Sulla forza mentale (di Remco)

Meteorologicamente parlando, certo, quella di domenica è stata una giornata del cavolo. Dal punto di vista degli orari, certo, è stata una giornata del cavolo, perché le cronometro iniziano tardi e finiscono tardissimo. Logisticamente parlando, certo, è stata una giornata del cavolo: dopo la tappa ci siamo sorbiti più di un’ora di viaggio verso la sede del giorno di riposo, San Giovanni in Persiceto. Eppure, ho potuto ascoltare - e tanto è bastato per ribaltare completamente la giornata - due persone che amano e studiano le questioni di cui si occupano. Non c’è niente di meglio di chi ha passione per il proprio lavoro e decide, per grazia, di offrire al pubblico spicchi della propria mente.

Paolo Zanfini, da un anno direttore scientifico, ha cominciato a lavorare nella Biblioteca malatestiana di Cesena molti anni fa, come apprendista. Ogni libro che ci mostra, e solo nell’Aula del Nuti ce ne sono 343, sembra un suo figlio. Con lo stesso spirito entusiasta e propositivo ci parla di una rarissima copia miniata del De Civitate Dei di Sant’Agostino conservato nella Biblioteca e di una mostra temporanea che affronta una pagina più moderna della storia dei libri, quella dei pop-up.

La seconda persona in questione è Remco Evenepoel. Poche ore prima dell’annuncio del suo abbandono al Giro d’Italia, il campione del mondo è arrivato sorridente nel truck della conferenza stampa dove lo aspettavamo io e uno scarno contingente di giornalisti. Rotto il ghiaccio con una domanda sui watt che ha spinto nella prima parte di cronometro, Remco è stato un fiume in piena: ha parlato della crono che aveva appena percorso in lungo e in largo, dilungandosi oltremodo, soddisfacendo curiosità e suscitando ulteriori domande. Soprattutto, dando la netta impressione che fosse una persona perfettamente consapevole, in controllo. Uno sportivo che ha craccato la disciplina che pratica. La sua primissima risposta ha compreso discorsi su planimetria, fondo stradale, vento, scelta di traiettorie, riflessioni circa sé stesso e il ciclismo moderno e altre cose che non ho neanche avuto il tempo di appuntarmi.

Questa incredibile lectio magistralis di Remco mi ha ricordato una cosa che si dice di Michael Jordan e del suo Flu Game, Gara 5 delle NBA Finals 1997. La serie tra Chicago e Utah è sul 2-2 e a Salt Lake City si gioca una partita dal peso enorme. Jordan è fortemente debilitato (forse causa pizza avvelenata, forse altro), ma gestisce le proprie energie talmente bene, esercitando un controllo sulla partita mentale prima che fisico, che riesce comunque a segnare 38 punti. Alla sirena finale si lascia andare sfinito tra le braccia di Scottie Pippen.

Secondo Federico Buffa, addirittura, mentre cercava di riprendersi dall’intossicazione alimentare prima della partita, Jordan immaginò ogni possesso della partita stessa, prevedendo i movimenti suoi, dei compagni e degli avversari. Avete mai visto gli occhi di Remco - a proposito di menti che visualizzano qualcosa di diverso - quando si prepara per una cronometro, basso sulle appendici e con la testa vicinissima alle mani? Non sono occhi che si dimenticano.

Nonostante il loro corpo non fosse al massimo, insomma, la loro mente ha sopperito, e anzi la prestazione è bastata per mettere il muso davanti al fotofinish: Remco di un secondo, Jordan di due miseri punti. Non sono contesti paragonabili, l’importanza del palcoscenico è del tutto diversa e mille altri fattori differiscono. Ma la forza mentale di Remco a Cesena ha avuto, scoperta a posteriori la malattia, un che di jordaniano. Mi si perdoni il riferimento divino, giuro non l’ho letto nel De Civitate Dei di cui sopra.


Il proprio posto nel mondo

Il concetto di completezza è uno di quei concetti di cui si parla molto nel ciclismo. Il corridore completo è colui che si esprime al meglio su tutti i terreni, che, anche quando non ci riesce, limita i danni, colui che, spesso, vince una corsa a tappe. A Cesena, sotto la pioggia, vogliamo parlare anche noi di completezza: non nel senso fisico o matematico del termine. Forse nemmeno in quello strettamente ciclistico. La completezza di cui vogliamo parlare non ha a che vedere con una parte mancante, con un'abilità non sviluppata, con la contrapposizione pieno-vuoto, perché crediamo che gli uomini e le donne siano già completi da questo punto di vista. Ognuno a proprio modo, ma completi, perché la completezza degli esseri umani è altro fatto rispetto a quella delle cose, dove sì si può applicare la matematica o la fisica.

