Biciclette Rossignoli, Milano
Ai tempi di Sergio Rossignoli, Milano era completamente diversa. I negozi, allora situati nel centro-sud della città, vennero distrutti dalle bombe della guerra mondiale, ma anche Corso Garibaldi, dove trovò casa "Biciclette Rossignoli", non aveva nulla a che fare con quel che si vede oggi, mentre ci si accosta alla vetrina. «Non c'era tutto questo sbrilluccicare. Ai nostri giorni, Corso Garibaldi è un'isola felice, di una felicità anche finta, se vogliamo, è una via di miliardari, di privilegiati. Quando ero piccolo io e vivevo qui, era quasi una strada della rive gauche di Milano. Si vedevano prostitute ed alcolizzati. Si sapeva che da queste parti c'era il covo degli anarchici e la casa di Pietro Valpreda. Certo, questa è la nostra strada, quella da cui proveniamo e non lo scordiamo nemmeno per un secondo, tenendo sempre presente che è una strada di fatica, sacrifici, grosse difficoltà, non un eterno presente del privilegio»: a parlare è Matia Bonato, nipote di Sergio Rossignoli, eppure, pur non avendolo conosciuto, siamo subito convinti che parole simili avrebbe potuto pronunciarle anche Sergio.
Lui che capiva a vista d'occhio se un telaio fosse dritto o storto. Quel vecchio telaista che, tanti anni fa, scaricò una cinquantina di telai nel cortile di Rossignoli potrebbe ben raccontarlo. Sì, perché Sergio, prendendone uno in mano, lo ammonì con uno sguardo: «Quei telai sono tutti storti». Il telaista contestò, ma il signor Rossignoli, con la dima, confermò quell'impressione «e lo cacciò "a pedate", facendogli portare via pure tutti i telai». Lui che considerava i meccanici parte della famiglia e a molti comprò casa. Lui che, forse, non aveva la classica dolcezza dei nonni, ma a Matia ha insegnato le cose più importanti: «Poteva esserci un copertone da mettere o due viti da sistemare nel divano della casa in montagna e lo sentivi che mi chiamava: "Ue' nani, sù, vegn qui a darmi una mano!". Era andato a lavorare giovanissimo: dormiva spesso in officina, perché c'era tanto lavoro da fare e poco tempo per farlo. Un uomo molto affezionato alla sua creatura, sempre presente nel momento del bisogno della famiglia. Autorevole, autoritario. Tutti gli davano del lei per il rispetto che suscitava».
Sergio Rossignoli è stato a capo di Rossignoli fino agli anni ottanta: andava spesso in bicicletta, anche in città, e delle biciclette si prendeva cura come fanno i meccanici perché era un meccanico. Matia Bonato ha ancora oggi presente la bellissima Rossignoli, con telaio Alan, su cui pedalava: la puliva attentamente, registrava il cambio e prima di uscire si vestiva da ciclista. «Portava la camera d'aria, ma non la borraccia. Diceva che bere, in bicicletta, fa male. Per i suoi ottant'anni, i miei diciotto, facemmo un giro assieme. Negli ultimi tempi, portò quella bicicletta, quasi a custodirla, nella sua casa in collina, in Val d'Intelvi. Mi è rimasta la cura nel parlare di bici e nell'aver a che fare con le bici che aveva lui». La storia racconta che Matia arriva in Rossignoli circa dodici anni fa, nel 2011, proprio quando manca il nonno ed il negozio attraversa un periodo difficile. Lascia il suo precedente lavoro e sceglie di proseguire la via tracciata dal nonno, non senza timori, non senza preoccupazioni: «Il primo concetto con cui mi sono trovato a fare i conti è quello di responsabilità, o meglio, di una responsabilità diversa da quella che si sperimenta da dipendente. In un'attività di questo tipo, ci sono persone che arrivano alle sette del mattino in officina, a lavorare, che magari hanno un mutuo, dei bambini piccoli e tu devi pensare a loro, è un dovere morale. Ho vissuto almeno un paio di momenti davvero complessi qui ed il nostro stipendio era l'ultimo ad essere pagato. Non è facile». Eppure Matia, insieme a Giovanna, Renato e Giorgio, della vecchia generazione, e a Matteo, suo cugino, continua a lavorare in negozio: è orgoglioso di essere l'unico Bonato insieme a tanti Rossignoli e ci scherza sopra. Quando gli chiediamo come si gestiscano le altre difficoltà del suo lavoro, la risposta, già dal tono, ridimensiona tutto: «Credo sia evidente ai più che cosa facciamo. Non operiamo a cuore aperto, non curiamo bambini gravemente malati: sì, è un lavoro ed in tutti i lavori ci sono cose difficili, ma una volta che si ha chiaro questo, si capisce che, bene o male, è tutto alla nostra portata».
Quando si entra da Rossignoli e si sente l'odore di gomma, di muri leggermente scrostati, è impossibile non pensare alla storicità, non artefatta, del luogo e a tutta la strada fatta. Si avverte subito la bicicletta vissuta come mezzo: per andare al lavoro ed anche per “sbarcare il lunario”, il che apre tutto un discorso sulla professionalità e sulla cultura che, ci spiega Bonato, sono sempre più necessarie nel mondo del ciclismo: «Rossignoli è anche storia, ma non solo storia. La storia va di pari passo con la modernità: ogni giorno arrivano da noi biciclette di altissimo livello e voglio che i nostri meccanici sappiano trattarle. Siamo anche il negozio del freno a mazzetta e dell'anziana sciura milanese, però non solo. I miei figli sono nati al Buzzi e quando mi è stato chiesto se fossi tranquillo, ho risposto: "Sì, perché lì fanno nascere bambini come da noi si cambiano le camere d'aria". Parlavo di casistica e competenza. Mi piace pensare che chi viene da noi abbia lo stesso pensiero, la stessa fiducia». Già, i meccanici ed il loro "posto sincero": «Sì, perché come tutti i meccanici sono scontrosi, poco amici dei santi, litigano tra loro, usano le mani per lavorare, si tagliano, si fanno male, conoscono la teoria e l'empirismo che la manualità porta». Quel male alle mani, per giorni e giorni, Matia Bonato lo conosce bene: l'ha provato a marzo, quando ha scelto di montare lui copertoni e camera d'aria sulla sua bicicletta e, dopo quaranta minuti, ne è uscito con le mani distrutte. Quel giorno, ha ripensato a una massima del dialetto milanese, in cui si riconosce: "Ofelè fa el to mesté!". Ovvero alla necessità che ognuno faccia il proprio, in ogni campo.
