La filosofia di Marlen Reusser

Marlen Reusser è felice, ma, in realtà, la felicità non le interessa nemmeno più di tanto. È capitato anche alla trentenne svizzera di sentirsi infelice, nonostante il ciclismo e le vittorie: andava tutto bene, ma il morale era a terra. Non c'è alcuna difficoltà ad ammetterlo. «Non è obbligatorio essere felici. Puoi esserlo oppure no» ha raccontanto in un’intervista a Procycling. «L'importante è che tu impari a conoscerti, a sentire il tuo corpo e a capirlo. Una volta che lo hai imparato ti servirà in ogni circostanza, in qualunque lavoro, io lo sto imparando correndo in bicicletta». Questo ragionamento l'ha sempre aiutata nella sua prova prediletta: la cronometro.

Nel tempo, molti le hanno chiesto quale sia il suo approccio mentale alla cronometro e lei ha sempre risposto che non c'è una regola, semplicemente perché la nostra mente fa ragionamenti nuovi e ci sottopone una realtà diversa ogni giorno, quindi è inutile proporsi di vedere le cose in un determinato modo, perché quel giorno potresti non riuscirci. Quando ti sveglierai, saprai chi sei in quel momento e con quello dovrai fare i conti. Regola aurea visti i risultati di Reusser contro il tempo nel 2021: argento alle Olimpiadi di Tokyo, oro agli Europei di Trento e ancora argento ai Mondiali delle Fiandre.

Marlen Reusser approda relativamente tardi al ciclismo professionistico, a causa di un infortunio. All'inizio, forse, nemmeno le piace molto pedalare, però le viene facile, estremamente facile così qualcuno le suggerisce di provare a farlo come lavoro. Oggi dice che, se non ha mai mollato, è solo perché, in fondo, le cose che non le piacevano del ciclismo erano meno di quelle che le piacevano, per esempio quello stato costante di imprevedibilità, la possibilità di conoscere luoghi e persone e, qualche volta, di sentirsi meglio perché sai che qualcuno è interessato a te, anche se fai fatica, piove e fa freddo.

Probabilmente, proprio per questa facilità innata, anche se non lo ha mai detto, Reusser ha sempre creduto alla possibilità di fare bene nel ciclismo. «Può sembrare arrogante dirlo, ma non lo è. Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma per emergere devi lavorare sodo e io l’ho fatto. Mi sono posta degli obietti e mi sono impegnata al massimo per raggiungerli: prima o poi i risultati dovevano arrivare». Una delle più grosse difficoltà è stata riuscire a stare in gruppo nelle gare su strada, quelle in cui se non hai qualcuno che ti aiuta, di cui ti fidi e che si fida di te, difficilmente riesci a fare bene perché stare nella pancia del gruppo è davvero difficile. Lei ha imparato provandoci, con una tranquillità di fondo, però: «Se non ci fossi riuscita, probabilmente avrei smesso di gareggiare su strada. Che senso ha continuare a fare una cosa che non ti diverte?».

La Reusser ha le idee chiare, per prossimo ha voluto fortemente l'approdo in Sd-Worx, una squadra di campionesse. Ma fra loro non c'è rivalità, bensì apprezzamento. «Non credo sia un bene che in una squadra ci sia un solo campione e tante seconde linee che gli girano attorno. Non mi piacerebbe neppure se la campionessa fossi io. Per avere la possibilità di correre al meglio ogni gara occorre che tutta la squadra sia di alto livello».

Per il futuro, Reusser ragiona come per la felicità. Arriverà comunque e non ha nemmeno senso farsi tante domande. Lei è dottoressa e prima di dedicarsi al ciclismo lavorava in ospedale, è appassionata di politica e le piace impegnarsi per aiutare gli altri. Il ciclismo, per Reusser, è fatto di traguardi, ma la vita porta tante cose e fra quelle bisogna scegliere. Così, se è vero che vorrebbe vincere un titolo mondiale a cronometro, è anche certa di non voler invecchiare nel ciclismo: «Annemiek van Vleuten ha trentotto anni, Mavi Garcia trentasette. Non credo che continuerò così a lungo. Voglio fare molte altre cose nella vita, ho ancora troppe cose da imparare».


La normalità di Geraint Thomas

Ricordiamo tutti il volto di Geraint Thomas ai microfoni, al termine del Tour de France 2018. Un pianto liberatorio e quelle parole ripetute: «Non ci posso credere, ho vinto il Tour. Non è vero». Non riusciva nemmeno a parlare il britannico, eppure, al giornalista che gli chiese se quella fosse l'emozione più importante di tutta la sua vita, rispose subito, senza indugiare un secondo. «No, l'emozione più grande della mia vita è stata il mio matrimonio, andare verso l'altare con mia moglie. Non si possono paragonare queste cose». Già, ogni cosa al posto giusto, col giusto valore. Tempo dopo, quasi si scusò per quelle lacrime: «È imbarazzante piangere davanti alle telecamere, ma in quel momento mi stavo rendendo conto di cosa avevo fatto».
Da quel momento, le cose non sono più andate come Thomas avrebbe sperato, forse creduto. Una storia di cadute e sfortuna. Fu lui stesso, dopo la caduta al Tour dell'anno successivo a parlare di frustrazione, a dire che non c'era una spiegazione per quella caduta e questo peggiorava le cose. Lì il danno fu poco e Thomas finì in seconda posizione la Grande Boucle. Come il podio di Parigi, però, nei ricordi resta l'assurda caduta nella tappa dell'Etna al Giro d'Italia 2020. Assurda per le modalità, cadde a causa di una borraccia, assurda per l'esito: arrivò al traguardo con più di dodici minuti di ritardo fra lo stupore di tutti e le critiche che iniziavano a muoversi. Perché uno dei candidati per la vittoria finale pagava dazio già nella prima tappa di montagna? Aveva una frattura del bacino, Thomas. Scalò l'Etna così.