Altro è il proprio posto nel mondo, quel qualcosa che è al di fuori di ciascuno e che è in grado di fare luce su quella completezza, di renderla visibile, di far capire che non ti manca proprio nulla. Il proprio posto nel mondo non è detto sia un luogo o un posto vero e proprio, può essere un'abitudine, una persona, un modo, un tempo. Può essere anche una bicicletta.

Abbiamo guardato Geraint Thomas e abbiamo avuto la sensazione di questa completezza. Che, almeno per oggi, il suo posto nel mondo fosse in quella posizione, apparentemente scomoda, da cronometro, in cui pareva completamente a proprio agio. Nove centesimi, solo nove centesimi, tanto lo ha separato dalla vittoria di tappa. Ma il proprio posto nel mondo non è questione di calcoli: è questione di quella tranquillità nello sguardo e nei modi. Di quel sentirsi a posto, consapevoli di quella completezza. Certamente il proprio posto nel mondo è uno di quei posti che, nonostante l'idea di stabilità, di fissità, è in realtà un luogo in cui è necessario camminare per restare. Anzi, pedalare, correre. Da cui ci si allontana con poco, in quei giorni, se si è fortunati, spesso in quelle settimane, oppure in quei mesi, in cui ci si perde, non si trova più la perfezione delle cose, che prima, chissà perché, si vedeva. Non si è incompleti, manca solo quel posto a mostrarci la completezza. Geraint Thomas, nel tempo, da quel posto si è allontanato ed in quel posto è tornato. "Ritrovarsi", un verbo che Thomas ha usato alcune volte, è esattamente questo.

Il proprio posto nel mondo è questione di sensazioni, quelle di Caruso, autore di una prova degna di nota, che su quelle fa affidamento, quelle ascolta, perché quelle indicano un passo, una rincorsa, talvolta. Di certo, sono le sensazioni a conoscerlo meglio della razionalità e una cronometro è questione di sensazioni, come il proprio posto nel mondo da cui, talvolta, ci si allontana, raccontandosi qualche assurda bugia. Prendete Remco Evenepoel: tutti pronosticavano una prova ampiamente dominata, ha vinto, non ha dominato. A tratti è sembrato semplicemente perfetto, il ritratto della potenza e dell'efficacia, poi ha perso qualcosa e con quella, pur vincendo la tappa, anche parte delle sensazioni trasmesse, una luce che illumina altro. Lo si intuisce dalle persone che dicono: «Ha vinto Evenepoel, ma sarebbe stato bello vedere Geraint Thomas vincitore».

Eppure Evenepoel su quella bicicletta da cronometro rasenta la perfezione, non c'è dubbio: è solo uno di quei giorni in cui il proprio posto nel mondo è un poco più nella nebbia. Nulla di tragico, tanto più che è proprio lui a tornare in rosa ai danni di Andreas Leknessund, succede. Lo scatto di ieri di Roglič è stata una rincorsa verso quel luogo, qualcosa che ha pagato ieri e meno oggi, però ha limitato i danni. Qualcosa da inseguire nei prossimi giorni per il Giro e non solo. Perché, quando sbiadisce il proprio posto nel mondo, iniziano i dubbi e la difficoltà di pedalare fra i dubbi non è misurabile in pendenze, come la salita.

Il proprio posto nel mondo lo si trova per caso o per scelta, può essere anche scomodo, fradicio, come quello di quel signore con i piedi in un campo e un ombrello minuscolo, che sembrava il ritratto della felicità mentre guardava i corridori. Lo si trova e se non lo si è ancora trovato si continua a cercarlo. Basta un giorno di riposo, una notte più lunga, e si può ripartire.

