».

E poi Elisa Balsamo, la Campionessa del Mondo. Fa quasi effetto scriverlo, dirlo, pensarlo, immaginarlo. Ragazza semplice, che studia Lettere e legge fumetti. Ragazza determinata, fragile come il suo pianto al traguardo, e forte come la capacità di rialzarsi dopo quella brutta caduta alle Olimpiadi, staccare qualche giorno, ripartire ed essere qui, sul gradino più alto del podio. Lucida come chi, a pochi metri dall'arrivo, fa cenno di no a Elisa Longo Borghini: «Non è ancora il momento di spostarsi. Aspetta». Così anche Marianne Vos ha dovuto arrendersi.
Non aveva più parole Elisa, dopo il traguardo. Piangeva con singhiozzi profondi, quelli che si ritrovano nei pianti più veri, quelli dei bambini. Piangeva, sospirava e non parlava. Però, le sue compagne, le ha ringraziate tutte. Si voltava, cercandole con gli occhi pieni di lacrime, e le ringraziava. Noi ne siamo certi, in giornate come queste non serve poi molto per raccontare una storia. Basta poco. Anche solo un grazie


Filippo, Campione del Mondo

Non crediamo che nel nome di una persona ci sia il destino, o almeno non fino al punto da determinarne vittorie o sconfitte in bicicletta, ma se ti chiami Filippo, in questi giorni, pare che nelle Fiandre tu possa andare discretamente bene. Se Filippo, inteso come Ganna, lo conosciamo bene, oggi è il caso di scoprire un po' chi è Baroncini, che per come è scattato a meno cinque dall'arrivo sarebbe subito da rubare l'idea già usata (e abusata) e scrivere il suo nome tutto in maiuscolo e tutto attaccato: FILIPPOBARONCINI.
Quando lo abbiamo incontrato qualche settimana fa a Trento ce lo ha detto: si sente bene, forte e motivato, ma soprattutto ambizioso. Che quando passerà professionista (Trek-Segafredo) vorrà da subito giocarsi le sue carte.

Ma oggi il suo cammino tra gli Under 23 era da portare a compimento. Esploso sul finire della scorsa stagione, l'ascesa di Baroncini è stata fulminea e ha visto l'apice della sua sin qui brevissima carriera su quella rampetta, quando al traguardo mancavano meno di una decina di minuti.

E lui scattava, «Dentro di me dicevo: vai, vai, vai» - ha raccontato a fine corsa. Con i suoi watt avrebbero acceso probabilmente tutte le luci del viale che lo conduceva verso l'arrivo, mentre dietro Zana, Colnaghi, Coati e Gazzoli (e Frigo nelle prime fasi a lavorare per tutti) lo coprivano, perfettamente, manco fosse una di quelle giornate fredde da passare sul divano a guardare la tv. A guardare ciclismo: gioco che regala oggi la maglia iridata a un solo corridore, ma quanto c'è di squadra dietro ogni successo.

Oggi Filippo Baroncini (che è pure caduto a metà corsa) ci ha fatto saltare da quel divano, ci ha fatto vedere cos'è il talento, la crescita graduale, la potenza del finisseur, ci ha fatto vedere cosa vuol dire finalizzare il lavoro di squadra - Colnaghi all'attacco e gli altri a lavorare per ricucire, Zana stopper come uno di quei cagnacci che ti morde le caviglie - lui che è capace di andare forte dappertutto, ma che non sembra di quelli buoni ovunque e basta, ma di quelli davvero competitivi su ogni terreno: salita, cronometro, finali vallonati e incasinati come quello di oggi.
E a guardarlo negli occhi a fine gara o a rivedere l'azione che lo ha portato a vincere, sembra impossibile che per lui finisca qui. La rampa sopra Leuven lo ha lanciato, ma non sappiamo bene ancora dove potrà arrivare.