E ancora cadute, frustrazione e delusione. Geraint Thomas ha saputo anche ridere, scherzarci su, quasi ad anestetizzare l'amarezza. Per esempio quest'anno, quando al Giro di Romandia è caduto a cinquanta metri dal traguardo. Se non bastasse aver vinto il Tour de France per parlare di un campione, basterebbe questa ironia. Difficile, soprattutto quando tutti chiedono, aspettano, giudicano. Quando, forse anche tu, inizi a non capire più che ti sta succedendo.

A Cyclingweekly, Thomas ha raccontato che l'inizio di questa stagione è stato forse uno dei migliori inizi di sempre. Nonostante tutto. «Non sono diventato un ciclista mediocre, all'improvviso» ha detto ed ha ragione. Per le caratteristiche atletiche e anche per come parla, per come si racconta e per le idee che continua a mettere in campo nonostante tutto vada storto. «Continuerò a impegnarmi e a buttarmi nella mischia per vincere, perché ora conta solo vincere, tornare a vincere. Poi tornerò ai Grandi Giri, non solo però. In fondo ho sempre avuto stagioni con lo stesso programma in tutti gli anni di carriera, ho voglia di cose fresche, di cambiare, di mettermi alla prova su altri percorsi».

E questa spensieratezza preservata a colpire e a farlo restare in sella. Nei gesti e nelle parole, come in Watts Occurring, il podcast che Geraint Thomas gestisce con il compagno di team Luke Rowe. «Raccontiamo di noi. Certe volte ridiamo anche e prendiamo in giro qualcuno, solo per divertimento. Inizialmente non ci riflettevo, adesso invece ci penso perché le nostre parole le sentono tutti e non sai mai come vengono interpretate».
Thomas che a inizio carriera, lo ha raccontato spesso, avrebbe desiderato vincere ogni corsa, su strada, su pista, oggi ha capito che bisogna saper scegliere. Saper scegliere e continuare a lavorare sodo. Con grande impegno, ma anche con grande serenità e perché no con la giusta dose di leggerezza.


Mai voltarsi indietro: intervista a Thomas Gloag

Thomas “Tom” Gloag è così giovane che voglia di guardare indietro quasi non ne ha. Non ammette rimpianti e anzi, quando gli chiediamo se il 4° posto all'ultimo Giro Under 23 (a soli 12" dal podio) gli ha lasciato l'amaro in bocca, si scuote: «Ho fatto la miglior gara possibile, più di così non potevo».
È uno dei maggiori talenti del ciclismo britannico: fisico e caratteristiche da scalatore («anche se vorrei avere spalle più strette per essere maggiormente aerodinamico»), di quelli che quando scatta sa fare male e con limiti tutti da scoprire.

Ha 20 anni compiuti da poco, è nato a Londra ed è cresciuto nel velodromo locale di Herne Hill: «Ho iniziato a pedalarci a 8 anni e non ho più smesso! Le ore passate lì dentro e il supporto dei volontari che ci davano una mano sono state fondamentali per farmi diventare un corridore».

Corre tra i dilettanti con la Trinity Racing, «almeno fino al Giro Under 23 del 2022, poi si vedrà» e negli anni ha avuto modo di stare a fianco di un certo Pidcock. Viene da chiederci se l'anno prossimo le loro strade a un certo punto si incroceranno di nuovo, magari proprio in maglia Ineos. Lui non ne fa accenno.

Di Pidcock ciò che lo colpisce di più è la competitività: «Quando si mette in testa una cosa farà di tutto per ottenerla e poi con lui, sceso dalla bici non ti annoi mai»; mentre nella stagione appena passata ha diviso i galloni di capitano con l'irlandese Ben Healy, corridore che esalta il pubblico per le doti da attaccante e che dal 2022 lo vedremo in maglia EF. «Quando lo trovi nella starting list stai per certo che non sarà mai una gara normale». I due divideranno la stanza a Girona da quest'inverno.

E la normalità Gloag prova ad aggirarla: nel periodo della pandemia si è trasferito in Colombia, vivendo a casa della famiglia Chaves. «Ho corso in Spagna per un breve periodo e sono diventato grande amico di Brayan (il fratello di Esteban, NdA). Quando è scoppiato il Covid tra stare fermo a casa e allenarmi ho scelto la seconda possibilità e sono andato a vivere in Colombia da loro, allenandomi con loro, perdendo la testa per l'incredibile disponibilità, gentilezza e dolcezza del popolo colombiano: hanno fatto di tutto per farmi sentire a casa».