Giornata perfetta al Giro

È stata una giornata perfetta, al Giro d’Italia. Perfetta per il disegno: un finale mosso, con splendidi muri, in posti da urlo, come le selvagge e verdissime gole del Furlo. Perfetta per la logistica: per i tifosi che si sono assiepati sui Cappuccini per vedere due passaggi della corsa, per i tifosi che a Fossombrone hanno potuto vederne fino a quattro, per i giornalisti che hanno goduto di una rara vicinanza tra sala stampa, arrivo e bus delle squadre. Perfetta perché a Pontedazzo di Cantiano abbiamo incontrato tante persone: alcune ci hanno offerto un’amatriciana, altre ci hanno invitato davanti al loro camino. Tutte erano lì, assieme alle altre, per il Giro d’Italia.

È stata una giornata perfetta perché - l’elenco non è finito, anzi dura ancora un po’ - dopo sei partenze consecutive stamattina l’abbiamo presa su dolce, come si dice dalle mie parti, evitando la partenza di Terni. Non siamo, però, andati dritti all’arrivo: ci siamo immessi nel percorso in località Osteria del Gatto (PG), attraverso una stradina sterrata con buche grosse come piccoli laghi.

È stata una giornata perfetta perché, sulla salita dei Cappuccini, abbiamo incontrato un gruppo di amici di vecchia data. Si sono radunati per passare assieme il weekend: sia per pedalare loro che per veder pedalare altri. Il loro sorriso e la loro eccitazione, siccome di questo Giro vedranno solo una tappa, è stata spontanea e contagiosa.

In ultima istanza, ecco, è stata una giornata perfetta al Giro perché non ho nemmeno le parole per descriverla meglio di così, per ricordare chi ha guadagnato su chi, chi si è staccato, chi ha vinto e chi ha perso. Mi ha solo reso felice, e tanto basta.


Vivere l'agonia di Ben Healy

“S'immagini il lettore" la lingua stretta d'asfalto, in mezzo al bosco, verticalità e tornanti, della salita de "I Cappuccini". Non è un caso la citazione manzoniana, perché, sarà il nome del muro, sarà la follia divoratrice di metri e asfalto dell'attacco di Ben Healy, ma, vedendolo attaccare, a cinquanta chilometri dall'arrivo, ci sono tornate in mente le parole dedicate da Manzoni a Padre Cristoforo, mentre rimprovera Renzo, al lazzaretto: «una voce che aveva ripresa tutta l'antica pienezza e sonorità, la sua testa cadente sul petto s'era sollevata, le gote si colorivano dell'antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile». Quel fuoco, quel qualcosa che viene da lontano e racconta una verità, è nelle gambe di Healy quando, senza paura, sceglie di restare solo: l'unico modo per avere la certezza di vincere, l'abbiamo sentito dire. Attaccare.

Sgraziato, sbilenco in bicicletta: se fosse vera quella storia che racconta di come una coppa di champagne sulla schiena di Anquetil, in una cronometro, non avrebbe versato nemmeno una goccia, la stessa coppa, probabilmente, zampillerebbe champagne da più parti, sulla schiena Healy, ma chi ha detto che sia sbagliato, che la storia di una coppa di champagne consumata non sia ugualmente bella e piena zeppa di amori e umori. L'attacco di Healy è l'apologia della fatica, l'esaltazione della massima difficoltà, una ricerca mai finita, un viaggio disperato e di speranza. È nato a Kingswinford, nel 2000, ma ha scelto l'Irlanda, la terra da cui venivano le biciclette del padre, quelle che vedeva e da cui ha tratto ispirazione. Sopracciglia folte, barba, orecchini e capelli neri, mossi, che fuoriescono dal cappellino. Ha qualcosa del cantante, qualcosa dell'attore forse. Ha quel cognome che pare quasi vezzeggiativo e che fa pensare al verbo inglese "heal" ovvero guarire.

L'attacco è la sua guarigione, un antidoto contro l'ovvietà, anche a costo di perdere, perché quando si mette in piedi un'azione così si può uscirne non solo sconfitti, ma distrutti. Invece Healy guarisce e aumenta il vantaggio: dietro, nella fuga, quella portata via con fatica, dopo 70 chilometri, hanno volti stanchi, tirati, si attaccano e si punzecchiano. Secondo sarà Gee, terzo un ottimo Zana. Ben Healy viene da lì, ma sembra di un'altra galassia, pur con un’origine, una scintilla, comune: la fuga, per l'appunto.