Foto: Bettini


Quei cinque centesimi

D'altra parte cosa sono cinque centesimi? In realtà non sapremmo quantificarli in una gara di biciclette, perché arrivare davanti per cinque centesimi dopo cinquantuno (51!) minuti ha tanto il sapore della beffa o di quelle corse tipo lo sci alpino.
Ma il cronometro benedetto e maledetto ha sentenziato: gioia per i ragazzi azzurri, beffa per gli svizzeri che sarebbe stato meglio togliere quei distacchi dopo la virgola e assegnare la medaglia a tutti e dodici (12!).
È che ci stiamo abituando così bene a questa Italia, popolo di passistoni e abili cronomen, ma così bene che se ce l'aveste detto qualche anno fa ci saremmo messi a ridere o vi avremmo accusato di circonvenzione di incapace.
Ci stiamo abituando così bene a Filippo Ganna trascinatore, a Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini e Marta Cavalli finalizzatrici, a Edoardo Affini e Matteo Sobrero carburanti per il motore, azzurri che oggi, tra Knokke-Heist e Bruges, si sono regalati un'altra medaglia.
Forse qualcuno ancora storce il naso per questa gara, ma noi ci siamo divertiti. Distacchi a fisarmonica tra la frazione maschile e quella femminile; una crono che racconta mille storie e la più intensa è quella di Tony Martin, all'ultimo ballo come va tanto di moda dire, all'ultima gara, all'ultima maglia, all'ultima medaglia.
Pochi giorni fa "Der Panzerwagen" ha annunciato il ritiro dalle competizioni e oggi ha guidato la Germania in una crono a mille, di alto livello; altro che "eh ma la staffetta mista". Ben venga la staffetta mista. È affiatamento, tecnica e potenza, mostra i progressi di una squadra, tasta il polso alla punta dell'iceberg di un movimento, sia maschile che femminile. E poi li unisce: nel risultato, nel tifo dopo il traguardo con Ganna e gli altri a spingere idealmente la volatina azzurra.
E Ganna, sempre lui, chi sennò, tecnica e potenza in un solo corpo, ha trascinato la nazionale con quella sua proverbiale tranquillità che lo contraddistingue sia nella vittoria che nella sconfitta. Pista e strada non fa differenza: basta seguirlo. E poi Affini e Sobrero vagoncini affidabili, Longo Borghini, Cecchini e Cavalli che l'hanno spinta in rete.
Cinque centesimi sono bastati, anche se qualcuno al traguardo non lo aveva capito. Cinque centesimi per un podio. Un niente, difficile da quantificare. Cinque centesimi, sì, e oggi ce li prendiamo tutti.


Il colombre e l'iride

Chissà che aspetto avrebbe oggi il Colombre di Dino Buzzati. Chissà se proprio oggi Stefano Roi sceglierebbe di andargli incontro, magari proprio verso il Mare del Nord. Il Colombre, questo essere marino tra colori e ombre, è, poi, il futuro e dal futuro non puoi scappare.
Ellen Van Dijk, su quella sedia, in attesa della conclusione delle avversarie, dopo un tempo talmente assurdo da costringerla a tenersi i muscoli con le mani dopo l'arrivo, fasci tremanti esauriti dalla posizione innaturale della cronometro, ha visto il Colombre in faccia. "Sedersi qui è terribile, non puoi fare niente. Devi solo aspettare ma sai che il momento del verdetto arriverà". Dopo l'Europeo, in linea, il Mondiale, a cronometro, per lei che col futuro è da sempre schietta. "Non potrei mai mettermi solo al servizio di un'altra atleta perché vincere mi piace. Ma non riuscirei nemmeno a essere sempre la solista, perché il gioco di squadra mi affascina".
Marlen Reusser, medaglia d'argento, ha sempre creduto in se stessa e quando le chiedono se ha mai immaginato di ottenere i risultati di questi tempi, lascia da parte la falsa modestia: forse non li immaginava così, ma di certo ci sperava, altrimenti non si sarebbe nemmeno messa in sella. Dritta, lineare, perfetta in sella quasi a prendersi gioco del vento che si insinua tra le strade e ti deride. Nel suo futuro ha timore di diventare una di quelle atlete che vince tanto, ma sa solo vincere, che non si gode nulla e di conseguenza è sempre altrove, col pensiero e l'ambizione.
Amber Neben quel libro di Buzzati sembra averlo letto, come un avvertimento. Ben quarantasei anni, la statunitense ha corso la cronometro dopo che poche settimane fa, a causa di uno scontro con un’auto in allenamento, si è fratturata il bacino. Il suo futuro, in bicicletta almeno, è arrivato e quando arriva il futuro lasci da parte tanti dubbi, tante insicurezze, perché, forse solo lì, capisci che il problema non è il Colombre ma il tuo sfuggirgli, quello che ti porta a non vivere. Aveva voglia di una grande prova Neben, di dare tutto. Lo ha fatto e non è passata inosservata.
Dall'altra parte del tempo, ci sono Elena Pirrone e Vittoria Guazzini che a Bruges sono andate per provare, per continuare a crescere e, magari, per avere buone sensazioni. Non erano le favorite per la vittoria, ma non abbiamo fretta. Elena ha raccontato più volte che è stato il ciclismo a renderla la donna sicura che è oggi. Vittoria, che stamattina era stranamente silenziosa, andava a vedere le gare mentre Van Dijk già vinceva. C'è tempo. C'è futuro e il futuro, si sa, arriva sempre. Loro, con la presenza, hanno provato ad andargli incontro e il Colombre, sullo sfondo del Mare del Nord, ha lasciato spazio all'orizzonte.