E che posti meravigliosi in mezzo alle Ande! «Per allenarsi, poi, è favoloso: altura, montagne di 50 km e poi magari 200 km senza una salita. E il cibo? Mai mangiata frutta o verdura così buona e fresca». E resta così legato ai due corridori colombiani tanto da voler contribuire in qualche modo alla "Fundación Esteban Chaves", ente benefico creato per aiutare bambini in difficoltà.
Se deve pensare a un riferimento gli viene in mente Bradley Wiggins: «Anche lui è cresciuto nel velodromo di Herne e i suoi successi sono stati il catalizzatore per l'esplosione del ciclismo britannico», mentre la Corsa per lui è: «Il Tour de France ovviamente: l'apice della carriera per ogni corridore».

Tifa Arsenal («ma sono anni difficili per noi tifosi gunners») e Phoenix Suns, e uno sgarro che farebbe volentieri è il waffle caldo belga con gelato alla menta e topping al cioccolato. «Ma la vita di un corridore è fatta di sacrifici: a volte non riuscire a fare tutto quello che si vorrebbe per un ragazzo della mia età è complicato».

Dice che non c'è un vero e proprio segreto se oggi il ciclismo britannico si trova all'apice della sua ascesa: «ma il supporto da parte della federazione a livello locale e i loro investimenti danno la possibilità di scovare talenti e quei talenti hanno la possibilità di allenarsi e poi emergere».

4° al Giro Under, ritirato all'Avenir quando era in piena corsa per il podio, 3° alla Ronde de l'Isard con una vittoria di tappa in salita a Plateau de Beille, se guarda alla stagione appena trascorsa si vede cresciuto, mentalmente e fisicamente, ma convinto di avere ancora ampi margini: «Non eccello ancora in nulla e questo mi dà la motivazione per spingere a tutta e continuare a migliorarmi. Anche perché in fondo a guardare indietro non si guadagna proprio nulla».


Giulio Ciccone, fra passato e futuro

Non è stata una stagione facile per Giulio Ciccone. Ma il ragazzo di Chieti è rimasto quello che abbiamo conosciuto anni fa: «Se dovessi trovare un modo per raccontarti come vivo il mio mestiere partirei da quel ragazzino che girava per Chieti con la sua bicicletta rossa e aspettava impaziente che i genitori gli comprassero una sella nuova, un tubolare particolare, un nuovo pezzo per quella bicicletta. Ricordo ciò che sentivo quando aprivo quei pacchetti e tutti i progetti che facevo. Bene, oggi accade la stessa cosa: appena c'è una novità per la bicicletta, ho la stessa curiosità, la stessa forma di entusiasmo». In realtà, Ciccone ha lasciato Chieti quando aveva solo diciotto anni e forse anche per questo è rimasto così legato a quei luoghi.
«Quando vai via presto succede sempre così. C'è un richiamo costante per tornare perché, in fondo, ti mancano le sensazioni che ti dava la tua terra e ti manca la quotidianità della tua famiglia. Il fatto di fare il ciclista accresce tutto questo perché appena arrivi a casa le persone ti cercano». Dice che lo ha salvato il fatto di restare grintoso e genuino come è la terra d'Abruzzo, in fondo, quella terra che torna a scoprire negli allenamenti: «L'allenamento perfetto è quello che tocca mare, colline e montagna. Se riesco a salire a Passo Lanciano, sono felice». Poi c'è il carattere: «Anche da quel punto di vista non sono cambiato e credo non cambierò mai: non so essere distaccato da ciò che vivo. Sono come tutti mi vedono, com'ero già da ragazzo».
È così anche se parla delle difficoltà della stagione trascorsa. «Al Giro ero soddisfatto perché stavo facendo bene al primo anno in cui provavo a far classifica. Quando sono caduto a Passo San Valentino e ho pagato dazio a Sega di Ala, ero deluso, ma vedevo il bicchiere mezzo pieno. In fondo, era stata la sfortuna a bloccarmi». Ciccone racconta che questa sensazione l'ha avuta per qualche tempo: arrabbiato con la sfortuna, però sereno perché con quello che aveva dimostrato la stagione lo avrebbe ripagato.
«Purtroppo, non è stato così: alla Vuelta un'altra caduta mi ha tolto di mezzo. È stato il momento più difficile di tutto l'anno perché a quel punto mi sono reso conto che non avrei più potuto fare nulla e la stagione stava finendo. Farsi male quando non ci sono più opportunità per rialzarsi è la cosa peggiore che possa succedere». Non è tipo da lamentele, Giulio Ciccone, anche perché sa sin troppo bene che lamentarsi non serve. Per esempio, rifiuta la nostalgia di ciò che è stato e del modo di vivere il ciclismo nei primi anni da professionista.
«Le cose cambiano perché passano gli anni e cresci. Ho sempre vissuto il ciclismo in maniera seria, anche quando avevo otto anni ed era solo uno svago. Volevo divertirmi seriamente, non so se mi spiego. Le pressioni che aumentano ti fanno gareggiare in maniera differente e vivi anche gli allenamenti diversamente, nei primi anni sei più leggero. Non ho nostalgie però vorrei dire a tutti i giovani che si affacciano al ciclismo di non avere fretta di crescere. Mi sembra che spesso abbiano troppa fretta di assomigliarci. C'è tempo, è inutile prendere la rincorsa». Suo padre gli ha sempre detto che avrebbe potuto fare qualunque cosa nella vita e, se avesse scelto il ciclismo, lo avrebbe aiutato ma «prima si finiscono le scuole». In Colpack il passaggio decisivo, perché lì ha capito che quella bicicletta stava davvero diventando un lavoro.
Nelle difficoltà che ha vissuto Ciccone nell'ultimo anno, un punto saldo è stata la famiglia che per lui è un concetto ampio. «Per me sono famiglia anche gli amici, le persone che ti sono spesso vicine e che ti conoscono bene. Quando le cose non vanno, la famiglia ne viene toccata per forza. Come atleti siamo fuori casa molti giorni all'anno e abbiamo bisogno di un punto saldo, per questo, nonostante la lontananza, tutto ruota attorno alla famiglia».
Da scalatore non resiste al fascino del Mortirolo, non solo perché lassù ha vinto, ma perché quella salita più di altre lo fa sentire a proprio agio. C'è anche una grande classica, però, nella testa di Ciccone: «Ho corso solo una volta la Liegi-Bastogne-Liegi e l'ho fatto con freddo e pioggia, vorrei ritornarci». Col tempo, chissà.
Ora, qualche giorno per staccare e poi pensare al 2022: «Non chiedo molto: vorrei solo avere una stagione libera da fattori esterni che la condizionino. Le prestazioni, secondo me, ci sono. Un po’ di tranquillità e ci divertiremo».