Della stessa apologia della fatica, si ritrova qualcosa in Leknessund e in Roglič. Il primo prova ad andare in fuga, per aumentare il vantaggio, per sgravare i compagni di una parte di lavoro, risponde all'attacco dello sloveno, poi pagherà, ma andate a riascoltare Healy e forse questo vi interesserà meno. Roglič attacca, sorprende Evenepoel, guadagna, il giorno prima di Cesena, dove tutti aspettano Evenepoel mattatore. Un gesto, un segnale. Non solo: forse anche involontariamente un modo di arrivare dall'altra parte, di lasciare qualcosa, un dubbio (chissà) nei rivali, il pepe, il fuoco, la passione, la voglia in chi guarda. Senza preoccuparsi delle gocce di champagne che possono cadere.

Ieri, in molti, hanno parlato di Marco Pantani. Noi ne parliamo oggi, pensando alla sua frase: «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia». Sull'agonia ci fermiamo. Lo è stata anche quella di Healy, anche se pare essersi divertito, lo è stata e si vedeva da come maltrattava la bicicletta sull'ultima ascesa a "I Cappuccini". Verrebbe da chiedergli: «Perché hai attaccato a cinquanta dall'arrivo, quando, probabilmente, avresti potuto vincere lo stesso, gestendoti e facendo l'azione nel finale?». Verrebbe da pensare a una risposta del tipo: «Per vivere la mia agonia» E, quindi, guarire. Nascere o, forse, crescere.


"No guerre, sì rostelle"

«Uno scatto secco dopo essere stato in fuga con Gotti, il knockout! Siamo con un primo piano di Pantani. Pantani che taglia il traguardo, vince! Alza il braccio Pantani!» esclama un esultante Adriano Dezan sul finale dell’ottava tappa del Giro 1999. La Pescara-Gran Sasso è durata oltre sette ore, ma in salita il Pirata ha fatto la differenza ed è riuscito a strappare la maglia rosa a Jalabert.

Anche quel giorno, lassù a Campo Imperatore, due muri di neve si ergevano a lato della strada. Un nebbione esoterico non faceva intravedere nulla: un urlo di Dezan squarciò inquadrature neutre di persone a caso all’arrivo, «eccolo!».

Se nel 1999 si saliva da Assergi e Fonte Cerreto, nel 2023 si arriva al “piccolo Tibet” - com’è soprannominata la piana subito sotto i chilometri finali verso Campo Imperatore - da Calascio e Santo Stefano di Sessanio. Cambia l’inizio della salita, cambia anche la capacità delle televisioni di trasmettere la tappa: le quasi sei ore di corsa sono state trasmesse in diretta integrale e senza particolari interruzioni. Sei ore, inutile nasconderlo, senza grandi emozioni.

Quattro corridori in fuga prendono grande vantaggio, ma l’unico con vittorie da professionista - Henok Mulubrhan, campione africano - si stacca ai -119 dall’arrivo. Restano tre gregari, là davanti: Simone Petilli, Davide Bais e Karel Vacek. In motocronaca Stefano Rizzato non può che constatare che il gruppo dei capitani è «quasi fermo». E poi ancora, riguardo una cucina abruzzese pacifista: «La cosa migliore che ho visto in questi ultimi chilometri è stata lo striscione “no guerre, sì rostelle”».

Questo attendismo tra gli assi, oltre ad essere diametralmente opposto a quello della tappa del Gran Sasso di Pantani, mi ha ricordato una delusa considerazione di Indro Montanelli al Giro del 1948: non citeremo uno scrittore in ogni pezzo, da qui a fine Giro, ma a pensarci meglio perché no. Insomma, parlando del difetto di combattività degli assi il giornalista fucecchiese chiosò: «Non lo capisco e, per parlarci chiaro, non mi piace».


L'ultimo passo del ballo del freddo

L'ultimo passo, anzi, l'ultima pedalata, dal ballo del freddo, a Campo Imperatore, al Gran Sasso, è di Davide Bais. È un passo segnato dalla fatica e dalla rabbia. È un passo segnato da tanti sogni spezzati come sono spesso le fughe, l'ultima proprio ieri, a Napoli, per De Marchi e Clarke. È il passo perfetto, a chiudere la danza, prima di levare le braccia verso quella che pare quasi una creatura mitologica di altri tempi, la montagna. Simile a un ghepardo, ma dal manto verde, maculato di bianco, dove riposa la neve, un manto che, con la crescita dell'animale, con l'altitudine che sale, diventa sempre più bianco. L'ultimo passo, dal ballo del freddo, è lo scatto decisivo, a pochi metri dal traguardo, è un passo raro, mai riuscito, nonostante tante prove. Riuscito solo nel giorno del ballo del freddo, quassù, al Gran Sasso. A Davide Bais.