Un campione, un fuoriclasse

Oggi è una di quelle giornate che elevano i campioni a fuoriclasse. Dove si sposta l'asticella, dove resti con il fiato sospeso e vedi Evenepoel e ti chiedi: "e ora chi lo batte?". Dove vedi i polpacci di van Aert tiratissimi che pensi nessuno possa fermarlo; il belga spinto dal pubblico di casa in delirio a ogni curva e sembra che oggi si possa finalmente festeggiare con lui. E invece.
Oggi non era facile. Per nessuno. Perché la rassegna iridata iniziava nel peggiore dei modi: ieri Chris Anker Sørensen, ex professionista e inviato ai Mondiali come commentatore tecnico per una televisione danese, ha perso la vita sulle strade del Belgio, pedalando, come ha sempre fatto e come ha voluto fare ieri, fino al tragico epilogo quando un furgone lo ha investito.
Ma c'è stata la corsa, oggi: si sa, va così. E allora per un attimo dimentichiamo quei pensieri, anche se quel groppo in gola resterà per sempre, lasciandoci il fragore del mare a Knokke-Heist che si infrange alle spalle dei corridori in partenza.

Lasciamoci alle spalle i due intertempi dove van Aert era sempre davanti a Ganna. Chiudiamo gli occhi e pensiamo solo a quel rettilineo finale a Bruges, a quella spinta ideale, all'exploit, al "ce la fa, non ce la fa", al conto alla rovescia fatto a mente, ai riferimenti presi meno di un minuto prima, a quella maglia blu, a quelle gambe enormi, a quei 5 secondi e 37 centesimi che sono bastati a Filippo Ganna per diventare di nuovo campione del mondo della cronometro. Quei pochi secondi che bastano per cancellare il nome di campione di fianco a quello di Ganna e cambiarlo con il termine: fuoriclasse.

Lasciamoci alle spalle l'urlo strozzato dei belgi: le cronometro non vanno mai come si pensa. Scrivi un codice e premi invio, ma dall'altra parte c'è un firewall che ti blocca.
Lasciamoci alle spalle tutto e godiamo per Filippo Ganna, che corre la sua miglior cronometro della carriera, nel giorno più importante (l'ennesimo giorno più importante) della sua carriera. Lui che si lascia alle spalle quella piccola delusione all'Europeo o le critiche per quella medaglia sfumata a Tokyo.

Lasciamoci alle spalle tutto e anche questo racconto un po' a metà; perché se si potesse, oggi la medaglia d'oro la meriterebbero pure van Aert ed Evenepoel. Perché per chi scende dalla bici è stato un urlo un po' strozzato, negli occhi di tutti i protagonisti una gioia non goduta fino in fondo, un groppo in gola che rimarrà per sempre, perché avremmo sognato una giornata diversa questa mattina, anche se l'epilogo, per certi egoistici versi, ha funzionato come un palliativo.

Lasciamoci alle spalle tutto, almeno per un attimo. Tranne quella maglia iridata che, diciamolo francamente, su Ganna sta terribilmente bene.


"Finalmente ho vinto"

Seduto sulla poltroncina - in (finta?) pelle grigia - che spetta al leader della cronometro dello Skoda Tour Luxembourg, Cattaneo ha visto passare avversari su avversari: gli finivano regolarmente dietro e nemmeno di poco.

Ha pennellato e spinto. Ha tagliato il traguardo ed era primo, ha battuto il danese Skjelmose, vent'anni, una carriera davanti che gli sorriderà dopo un passato che lo ha visto fare tempi à la Remco e poi l'ombra di una squalifica per doping.