Un panino, un campione del mondo e le Granfondo che vorrei

«Ci siamo seduti al ristoro, sulle panchine, con i panini al prosciutto in mano e, togliendoci il casco e gli occhiali, ci siamo guardati negli occhi. Quando parli mentre pedali ti senti, ma non ti vedi mai completamente. Ai ristori ci si scopre». Ce lo racconta Alessandro Ballan: oggi, alla Granfondo VENEtoGO ha accompagnato un gruppo di ottanta persone lungo 112 chilometri, da Cittadella a Cittadella, passando per Asolo, La Tisa, La Rosina e Bassano del Grappa, prima di tornare a Cittadella. Noi lo abbiamo seguito, con qualche sosta sul percorso mentre qualcuno ci chiedeva del passaggio della corsa, «quella in compagnia», e altri se i ristori fossero accessibili a tutti, anche ai non iscritti, «perché un panino fra gente che pedala è sempre più buono». Ballan ha cercato di parlare con tutti loro, nelle quattro ore in sella.
«Quando qualcuno mi racconta delle Granfondo che ha corso chiedo sempre se ha visto il paesaggio, se si è reso conto dei posti che ha attraversato. Ci sono persone che scalano il Pordoi all'alba e non se ne accorgono. Com'è possibile? Sono stato professionista per molti anni, ho corso cinque Tour, e non ho mai visto nulla tranne il sedere del corridore che mi pedalava davanti. So cosa significhi, so quanto questa vita possa nausearti a lungo andare. Per questo trovo inconcepibile vivere così le Granfondo. Le Granfondo dovrebbero essere ciò che è accaduto oggi: un modo per divertirsi, stando assieme, senza gara». Ballan è certo che sia un'anomalia italiana perché negli altri paesi si è preservata la partenza alla francese e uno spirito diverso. «Da noi, il focus si è spostato sui risultati e le persone rischiano, in alcuni tratti su strade aperte al traffico, senza nemmeno essere completamente coperte dal punto di vista assicurativo. Magari senza cambio ruote che resta con i primi».
Oggi lo vedevi veleggiare nel gruppo, tranquillo, cercando di conoscere un po’ tutti. «Ad Asolo ho raccontato che quel versante è stata la prima salita che ho scalato in vita mia. A “La Tisa” di quando la scoprimmo con Pozzato e Tosatto e di quando la percorsi tre volte di seguito nel 2012, prima del Fiandre. Alla fine, c'era persino un gruppo di tifosi ad attendermi in vetta. “La Rosina” la facevo dietro macchina a trenta all'ora per il Mondiale. Raccontavo, raccontavo e loro mi ascoltavano». Il momento più bello, dice Ballan, è quando i tifosi capiscono che alla fine sei esattamente come loro, si fidano e ti raccontano del loro mondo. «Con un manager ho parlato della sua azienda, dei suoi e dei miei progetti ma anche delle difficoltà. Qualche genitore mi ha chiesto delle mie figlie e mi ha raccontato delle sue. Da professionista non hai molto tempo per stare con i tifosi e spesso ti vengono chieste le solite cose, invece è bellissimo vedere che sono interessati alla tua vita e interessarti alla loro. Scambiare pareri, anche chiederli».
In certi tratti Ballan testava la gamba e scherzava con chi gli era vicino: «Sì, i dati sono buoni, ma una volta quei dati li avevo dopo 200 chilometri di corsa. Appena smetti, hai sempre lo sguardo su quel computer perché, sotto sotto, ti interessano ancora i watt e i dati. Lo togli quando vedi che non fai più le prestazioni di una volta. Ecco: da quel giorno vivi la bicicletta. Ho parlato con Bennati e Pozzato: noi siamo cresciuti nell'agonismo, eppure questa cosa ci piace. L'ho detto anche oggi: non esco in bicicletta senza bel tempo, senza compagnia e senza pausa bar. C'è un piacere incredibile nel vivere così la bicicletta». Qualcuno, mentre lo vede passare, dice a un bambino che quello è il Campione del Mondo del 2008: «Ho ancora la videocassetta, anche se non posso più vederla». Chiosa un signore.
Ballan prosegue: «A distanza di anni, dopo migliaia di chilometri, anche oggi ho scoperto strade e salite nuove. Succede spesso e ogni volta mi meraviglio. Ti rendi conto di che mezzo sia la bicicletta? In Veneto, poi, c'è tutto: collina, mare, fiumi, montagne. Dovremmo avere fame di scoprirli questi luoghi, di conoscerli, come dovremmo avere voglia di conoscere la persona che pedala davanti a noi. C'è tempo e mettersi a discutere sui cinque minuti in più o in meno per una salita non ha senso».
Anche perché la vera differenza nel ciclismo la fa proprio questo. «Oggi era organizzato, ma in bicicletta può davvero succedere di incontrare il campione che ammiri in televisione e fare una parte di allenamento con lui. Certo, magari si farà fatica a resistere al suo ritmo, ma farete la stessa strada e almeno per un tratto fianco a fianco. Il ciclismo non è più uno sport, una bicicletta costa, costano i materiali, è diventato uno sport di nicchia, ma quando ci sali una volta, e impari a gustartela, difficilmente non vuoi tornarci». Perché, fra tutte le cose che ha raccontato a VENEtoGO, Ballan voleva soprattutto dire questo: godetevi la vostra bicicletta.


