Se tutti sbagliano strada vinco io

Racconto assurdo di una tappa vera alla Volta ao Algarve.

Quasi fosse un monito, tra i palazzi moderni di Lagos sbuca una palazzina residenziale con un graffito sul fianco. Rappresenta un teschio alle prese con un’antica macchina da presa. Il cinema vero sta per accadere lì di fronte. Altri personaggi compaiono da un universo parallelo a quello del ciclismo: un uomo con coppola e vestito lungo in stile Twin Peaks, un altro in maniche corte e infradito in quota Baywatch. Che temperatura faccia nel sud del Portogallo a fine febbraio è un mistero.

I fatti li ricorderete. La prima tappa di una corsa a febbraio inoltrato, la Volta ao Algarve, sta per terminare con uno sprint. Nel chilometro finale le squadre dei velocisti scalpitano: c’è la Intermarché per Girmay, la Red Bull-Bora per Meeus. Una tipica volata, insomma. Senonché, a 500 metri dal traguardo, gran parte del gruppo sbaglia strada.

L’errore ha del clamoroso. Non sbagliano uno o due corridori, come abbiamo già visto, ma quasi tutti. Viene imboccata l’uscita delle ammiraglie e d’un tratto il plotone si ritrova sul controviale. Pochissimi corridori capiscono le indicazioni dell’affaccendata motostaffetta: il più lesto a intuire l’errore degli altri ha la sagoma potente di Filippo Ganna.

Lo squarcio d’irrealtà aperto dal finale sdoppiato sembra uscire dagli articoli satirici di Achille Campanile sul Giro d’Italia 1932, o da un capitolo di Bar Sport di Stefano Benni. Ganna mena sui pedali, nel controviale qualcuno vuole gettarsi comunque in volata. Chi vince? E il traguardo dov’è? Impossibile a dirsi.

Sul traguardo vero, intanto, vince Ganna. È uno dei corridori più forti al mondo, cosa se ne fa di una vittoria del genere? In ogni caso gliela tolgono: tappa neutralizzata per (bisogna leggere tra le righe del regolamento) troppe assurdità del finale. Mille domande sorgono qui: cosa pensare al posto di Ganna? La sua squadra, una delle più ricche e vincenti al mondo, avrebbe dovuto lamentarsi, fare ricorso? Se al posto di Ganna avesse vinto João Martins della Rádio Popular-Paredes-Boavista, cosa avremmo pensato? Tutte le risposte sono lecite.

Il circo prosegue. Chi ha sbagliato strada torna indietro qualche metro, supera le transenne con la bici in spalla, taglia il traguardo al piccolo trotto. Lazkano se la ride, Alaphilippe assume un’aria grave. Arnaud De Lie incazzato: «Il corridore in testa al gruppo che ha seguito la moto non ha mai visto una gara in tv». Peccato che fosse un suo compagno di squadra.

È un evento su cui possiamo scherzare perché nessuno si è fatto male. La sicurezza, la responsabilità dell’organizzazione e la segnalazione del tracciato sono elementi cruciali, sempre. Prendiamoci però un momento per ricordare una tappa, solo immaginata da frasi fatte come Se cadono tutti vinco io, oppure Quello non vince manco se gli altri sbagliano strada. In Algarve hanno quasi tutti sbagliato strada e ha comunque vinto chi forse ne aveva meno bisogno tra i 170 partenti. Il suo ragionamento post-tappa non fa una piega: «Ho preso la strada giusta e ho vinto».


Storie dal deserto

ARTICOLO A CURA DI MATTEO GIORDANO

Lo ammetto, l’ UAE Tour non sarà la corsa di una settimana più esaltante del calendario, con i suoi drittoni nel deserto buoni solo per qualche ventaglio, viatico per le prime sfide fra i migliori velocisti; non si tratta nemmeno di una corsa che regala sfide particolarmente spettacolari sulle rampe di Jebel Jais e Jebel Hafet, che comunque sono parecchio in alto nella mia classifica personale dei nomi di salite più belli ed evocativi del mondo. Tuttavia l’Oriente mi ha sempre affascinato, e poi il deserto, insieme alle montagne, rappresenta la massima aspirazione per l’uomo quando si tratta di andare oltre le proprie paure e i propri limiti.

L’UAE Tour ha qualcosa di ipnotico come un incantesimo, forse per via del contrasto fra il deserto brullo e le città immaginifiche costruite da chi non solo può permettersi di ingaggiare il miglior corridore del mondo, ma anche di assumere i più visionari ingegneri e architetti, per sfidare la natura, domare l’acqua, piegare anche il deserto, almeno un po’, al proprio volere.
Ma magari sono solo io che, dopo due mesi di ciclocross e oniriche gare australiane nel cuore della notte, non vedo l’ora di tornare a un po’ di vero ciclismo su strada, ma non escludo che il massiccio volume de "Le Mille e una Notte" che latita sul mio comodino e che di tanto in tanto riprendo, in questo periodo dell’anno fa la sua parte.
E allora mi viene quasi naturale scovare un’epica fatta di magia, eroi e prodigi, tipici di quelle terre lontane, anche nelle imprese dei Pro sulle loro biciclette scintillanti sotto una luce che non dà tregua.