È la realtà di ogni negozio, di ogni luogo in cui le persone si alzano all'alba per iniziare a lavorare, in cui qualcuno porta dentro e fuori quaranta, cinquanta biciclette al giorno, si confronta, parla, ascolta, cerca di capire. E questa consapevolezza, aggiunge Bonato, è il motore per decidere di fare rete, di fare squadra: mentre l'e-commerce che è sempre più importante, un fenomeno con cui non si può competere, può spazzarti via. Mentre la specializzazione, l'iperspecializzazione, ti lascia indietro se non studi, se non ti aggiorni e la bicicletta è cambiata tantissimo, da quella prima gravel, «che sembrava una bici da corsa, ma col passaggio più ampio e le gomme tassellate», che Matia vide e di cui mandò la foto ai suoi collaboratori, meravigliato, affascinato. C'è tutto questo e poi c'è la sensazione che si prova mettendo in bicicletta qualcuno e quella non cambierà mai: «A cascata, in quel momento, succede una quantità di cose e si trasmette una quantità di valori incredibili, la libertà, lo stare insieme, la sostenibilità, l'efficienza. Se si tratta di una bici da città, intuisci il modo in cui cambierà la città, la modificherà con il suo scorrere, se è una bicicletta da corsa pensi allo sport, al benessere, alla scoperta del territorio, se, invece, metti in sella un bambino sei certo del fatto che quel giorno la sua vita cambierà, perché la prima bicicletta la ricordiamo tutti. In generale, quando metti qualcuno in sella inneschi un cambiamento fortissimo ed inesorabile».
Matia Bonato si ferma, un attimo di silenzio, e riflette su quel permanere di questo sentimento. Poi, a voce più bassa, riprende a parlare: «Rossignoli è da sempre legato alla città, a Milano: una città in cui ci riconosciamo, ma, allo stesso tempo, una città profondamente imperfetta, che deve cambiare. Provare ad innescare il cambiamento e, poi, leggere di incidenti mortali in bicicletta è scoraggiante. Porta a riflettere sulle conseguenze di ciò che facciamo: spesso meravigliose, talvolta drammatiche. Io ho due figli e guardo la città con i loro occhi: quel che va bene per i miei figli va bene anche per me. Serve una città a misura di persone, le biciclette vengono di conseguenza. Se continuiamo a fare quel che facciamo è perché crediamo nel fatto che una città a misura di persone sia meglio, per tutti. Per questo noi incontriamo chi ha una responsabilità politica e chiediamo cosa intenda fare per questa situazione. Da un campo non si possono pretendere solo i frutti: bisogna lavorare, bisogna zappare. La città è il nostro campo».
Da molti anni, in Rossignoli si è presa la decisione di restare aperti anche al mese di agosto: si parla di presidio della città, di punto fermo in cui si sa che, anche nel caldo soffocante, ci si può rifugiare e sentirsi a casa: in un luogo non anonimo, che, in qualche modo, permette di riconoscersi e, quindi, di tornare. Il tutto perché l'essere umano, come diceva Aristotele e come ricorda Matia Bonato, è un animale sociale, con tutto il bello ed il brutto che ne consegue: «Non siamo ipocriti: c'è anche tanta maleducazione, bisogna dirlo. Anzi, a dire il vero, c'è di tutto, perché così sono le persone. Milano è anche la città dei "fighetti", dei giovani che si comportano da "fighetti", ma noi ci siamo da prima e sappiamo che anche questa è una maschera, che, grattando grattando, l'essere umano è sempre lo stesso. Spesso pieno di solitudine, di dolore, di voglia di sfogarsi, di raccontare tutto, anche se non ci si conosce. Basta una birra, una coca cola, per liberarsi. Può essere pesante, talvolta lo è. Può essere gratificante, perché per noi la bicicletta è un mezzo per parlare alle persone, per fare cultura, attraverso un libro o un incontro. Alla fine, non può bastare vendere una bicicletta. No, non può proprio bastare».
Così passare da Rossignoli - che nel 2021 ha ottenuto l'Ambrogino - vuol dire vedere il compressore fuori dal negozio, utilizzarlo, magari dire un "grazie", scoprire un servizio che un negozio offre alle persone, alla città. La nuova sfida riguarda la biomeccanica e il Rossignoli Bike Lab, appena aperto, rivolto sia agli amatori di lungo corso, a chi controlla i millimetri della sella ed i watt, ma anche a chi la bici l'ha scoperta più di recente ed ha male alle spalle, al ginocchio, al sedere, formicolio alle mani: «Al suo interno, un professionista, preparatore atletico, si preoccupa di metterti in sella e un software di Retool verifica ogni parametro. Si tratta di qualcosa di simile alle astronavi: si pedala con tutti dei bollini addosso e ci si vede pedalare sullo schermo. Ad essere sincero, questa cosa mi ha messo un poco i brividi, pensando a nonno che chiudeva un occhio per mettere a fuoco. Chissà cosa avrebbe detto, me lo sto immaginando». Si sorride qualche istante, poi, chiediamo cosa avrebbe effettivamente detto il nonno. «Fammi vedere come si fa»: avrebbe detto così, Matia ne è certo: sarebbe stato entusiasta come era entusiasta del primo cambio Campagnolo, quando uscì.
Parlando di una bicicletta: «quella che ha traghettato il nostro paese dalle macerie della guerra al boom economico che, purtroppo, poi, l'ha cancellata, quella di Coppi e Bartali, dell'epica e della tragedia di Pantani, quella che racconta moltissimo sia a livello sportivo che a livello spiccio». Quella di "Biciclette Rossignoli", in Corso Garibaldi 71, a Milano.
Giant Revolt X Advance Pro 0 - Gravel, ma anche di più
La prima impressione, spesso, è quella corretta. Quando abbiamo visto per la prima volta la nuova Revolt abbiamo pensato: «altroché gravel, qua c’è molto di più!»
Partiamo dal telaio, progettato con una geometria ottimizzata per le sospensioni e abbinato a una forcella da 40 mm di escursione, il tutto a favore di una guida fluida, soprattutto sui terreni accidentati. I foderi verticali ribassati con tubi di diametro inferiore, poi, sono pensati per assorbire ulteriormente gli urti e le vibrazioni della strada.
Noi l’abbiamo testata all’interno di un bosco, tra ghiaia, radici di alberi, fango, e possiamo assicurarvi che la sensazione è quella di essere su un mezzo davvero molto sicuro. Altra caratteristica importante è la presenza di un flip chip sul forcellino posteriore, che consente di regolare l'interasse e aumentare la distanza pneumatico – telaio: corto per maneggevolezza e rapidità o lungo per una migliore stabilità alla velocità. L'impostazione lunga oltretutto permette di utilizzare pneumatici di diametro fino a 53 mm. Si avete capito bene, 53! Per quanto riguarda il reggisella la scelta è ampia: si può utilizzare quello telescopico, oppure optare per il D-Fuse per una maggiore comodità o, ancora, passare a quello rotondo standard da 30,9 mm. Infine, il manubrio Contact SL XR D-Fuse, perfetto su questa bici per ridurre ulteriormente l'affaticamento assorbendo urti e vibrazioni.
Come potete capire è una bici che strizza l’occhio al mondo delle mtb, senza perdere le caratteristiche classiche del mondo gravel. Ci avevamo visto giusto, «gravel, ma anche molto di più!»