Evaldas Šiškevičius o del rimanere fedeli a se stessi

Evaldas Šiškevičius ne è sicuro: quando ti trovi bene in un posto, sei rispettato e hai la tua libertà, devi restituire qualche cosa. Una in particolare: la gratitudine. Per questo, nonostante le offerte ricevute negli anni da diverse squadre WorldTour, non se ne è mai andato dalla Pomme Marseille, diventata poi Delko Marseille, la sua squadra, quella di cui fa parte da tredici anni, anche se, come dice lui, non sembra essere passato tutto questo tempo.
Certamente sono cambiate molte cose: nel 2008 la Pomme Marseille era uno dei migliori team nel ranking delle squadre amatoriali, successivamente è diventata Continental e poi Professional. Il WorldTour, però, non è mai arrivato. Ma Evaldas continua a vedere il buono e dal modo in cui lo guarda lo fa sembrare ancora più buono. «Ora abbiamo uno staff specializzato, tutti i materiali e persino due bus. Soprattutto in ogni gara abbiamo un traguardo da raggiungere, sappiamo cosa fare e come farlo» ha raccontato a Procycling.
Perché a Marsiglia non manca nulla, in primis il fatto di sentirsi libero di interpretare il proprio lavoro come meglio crede, di essere un capitano sulla strada, uno di quelli che ci vede lungo ed è un esempio per tutti i compagni.
Tutti o quasi ricorderanno la Parigi-Roubaix in cui arrivò al velodromo André Pétrieux di Roubaix dopo le diciotto, fuori tempo massimo, con un velodromo già deserto ma soprattutto con quel cancello di accesso chiuso. Evaldas dovette mettersi a gridare perché gli aprissero. Qualcuno, alla fine, quel cancello lo aprì e lui riuscì a finire quello che aveva iniziato. Anche quella fu una questione di rispetto. Il suo direttore sportivo glielo disse in partenza: «Non si viene per caso a questa corsa. Ha una storia importante a cui ogni partecipante deve rispetto. Bisogna saperlo». Nemmeno lui sa come abbia fatto a insistere così, cosa gli sia passato per la mente, sua moglie continua a dirgli che si chiede perché, ancora oggi dopo tre anni. Era il 2018 e solo un anno dopo, nel 2019, Evaldas riuscì, dopo una giornata incredibile, ad arrivare nono alla Roubaix.
Šiškevičius è nato a Vilnius, in Lituania, il penultimo giorno dell'anno del 1988 e della Lituania ricorda sempre il modo che hanno le persone di andare in bicicletta. Sono felici, lo fanno con piacere, è difficile da spiegare, ma basta osservarle per capire ciò che Šiškevičius vuole dire. Questo non vuol dire che in Lituania vada tutto bene, almeno non nel ciclismo professionistico. Basti pensare che gli unici professionisti lituani, al momento, sono Ignatas Konovalovas e lo stesso Šiškevičius.
Certo la sua carriera non resterà memorabile a livello di risultati, ma a suo modo il corridore lituano è un vincente, per l'orgoglio con cui difende le sue origini e le sue scelte, per il fatto che, nonostante non abbia mai avuto le caratteristiche per essere un vincente, facendo la cosa giusta al momento giusto, qualche risultato l'ha portato a casa. E perché, anche oggi, che è in scadenza di contratto e l'idea del passaggio nel WorldTour lo attrae dice che vuole pensare, riflettere, perché il luogo in cui ha vissuto una vita, non è come un bagaglio che può essere spostato con buona pace di tutti.
Perché alla fine, quando resti fedele a ciò che sei e a chi ti lascia la possibilità di esserlo, hai già vinto anche se nessun albo d'oro ne parla.