Ma Cattaneo, dicevamo. Si è seduto su quella specie di trono di plastica. Ha visto scorrere i tempi: nessuno gli si avvicinava nemmeno lontanamente, e quando è stato il turno del compagno di squadra Almeida, quello che fino a ieri pomeriggio ha difeso come fosse una porta da tenere inviolata, ha tremato.

Abbiamo, poco sportivamente, ma ogni tanto capita, sperato che Almeida tirasse con meno precisione una curva, che rilanciasse con meno forza, perché i due erano vicinissimi. Quando ha chiuso la sua prova, il verdetto: due secondi di ritardo per il portoghese. O ribaltando: due secondi di vantaggio per l'italiano. Quanto bastava per vedere Cattaneo incredulo, felice e poi commosso. «Finalmente ho vinto». Le sue prime parole.

Cattaneo corre tra i professionisti ormai da quasi dieci anni. Prima promessa, poi dimenticato. Con Savio si è rilanciato e ora, in maglia Quick Step, vive una seconda parte di carriera che dà il giusto tributo al suo talento.

A Trento lui c'era a farsi in quattro per la Nazionale; quando è con la squadra di club l'atteggiamento non cambia: lo chiami e lui interpreta al meglio il suo compito.
Al Tour ha sfiorato la vittoria che oggi è arrivata. Ieri per Modolo erano tre anni e mezzo di digiuno, oggi per Cattaneo poco più di due. Ha vinto poco (tre volte) e proprio per questo ci pareva giusto omaggiarlo.

Foto: Bettini


Il repertorio completo del Cobra - TRENTINO 2021 - DAY 6

Le corse di ciclismo sono un mestiere. Non a caso quelli che partecipano si chiamano professionisti. Non vuol dire semplicemente dedicarsi a tempo pieno a correre in bicicletta, vuol dire costruire il repertorio completo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come un muratore, che sa preparare la malta della giusta densità. Come un panettiere, che a forza di impastare sa dosare il quantitativo d’acqua senza bisogno di misurarla. Così è il corridore, che dopo una carriera iniziata nelle giovanili a entrare nelle fughe, a chiudere i buchi, a prendere batoste, a sbagliare e pagare le conseguenze, a guidare la bicicletta in discesa e in gruppo, ma soprattutto a studiare l’avversario e gli avversari, arriva al giorno giusto, nel momento giusto e sa esattamente cosa fare.

Oggi il Cobra ha sciorinato il repertorio completo. Ha eseguito esattamente il piano tattico, è entrato nella fuga giusta, innescata dal compagno di squadra Trentin. Ha marcato le ruote che andavano marcate. Si è fatto trovare pronto quando è scattata l’azione decisiva. Ha mangiato, ha bevuto, ha recuperato rimanendo coperto, perché Remco aveva un’altra cilindrata e avrebbe potuto staccarlo dovunque.

Poi ha buttato fuori tutto quello che aveva nelle gambe sullo strappo di Povo. Si è imbevuto dell'energia positiva del pubblico pazzo di gioia a bordo strada. Ha retto le continue accelerazioni del fenomeno belga, che ha letteralmente divorato le pendenze, stroncando le velleità del temibile francese Cosnefroy. Poi si è accucciato a ruota, Sonny sapeva di aver dato tutto, di essere con la spia in rosso, sapeva che se avesse tirato anche solo cento metri, Remco poteva andargli via, anche in pianura, anche sul falsopiano. Non si è fatto irretire dalle scenate dell’avversario, che voleva i cambi. La corsa è corsa, Sonny sapeva di essere più veloce e sapeva che se voleva entrare nel rettilineo finale, negli ultimi 250 metri prima di piazza del Duomo, non doveva lasciare andar via l’avversario.

Ha recuperato pazientemente dallo sforzo della salita, poi ha aspettato il momento. Ed eccolo il mestiere, un’accelerazione prima dell’ultima curva, sui sampietrini insidiosi, per prenderla davanti, poi l’allungo. Mentre Remco scaricava tutti i watt Sonny aveva ancora una cambiata da fare, un colpetto con le dita e la volata, la volata che aspettava da tutta la vita, davanti al pubblico impazzito. Remco fuori dalla foto, lui sulla linea del traguardo a braccia alzate.
Il repertorio del corridore, interpretato alla perfezione. Remco è stato grandioso, ma il repertorio deve ancora costruirlo. Il tempo è dalla sua parte, le stigmate del campione, nonostante il gestaccio di frustrazione dopo il traguardo, le ha tutte.
Ma oggi era la giornata di Sonny Colbrelli, la giornata europea del corridore di ciclismo.