Ha caratteristiche peculiari il ballo del freddo: gambali in battere e levare, indossati e tolti, per la pioggia dei primi chilometri e per il sole che proietta le prime ombre. Mantelline chiuse, riaperte, richiuse, poi tolte, buttate in ammiraglia. Acqua che si asciuga e diventa freddo e, poco dopo, sudore, maglie aperte, slacciate, promesse di neve e vento, che spazza queste zone. Mani rivestite da guantini e dita fuori: bianche per la pioggia fredda e rosse per il caldo della fatica.

Davide Bais, Simone Petilli, Karel Vacek, in fuga sin dai primi chilometri, fatica per fatica, freddo per freddo, questo è il mestiere della fuga. Il mestiere della fuga è quel sogno spezzato a cui si accetta di andare incontro ed alla fine, forse, ci si abitua anche al fatto che la moltitudine, ovvero il gruppo, lo spezzi, ma nella progressione di un uomo in fuga, nei rilanci per allontanare il gruppo, nell'elastico per restare attaccato alla ruota di chi è all'attacco con te, nel controscatto, c'è l'infinito di quel verbo, del verbo sognare. Un infinito che affascina, che attrae, di segno uguale e contrario a qualunque ciclista. Infinito ovvero consapevole del fatto che le fughe non finiranno mai. Non sarebbero mai finite lo stesso, ma Davide Bais, che vince a Campo Imperatore, è un monito in più, per ricordarselo, per ricordarlo a chi, magari, stava pensando che domani non sarebbe andato in fuga, perché stanco dalla prima settimana di Giro d'Italia, o quasi certo che tanto la fuga non sarebbe arrivata oppure spaventato dalle due settimane restanti. Ogni tanto un ciclista ci pensa, non lo dice, ma ci pensa. Soprattutto nei giorni del ballo del freddo.

In tre, assieme per ore, in tre all'atto finale di questo ballo. Simone Petilli, che attacca già ai meno sei dal traguardo, che forza l'andatura, che, dirà, poi, di aver sbagliato, perché era meglio aspettare. Karel Vacek, che avrebbe smesso solo qualche tempo fa, che non lo ha fatto per rispetto dei sacrifici che, invece, ha sopportato per poter anche solo pensare di essere un ciclista. Vacek che si stacca più volte, rientra, sembra quasi fare la differenza e torna a patire. Davide Bais che controlla l'uno e l'altro, mentre lo sguardo, celato dagli occhiali, è rivolto solo alla strada. La concretezza di chi, a forza di confrontarsi con la fuga, ha capito che non resta altro da fare che controllare la propria strada, e gli altri faranno quello che faranno. L'uomo in fuga lavora solo sul proprio istinto, lo affina, e sulla propria solitudine, anche se non è materialmente solo, su come affrontarla, gestirla, su come fare i conti solo su una bicicletta e un pugno di muscoli.

L'ultimo passo del ballo del freddo è questo: un passo di libertà, di prospettiva, di indipendenza, che è la base di ogni legame. Il fratello, Mattia Bais, esulta durante gli ultimi due chilometri: in questo linguaggio comune, costruito dal fuggire, dall'andare, dall'affrontare la moltitudine inventando una via, un linguaggio conosciuto, scavato, vissuto. In gruppo non succede molto, è vero, anzi, quasi nulla. Solo un allungo di Evenepoel sul finale, che precede Roglic. Ma non è il momento di parlarne.

Domani, più o meno alla solita ora, qualcuno proverà ad andare in fuga. E domani, più o meno alla solita ora, avrà un motivo in più per scegliere di farlo, piuttosto che di non farlo. Perché dall'ultimo passo del ballo del freddo è uscito Davide Bais, che a forza di sogni spezzati, di fughe interrotte, ne ha ricostruito uno di sogno e, con tutti i pezzi che c'erano in giro, è uscito un gran sogno. Una grande fuga.