Tappa 1 – Philipsen, l’uccello Roc che cade sotto il suo stesso peso

La prima volata di questo UAE Tour lanciata con l’arrivo che tirava all’insù, molto più di quanto si sarebbe potuto pensare, non poteva che vincerla Jonathan Milan, con il suo strapotere fisico che pare debba strappare il manubrio da un momento all’altro mentre spinge a più non posso sui pedali.
Tuttavia, a far parlare di sé sul traguardo di Dubai è stato Jasper Philipsen, uno che, come Milan del resto, non si può definire velocista senza il rischio di essere tacciati di limitata visione delle cose.
Philipsen si è lanciato come sempre verso la linea del traguardo simile all’uccello Roc delle leggende arabe: enorme (forse anche un filo sovrappeso), con l’aria dominante, capace di oscurare il cielo con la sua sola presenza. Quando è sbucato dalla ruota di Milan, per un attimo la vittoria sembrava certa, pareva dovesse, con le ultime pedalate, planare per primo sul traguardo, e invece no, doppiamente no: il corridore dell’Alpecin ha incrociato il destino dell’uccello Roc. La mitologica creatura che si crede invincibile arriva secondo; di più, finisce per soccombere alla sua stessa foga e bramosia di vittoria. La giuria rivede le immagini: deviazione irregolare per chiudere la traiettoria a Fisher-Black. Retrocesso.
Come Roc che perde il controllo e precipita sotto il suo stesso peso, anche Philipsen, troppo sicuro della sua potenza, come già in altre occasioni, finisce sconfitto. Un altro sprint segnato da troppo impeto e forse da un filo di consapevole scorrettezza.

Tappa 2 – Tarling, il tappeto volante

Nel deserto soffia un vento che porta con sé antiche storie. Una delle più celebri è quella del tappeto volante, capace di sfidare la gravità e portare il suo cavaliere più lontano e più veloce di qualsiasi altro mezzo. Josh Tarling, nella tappa a cronometro sembrava averne trovato uno. Il suo tappeto non era tessuto di fili magici, ma di carbonio e ingegneria avanzata, un bolide che ha dominato la strada e il vento con la grazia di chi è nato per volare.
Mentre gli altri sembravano faticare per tenere la bici in traiettoria tra le raffiche, lui sfrecciava con una leggerezza quasi irreale. Il suo assetto era perfetto, il colpo di pedale senza scosse, la progressione inarrestabile. Come nei racconti in cui solo il prescelto può governare il tappeto magico, anche Tarling sembra avere un dono naturale per la cronometro, una sintonia perfetta con il mezzo che lo rende già un dominatore del tempo.
Il futuro forse è già qui, e di fronte a una simile naturale potenza non c’è nemmeno bisogno di troppa magia.

Tappa 3 - Rubio e la maledizione del secondo ritorno

La montagna che un anno fa lo aveva incoronato, questa volta gli ha voltato le spalle e in un modo che fa arrabbiare. Einer Rubio, vincitore nel 2024 sul traguardo di Jebel Jais, e che forse sognava di provarci anche quest’anno, non aveva messo in conto un guasto meccanico nel momento peggiore, e soprattutto la strana posizione in cui sull’ammiraglia stava la bici di scorta, talmente scomoda da raggiungere che il massaggiatore deve arrampicarsi sul cofano; e così gli avversari se ne vanno e i minuti pure.
Nella tradizione araba esiste un'antica credenza: il secondo ritorno è sempre carico di insidie. Gli eroi che provano a ripetere un’impresa trionfale spesso si scontrano con ostacoli imprevisti, come se il fato volesse impedire loro di replicare la gloria. È la sorte che toccò a Sindbad il Marinaio che, dopo essere sopravvissuto a incredibili avventure, volle spingersi ancora oltre, solo per trovare nuove sventure ad attenderlo.
Anche Rubio ha vissuto il suo secondo ritorno a Jebel Jais con esiti ben diversi dal primo. Il destino lo ha messo alla prova con un imprevisto tecnico nel momento peggiore, e a nulla è servita la sua gran gamba. Ma se c’è una lezione che le leggende arabe insegnano, è che le maledizioni possono essere spezzate: e allora servirà un terzo ritorno, per trasformare la sfortuna in leggenda.

Tappa 4 – Milan, la forza inarrestabile del vento

Nel deserto, il vento non è solo un elemento naturale: è un’entità viva, un narratore invisibile che scolpisce le dune, e porta con sé le storie di chi osa sfidarlo. E quando soffia con furia, solo i più forti sanno cavalcarlo senza esserne travolti.
Jonathan Milan ha domato il vento. Nella quarta tappa, caratterizzata da raffiche che spazzano le strade aperte dell’UAE, il corridore italiano si è fatto brezza, poi tempesta. Ha atteso il momento giusto, sfruttato ogni folata a suo favore e, con un colpo di pedale potente come una martellata, ha tagliato il traguardo davanti a tutti, senza storia
Nel folklore arabo, il vento è spesso un alleato delle imprese eroiche: porta i viaggiatori verso il loro destino, soffia nelle vele dei grandi esploratori, avvolge gli eroi nel momento decisivo. Anche oggi il vento ha scelto Milan e tutto lascia pensare che non lo abbandonerà tanto facilmente.

Tappa 5 - Malucelli: il destino del viandante

Nelle storie della tradizione araba, spesso il viandante, colui che sembra destinato a rimanere nell’ombra dei grandi, trova invece il suo momento di gloria quando meno ci si aspetta. Così accade ne "Le Mille e una Notte", dove un mercante senza pretese può scoprire un tesoro nascosto, o un viaggiatore qualsiasi può incrociare il proprio destino con quello dei sovrani.
Matteo Malucelli, centrando un grande secondo posto nella quinta tappa dell’UAE Tour, ha seguito il copione del viandante che, con astuzia e tempismo, si inserisce nel racconto in un ruolo che, probabilmente non era stato scritto per lui. Mentre i favoriti si controllavano e altri venivano messi fuori gioco da una caduta, Malucelli ha saputo infilare le sue ruote, piuttosto veloci (benché qualcuno avesse avanzato qualche ironico sospetto data la provenienza geografica delle stesse) nel momento giusto, emergendo inaspettatamente e scrivendo la sua M tra quelle più blasonate di Merlier e Milan. Non sarà una vittoria, ma è una di quelle imprese che fanno sì che il viaggio – e le corse – rimangano sempre pieni di sorprese.