Foto: Bettini


Il morso del Cobra

Lasciatecelo dire: vedere Sonny Colbrelli correre come ha corso oggi, a pochi giorni dagli Europei in Trentino, lascia spazio all'immaginazione. E poco conta che si tratti soltanto del Benelux Tour, dovremmo tornare a entusiasmarci senza fare le pulci a ogni emozione.

Sonny Colbrelli solletica l'immaginazione come ogni ciclista che parte da solo in fuga quando al traguardo mancano ancora molti chilometri e gli altri si stanno studiando. Come ogni "uomo da solo al comando". La sua maglia è verde, bianca e rossa, avrebbe detto molti anni fa Mario Ferretti. Noi lo abbiamo pensato, ve lo diciamo.

Il Cobra che parte ai cinquanta chilometri dall'arrivo di Houffalize insieme al compagno Mohorič e allo svizzero Hirschi e forse potrebbe anche starsene tranquillo e sfruttare la superiorità numerica per portare a casa il risultato. Invece no, si volta verso il compagno di squadra e gli dice: "Uno scatto per uno e lo stacchiamo". Gioco di logoramento.

Lo svizzero non riesce a reggere la frustata di Colbrelli che, ai venticinque dal traguardo, sceglie la solitudine e saluta la compagnia. Hirschi subisce il gioco di Mohorič, un perfetto alleato del fuggiasco: dapprima rallenta il ritmo, provoca, innervosisce, poi, al rientro del gruppetto guidato da Tom Dumoulin rompe i cambi e favorisce l'assolo. Un assolo sudato, senza un attimo di tregua, col cuore in gola, perché dopo venticinque chilometri di fuga vuoi vincere.

"Non avevo mai fatto qualcosa di simile in vita mia. Me lo ricorderò sempre. Spero solo di recuperare per domani". Fra meno di ventiquattro ore avremo la risposta, ma non è ciò che più ci interessa. Già, perché quando Colbrelli decide di inventare non si ferma molto facilmente e giornate così possono solo contribuire ad accrescere l'immaginazione.
La sua e la nostra, perché tra pochi giorni c'è l'Europeo. Non dimentichiamolo.


Quando tutto cambia

Ci sono giorni in cui tutto cambia. Lo scenario, le sensazioni, le gambe. E allora inizi a salire (e poi inevitabilmente a scendere, e poi di nuovo salire) e c'è la pioggia che cambia tutto.
E ci sarebbe da raccontare di un'impresa. Perché partire a 61 km dall'arrivo non è che sia roba che si vede tutti i giorni, figurati in una Vuelta che sin qui aveva lasciato (un po') a desiderare.
E ci sono da raccontare gli opposti: come Roglič e Bernal. Sono loro che si cimentano nell'azione, che se non l'avete vista, cari lettori, vi invitiamo in qualche modo a rimediare.
Perché in salita si andava forte, ma c'era la pioggia che se ti alzavi di sella scivolava pure la ruota dietro. Perché mentre Roglič e Bernal andavano, Eiking saltava, ma non naufragava, cadeva persino in discesa, ma si rialzava: a cedere con onore non sono bravi tutti, lui lo è stato, come è stata un'audace maglia rossa.
E allora ci sarebbe da raccontare di Rochas che spinge forte per Martin per provare a inseguire una chimera rossa, ma mentre si risale verso i Laghi di Covadonga, salita simbolo della Vuelta, Martin, stoico e non ce ne voglia, si infrange. Ha dato tutto.
Ci sarebbe Poels che rischia tutto in discesa per Haig, una discesa che dava i brividi con tutte quelle foglie a terra; Mäder che più se ne mette dietro e più soldi darà in beneficienza; la Movistar che all'improvviso torna a essere la buona, cara, vecchia Movistar e non si sa bene cosa dovrebbero fare; Meintjes che non andava così forte da almeno mezzo secolo; Adam Yates con il viso solcato da pioggia e fatica che più che ricordare il gemello, sembrava il nonno; Kuss imbrigliato: il giorno che proverà a fare il capitano forse sarà meno forte di così. A sensazione.
Ci sarebbe da raccontare di quando a Roglič sudavano pure le sopracciglia in salita, che si è dovuto togliere gli occhiali e lasciava trasparire in mondovisione tutta la sua fatica. E poi il suo opposto, Bernal in maglia bianca che stamattina lo aveva detto: "Oggi ci provo: o tutto o niente". E oggi è andata così, c'ha provato, ciclisticamente così bello, poi è saltato, ma se la vittoria di Roglič ha un sapore particolare il merito è (anche) di Bernal.
E allora ci sono giorni in cui tutto cambia, la classifica, i protagonisti, da una curva all'altra, da un metro all'altro. Resta l'impressione di una giornata indimenticabile, grazie a Roglič e alla sua irresistibile accelerazione nel finale e ai 61 km di cavalcata. Grazie a Roglič e ai suoi opposti. A Bernal che cede, a Martin naufrago, alle crepe della nave di Eiking che non affonda.