Scavezzon Biciclette, Mirano
A Mirano, in via della Vittoria 141, dalla strada non si vede pressoché nulla. Sì, ci sono due finestre, ma l'occhio è ben lontano da intuire cosa possa esserci dietro quei vetri. Un piccolo mistero, che accresce la curiosità. Il primo incontro con "Scavezzon Biciclette" ha soprattutto il profumo della sobrietà e della cautela, dell'attenzione, delle prime volte: di quando ancora non ci si conosce, ma qualcosa dice che è il momento giusto per iniziare a scoprirsi. Di lunedì mattina, è Martino ad accompagnarci verso l'interno del negozio che non si è ancora svelato, e lo fa parlando del più e del meno, come sempre in queste occasioni, mentre sta passeggiando con il cane: «Nostra madre ci ha insegnato la cura degli oggetti, anche di quelli vecchi, già usati: recuperare, rivedere, riproporre. Grazie a mamma abbiamo imparato che un pezzo di falegnameria può diventare ben altro dal suo primo utilizzo, come una parte di rotaia o la catena di una bicicletta ferma da tanti anni. Non è un fatto molto diverso dalla cura dei regali, dal posto che si dedica ad un pensiero su una mensola o su un tavolo.
Quello che vedrai è legato a stretto filo a questo pensiero. Ed in ogni cosa che guarderai ricorda: sii ironico. L'ironia è fondamentale, non se ne può fare a meno». Una sorta di lente attraverso cui guardare, un modo per sentirsi a casa propria, quando le porte si aprono e l'universo "Scavezzon Biciclette" si mostra. Universo perché ricco di cose, di oggetti, di scritte, di carte, di quadri e ovviamente di biciclette. Ed in ogni universo, tanto è ampio l'ambiente che serve qualcuno che accompagni.
«Vorremmo- continua Martino- che la visita del negozio fosse un viaggio emotivo, persino spirituale arrivo a dire, un percorso che possa suggestionare e portare oltre quello che c'è. Ah, dato importante: un poco di stronzaggine ce la mettiamo, ma è buona, è per guardare meglio la realtà». Martino Scavezzon ride, noi invece prendiamo a riflettere sulle sue parole, chiave di lettura dell'osservazione. Andrea, fratello maggiore di Martino, aveva proprio ragione: «C'è qualcosa di artistico in ogni idea di mio fratello, è il suo modo di essere e lo ha portato in negozio. Io dico che è l'anima artistica di queste mura: tutto ciò che vedi sulle pareti, appoggiato, scritto o raffigurato è farina del suo sacco. Ha studiato all'Accademia di Belle Arti e la sua formazione si sente».
Sì, gli Scavezzon sono tre fratelli; il terzo è Emilio, il meccanico dell'officina. «Lui è burbero-narra Andrea- ma è una caratteristica abbastanza comune dei meccanici. Con le biciclette se la intende perfettamente. Testardo, di certo, ma geniale. Deve trovare la giusta sintonia e poi non lo ferma nessuno». Raccontano che hanno sempre vissuto assieme, lavorato assieme, condiviso tutto. Che qualche volta non è stato facile, ma non avrebbero potuto o saputo fare diversamente. Anche nel 1985 quando, con cinque milione di lire, rilevarono una licenza per la vendita delle biciclette ed iniziarono a fare questo lavoro assieme al cugino, almeno fino al giorno in cui il cugino disse: «Sono stufo, qui si fa la fame, io me ne vado». I fratelli si guardarono e fu Andrea a prendere l'iniziativa: «Proseguiamo noi». Così fu, dopo che Andrea Scavezzon terminò l'università, la facoltà di architettura, e provò diversi altri lavori, tra cui un lavoro in comune e uno a Marghera, nell'ambito dei servizi ferroviari. In effetti, nel negozio, si intravedono oggetti realizzati con materiale delle rotaie e Martino riprende a raccontare: «Non c'è un disegno o un progetto preciso dietro quel che si vede. Semmai c'è una riflessione continua ed un affidarsi a quel che sentiamo o viviamo noi. Crediamo sia il racconto di un percorso di tanti anni».
L'attività, come noi la vediamo, risale al 1990, «in quegli anni in cui c'era tanta buona volontà ma pochi soldi e bisognava crescere in fretta anche per quello, ora siamo in nove in negozio». Dice così Andrea e poi apre una parentesi personale: «A me piace proprio l'oggetto bicicletta. Mi è sempre piaciuto, come mi sono sempre piaciute le corse e andare a correre in bicicletta. L'oggetto bici, però, è ineguagliabile, di qualunque bicicletta si tratti. A questo proposito, ripenso a nonno». Il ricordo è quello di una bicicletta Umberto Dei, comprata dal nonno negli anni 50, utilizzando due stipendi dell'epoca: una bicicletta che c'è ancora e che, con la giusta manutenzione, svolge ancora il proprio compito. «Forse la domanda da porsi è: chi lo farebbe oggi? Probabilmente nessuno o quasi. Quando mi confronto con altri commercianti io mi concentro molto su questo punto: la qualità è necessaria perché permette di durare, di essere usufruibile nel tempo e una bicicletta deve durare nel tempo. Di più: una bicicletta deve entrare nella nostra quotidianità e far parte dei gesti di ogni giorno: andare a fare la spesa, andare dal barbiere, dal dentista, a sbrigare commissioni. Qui parliamo di cultura, di mobilità sostenibile. Non è vero che non si può, si può. Ma la qualità è il primo tassello della catena: c'è uno standard sotto cui non si può andare. Il nostro pensiero è questo».
Nel negozio si vedono: Brompton, cargo bike, biciclette pieghevoli, mountain bike, bicicletta da corsa, fino alle bici gravel. Andrea racconta di avere un rapporto stretto e particolare con ogni bicicletta presente e passata, con la Brompton, però, il legame è più forte: «Rispecchia quell'ampiamento dell'uso della bici di cui parlo: con lei ho percorso lo Stelvio, il Sellaronda e, sempre con lei, ho vissuto gli attimi più usuali delle mie giornate di lavoro». Ci sono i cani che girano per il negozio e c'è un tavolino con una macchinetta del caffè che lascia intuire il profumo della bevanda.
«Sai perché? Perché è una vera macchinetta del caffè, con ancora i chicchi, non di quelle con le cialde". Esclama Andrea sottilmente orgoglioso: "Il rapporto umano è quel che più ci interessa: noi dobbiamo conoscerti, farti tante domande prima di consigliarti una bicicletta. Poi tu sceglierai quella che preferisci, ma il nostro dovere è consigliarti quella che, in base a ciò che sappiamo di te, è quella perfetta. Sì, c'è un qualcosa di armonico tra una bici e chi ci pedala sopra. La conoscenza serve a scovare questa armonia». La parte umana del lavoro degli Scavezzon sulle biciclette è raccontata magistralmente da seicento cartoline, scritte a mano, ognuna con un francobollo, inviate ai clienti del negozio, con un messaggio diverso ogni volta, cartoline che vengono collezionate, cartoline da collezione per la cura e l'attenzione con cui vengono preparate e poi spedite.
L'interesse per le persone è anche visibile da quei dogi di Venezia ritratti in bianco e nero ed esposti e dall'inciso di Martino: «Perché fanno parte della storia di questo territorio, ma soprattutto perché sono personaggi curiosi». Un'attenzione coniugata con un pari interesse per la bicicletta ed il binomio è il viaggio, le strade che portano da un luogo all'altro. «La realtà è che- parola di Andrea Scavezzon- quando viaggiamo in bicicletta percorriamo spesso sempre le solite strade, quelle a cui siamo abituati. Prendiamo coloro che, nelle nostre zone, vanno al Montello: spesso lo fanno per vie pericolose. Ma quante strade alternative ci sono, magari fra i boschi o lungo il corso dei fiumi, che non conosciamo e che potrebbero piacerci? Sono strade sicure, lontane dal traffico». Da questa considerazione è nata la MiAMi, social ride che quest'anno affronterà la decima edizione, il 28 ed il 29 ottobre: «Da Mirano a Mirano, passando un anno per Asolo ed un anno per Arquà Petrarca, su strade secondarie, nella natura, affascinanti. Sono sempre più le persone che ci raggiungono e alla fine restano tutte meravigliate. La frase più comune? "Non avremmo mai pensato". Rende l'idea».