«Meravigliosa corsa umana»

Una definizione particolarmente calzante del Giro d’Italia è firmata da Alfonso Gatto: «meravigliosa corsa umana». Come il poeta campano, anch’io oggi mi sono convinto del fatto «che i sogni sono fatti di montagne e di cielo, di città popolose abitate da uomini felici che stanno alla finestra a veder passare il mondo». Quelle di Gatto dal Giro del 1947 erano cronache intrise di «originario stupore per quei benedetti ragazzi che riusciranno a volare su due ruote sole come angeli»: era un’epoca, quella, in cui le macchine della stampa potevano transitare tranquillamente in gruppo. I giornalisti potevano parlare coi corridori durante la corsa o fare colazione a fianco dei campioni.

Oggi l’accesso è molto più limitato. Non mi era mai capitato, prima di ieri, di seguire la corsa da dentro. Poi è successo che Shimano avesse un posto libero in macchina, mi hanno detto vuoi montare su? Sono andato. La tappa di Napoli era nel mirino di tanti: per il suo disegno su e giù tra la penisola sorrentina, per il fatto di accadere in una città che festeggia la fine di un’attesa di 30 anni, per il poter tornare - dopo l’anno scorso - a mangiare la pizza sul lungomare. Sono quindi salito in macchina per godere di tutta la tappa da un punto di vista privilegiato: mai come nella tappa di oggi mi sono reso conto di quante persone attendano l’arrivo del Giro. Si è passati in zone popolate, calorose, colorate: un San Siro e un Anfield lunghi 160 chilometri.

È difficile citare quali comuni ci abbiano riservato un’accoglienza migliore di altri, ma ne cito tre per motivi diversi. Il primo è Pollena Trocchia, perché non avevo nemmeno idea di cosa fosse prima di oggi e, travestito a festa per il Giro, mi ha fatto una gran impressione. Il secondo è Sant’Antonio Abate, per tutte quelle persone che se ne sono infischiate delle transenne del traguardo volante e hanno voluto incitare Alessandro Verre più da vicino, pur rispettando la distanza di sicurezza. Il terzo è Sorrento, perché non capita spesso di vedere due ali di folla a lato strada e sopra di te striscioni per tutta una rosa di calciatori.

La tappa di oggi è passata due volte attorno al Vesuvio, da Pompei, sulla costiera amalfitana e poi su quella sorrentina. È passata la fatica nelle gambe di Alessandro Verre, che per 80 chilometri ha inseguito vanamente. È passata la splendida vista verso Furore e il suo fiordo. È passata una giornata a Napoli, e io a malapena me ne sono accorto, stupito com’ero di tanta bellezza.


Come la festa per Napoli

Ci hanno detto che, a Napoli, il concetto di festa, tra le altre cose, è racchiuso in una domenica insieme, mentre sul fuoco c’è il ragù. A dire il vero, la festa è nel ragù che inizia a “pippiare”, ovvero a sobbollire. Quel pippiare è l’inquietudine dolce e turbolenta della felicità, di un attimo di dimenticanza, per dirla con Totó.

Quel “pippiare” è quel classico sbuffo che è ben più di un suono: è un profumo, un posto a tavola aggiunto all’ultimo, un tavolo, anche piccolo, attorno cui possono stare tante persone, “perché a quello serve una tavolata”. Abbiamo ascoltato e abbiamo pensato che se è così, festa è, in fondo, la possibilità del circostante di realizzare il proprio significato, oppure uno dei propri significati. Festa è l’azzurro delle decorazioni per il Napoli Campione d’Italia, perché i bambini, quando giocano a pallone la prima volta, sognano un tricolore sul petto. Festa è Diego Armando Maradona perché manifestazione di un talento, di un divertimento che fa divertire, che porta dimenticanza. E, nel frattempo, quel che non va resta sospeso, da solo, e quasi perde di peso.