Tappa 6 – Merlier, il mago del deserto

Nella tradizione araba, il mago è una figura ambivalente: può essere un ingannatore o un saggio, un manipolatore delle forze invisibili o un maestro della conoscenza segreta. Ne "Le Mille e una Notte", i maghi non si limitano a lanciare incantesimi: trasformano il mondo intorno a loro con la parola, la mente e l'illusione. Sono strateghi, come il celebre mago persiano che nella storia di Hasan di Bassora modella il destino del protagonista attraverso trucchi e magie sottili.
Tim Merlier, forte dell’assonanza con un altro celebre mago della tradizione occidentale, vince la quinta tappa con la solita chirurgica precisione del velocista di razza che sa che, per sconfiggere lo strapotere fisico di un avversario, occorre pure un tocco di magia. In una corsa caotica, con i ventagli a spezzare il gruppo e le accelerazioni che fiaccavano le gambe, il campione d’Europa ha saputo leggere la corsa come un incantatore che prevede il futuro. Ha misurato l’attesa, tessuto la sua strategia e poi, quasi come un incantesimo, ha materializzato la sua vittoria anticipando tutti, scappando via per non essere più raggiunto. Un mago della velocità, uno con cui fare i conti a ogni volata.

Tappa 7 – Pogačar, il jinn della montagna

Non è umano, banale dirlo. Tadej Pogačar non ha nemmeno bisogno di faticare troppo sulle salite dell’UAE Tour con la naturalezza di chi sa di avere un potere superiore. È lui il jinn della montagna, lo spirito inarrestabile che appare e scompare a piacimento, lasciando dietro di sé solo il suono del vento e il rumore della resa dei suoi avversari. Nel folklore arabo, i jinn sono esseri misteriosi, dotati di poteri immensi. Possono trasformarsi, controllare gli elementi e sparire, proprio come fa Pogačar, che sembra evaporare agli occhi di chi cerca di seguirlo non appena allunga il passo in salita. Un attimo prima è lì, accanto a te; un attimo dopo è già lontano, verso un destino scritto da tempo. Da togliere il respiro, soprattutto a quelli che provano a seguirlo.
Tutto troppo prevedibile? Forse. Ma questo non rende la sua superiorità meno spaventosa e fa crescere in noi il desiderio di vederlo presto duellare ad armi pari con qualche altro jinn, magari un jinn delle pietre.


Michał Kwiatkowski: essere un campione

Erano passati 584 giorni dall’ultima vittoria di Kwiatkowski. Lunedì 17 febbraio, il campione polacco della Ineos ha alzato di nuovo le braccia al cielo al termine della Clásica Jaén Paraiso Interior. Per un corridore con il suo palmares, la Clásica Jaén è una corsa di secondo ordine: si tratta infatti di una gara di livello 1.1 e con una storia molto recente, essendo nata solo quattro anni fa. In Spagna la considerano una sorella minore della Strade Bianche, per il percorso ricco di settori in sterrato e l’arrivo in salita a Ubeda, città Patrimonio Unesco per la sua architettura di chiara ispirazione rinascimentale.

La gara fa parte del circuito Europe Tour, ma non mancavano alcuni tra i corridori più forti del gruppo. Presenti, tra gli altri, Wout Van Aert, Ben Tulett, Isaac Del Toro, Tim Wellens, Brandon McNulty, Egan Bernal e Ben Turner. Il percorso, mosso e caratterizzato da tanti settori di sterrato. Dieci, per la precisione, per un totale di oltre trenta chilometri di strade bianche concentrati nel finale.

Tra i big gli attacchi cominciano presto, in un gruppo composto da poche decine di elementi. Un ruolo da protagonista lo interpreta Egan Bernal, in grande forma e con addosso la maglia di campione della Colombia. Bernal è marcato a uomo e a 65 km dall’arrivo, in un momento in cui tutti si guardano, è Kwiatkowski a partire. Un corridore così esperto non si muove mai a caso, e l’attacco ha un doppio scopo: da una parte può provare a giocarsi la vittoria, dall’altra esclude i tanti compagni della Ineos presenti nel gruppo principale dall’onere di collaborare.

L’unico a saltargli sulla ruota è Brandon McNulty, e i due si danno cambi regolari fino a riportarsi sulla fuga di giornata. Nel gruppo principale non c’è accordo: in molti provano ad attaccare, ma nessuno riuscirà a rientrare sul polacco col dorsale numero 11. Che al traguardo ci arriva da solo, perché lungo i settori di sterrato si staccano uno a uno tutti i compagni di fuga, alcuni per forature, altri perché, semplicemente, non ce la fanno a tenere il ritmo inesorabile.

La vittoria in terra andalusa è un successo minore per uno che ha vinto un Mondiale, una Sanremo, due Amstel Gold Race e altrettante Strade Bianche, ma per noi, parafrasando Willie Peyote, è “solo un’ottima scusa per uscire a bere e parlare di Kwiatkowski”.
Il polacco si afferma già da giovanissimo. Da juniores vince due volte il titolo di campione europeo e due Course de la Paix, e diventa professionista a 20 anni con la Caja Rural. Nel 2010 era difficile che un atleta passasse tra i professionisti così giovane, ma Kwiatkowski andava troppo forte per completare il classico cursus honorum tra gli under 23. La prima vittoria tra i professionisti arriva due anni dopo, nel prologo della Dwars door West-Vlaanderen.