Viaggi come quelli che fa Andrea che, senza alcun dubbio, ammette: «I viaggi che hanno a che vedere con la bicicletta sono i migliori, però io mi guardo sempre intorno, vado a vedere altri negozi e qualche idea, qualche spunto lo porto sempre a casa». Ci fa l'esempio di quando è andato a Seattle e ha visitato questo negozio, nato da un anno e mezzo: il clima è freddo, spesso c'è anche ghiaccio per le strade, allora, in un locale, lì sotto, sono stati posizionati dei ciclosimulatori e le persone, quando hanno voglia di pedalare e non possono uscire, lo fanno attraverso di loro. Scavezzon osserva anche il posizionamento delle bici, il modo di esporle: è interessato soprattutto al mondo anglosassone, al loro approccio alla bicicletta.
Il flusso del racconto riprende con Martino che mette al centro l'ironia: «I nostri non sono clienti, sono pazienti. Il termine non è casuale, visto quante attenzioni hanno per il loro mezzo. Ma non finisce qui, ognuno ha le proprie fisse, le proprie stranezze. Devo andare nel dettaglio?». Noi stiamo già ridendo, pregustandoci i particolari, e la risposta non può che essere affermativa: «Un signore del Friuli Venezia Giulia, ad esempio, è fissato con gli ingrassatori. A me è venuto il dubbio: "Ma pedala anche oppure prende la bicicletta per avere l'ingrassatore?". Di sicuro ha una sorta di collezione di ingrassatori a casa ed è una delle prime cose che guarda quando viene qui, osservando minuziosamente Emilio ingrassare le bici. Un pomeriggio c'era qui un ragazzo con una bici da ingrassare: beh , l'abbiamo fatta ingrassare a lui. Non riesco a descrivervi la sua felicità nel farlo». Una sorta di squarcio dell'umanità che può racchiudere un negozio ed un negozio di biciclette.
Ogni tanto arriva anche il figlio di Andrea: ha voluto scegliere lui ogni dettaglio della propria bici ed ovviamente, visto l'ambiente in cui è cresciuto, di biciclette se ne intende, ma per ora non pensa a questo tipo di lavoro per il futuro. «Io fra qualche anno vorrei lavorare meno, verrò comunque in negozio, ma una volta alla settimana, magari. Vorrei vivere ancor di più la bicicletta sulla strada e farla entrare ancor più nella mia vita quotidiana. Lo dico ai giovani, c'è possibilità di vivere con questo lavoro ed è un bel lavoro». La passione si sente, uguale a quella che ha fatto iniziare tutto trent'anni fa, sebbene molto sia cambiato: «Indubbiamente, è cambiato il mondo e la bici con lui, ma il bello è che la bicicletta, per quanto cambi, resta sempre la stessa, almeno nelle linee base. Ora c'è più elettronica ed è una differenza sostanziale. Sono aumentati anche- il tono di voce fa intuire lo scherzo- i modi in cui i clienti chiamano la camera d'aria. Non è così difficile da dire, ma non hai idea di quante variazioni sul tema si incontrano». Storie di incontri e della lingua che è parte di una terra, come i ciclisti, come Toni Bevilacqua, soprannominato "Labron", che è rimasto nel ricordo della gente.
Anche le fotografie sono parte del negozio, alcune in particolare. Martino, circa 25 anni fa, ha ritratto, in bianco e nero, circa 250 clienti affezionati; quelle foto ci sono ancora e sono una testimonianza, del tempo che passa, dei cambiamenti, di un momento preciso e del rapporto che si crea con le persone, in quello spazio senza vetrine, tra il ferro ed il legname che viene riutilizzato, tra le immagini del gruppo che va e della gente che lo aspetta e poi lo segue con lo sguardo, tra i vari soprammobili, che si celano e si mostrano, e tra tutte quelle biciclette. Quello spazio dei tre fratelli Scavezzon che non è solo un negozio di biciclette.
Foto: @maxiezzi
Trek Bicycles, Firenze
«Quando si tratta di biciclette è diverso. Chi ti consegna una bicicletta da riparare oppure osserva una bicicletta che vorrà acquistare, direttamente o indirettamente, ti racconta una parte della propria vita. Vieni a sapere dove vive, cosa fa di lavoro, dove va di solito ad allenarsi, la strada sterrata che lo gasa, la discesa su cui fa velocità, con chi fa la gara al cartello, il luogo del lungo di domenica e molto altro. E, mentre conosci tutte queste cose, piano piano ti accorgi che quella persona che, appena è entrata dalla porta ti ha fatto un cenno per chiederti qualcosa, non ti è più estranea. Si tratta di un inizio di rapporto, di un principio di conoscenza: puoi aggiustare molte altre cose, puoi vendere tante altre cose, ma difficilmente vivrai questa sensazione. Personalmente vengo dal ramo dell’abbigliamento e so che è differente».
Sono le prime cose che ci dice Marco Della Maggiora, store manager del Trek Bicycle di Firenze, in via delle Cascine 35: ci troviamo nell’ex Manifattura Tabacchi, un tempo luogo di sigarette e sigari, riqualificata, negli ultimi cinque o sei anni, e rivista in chiave moderna. Restano i mattoncini rossi, le porte ampie in legno e le vetrate, sopra, su alcuni soffitti, anche i tubi che scorrono; fuori da qui, il Parco delle Cascine, da un lato, e i Lungarni che portano al centro, dall’altro, l’aeroporto dista dieci minuti o poco più. Si racconta che presto, in questa zona, sorgerà un albergo e le vie nei dintorni diverranno un nuovo polo attrattivo della città di Firenze, simile a Citylife a Milano, per rendere l’idea. Il futuro che si avvicina e cambia le cose, spesso le migliora, eppure
Della Maggiora tiene un angolo per la malinconia, per i ricordi, e, mentre chiacchieriamo e fuori infuria il temporale, torna con la mente alle vecchie botteghe dove si riparavano le biciclette: «C’erano il signor Mario o il signor Gianni, con la voce forte e le mani che avevano appena rivoltato la catena, il grembiule sporco di unto, sulla soglia di una botteghina. Mario e Gianni conoscevano tutti e tutti li riconoscevano, poi, sai come sono fatti i fiorentini: quando ti intravedono, iniziano a gridare metri e metri prima per salutarti con la loro cadenza ed il loro: “Ciao bimbo”. Sì, ora il mercato della bicicletta è andato da un’altra parte e Mario e Gianni non ci sono più, però sono un romantico della bicicletta e, anche se qui è tutto nuovo, io a quelle botteghine penso spesso».