Il cammino di Santiago o fare la prima mossa

Forse nemmeno Eiking immaginava di trovarsi alla vigilia dell'ultima settimana - o meglio, degli ultimi 5 giorni di corsa, in maglia rossa. In carriera fino adesso ha ottenuto come miglior risultato tra Giro, Vuelta e Tour un 77° posto proprio in Spagna nel 2016. E da una Vuelta fu cacciato per motivi disciplinari - era il 2017, ma questa è una storia che abbiamo già raccontato.
Forse Roglič, ma anche una Movistar di nuovo tirata a lucido come non si vedeva da tempo (ah, i cari bei vecchi tempi!), mai si sarebbero immaginati di dover inseguire un norvegese a cinque tappe dal termine. O comunque non Eiking, ecco.

Forse Mas e López hanno in serbo qualcosa per i due arrivi in salita che rimangono tra Lagos de Covadonga e Altu d'El Gamoniteiru, mentre Roglič ha un tesoretto niente male da spendere l'ultimo giorno nella crono di Santiago de Compostela; e non ci sarà Pogačar a fargli venire gli incubi, né si presume ci saranno avversari capaci di un clamoroso ribaltone come quello de La Planches des Belles Filles al Tour. «È il campione olimpico contro il tempo - si mormora in gruppo con fare sincero - chi mai potrebbe fargli paura?». Già.

Nemmeno Martin, uno che fa dell'imprevedibilità il suo archetipo, che nella sua ciclosofia racconta: "pedalo, dunque sono", e che quando corre, corre spesso in coda, ma poi risale sempre, curvo sulla bici come se sembrasse dover cercare qualcosa per terra. Forse qualche risposta.

Dicevamo: nemmeno Martin (Guillaume, e alla francese, mi raccomando) probabilmente si aspettava di essere lì, secondo, grazie a una fuga, lui che in fuga ci sta sempre bene, che quella fuga da gentile concessione giorno dopo giorno si sta trasformando in pesante fardello per chi deve inseguire, e chi deve inseguire sembra non abbia forza/voglia/fantasia: eventualmente scegliete voi la parola giusta. A Mas non gli sono uscite benissimo in questi giorni: «Il percorso non era abbastanza favorevole da permettere una lotta tra i favoriti», verrebbe da pensare l'opposto, ma tant'è.
E forza, intesa come condizione, gambe, detto terra terra, fantasia, sembra ciò che manca totalmente alla Ineos in questo momento: Bernal fatica a rispondere agli scatti, Adam (Yates) qualche punturina la molla qua e là, ma ha provocato giusto un po' di bua - nulla di che. Carapaz si è fermato, Sivakov è ormai carbone da locomotora.

Spazio ci sarà per provare qualcosa dopo una settimana che ha raccontato belle storie - Cort Nielsen, Storer, Bardet, Majka, il confronto tutto adrenalina Jakobsen-Sénéchal, Aru eccetera - come in uno di quei romanzi di Kent Haruf dove sembra non succedere mai nulla, ma da cui non riesci proprio a staccarti. Però è lì su, dove si sogna la vittoria, ci si dimena e si dibatte, dove osano le aquile, che è stata calma piatta come una giornata al mare. È in classifica che ci si aspetta qualcosa: se non oggi, domani.

Il cammino verso Santiago è ancora lungo, ma non troppo: è tempo anche che qualcuno faccia la prima mossa. Il resto - magari quei fuochi d'artifici che aspettiamo da giorni - arriverà di conseguenza.

Foto: ASO/Luis Angel Gomez / Photo Gomez Sport