Il polacco, originario di Chełmża, è sempre stato un corridore atipico e completo, in grado di dare il meglio in ogni tipo di percorso. A inizio carriera andava bene sia in salita che nelle classiche del nord, dove raccoglieva ottimi piazzamenti. Il quarto posto in classifica generale alla Tirreno-Adriatico del 2013 faceva pensare che Kwiato sarebbe diventato un ciclista da classifiche generali.

Ma alla fine non si è voluto snaturare, e ha preferito continuare a essere un corridore totale, dotato anche di un buono spunto. Questa scelta è stata decisiva per la sua carriera: quanti corridori abbiamo visto impegnare tempo ed energie per finire a raccogliere qualche top 10 nei Grandi Giri? Quante volte ci siamo detti che avrebbero fatto meglio a concentrarsi sui successi di tappa e sulle vittorie nelle gare di un giorno? Il 2014 è l’anno migliore della sua carriera. Vince la Strade Bianche, raccoglie ottimi piazzamenti nelle Classiche delle Ardenne ed è tra i migliori al mondo nelle brevi corse a tappe. Completa l’anno in bellezza conquistando i Mondiali in linea di Ponferrada. Quel giorno Kwiatkowski, aiutato dai compagni della Polonia, compie un’impresa, e diventa il primo (e finora unico) corridore del suo paese a indossare la maglia iridata. A Ponferrada non mancano avversari temibili come Valverde, Gilbert, Van Avermaet o Peter Sagan. Però Kwiato sente che la gamba è quella giusta, e cerca di sorprendere i rivali attaccando in discesa, a sette chilometri dall’arrivo. Si riporta subito sui fuggitivi, di cui fa parte anche Alessandro De Marchi.

Quel giorno risalta il suo grande acume tattico. Rimane sulla scia dei suoi nuovi - e temporanei - compagni di fuga per circa un chilometro. Riprende fiato, mentre dietro il gruppo si avvicina pericolosamente. A sei chilometri dall’arrivo, con la strada in salita, piazza un altro attacco e rimane da solo. Dietro si forma un gruppetto con i favoriti che collaborano, ma non riescono a riprenderlo. Al traguardo può alzare entrambe le braccia al cielo, e poi toccarsi la testa, forse per realizzare quello che ha appena fatto, forse per chiedersi se quella che sta vivendo sia la realtà.

Nei giorni importanti, quando poteva giocarsi le carte da capitano, Kwiato ha vinto spesso, e ha sempre corso da protagonista senza tirarsi indietro. Soprattutto nelle gare che hanno il percorso più adatto a lui, e cioè le Strade Bianche, coi suoi settori di sterrato e i continui saliscendi, e l’Amstel Gold Race. Alla Liegi e alla Freccia Vallone ha chiuso sul podio senza vincere mai, forse perché gli è un po’ mancata l'esplosività per essere tra i migliori anche sulle pendenze più aspre.

Lo spunto è sempre stato ottimo, soprattutto quando era più giovane. La sua capacità di far la differenza negli sprint a ranghi ridotti gli ha permesso di vincere la Milano-Sanremo nel 2017. In quell’occasione Kwiato non era certamente favorito, perché si trovava in un gruppetto a tre con Peter Sagan e Julian Alaphilippe, sulla carta molto più veloci. Il polacco della Sky lascia a Sagan l’ingrato compito di condurre lo sprint. Lascia un po’ di spazio tra la sua ruota e quella dell’avversario. Sembra un dettaglio da nulla, ma è proprio grazie a questo accorgimento che può sfruttare al massimo la scia del rivale, per poi uscire al vento negli ultimi 75 metri e trionfare grazie al colpo di reni. Un altro piccolo aspetto che ci mostra la sua completezza: oltre alla resistenza (l’endurance), alla bravura nei percorsi mossi e nelle classiche del nord, Kwiato ha nel suo “bagaglio ciclistico” anche un colpo di reni da sprinter di primo livello.

Abbiamo parlato della vita da capitano di Kwiatkowski, ma accanto a questa ha condotto anche una vita da supergregario. Con l’arrivo nel Team Sky/Ineos, ha quasi sempre partecipato al Tour con il compito di aiutare il proprio capitano. Non si è mai tirato indietro quando è stato chiamato a svolgere questo ruolo: ha preso il vento per chilometri e chilometri in testa al gruppo, quando serviva andava nelle retrovie per portare borracce e gel ai compagni. Dietro i successi di Froome, Thomas e Bernal c’è anche il suo prezioso aiuto.

E quando il leader di turno non poteva più competere per la generale, Kwiato era capace di non far rimpiangere troppo la sua assenza, portando a casa un ambito successo di tappa. Come nel 2020, a La Roche-sur-Foron, dove ha vinto al fotofinish arrivando a braccetto con il suo compagno di squadra Carapaz. O come nel 2023, quando si inserisce nella fuga di giornata per aiutare i propri compagni, e finisce per trionfare sul Grand Colombier, salita hors categorie.

Quanti ciclisti nel gruppo hanno nel palmares un Mondiale, hanno battuto Sagan allo sprint alla Sanremo, hanno vinto Strade Bianche, Amstel e sul Massiccio del Giura, e hanno aiutato i propri capitani a vincere tre Tour? Credo che l’elenco includa un solo nome, quello di un campione, quello di Michał Kwiatkowski.