Del resto, i fiorentini, Della Maggiora lo spiega bene, sono sempre gli stessi: scrutano il colore viola in ogni dettaglio della città, lo inseguono quasi, anche nelle cartelle dei bambini che vanno a scuola la mattina, e si fermano ad ammirare il Giglio, il simbolo di Firenze, ogniqualvolta lo vedono. In negozio ce n’è uno, illuminato al neon, grande come tutta la parete, mentre uno più piccolo è stampato sulla maglietta con il marchio Trek che Marco ha addosso: «Ho in mente una maglietta così, ma viola, non nera: vedrai, maglietta viola e giglio. Non resisterà nessuno, li conosco ormai, nonostante io sia di Massa Carrara». Per esempio, Marco Della Maggiora conosce la loro maniera goliardica di dir le cose, dei toscani e dei fiorentini in particolare: «Sono amiconi, ma solo se scelgono di fidarsi: in quel caso, pacche sulle spalle, abbracci, prese in giro sono all’ordine del giorno e vengono a trovarti in negozio anche se non hanno nulla da comprare o da sistemare. Però, attenzione, perché se non gli si va a genio, a Firenze hanno la memoria lunga e non c’è verso di fargli cambiare idea».
Anche quel professore dell’Università di Londra, nativo di Firenze, che qualche settimana fa è passato dal negozio e ha scritto una bellissima recensione, sull’aria europea che ha trovato in via delle Cascine, era così. Ma qui arrivano anche americani in viaggio, olandesi che visitano il Chianti, spagnoli e quasi sempre si fanno precedere da una telefonata e quel nome già conosciuto, Trek, per l’appunto, serve da rassicurazione, quasi fosse un conforto, un sentirsi a casa, pur se lontani. Poi entrano in negozio, sentono l’odore di copertoni e di uno spray lubrificante alla ciliegia, che ultimamente si usa spesso e impregna l’aria, sono socievoli, desiderano conoscere, spesso imparare, farsi consigliare, in poche parole, hanno voglia di fidarsi. «In Italia siamo diversi. Tempo fa abbiamo distribuito dei volantini per il lavaggio gratuito della bicicletta: si tratta di smontarla, lavarla, ingrassarla, comunque di metterci le mani. Voglio dire che fidarsi può non essere così istantaneo, però, anche per questo si può fare qualcosa. Venendo in negozio, capirai».
Il negozio ha due ingressi, uno sul lato del parco, l’altro interno. Tutto è situato su un solo piano, da una parte si trovano le biciclette destinate alla vendita, da corsa, elettriche, da bambino, da passeggio, mountain bike, e dall’altro quelle destinate al noleggio, tra cui un posto di rilievo è occupato dalle gravel. All’interno della manifattura tabacchi, è invece posta l’accettazione: Leonardo, il Service Leader, effettua la prima ispezione della bicicletta, proprio assieme al cliente, per vedere ogni dettaglio: il tutto viene registrato dal PC e da quel momento scattano le ventiquattro ore entro le quali la bicicletta, a meno di ricambio di pezzi non presenti in officina e quindi da ordinare, deve essere riparata e riconsegnata al cliente. Daniele, il meccanico, è in officina: richiama con una “pistola” lo scontrino e vede tutti i lavori che ci sono da fare, li esegue, poi custodisce i pezzi sostituiti che verranno riconsegnati insieme alla bicicletta, in modo da raccontare ciò che è stato fatto. L’officina è chiusa, ma non del tutto e Daniele, spesso, incontra il cliente quando viene a ritirare la bicicletta.
«Inutile nasconderselo, non è bello sapere che qualcuno ha messo le mani sulle nostre bici e non sapere chi. Siamo sempre curiosi di vedere ciò che viene fatto, o, almeno, di conoscere chi lo ha fatto. Nelle botteghine succedeva ed il meccanico era un confidente come il barbiere del centro. Un pezzetto di quel mondo, noi lo riportiamo qui, anche oggi che non basta più un martello per sistemare una bici, ma serve anche la tecnologia. Il contatto fa in modo che il meccanico diventi il tuo meccanico, un senso di appartenenza reciproco; si ha piacere di vedere il cliente che torna perché sai che il tuo lavoro è stato riconosciuto, che questa volta lascerà ancor più volentieri la bicicletta nelle tue mani». C’è il gergo fiorentino, una sorta di vocabolario della bicicletta: i copertoni sono i fascioni ed il leva copertoni è il leva fascioni, mentre il mastice è il masticione. In un’altra stanza si nota subito un vascone per lavare le biciclette e una vaschetta, più piccola, in cui lavare il pacco pignoni, la pedivella e la catena. La prima frase è sempre: «Come posso aiutarla?». Poi il lei diventa tu, fino ad arrivare al nome. Soprattutto non deve mai passare troppo tempo tra l’ingresso in negozio e le prime parole: «Si tratta di cura, di attenzione per qualcuno che ha bisogno di supporto e ti sta cercando. Puoi avere altre mille cose da fare, ma appena entra è doveroso che tu lo faccia sentire accolto. Con gli ospiti si fa così».
Ad un certo punto, tra ingranaggi di biciclette e racconti buffi, ecco la doccia e la cucina: sì, avete capito bene, entrambe presenti in negozio. Della Maggiora precisa che sono due elementi a cui Trek tiene molto, perché accrescono l’aria di casa e perché aumentano anche la voglia di andare a pedalare: lui stesso, spesso, esce al mattino alle sette, sgambata, due o tre ore di pedalata e via in negozio.
«A Firenze si fa dislivello come niente. L’altro giorno ho fatto quaranta chilometri e ben mille metri di dislivello, la doccia in negozio però mi salva. Una sciacquata, ci si cambia e si è pronti per iniziare la giornata, come si fa a casa. Anche la cucina fa famiglia: in certi giorni passiamo lì la pausa pranzo, altre volte facciamo il punto della situazione, la riunione di quindici minuti prima dell’apertura. Siamo in quattro, forse non servirebbe, ma vogliamo farla lo stesso: un domani, quando sarà necessaria, avremo presente meglio il significato del ritrovarsi a parlare, non solo per sbrigare faccende, ma per la condivisione. Io ho quarantacinque anni, i miei collaboratori fra i ventiquattro ed i ventinove, potrei essere un babbo per loro, e per molti aspetti mi sento di esserlo, per le ore che scegliamo di passare assieme, pur non essendo obbligati a farlo, ad esempio. Forse, anche per questo fermarsi più ore in negozio pare semplice».
Sì, perché è capitato e capita spesso che quando fuori si fa buio e sui Lungarni cala il silenzio, intorno all’una di notte, sbirciando dagli ingressi dello store si intraveda ancora qualcuno, si sentano le voci, le risate, aria di festa, e, guardando meglio, si veda che nel locale ci siano tante persone, in tenuta da ciclista. C’è appena stata la ride notturna del mercoledì, talvolta nelle zone di Impruneta, altre verso San Casciano, organizzata da Trek Bicycle, e, tra una birra ed una coca cola, si continua a divertirsi.