Festa è il gruppo che pedala sulle strade della Costiera Amalfitana: perchè quelle biciclette sembrano perfette per stare lì, perché i mille colori di una canzone, che da queste parti si sente spesso, sono dentro e attorno il gruppo. Festa non è solo musica, grida di gioia e notti con la luna a vista, festa è anche il silenzio di chi sa che, oggi, la propria festa sarà diversa. Sarà un dolore quietato, il sollievo di un lettino dei massaggi, di una doccia, la consapevolezza di essere stati coraggiosi, perché, ricordate, festa è realizzare la propria possibilità. Pensiamo ad Andrea Vendrame, che è partito con una “disgiunzione alla spalla sinistra” dopo la caduta di ieri. Lasciate stare i termini precisi, vuol dire dolore, male, vuol dire non potersi girare nel letto senza sentire male e faticare a tenere il gruppo quando “mena”, come si dice in gergo, in una tappa mossa, agitata. La sua festa è così, dolorante, opposta al concerto di festa tradizionale, ma identica al coraggio, alla volontà. Alla realizzazione di ciò che si ha dentro, anche se fa patire.

Un discorso simile e diverso vale per Alessandro De Marchi e Simon Clarke. Nelle sensazioni, guardandoli, seguendoli, sperando in quella fuga, che si tifa sempre ma oggi forse di più, c’è il “pippiare” del ragù. Uno sbuffo dentro, un tuffo di qualcosa che salta e zampilla, che può essere preludio alla gioia o all’amarezza, alla mancanza. La fuga è la loro personale festa, il loro sentire, il loro manifestarsi, la loro radice che si espande e cerca altri luoghi. La loro festa è una curva, un momento in cui il gruppo scompare. Vengono ripresi a trecento metri dall’arrivo dopo aver scosso polmoni e nervi all’indicibile. Si cercano con una mano sulla spalla, mentre poco più avanti Mads Pedersen vince, esulta.

Quella di Pedersen è, forse, la festa classica, è forse una domenica, anche se è giovedì: è il traguardo dopo la fatica, dopo il lavoro, dopo quasi una settimana di Giro. È la soddisfazione costruita lentamente, come lentamente si costruisce una volata: nei meccanismi, nei tempi, nella velocità e nel caos che riempie quei momenti. Pedersen che stringe la mano a Milan, un’altra sfumatura di festa.

E nell’aria c’è quell’inquietudine che fa presagire la festa, la realizzazione di qualcosa. Diverso per ciascuno come diversa per ciascuno è la festa.


Quando piove al Giro

Quando piove, il Giro d’Italia assume tratti diversi. Sono già diversi giorni che il tempo non è esattamente quello della scorsa edizione: non c’è caldo, il sole non picchia sulla corsa, nessun ciclista sta in pantaloncini e maglia corta. Durante la Atripalda-Salerno, però, il meteo è peggiorato. Una pioggia da Blade Runner si è abbattuta sul percorso di gara dal chilometro zero, anzi da ancora prima: Damiano Caruso si è accorto della «giornata umida» già in albergo, quando lo abbiamo incontrato lungo in corridoio.

Forse l’ibleo era ironico, forse sottostimava l’assurda quantità di pioggia che cade ogni anno in Irpinia: «Siamo a soli 200 metri d’altitudine, ma qui fa sempre così. Secondo me piove almeno 300 giorni l’anno» afferma Mary, che col compagno gestisce il bar Moon’s Face, davanti al quale i bus delle squadre hanno parcheggiato per preparare la partenza. Mentre mi riparo come posso, due britannici stanno vivendo temperature molto diverse, a giudicare dalle apparenze: Mark Cavendish è in maniche corte, quasi rilassato, mentre Tao Geoghegan Hart ha tirato su lo scaldacollo fin quasi ai capelli.

Con la pioggia sul Giro, si fa più timida la gente a bordo strada e diventa meno colorato il plotone dei ciclisti: le mantelline, per esigenze di fabbricazione, sono spesso tutte nere. Remco ne ha una con l’iride e poco altro. Nemmeno Cavendish ha la mantellina di campione britannico. Sul percorso, la gente sfida la pioggia sotto gli ombrelli, come Lukas Pöstlberger per andare al foglio firma. Le strade sono più scivolose, il freddo entra nelle ossa dei corridori e avrà effetti imperscrutabili nei prossimi giorni, si bagnano le scarpe di tutti i meccanici. Anche i ciclisti più esperti possono attraversare la linea del traguardo separati dalla loro stessa bici, com’è successo a un rotolante Cavendish. Eppure il Giro va avanti e oggi scriverà un’altra pagina del suo romanzo: magari non più intrisa di pioggia.