Il ritorno di Alex Krieger

Oggi, 17 febbraio 2025, torna in corsa Alex Krieger, vittima,  ormai nove mesi fa, di un gravissimo incidente al Giro d'Italia di cui si è parlato molto poco. Il pezzo che state per leggere è stato tradotto e adattato dalla nostra redazione e lo potete trovare in originale sul sito della Tudor Pro Cycling, la squadra in cui milita il corridore tedesco.

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"Una cosa che ho imparato è che nessuna emozione dura per sempre. È importante apprezzare i bei momenti della vita e lottare per averne di più, perché siamo noi gli artefici della nostra esistenza."

12 maggio 2024 - Giro d'Italia, tappa 9. Il gruppo si sta dirigendo verso il traguardo di Napoli quando un corridore della Tudor Pro Cycling cade violentemente è Alexander Krieger. Viene trasportato d'urgenza in ospedale e lì i medici diagnosticano fratture multiple alle costole e una frattura al bacino.

17 febbraio 2025 - UAE Tour. Nove mesi dopo la sua ultima gara, Alex è sulla linea di partenza, pronto a tornare nel gruppo.

Quei nove mesi si ripetono nella sua mente come un film: immagini nitide che si mostrano in tutta la loro tensione.

Dalle quattro notti in un ospedale di Napoli alle altre due settimane in Germania, Alex ricorda il dolore e un momento decisivo: l'operazione al bacino. Un punto di svolta, la chiave che ha portato alla guarigione e alla possibilità di avere ancora una carriera in bicicletta. Prima le stampelle a sostenerlo per 6 settimane, poi  un respiro di sollievo quando ha potuto iniziare il suo programma di riabilitazione, principalmente confinato a casa a causa della difficoltà di movimento.

Alex ricorda quel periodo: «L'inizio è stato davvero duro. Provavo un dolore enorme. Ma ora, quando ci ripenso, è una sensazione... quasi bella. Perché so che bello è stato il finale». Tra tutti gli infortuni della sua carriera, questo rivaleggiava con il trauma subito dopo un incidente d'auto del 2020. Ma questa volta il danno è stato ancora peggiore, fisicamente ed emotivamente. «Sei o sette settimane dopo l'incidente, avremmo potuto accelerare la mia guarigione, ma insieme alla squadra abbiamo deciso che non avrei più corso nella stagione. Non c'era bisogno di correre rischi inutili per il mio futuro. Guardando indietro, è stata la scelta giusta. Ci si aspettavano delle battute d'arresto, ma alla fine non sono mai arrivate».

Quella decisione è stata fondamentale, un sollievo per Alex. Il team lo ha supportato e i medici dell'ospedale hanno fatto la differenza. I legami che ha costruito durante la convalescenza sono continuati anche dopo aver lasciato l'ospedale.

Il suo primo ritorno in bici è stato quasi traumatico, è durato circa un quarto d'ora ed avvenuto il 18 luglio: «Passati otto minuti non avevo idea di come sarei tornato a casa».

Sebbene abbia trascorso l'intera estate a casa, cosa insolita per un ciclista professionista, non si è mai annoiato: «Inizialmente è stato fondamentale come gli amici si siano presi cura di me. Poi quando ho iniziato a camminare e muovermi un po' di più, ho iniziato a intraprendere una vita sorprendentemente normale, forse persino migliore del normale. Andavo a nuotare al lago, cenavo con gli amici, organizzavo serate di barbecue e ping-pong, andavo in giro con la Vespa. Ho amato questa parte della mia esistenza».

Oltre a questi momenti personali, Alex ha anche trovato nuovi modi per restare in contatto con il Team. A luglio, ha visitato il campo di allenamento in quota del Team per un paio di giorni a Kühtai, in Austria. Al Tour of Germany, ha visitato la sede centrale della SRAM e ha pedalato per supportare i suoi compagni di squadra. La sua prima vera e propria corsa è stata alla Granfondo Vaduz, parte della serie Chasing Cancellara, dove ha guidato uno dei gruppi insieme al suo migliore amico. Al campionato mondiale UCI a Zurigo, ha trascorso la settimana con la divisione marketing del Team, ospitando una corsa BMC e interagendo con sponsor e ospiti.

La sua curiosità per le persone, il suo desiderio di entrare in contatto, non facevano che rafforzarsi. Voleva restituire qualcosa. Ecco perché, ad agosto, Alex ha assunto un nuovo ruolo: è stato direttore sportivo per il team Devo nei criterium in Germania e Svizzera: «Quando ero in ospedale, ho avuto molto tempo per pensare e un'idea mi è rimasta impressa: colmare il divario tra i team Pro e Devo. Ho spiegato la mia visione a Raphi (Meyer) e Boris (Zimine), ed entrambi erano d'accordo. Volevo aprire gli orizzonti dei ciclisti più giovani e, poiché Boris era desideroso di migliorare i leadout, i criterium erano il campo di allenamento perfetto. Ogni 10 chilometri, uno sprint e così un altro modo e un'altra possibilità per perfezionare le tattiche».

Racconta ancora Alex: «Al di là della performance, questa esperienza è stata fondamentale per stabilire una rapporto, una connessione. Abbiamo trascorso del tempo insieme, condiviso storie, imparato gli uni dagli altri. Spero che un giorno ripenseranno a quella settimana e la considereranno un'esperienza preziosa. Personalmente, lo spero: mi ha insegnato molto. Ho gestito la logistica, la strategia, la preparazione e la distribuzione delle borracce». 