«La bicicletta è uno strumento conoscitivo pazzesco. Quando si pedala, si inizia a parlare della salita o del tragitto, poi, però si finisce per affrontare discorsi che nemmeno ci si sarebbe sognati. Così si parla del figlio e di che scuola fa, dei genitori, di quello che è accaduto sul lavoro. In una parola, si fa comunità». Il luogo per eccellenza dell’incontro è un bancone, con quattro sgabelli, davanti ad un televisore attaccato alla parete, con una bici d’epoca vicina alla macchinetta del caffè e al frigorifero: lì in autunno ci sono i cioccolatini, con la forma di una maglia da ciclista, anche iridata, per le occasioni più importanti, prodotti dallo zio di Jasper Stuyven, cioccolatiere belga, ed in estate bevande ghiacciate, popcorn e patatine.
Qualcuno porta il proprio computer e, mentre aspetta che la bicicletta venga riparata, si mette a lavorare. Non ci si incontra solo per eventi legati alle biciclette, qui si possono organizzare corsi di yoga, presentazioni e qualsiasi altro evento che abbia alla radice l’idea dello stare insieme. In estate, sovente, a quel bancone, ci si mette a guardare il Giro d’Italia e il Tour de France: «Niente scherzi, eh. L’ho già detto a tutti: l’anno prossimo, quando parte il Tour de France da Firenze, il negozio resta chiuso e si va a vedere la corsa. Quel giorno, vedrai che anche i fiorentini al viola vorranno affiancare il giallo, un colore che riempirà le vie. Quel giorno saremo la casa della corsa più importante al mondo ed in città se ne parla già adesso». Se ci si guarda attorno, a dire il vero, si nota ben presto quante biciclette ci siano a Firenze e quanti pedalatori: si fa enduro sopra la città e si arriva qui dalla Versilia, mettendo chilometri nelle gambe, certe volte su percorsi da vera e propria classica. Certo, le biciclette girano, vanno, scoprono, si lasciano scoprire attraverso chi le guida, talvolta attraverso gli ambassador, e poi tornano, si fermano, aspettano di ripartire, che qualcuno le controlli o le sistemi. Magari le scopra. Che qualcuno ne abbia cura. Da queste parti, tra il Parco delle Cascine ed i Lungarni, Trek Bicycle, all’ex manifattura tabacchi, è la casa da cui partire ed in cui fare ritorno. Il temporale si è quietato, un giro, adesso, ci sta proprio bene.
Meliconi mette ordine in garage
Sarà perché a Bologna e dintorni non mancano le biciclette e, come ovunque, anche lì cercano di non farle cadere sul pavimento quando stanno a riposo, fatto sta che proprio in Emilia hanno ideato la più completa gamma di accessori salvaspazio per il mondo bike. E chi se non la Meliconi di Granarolo poteva fornire una risposta intelligente ad un problema di tutti i giorni? Alzi la mano (se è over 40) chi non ricorda lo spot TV del ‘guscio salva-telecomando’ che rimbalza. E dopo sono entrati nelle nostre case con i robusti (ma discreti) bracci e supporti di sostegno per le prime TV Led.
MyBike, questo il nome della nuova linea di supporti universali per appendere, sorreggere e prendersi cura di qualsiasi tipologia di bicicletta. I prodotti Meliconi sono 100% Made in Italy (perché tutto quanto esce dalla fabbrica di Cadriano) e con bollino TUV (Istituto Internazionale che certifica la qualità e la sicurezza per i consumatori), ma questo non sarebbe sufficiente a farceli piacere: Meliconi progetta sempre con un occhio all’eleganza del design. Perché la durata nel tempo e lo stile sono i plus grazie ai quali le aziende nazionali riescono ad imporsi all’estero, e rivaleggiare con prodotti di robustezza inferiore provenienti da Paesi a basso costo di manodopera. La linea MyBike presenta ben 5 supporti per bici (più due per gli accessori), con soluzioni per tutte le tipologie, comprese le E-Bikes. Resistono a trazioni fino a 30 kg e sono dotati di protezioni in schiuma EVA, che evitano il contatto diretto con le componenti sensibili della bici.
Per chi ha a disposizione un garage stile hangar aeronautico, e vuole ammirare da ogni angolazione la propria due ruote nello stato per cui è nata, ovvero poggiata sugli pneumatici, è certamente da suggerire il supporto universale da terra: grazie al suo sistema intelligente di regolazione consente di posizionare qualunque tipologia di ruota e adattarsi perfettamente alla gomma, evitando il contatto con il cerchio. L’accessorio Meliconi è così cool e compatto che non sfigura nemmeno sul pavimento di casa, potendo parcheggiarci la bici. Costa 59.99 €.
Per i bikers che invece devono lottare quotidianamente per far convivere in garage l’automobile, gli attrezzi e gli scatoloni, la soluzione è il supporto universale per pedale, che permette di agganciare la bicicletta alla parete, senza sporcare il muro grazie ai tamponi forniti. Dimensioni super compatte: solo 14 cm la sporgenza dalla parete.Il prezzo è di 29.99 €.
E se vogliamo smetterla di inciampare nelle biciclette dei nostri bambini, esiste il supporto per ruota, da parete o da soffitto. Quando l’abbiamo visto abbiamo pensato alle bici dei bimbi, non per il peso che questo accessorio può reggere (sempre 30 kg), ma perché noi grandi, nerd della tecnica ciclistica, non dormiremmo la notte pensando al nostro cerchio ultraleggero, dai raggi regolati al micron, appeso come un prosciutto emiliano.
Ma esiste un’altra possibilità, sempre sfruttando un muro in mattoni, cemento o legno? Si esiste: è Il supporto per telaio da parete, facilmente inclinabile, che permette di adattarsi a diverse forme di telaio. Richiudibile a muro, permette di salvare spazio e non batterci la testa quando la bici non c’è. Prezzo € 99,99.
On top, da affiancare a tutte le versioni di supporti, oppure anche da solo se la bici poggia a terra, il sistema antifurto da parete, cioè una placca con anelli per incatenare la bici, ma con slitta copri viti per impedire lo smontaggio dal muro, che immaginiamo interessante per strutture ricettive tipo bike hotels e ostelli. Costa 39,99 €
Per chiudere, ecco un pezzo di design che strappa anche un sorriso: l’omino metallico, da avvitare alla parete, che regge il nostro casco, i guanti, le scarpe, tutta roba che dobbiamo sempre raccattare in giro per casa, brontolando come dei nonnetti, quando ci prende d’improvviso una voglia di randonnée. Prezzo € 29,90
“Siamo presenti sul territorio dal 1967 – ci dice durante il giro in azienda Lorenzo Meliconi, terza generazione al comando, dopo la scomparsa del fondatore Loris, nel 2020 – e accompagniamo nel quotidiano la vita di milioni di italiani, con intuizioni ed oggetti utili e funzionali.”
In effetti, al termine della visita al reparto produzione e al Centro Design, siamo un po’ rincuorati: nel bombardamento quotidiano di notizie così così sull’andazzo del Belpaese, l’aver incrociato queste 130 persone (ebbene sì, a tanto ammonta il personale qui in Emilia) che pensano e realizzano in Italia prodotti semplici ma intelligenti, ci lascia di buon umore e ci fa venir la voglia di una pedalata sui colli bolognesi, giusto giusto qua sopra.
info e E-commerce: www.meliconi.com
Articolo a cura di: Christian Bertolino
Mechanism Pro, roba da Pas Normal
Come ogni pannolato che si rispetti, ho iniziato ad andare in bici vestito male. Molto male. Mio fratello ha fatto il dilettante per diverse stagioni e mi permetteva di usare esclusivamente la sua roba peggiore, sgualcita o strappata. Non avevo mai provato niente di meglio, quindi pensavo che fosse normale che una maglietta da ciclismo creasse un effetto-cappa tremendo per la sudorazione, che fosse pesante e per nulla elastica, piena di sponsor e, generalmente parlando, un pugno nell’occhio di chi guarda.