Tutta la dedizione di Gino Mäder

Il rapporto tra Gino Mäder e la bicicletta si è costruito a partire da una curva. «Alla prima curva sono caduto, mi sono fatto male. Mi sono sentito uno stupido, ci credi? Avrei voluto smettere per quella sensazione di vergogna. Mi è servito, sono cresciuto. Sono cose che succedono». Quella bicicletta Gino la ricorda molto bene, una Coppi, bianca e rossa, con ruote fini, «Quanto era bella la mia bicicletta», ci dice a un certo punto.

Se la passione, per Mäder, è qualcosa di familiare, entrambi i genitori sono stati ciclisti, l'idea che lo svizzero si è costruito della bicicletta ha a che vedere con le sensazioni che ha da sempre sperimentato sulla propria pelle. «Potrei dirti che la bicicletta è libertà, lo è, certamente. Se dovessi scegliere un sinonimo, sceglierei gratificazione. Quando vai in bicicletta ti senti appagato». Così non sarebbe in grado di ricordare il giorno più bello da quando pedala, perché tutti gli hanno lasciato qualcosa. Il giorno più difficile, invece, lo sa bene: la diciottesima tappa della Vuelta di quest'anno. Le rampe de l’Altu d’El Gamoniteiru gli hanno trasmesso le stesse sensazioni di quella prima curva, da giovanissimo, e avrebbe voluto fermarsi. Non lo ha fatto, come non lo fece allora. A Madrid è arrivato quinto, miglior giovane.

Questo è quello che vorrebbe dire ai ragazzi che vogliono diventare ciclisti professionisti: «Non ci sono consigli da dare, o meglio, non mi permetto di dare consigli a nessuno. Solo una cosa: godetevi quello che fate. Godetevelo perché dovrete farlo per molti anni e non sarà sempre uguale. Alcune volte vi divertirà, altre volte per niente. Alcune volte sarete motivati, altre vi chiederete perché vi tocchi. Ma, in ogni caso, dovrete farlo per anni interi e se riuscirete a godervelo diventerà più facile da vivere». Sarà per questo che Mäder non usa molti giri di parole per descrivere le cose; per esempio quando parla della vittoria al Tour de Suisse e dice che ci tiene molto. Gli chiediamo perché e ci risponde abbassando il tono della voce e sorridendo: «Perché è molto bella». Così facile che spesso lo dimentichiamo.

Nel ciclismo mette dedizione: «Quando fai qualcosa e non hai bisogno di guardare l'ora perché lo scorrere del tempo non ti preoccupa: è questa la dedizione». La fatica del ciclismo, invece, è riconducibile a un gesto chiaro: «La tua mente è così finita che non vorresti fare altro che sdraiarti su un letto e non fare più nulla».
In Bahrain ha trovato il clima giusto, il lavoro funziona e l'ambiente è sereno: «Posso raccontarlo io, ma credo lo raccontino meglio i risultati». Da sempre è affascinato dalla Parigi-Roubaix anche se non crede sia adatta alle sue caratteristiche e parlando di Roubaix, soprattutto in questi giorni, non si può non parlare di Sonny Colbrelli. «Ho corso poco assieme a lui. L'ho conosciuto soprattutto nei ritiri. Ha sempre cercato di coinvolgermi e se sono riuscito a integrarmi in questa squadra è anche merito suo».

Proprio alla Vuelta ha fatto molto parlare la sua iniziativa: donare un euro per ogni atleta che avesse concluso la tappa dietro di lui, dieci euro parlando di classifica generale, a un'organizzazione che avesse fatto qualcosa per l'ambiente. Alla fine, circa 15.000 euro sono stati donati a un'associazione per il ripristino degli spazi naturali in Africa e iniziative per il contenimento dell’innalzamento delle temperature. «Un uomo vive su questo pianeta per circa ottant'anni. Quanti anni ha questo pianeta? Quanti anni vivrà ancora dopo di noi? Si parla di un tempo che un uomo non può nemmeno immaginare. Ci comportiamo da proprietari del pianeta, in realtà non siamo nulla». Anzi, Gino lo dice chiaramente: siamo fortunati. «Lo siamo perché viviamo in questo pianeta, perché abbiamo sopra la testa un cielo con un sacco di stelle, perché siamo qui e abbiamo la possibilità di vivere. Perché non ce lo ricordiamo?».
Il paese di nascita di Mäder è piccolo: ha una squadra di calcio e sole poche migliaia di abitanti. Gino ha trovato sin da ragazzino il gusto della scoperta: «Sono legato alla natura, ci sono così tanti posti che ho visto e altrettanti posti meravigliosi che spero di vedere. Noi ciclisti, poi, facciamo il nostro lavoro in mezzo alla natura. Forse non posso fare molto, ma di certo posso provare a essere il meglio possibile per la mia città, il mio stato, il mio pianeta. E se posso farlo, lo farò».