In procinto di tornare alle corse, Alex confessa: «Non vedol'ora. Sono teso, ma è una tensione positiva. La prima gara della stagione è sempre speciale, ma questa volta significa ancora di più. Non sono ancora al massimo della forma, ma sono sicuramente abbastanza forte da fare il mio lavoro per la squadra. Onestamente, metterò più pressione su me stesso che sulla squadra. Ho un ruolo chiaro da svolgere. Mi integrerò in un nuovo treno di testa (per Arvid De Kleijn), quindi il mio compito è duplice: imparare il loro processo e portare la mia esperienza. Idealmente, ne trarremo tutti beneficio l'uno dall'altro. Oltre a ciò, cercherò di supportare Michael (Storer) per le tappe di montagna. Ma soprattutto, non dimenticherò di divertirmi. Sono stato ambizioso in questi mesi. Ora, spero solo di riuscire a gestire la pressione come facevo prima».


In cucina da Chef Sut

È l'agosto del 2021. Dal volo per Tokyo, assieme alla nazionale italiana di ciclismo, scende uno chef: fra i suoi bagagli un insieme di fogli, pieni di ricette, trascritte e tradotte solo pochi giorni prima. Tanti fogli, un ricettario intero. La nazionale di ciclismo non alloggia nel villaggio olimpico, bensì in un albergo ed è proprio nella cucina di quell'hotel che quei fogli verranno depositati su un tavolo attorno a cui stanno conversando diversi chef giapponesi. L'albergo sarà adoperato esclusivamente dalla nazionale in quelle settimane e Mirko Sut, sì, il viaggiatore sceso da quell'aereo, ha voluto incontrarli subito e formulare una proposta: «Ascoltate: queste ricette sono vostre, ve le regalo con tutta la mia esperienza ed i piccoli segreti che metto nei miei piatti. Voi avrete altre cose da insegnarmi, cose che io non potrei mai imparare senza il vostro supporto: rinuncio ad ogni pomeriggio libero solo per apprendere le vostre ricette, le vostre abilità. Se siete d'accordo, è questo lo scambio che vi propongo». Uno scambio culturale, nulla di diverso. Quegli chef hanno accettato ed in quel mese Sut ha scoperto i segreti del sushi e non poteva immaginare nulla di simile. Il riso, ad esempio. La sua scelta avviene attraverso il raffronto di diverse tipologie di riso di varia età, prediligendo sempre quello più "vecchio" in quanto più consistente, più sfumato al gusto: qualcosa di simile a ciò che in Europa avviene con le farine, nella panificazione. Ora che Mirko Sut sa tutto questo, il sushi è spesso sulle tavole degli atleti di Lidl-Trek per cui cucina: in particolare gli Onigiri. Altre preparazioni non sono replicabili, perché mancano gli ingredienti da noi, ma quell'esperienza ha continuato a costruire allo stesso modo la professionalità dello chef veneto e degli chef giapponesi: «Mi hanno raccontato che i principi dietro la cucina italiana e giapponese sono simili: al centro c'è la materia prima, da ricercare con cura, e la preparazione, che deve essere minuziosa. Forse per questo, erano interessati alle crostate e alla pasta al pomodoro. Un piatto semplice, eppur complesso come tutte le cose semplici. Pochi ingredienti: la pasta, l'olio, il pomodoro, il basilico. Pochi passaggi. Basta un errore ed il risultato è compromesso, non si può rimediare». Avrebbe pensato a tutto questo un bambino cresciuto al tavolo di un'altra cucina, in Germania? Probabilmente no.

Eppure Mirko Sut passava tutti i suoi pomeriggi nella cucina in cui i suoi genitori lavoravano e ad ispirarlo è stato proprio suo padre, nonostante in famiglia i cuochi fossero molti, tre degli otto fratelli della madre. Tuttavia «ogni papà è una sorta di eroe negli occhi di un bambino, così nasce l'emulazione». Mirko Sut ha sempre pranzato in quella cucina e la sala da pranzo di casa l'ha vissuta ben poche volte. Disegnava, colorava, leggeva: il suo piccolo mondo era tutto fra quelle mura. È cresciuto in questo modo: da ragazzino, d'estate faceva la stagione tra Caorle e Bibione, in inverno, invece, era pizzaiolo. «La possibilità migliore che abbiamo è quella di creare qualcosa che ancora non c'è e con i cibi basta cambiare un accostamento per dare vita a qualcosa di nuovo, perché sono davvero mille le sfumature che si possono ottenere partendo dagli stessi ingredienti». Il ciclismo l'ha sempre amato, tuttavia è stato un giorno del 2009 a farglielo incontrare più da vicino, quando un manager di Liquigas, passando da quel ristorante, l'ha conosciuto e gli ha proposto di accompagnare la squadra alla Vuelta a España. Non ha avuto bisogno di pensarci molto prima di dire sì. «Era un'altra era per quanto concerne il mio lavoro. Non c'erano nutrizionisti con le squadre, solo i medici. Pochi gli chef. Ricordo che prima delle tappe di montagna mi chiedevano di preparare la carne rossa: oggi è quasi esclusa dall'alimentazione di un ciclista in una corsa a tappe. Forse due volte, prima del giorno di riposo. Non c'erano nemmeno bilance, oggi si pesa tutto e ne servono almeno due ad ogni cuoco». Già in quel momento, Sut avrebbe voluto che fosse quello il suo mestiere, avrebbe voluto cucinare per i ciclisti, per gli sportivi.
C'era un contratto firmato di mezzo, viaggi tra Venezia, Roma, Londra e stelle Michelin da ottenere, così attese. Ma avrebbe aspettato lo stesso, per acquisire tutta l'esperienza necessaria e l'esperienza ha a che vedere con le ore di volo, con gli imprevisti che si incontrano e si risolvono, perché nel ciclismo è tutto un poco diverso, un poco più difficile. «La preparazione meticolosa e la materia prima eccellente sono la base in entrambi i casi, tuttavia in un ristorante ci si può permettere di spaziare maggiormente: non bisogna badare ad un pizzico di sale in più, ad un cucchiaio d'olio aggiunto ad un soffritto, a quanto burro si usa. Nel ciclismo è necessario controllare tutto, anche quanto finemente sono tagliate le cipolle. Immaginiamo un recinto: da lì non si può uscire, i paletti sono vincolanti, ma, all'interno, si può, anzi, si deve sbizzarrire la fantasia, sperimentare, innovare ed è una sfida, un banco di prova quotidiano». Il dovere di uno chef è eliminare ogni possibile fonte di stress, dal punto di vista alimentare, per l'atleta che, una volta a tavola, sa che tutto quel che c'è è controllato, sicuro, ma non si ferma qui. «In mesi e mesi lontani da casa, anche il gusto è importante, perché aiuta ad appagare, a soddisfare. Pensate ai bambini: non mangerebbero mai un broccolo al vapore, in una tortina, con una forma particolare, invece, magari, ne mangerebbero anche più di uno. I miei tacos al cavolfiore sono nati da questa intuizione e piacciono. Sembrano tacos ma sono cavolfiori. Gli atleti si nutrono così di ciò che è necessario, con piacere». La responsabilità è importante, perché una disattenzione nella pulizia o nella materia prima potrebbe provocare il ritiro di un atleta da una gara, un danno enorme di cui Mirko Sut vive il peso, con dedizione ed impegno. Per esempio quando, a casa, prova nuovi accostamenti oppure nel momento in cui, al supermercato, si lascia ispirare dagli alimenti e studia per ore ed ore nuove pietanze in modo da non avere più dubbi nel momento in cui le proporrà agli atleti. Il dubbio si toglie solo così in cucina: con il lavoro.