Mentre accumulavo chilometri e un minimo di esperienza in sella, ho provato altri materiali e altre sensazioni. Tutte un po’ migliori delle precedenti, a piccoli passi ma sempre per il meglio. Tanto da sentirmi, di recente, quasi pronto ad uscire dalla meravigliosa bolla di ignavia che è la pannolanza. Poi è successo che sono finito a scrivere per una rivista di ciclismo e questi standard hanno dovuto per forza di cose elevarsi ulteriormente. Le occasioni in cui vengo bersagliato da critiche à la Enzo Miccio sono quasi zero, ormai.
Questo perché, tra le altre cose, a fine aprile, Pas Normal Studios ha invitato Alvento e altre testate europee al lancio della sua nuova linea d’abbigliamento, Mechanism Pro. Conoscevo già Pas Normal perché vestono PNS quasi tutte le persone pedalanti più fighe di Instagram. E conoscevo la linea Mechanism perché l’ho vista in strada, pensando subito: che bello dev’essere, pedalare con la scritta “meccanismo” sulla schiena. Ma a Copenaghen ho potuto vedere e provare tutto dal vivo, sulla mia pelle.
Mechanism Pro al primo tocco non sembra vero. Innanzitutto: pesa pochissimo. Indossando la maglietta, ti sembra di alzare un tovagliolo di carta. Il tessuto però è resistente, elastico: a PNS la chiamano “sensazione da seconda pelle” e sembra scompaia mentre si pedala. Lo abbiamo provato in un velodromo poco fuori Copenaghen e la posizione che devi tenere in pista - per forza di cose aggressiva e alla ricerca di un qualsiasi vantaggio aerodinamico - esalta un tessuto pensato per andare veloce.
Lo stile minimale e i colori pastello, spenti, risaltano notevolmente in gruppo. Hipster com’è, Copenaghen è piena di ciclisti che si vestono non bene, di più. Davanti all'ex fabbrica di armi convertita nell’odierna sede centrale di Pas Normal, partono e arrivano ciclisti che sembrano modelli, a tutte le ore del giorno. Al piano terra c’è un ciclo-caffè davvero delizioso: si vede, come del resto è rintracciabile in tutta l’estetica del brand, un tocco di design danese.
I locali di PNS a Copenaghen sono stati disegnati e progettati da OEO, uno studio di architettura degli interni che si auto-definisce ispirato dal minimalismo persuasivo. È forse il modo in cui riassumerei anche la linea Mechanism Pro: danese e veloce, costosa e fichissima. Perfetta, insomma, per sembrare l’opposto di un pannolato.
Un altro ultimo giorno di scuola
La felicità alla fine. L'ultimo giorno del Giro d'Italia, l'ultima tappa del Giro d'Italia, l'ultima volta al Giro d'Italia, almeno da ciclista, per Mark Cavendish. Lo aspettavamo già qualche giorno fa, è arrivato oggi. Una volata lunga, eterna, verrebbe da dire, pensando alla Città Eterna: vince per distacco, in quel gesto che ha fatto chissà quante volte in carriera e chissà quante volte rifarà, per scherzo, per gioco quando, a fine anno, smetterà. Almeno questo è un piccolo augurio: di poter vivere la volata come un gioco, con i figli, magari perdendo o fingendo di perdere, come fanno molti adulti, come potrà fare Cavendish. Eterna la città, Roma, ed eterna la volata, perché la velocità di due ruote che scorrono ed il vento in faccia sono un linguaggio universale. Una forma di espressione, quando la voce si spezza, quando non si sa cosa dire perché si sta provando troppo e tutto assieme. È la situazione di Cavendish, ma è possibile parlare in molti modi ed è, forse, un bene che non ci siano solo le parole per esprimersi. Che ci sia una volata o uno scatto in salita. "I vecchi amici", di cui Cavendish parla, queste cose le sanno.
C'è quel che è eterno e quel passa. Spesso si parla di ultimo giorno di scuola a proposito dell'ultimo giorno del Giro d'Italia ed è vero. Lo sentiamo in questi giorni più che mai ed è raro, difficile. Perché tutti sappiamo come ci siamo sentiti in uno qualunque dei nostri ultimi giorni di scuola, come abbiamo percorso a piedi o in bicicletta l'ultimo tragitto verso casa, pensando che lunedì non ci sarebbero state verifiche, interrogazioni, pensando ci rivediamo a settembre. A fine Giro d'Italia ci sembra di avere questa sensazione davanti agli occhi, la vediamo in ogni ciclista, che pensa al ritorno a casa, che pensa al fatto che, comunque sia andata, oggi si può essere felici, al resto si penserà poi, che, comunque sia andata, si è arrivati alla fine. Ci pensavamo guardando quegli abbracci di Cavendish dopo la vittoria: quell'abbracciare e riabbracciare, quel godersi il finale, quel lasciare da parte tutto il resto. Ci pensavamo vedendo la felicità di Roglic, l'orgoglio e la dignità del secondo posto di Thomas, Ackermann, caduto sui sampietrini, al traguardo abbracciato dai compagni. Domani si potrà riposare. Per noi la scuola è finita da tempo e oggi quella sensazione ci manca. Vorremmo un altro ultimo giorno di scuola. Uno solo.
Vederlo nei ciclisti ci ricorda che il Giro d'Italia, che tre settimane fa era un appuntamento, è diventato un'abitudine. Non è cosa da poco: perché se l'appuntamento diventa abitudine vuol dire che si è stati bene, che ci si rivede, ci si conosce, si sa qualcosa di più di quel che si è incontrato. Il Giro è diventato una forma da dare alla giornata, ai pensieri, talvolta un modo di scacciarli, di incontrarsi. E domani? Domani torneranno tante cose che ci eravamo scordati, tante cose che avevamo rimandato. È una nostalgia particolare, una nostalgia di quel che si è vissuto e di quel che ancora si dovrà vivere. Perché maggio torna ogni anno e, con maggio, il Giro, eppure ogni anno è la stessa storia. Non ci si abitua mai. Allora viviamo questa nostalgia, viviamo quel che ci manca e di cui attendiamo il ritorno. Senza sfuggirle. E, chissà, forse, in qualche modo, tornerà anche per noi un altro ultimo giorno di scuola.
Per lo sguardo di un momento
Su un paradosso si basa il ciclismo. Da una parte è uno sport che crea, plasma e rifornisce la propria mitologia grazie all’anzianità, al frequente ripetersi di cose molto simili. Per questo paragoniamo i campioni di diverse epoche cercando di rivedere il vecchio nel nuovo («il baby Merckx») e nel commentare la corsa ci riferiamo a dinamiche già viste, muovendoci in un solco tracciato.