Nel futuro, Gino Mäder vorrebbe che ci fosse qualche tappa al Giro d’Italia e poi ancora tanto ciclismo, quello che non ha mai avvertito come un sacrificio. «L'unica cosa è che mi tiene molto tempo lontano dalla mia famiglia" dice sereno. Perché "ci sono ancora molte cose da fare e per fare bene nelle gare che mi piacciono so di dover lavorare molto». E allora via: le parole di Mäder sono più che mai simili ai fatti.


Il decalogo di Magnus Cort

Ai 350 metri dalla vetta del muro di Valdepeñas de Jaén, Magnus Cort Nielsen ha avuto ancora una volta la certezza di non essere uno dei tanti. Proprio mentre il mondo gli crollava addosso e la gravità sembrava la più bizzarra delle leggi. Magnus, dopo una giornata in fuga, contro tutto e tutti, era un corpo trascinato verso il basso, incapace di fare la più normale delle cose in sella a una bicicletta: andare avanti. A destra, poi a sinistra e di nuovo a destra per non cadere a terra. Lo sorpassano Roglič e Mas, lo sorpassano López e Haig, lo sorpassano ventiquattro corridori e passano quarantanove secondi prima che arrivi in vetta. Lo speaker inizia a incitarlo, lo stesso fa la gente. Un mondo che si capovolge e ti riempie di lividi quando sei il più vulnerabile e non te lo meriteresti. «È ingiusto» direbbero i più.
Magnus Cort ha imparato da troppi anni che imprecare è inutile. Da quell'isola aspra quasi quanto una strada che sale. A Bornholm, quarantamila anime, nel mar Baltico, c'era posto solo per l'immaginazione. La stessa che ha convinto il danese ad andarsene a sedici anni per fare il mestiere del ciclista.

Veloce, certo, non a caso vorrebbe somigliare a Peter Sagan, ma non solo. A Magnus piace complicarsi la vita e, col tempo, ha avuto la certezza che le migliori possibilità provengano proprio da lì. «Forse in condizioni normali non posso battere i migliori, ma esistono anche la pioggia, il freddo e il vento...». Quasi una provocazione, come le fughe dell'uomo del nord. Ha vinto tappe alla Vuelta, la corsa degli scalatori: quest'anno persino all'Alto de Cullera, proprio mentre Roglič lo stava raggiungendo, una settimana fa. «Ai 150 metri ho temuto, per fortuna non mi ha ripreso». Parole che sembrano quasi uno sberleffo a sentirle oggi.
Orica, Astana e Education First, senza rincorse, rispettando lo scorrere del tempo che riconosce la fatica, il sacrificio. Poi, nei momenti liberi, si prende una tenda, gli sci, si imballa la bicicletta e si parte in spedizione sui Pirenei. Oppure si torna a Bornholm, dalla famiglia, e si va in campeggio. Magnus Cort ha un decalogo di regole: usa solamente ciò che hai, impara una cosa semplice alla volta, rispetta le regole, non portare mai due cose uguali, quando fa notte guarda un film sotto le stelle e riposati su un materassino che hai già provato a casa. Soprattutto non partire mai con scarpe che tu non abbia già indossato: in mezzo al bosco non potrai cambiarle.
Ha in mente una spedizione sul Kilimangiaro e vorrebbe fare bene alle Classiche del Nord. Ci riuscirà? Chissà. Di certo Magnus Cort è riuscito a inventarsi una vita neanche lontanamente immaginabile. Per questo è Alvento, come chi vede ciò che manca e, invece di lamentarsi, lo inventa.

Foto: Jered Gruber


Acqua e sapone

Il 13 luglio, Francesco Lamon era appena tornato da Montichiari, quando si è unito alla sua squadra, Biesse Arvedi. «Quella sera era contentissimo» spiega il diesse Marco Milesi. «Da giorni facevano tempi pazzeschi, mi disse: "Possiamo fare il record del mondo"». Detto, fatto: record e medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre. Lui, ragazzo semplice ma consapevole. «Ogni volta mi chiede cosa può fare per la squadra nelle gare in linea. C’è chi cerca di mettersi in mostra, lui è sempre a disposizione».
Una volta Lamon si è ritrovato in fuga, Milesi gli chiede sorpreso spiegazioni. Lamon lo spiazza e lo fa sorridere: «Sono capitato qui ma non voglio restarci, questi vanno fortissimo. Per favore, metti i ragazzi a tirare». Marco Milesi scherza: «Quando corrono loro, Montichiari trema». Sa bene che non è stato facile, come lo sanno i genitori di Lamon.
Hanno raccontato di aver fuso i motori di tre auto per seguirlo nelle gare. Suo padre, tecnico in ospedale, ieri mattina, ha chiesto qualche minuto di pausa per vedere la prova. Era il suo compleanno, pensate che regalo.
Francesco ha ventisette anni e dai propri compagni di squadra è visto come un esempio.
«Agli allenamenti arrivava davvero stanchissimo- prosegue Milesi- non gli si poteva chiedere altro. A primavera, poi, la tensione per le convocazioni era terribile». Il duro lavoro paga e questa ne è la dimostrazione. «Lo chiamerò per fargli i complimenti. Sono certo che questo oro gli darà molto, Lamon, però, resterà il ragazzo acqua e sapone che conosciamo tutti».