Un lavoro itinerante, in cui le cucine cambiano continuamente, i tempi sono contingentati, le liste degli ingredienti richiesti sempre più dettagliate, eppure talvolta gli ingredienti stessi non sono all'altezza di ciò che serve e bisogna cambiare piani. Ecco il perché di quell'esperienza che Sut voleva acquisire, la stessa che nel 2016 l'ha riportato nel ciclismo e dal 2014 in nazionale. Ha ripreso a viaggiare, a conoscere nuove usanze culinarie, a chiedere a cuochi di altri paesi, mutuando una tradizione italiana, quella per cui in Liguria vengono offerte le trofie al pesto e a Napoli le sfogliatelle. Resta un lavoro in cui la comprensione ha un ruolo decisivo, perché il mondo che si esplora all'esterno è, in realtà, lo stesso che compone le squadre: «Per un ragazzo americano, la pasta al sugo è la pasta con il ketchup che è ben differente da un piatto di pasta con un buon sugo e una foglia di basilico. All'inizio, pare assurdo ma è vero, può non piacere la nostra proposta, è questione di abituarsi. Bene, non c'è soddisfazione maggiore di quando un atleta, ad un certo punto, afferma: "Non c'è storia, da oggi in poi mangerò solo questa". Un cambio di usanze e di gusti significativo».
Restano e resteranno sempre la pasta, il riso, le patate, dolci o salate che siano, aumenteranno sempre più gli chef con le squadre, perché sempre più saranno i dettagli da controllare, sempre "a blocco" dal mattino alla sera: per questo, già qualche squadra ha almeno due chef nell'organico. Gli ingredienti freschi, la materia prima, saranno ancor più importanti, unico e riconoscibile il loro sapore, simili ai pomodori nell'orto dei genitori di Mirko Sut, perché quel bambino che passava i pomeriggi nella loro cucina ora è uno chef ed in cucina crea, esplora, costruisce, accosta, racconta, assaggia, prepara.

Foto di Mirko Sut: Sean Hardy
Foto Pedersen: Sprint Cycling Agency


Ricordi, speranze, futuro: intervista a Nadia Quagliotto

Sono trascorsi ormai più di cinque anni da quell'otto luglio 2019 a Carate Brianza, al Giro d'Italia femminile, e ora che «è acqua passata, ci si può quasi ridere sopra», ma a Nadia Quagliotto quel giorno è come se fosse caduto il mondo addosso. Una volata a tre in un pomeriggio lombardo ed afoso e la fuga, inizialmente senza speranze, che arriva al traguardo: Nadia Quagliotto era all'attacco da diversi chilometri con Letizia Borghesi e Chiara Perin ed in quello sprint pareva la più veloce. La sua ruota è stata davanti a tutte fino all'ultimo, quando Quagliotto ha alzato le braccia al cielo e Borghesi l'ha superata, prendendosi la vittoria. In quell'esatto istante il mondo era crollato con un rumore fragoroso e un silenzio impossibile da ascoltare, quello della delusione e del dolore, dell'imbarazzo e della vergogna, anche.