Dall’altra parte, il ciclismo - e in particolare le corse a tappe di tre settimane - attende impaziente il climax, il momento di massimo stupore. Una sorta di taglio di Fontana di quella tela che è la normalità, la ripetizione di cui sopra. Improvvisamente, guardando attraverso quello squarcio, routine e cliché subiscono un’alterazione. Ci si trova coi piedi all’aria, smarriti: l’unica possibilità, a quel punto, è cercare di capire dove si è, cosa si sta facendo e cosa si sta guardando.
È la sensazione che ha vissuto, credo, gran parte delle persone accorse sul Monte Lussari ieri. E io con loro. Mi guardavo attorno e non riuscivo a smettere di ridere: gente che cantava, gente che ballava, gente che voleva godersi un momento storico. Ho sentito il collega di podcast (oggi esce l’ultima puntata di GIRONIMO!) Leonardo Piccione, sempre equilibrato nei giudizi, con una voce piena d’emozione e adrenalina. Daniel Friebe, che presenzia a tipo 100 giorni di corsa in bicicletta l’anno, ha scritto che è stata «una delle giornate più memorabili in 23 anni che mi occupo di ciclismo».
Ogni tanto capita, insomma, di essere parte della storia mentre accade, di vedere tutto da posizione privilegiata. Si riesce a dare un’occhiatina, fugace e presbite, dentro allo squarcio della tela. Non sono sicuro di aver capito cosa ci sia dall’altra parte, e non vorrei rifare questa esperienza domani, perché il bello, in questo caso, sta nel raro. Ma è per quel singolo momento che seguiamo una cosa assurda e brutale come il Giro d’Italia.
Nel giorno in cui tutto si decide
Forse, il giorno in cui si decide tutto è un giorno come oggi. Un giorno normale, in cui lassù, sul Lussari, si può guardare il paesaggio, sdraiarsi su un prato e, con un panino in mano, pensare che oggi c’è il Giro e domani è domenica. Un giorno ordinario in cui qualcuno si alza dal letto più leggero e qualcun altro, invece, sente un peso e non capisce da dove viene. Un giorno in cui ci si chiede se sia più difficile rischiare di ottenere quel che si è sognato a lungo, sempre vicino ma mai completamente vero, oppure rischiare di perderlo, dopo averne fatto realtà per tanti giorni. Perderlo proprio nel giorno in cui tutto si decide.
Da una parte Primož Roglič, dall’altra Geraint Thomas. Il giorno in cui tutto si decide nasce da una notte in cui ancora tutto è sospeso, in cui ancora tutto è possibile. Da una notte come le altre per i più. Ma le notti del giorno in cui tutto si decide sono solo nostre, come ogni notte e ancora di più. Nel giorno in cui tutto si decide si vede qualcuno che ride, che fa colazione, che sbriga un’attività come le altre, che parla con qualcuno accanto alle transenne, mentre aspetta. Tutto normale, come gli altri giorni al Giro d’Italia, ma se è il giorno in cui tutto si decide quei gesti sembrano diversi, avvolti in una strana ansia. Qualcosa che ricorda la più grande felicità e la più profonda delusione.
Nel giorno in cui tutto si decide la strada sale, ripida, aspra, pungente. Il sudore cade ritmato, la pelle brucia, il respiro palpita, i muscoli fremono. Le gambe lottano. Perché è il Lussari, perché è il concetto di verticale, di salita, di montagna, di cima, di vetta. Perché è tanto difficile per Thomas lasciare un sogno che ha vissuto e a cui creduto per molti giorni, quanto per Roglič rischiare di ottenere quel sogno. È avere a che fare con i sogni, grandi o piccoli che siano, che è difficile, questa è la realtà. La fregatura è che basta un sogno e un poco ci si crede. Non è vero che i sogni sono cose lontane, immateriali, nebulose, di un altro universo. Se lo sono, lo sono solo per qualche istante. Poi sono così vicini che basta intravederli per crederci. E i ciclisti questo lo sanno bene.
Per questo, nel giorno in cui tutto si decide, un addetto alla sicurezza, applaude Roglič e poi Thomas. Li fissa cercando di capire qualcosa in più di quel che passa quando passa la loro bicicletta. Perché, forse, lunedì sarà per quell’addetto il giorno in cui tutto si decide. Almeno uno, capita a tutti. Spesso più di uno. Il giorno in cui tutto si decide è un giorno in cui ci si crede e si smette di crederci decine di volte. Come quando cade la catena a Primož Roglič, dopo una buca, e il giorno in cui tutto si decide diventa una condanna, diventa il peggior incubo che hai avuto, diventa la tua paura di sempre. Come quando Roglič ha ancora vantaggio, sempre più e la realtà persa di Thomas è il suo sogno realizzato. La maglia rosa è sua.
Il giorno in cui tutto si decide è un giorno come oggi. In cui tutto sarebbe potuto restare uguale invece cambia. In cui Roglič è a pochi chilometri dalla conquista del Giro d’Italia. L’ultima tappa è quasi sempre una passerella, ma c’è. C’è un altro giorno, anche nel giorno in cui sembra si sia deciso tutto. Lo diciamo per Thomas. C’è un altro giorno, non per cambiare le cose, magari, ma per andare avanti. Anche dopo il giorno in cui tutto si è deciso.
Contenti da cima a fondo
Gran parte dei giornalisti era già radunata nel truck. Il truck viene chiamato così per semplificare, ma in effetti è una specie di autotreno (un camion? un furgoncino grosso, quindi furgoncione?) che si apre e al cui interno entrano ogni giorno il vincitore di tappa e la maglia rosa. Per salire e scendere, una ripidissima scala da cinque o sei gradini, particolarmente pericolosi soprattutto se bagnati, diventa, per schiere di giornalisti, un ostacolo ben più temibile del foglio bianco.
Eravamo in tanti, insomma, lì dentro. Nei dintorni del rifugio Auronzo, sul lato un po’ più brutto delle Tre Cime di Lavaredo, faceva freddino e almeno stare al chiuso di avrebbe riparato dal vento. Ben più di mezz’ora è passata da quando Roglič e Thomas hanno sprintato per rosicchiarsi qualche secondo a vicenda. Da dentro la sala stampa si sente forte e chiaro un urlo che indica a quale punto della corsa siamo: «C’è Cavendish!».
Mi interessava vedere l’arrivo degli ultimissimi, guardare in faccia la fatica di chi ha impiegato sei ore e mezza a concludere una tappa con oltre cinquemila metri di dislivello. Così arrivo sul traguardo che sta sopraggiungendo un quartetto della Bahrain-Victorious. Da sinistra a destra ci sono Arashiro, Sütterlin, Milan e Pasqualon. La maglia ciclamino deve aver sofferto tantissimo per portare la bici al traguardo, ma sono tutti sorridenti perché, ormai quasi un’ora prima, ha vinto un loro compagno di squadra.
Diversi minuti prima era arrivato anche Edoardo Zambanini, incaricato invece di aiutare Damiano Caruso in salita. Il ragusano è andato forte, approfittando della giornata no di Eddie Dunbar per salire al quarto posto in classifica. Non sono riuscito a origliare cosa dicesse Zambanini, ma anche lui aveva un gran sorriso stampato in faccia. Una squadra, almeno, ieri era contenta da cima a fondo.