L'attimo

Probabilmente giornate come queste sono quelle in cui risulta più difficile concepire l'attimo, gli attimi. Sì, perché, con la pioggia battente già sui vetri della finestra dell'albergo, all'alba, le ore di corsa, quattro e mezza in totale, ma apparentemente infinite, sono solo un ammasso nebuloso, informe. Un peso da portarsi sulle spalle, lì dove continua a battere fitta l'acqua, un banco di nebbia da attraversare, cercando qualcosa dall'altra parte. Qualcosa che, spesso, in giorni come oggi, non si ritrova. Un mestiere duro quello del ciclista, forse, soprattutto in giorni così, in cui i rischi sono più delle opportunità, almeno apparentemente. Non è l'altimetria a complicare una giornata che potrebbe essere una delle tante, ma un cielo cattivo che rovescia acqua e un asfalto viscido su cui si pattina quasi. Eppure l'attimo esiste anche oggi, anzi, esistono anche oggi gli attimi.

Della fuga abbiamo parlato più volte, e pare ovvio ribadirlo, ma per Champion, Gandin e Zoccarato l'attimo è stato a inizio gara, quello che li ha separati dal gruppo e li ha illusi di trovare qualcosa al di là di quella nebbia. Non ne valeva la pena se doveva essere un'illusione, dirà qualcuno. Invece, si va avanti anche per illusioni, che, se non fosse per loro, giornate così non si inizierebbero neppure. L'attimo è quello di una borraccia che, abbandonata da un corridore, finisce a bordo strada, e in quell'attimo c'è qualcuno che è proprio lì, che può raccoglierla, portarla a casa. Un attimo solo, di tempo e spazio: un attimo prima o un attimo più in qua o più in là e non c'è borraccia, non può esserci, resta l'attesa e lo sguardo verso chi quella borraccia la stringe in mano.

Gli attimi sono quelli che precedono una caduta, una scivolata, l'ultima cosa che si vede prima di finire a terra, l'ultima cosa a cui si stava pensando prima di quel momento in cui la bicicletta va altrove e si resta "senza". Gli attimi sono quelli dopo una caduta: Remco Evenepoel a terra, seduto, senza muoversi, senza parole. Gli attimi in cui si cerca di capire cosa sia successo, si teme di sentire male a muoversi, di scoprire un dolore che immobile non si sente, di non riuscire a ripartire. Sono attimi senza fine, attimi che vengono riempiti dal nervosismo del dopo, che altro non è, se non paura passata. Due cadute in una giornata per Evenepoel, apparentemente senza grosse conseguenze fisiche, ma con quegli attimi farà comunque i conti Remco. Sono attimi che fanno sentire fragili, che tolgono la sicurezza anche all'uomo più forte del momento.

Attimi che dovrebbero far riflettere anche chi è a bordo strada, a vedere, perché dalle scelte di un attimo possono dipendere quelle cadute. E anche quando si è spettatori, anche quando si sta a guardare, forse soprattutto, l'attenzione è fondamentale: non è un gesto passivo guardare, è attivo. Quando si guarda, si fa, si è lì, presenti. Quando si è presenti, ovunque, serve cura.

Anche le gallerie conoscono i loro attimi: momenti in cui le spalle, gli occhi, le mani, il volto trovano pace dall'acqua e non sembra vero. Sono attimi in cui le gocce non scorrono sulla mantellina per poi piovere a terra. Si trova l'importanza delle cose in giornate come questa, la si inventa, si conferisce una nuova importanza a quel che si attraversa.

La volata è attimo per eccellenza. L'attimo in cui l'ultimo uomo lancia il proprio velocista, l'attimo in cui il velocista stesso parte e ancora l'attimo in cui si mette la propria ruota davanti agli altri e quello in cui si arriva per primi su una fettuccia bianca che è la fine del mondo. Kaden Groves vince così, dopo una caduta, dopo una giornata difficile. Gli abbracci con i compagni sono, in realtà, uno scambio di acqua, che ha impregnato tutto. Stamani chi avrebbe cercato un attimo come questo, un attimo di felicità pura, in un alba di pioggia e freddo? Ben pochi, probabilmente. Ma è così che funziona: gli attimi importanti vanno cercati pure in mezzo al nulla, al vuoto, anzi, soprattutto lì, perché è lì che si annidano. È lì che hanno la possibilità di cambiare qualcosa. Questa è la loro funzione. La nostra, quella di chiunque, è di non smettere di cercarli, di credere che ci siano.