Aspettando il futuro: intervista a Francesca Barale

Francesca Barale, Vo2 Team Pink, venerdì, prima di partire per la cronometro che l'avrebbe consacrata campionessa italiana, non ha pensato a tutto lo sforzo che l'attendeva. In realtà non ci si pensa quasi mai: «La fatica è talmente tanta che, se riflettessi su quello che ti aspetta, non partiresti nemmeno. Nessuno specialista ci pensa».

Quello a cui invece si pensa è ciò che potrebbe accadere se riuscissi a dare tutto in quello sforzo. «Sei da sola, non hai punti di riferimento. Le radioline ultimamente aiutano a sconfiggere quel senso di solitudine, la voce del direttore sportivo ti aiuta a non naufragare con i pensieri ed è da lì che poi viene il crollo. Se inizi a dirti che le gambe non girano come vorresti è la fine. Io mi ripetevo: "Dai, resisti. Quella maglia ti aspetta". Così è successo, proprio quando non me lo aspettavo perché le cronometro precedenti non erano andate come avrei voluto, forse per questo ero tranquilla. In corsa sono abbastanza cinica e, quel giorno, non avevo nulla da perdere».

Barale è nata e cresciuta in Val d'Ossola e, fino a due anni fa, ha corso in squadre originarie della Valle, senza mai spostarsi. La sua salita preferita è quella di Trontano, dove va spesso ad allenarsi e dove, l'anno scorso, ha vinto la cronoscalata organizzata dal padre. «Per chi va in bicicletta la nostra zona è stupenda. Dalla montagna, alla collina, al lago. C'è tutto. A me spiace solo che manchino le gare. C'è qualcosa per il settore giovanile, ma per il femminile siamo ancora indietro. Serve gente appassionata che abbia idee e volontà e, soprattutto, serve la volontà di investire. La mamma dii Elisa Longo Borghini, ad esempio, aveva proposto una gara ad Ornavasso».

Lo stesso discorso, ribadisce Barale, vale per il ciclismo femminile. «Certamente nel ciclismo maschile ci sono più possibilità economiche e chi investe ragiona in questi termini. Voglio fare una considerazione: la gente, spesso, non ci conosce e quando parla di ciclismo crede che il ciclismo sia uno sport esclusivamente maschile, come se noi non facessimo la stessa fatica o gli stessi sacrifici. Penso che chi vuole bene al ciclismo abbia il dovere di raccontare sempre più spesso anche le nostre corse perché solo attraverso la conoscenza possiamo crescere. In questo senso, la diretta televisiva della prova femminile a cronometro, come avvenuto in altri paesi, avrebbe fatto bene».

Quando parla di Elisa Longo Borghini e di Filippo Ganna, Francesca Barale fa leva sull'orgoglio: «Devo dire che la nostra terra sta sfornando parecchi talenti ultimamente. Con Elisa abbiamo in comune caratteristiche simili, ma ci siamo conosciute dopo. Filippo Ganna invece lo conosco sin da quando era ragazzino perché le nostre famiglie hanno buoni rapporti. Mi fa quasi strano vederlo acclamato da tutti, famoso. Se lo merita, sia chiaro, ma per me resterà sempre il ragazzo semplice e l'amico di famiglia».

Nonostante la giovane età, appena diciotto anni, Barale spazia con agilità e arguzia su qualunque argomento. Un appunto interessante, per esempio, lo muove parlando di alimentazione. «Non sono seguita da un nutrizionista perché credo che nella mia categoria non sia necessario e perché personalmente ho una costituzione abbastanza magra che mi permette di gestirmi bene anche da sola. Però bisogna essere chiari: non è sempre vero che l'essere magri consente di andare più forte. Soprattutto non è vero che l'essere troppo magri fa ottenere risultati migliori. Si tratta di un pensiero che, a lungo andare, è pericoloso. Nel ciclismo spesso sono gli staff che fanno leva su questa idea. La nostra società ha propagandato per troppo tempo l'idea di bellezza associata ad una magrezza eccessiva. Facciamo attenzione».

L'anno prossimo Francesca Barale sarà chiamata al salto fra le élite: Il pensiero la spaventa e allo stesso tempo la stuzzica. «Non è mai facile. All'inizio sono schiaffi e frustrazione e il fatto di non avere una categoria intermedia tra junior e élite, purtroppo, peggiora solo la situazione. Tuttavia è proprio attraverso le delusioni che si cresce e si migliora. Servirà tempo e voglia di resistere. Il sogno sarebbe il mondiale e, perché no, un domani la vittoria del Giro d'Italia. Sono una passista scalatrice e credo di averlo nelle mie corde. Tempo al tempo».