Tour of Chongming Island 2024 - 19 th Edition - 3rd stage Chongming New City Park - Chongming New City Park 111,4 km - 17/10/2024 - Nadia Quagliotto (ITA - Laboral Kutxa - Fundacion Euskadi) - Foto Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2 2024

«Sarebbe cambiato qualcosa per me? Non si può sapere ed il senno di poi vale quel che vale, tuttavia non credo. Ricordo perfettamente la sensazione di essere messa in croce: il giorno dopo non avrebbero voluto farmi ripartire. Ho sbagliato ed è stato un grosso errore, qualcosa che io stessa non mi perdonavo. Forse, però, non meritavo quella reazione, perché può succedere, non sono stata la prima e non sono stata l'ultima. Avrei dovuto reagire diversamente, ma avevo ventuno anni e si è più fragili a quell'età. Ero succube delle situazioni, subivo tutto quello che mi accadeva: ho imparato in quell'anno e in quello successivo a dire qualche sano "va a quel paese", a non logorarmi il fegato per quello che, alla fine, è solo un lavoro. No, non ho mai parlato con Letizia di quell'episodio». Classe 1997, da ragazzina si cimentava con il nuoto, anche a livello professionistico: ha smesso perché le sembrava troppo impegnativo e adesso si prende in giro: «Non so se nella scelta ci ho guadagnato, anzi sono convinta di averci perso ma, quando avevo una decina di anni, volevo a tutti i costi fare la ciclista. Non sono stata molto furba, dai». A casa Quagliotto il ciclismo non era praticamente mai entrato e tra il 2019 ed il 2020 stava per uscirne definitivamente. Perché dopo quella tappa, ci fu la parentesi in Cronos Casa Dorada.

Tour of Chongming Island 2024 - Nadia Quagliotto (ITA - Laboral Kutxa - Fundacion Euskadi) - Foto Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2 2024

«Tuttora non so cosa accadde, però so che per sette, otto mesi continuavano a dirci che sarebbero arrivati i soldi per ripartire e quei soldi non arrivavano. Era il periodo della pandemia, nessuno correva. Non sai del tuo futuro, non sai più nulla: se corri, qualcuno può notarti, ma se non corri? Finisci nel dimenticatoio, il nostro mondo è così. Ho pensato di mollare tutto e fare altro. Mi ha salvato Walter Zini che conoscendomi mi ha voluto con lui». Proprio con Zini ha imparato una certa leggerezza, la capacità di non far caso a tutto, di lasciarsi scivolare le cose addosso, «altrimenti con Walter smetti di correre»: Zini che tatticamente difficilmente sbaglia, Zini che ancora oggi la prende in giro con qualche battuta e lei ricambia allo stesso modo. Non molto tempo fa, le solite borracce che utilizza hanno cambiato colore e lei l'ha subito notato e ne ha parlato con una compagna: «Ora vedo anche quando una borraccia ha un colore differente, pensa te. Ha a che vedere con quel periodo buio. Ho iniziato lì a far caso alle piccole cose». Ha messo da parte l'ansia che ne caratterizzava il carattere, mentre le è rimasto un certo pessimismo su cui continua a lavorare: a casa, i genitori sono contenti della sua scelta, soprattutto dell'impegno che mette nel proprio mestiere. Le augurano successi perché è così che si continua a costruire una carriera ed anche lei li spera perché «sono stati anni di sacrifici economici anche per loro, per accompagnarmi alle gare, per sostenermi e nel ciclismo, da bambina o da ragazzina, se il genitore non ci crede devi fermarti, perché da sola non puoi andare da nessuna parte, sono trasferte lunghe, pesanti. Di certezze non ce n'erano, tanto più che non è un mondo che naviga nell'oro». Si definisce "all rounder" perché ha un buono spunto in volata e si difende in salita, poi scherza: «In sostanza è un modo carino per dire che non sono carne e non sono pesce: vado bene un poco ovunque ma non vinco, mi stacco sulle salite troppo impegnative e in volata fatico perché sono troppo magra. Non ho una corsa preferita, mi si addicono le gare di un giorno, non troppo lunghe, sennò mi annoio e, di conseguenza, mi deconcentro, e mosse. Sono sempre lì, ma vorrei la vittoria».

Lo scorso anno, in Laboral Kutxa, racconta di essere mancata a metà stagione, pagando forse l'intensità del mese di aprile e maggio: dapprima qualche malanno fisico dovuto al freddo nelle Ardenne, successivamente, a luglio, svuotata completamente dal Covid al Giro d'Italia. Il fisico ko, ma, soprattutto, la testa che ad un certo punto cede: è sicura di peccare più di testa che di condizione e su questo sta concentrando i propri sforzi, in questo modo spiega di essere riuscita, talvolta, ad andare anche oltre quello che lei stessa si aspettava. «Pativo la pressione e questo non mi permetteva di rendere al meglio. A metà stagione il cambiamento: mi hanno chiesto di fare un passo indietro e mettermi a disposizione delle compagne. Mi è servito, ho preso consapevolezza ed è stato tutto più semplice. Mi hanno detto che raramente hanno conosciuto un'atleta capace di mettersi a disposizione così volentieri: a me non pesa ed anzi mi sento gratificata da un ringraziamento, semplice semplice. Del resto anche queste sono piccole cose da apprezzare. Il ciclismo non è uno sport individuale, è una disciplina di squadra». Alle ultime gare di stagione, il suo allenatore l'ha presa da parte: «Nadia, sei arrivata qui che eri una persona e te ne vai completamente diversa, ci spiace perderti». Lei si è commossa. Sì, da quest'anno veste i colori di Cofidis: i primi contatti ci sono stati a marzo, successivamente alcune call ed a giugno la firma definitiva. Sarà un altro step nella sua carriera e le permetterà di disputare le classiche che, per tracciato, le si addicono. Sta studiando francese, anzi, a dire il vero sta provando a ripassarlo perché ha studiato all'Istituto Tecnico Turistico e fra le materie c'erano inglese, francese e spagnolo: «Studiato è una parola grossa, perché studiare non mi piaceva, col senno di poi, però, avrei preferito farlo prima che dover recuperare adesso. A parte gli scherzi, da casa mia alla scuola c'erano trenta chilometri: le mie compagne mi dicevano che al ritorno a casa vedevano i cartoni animati. Io tornavo sfinita dagli allenamenti e studiavo a sera. Già non era il mio forte, in queste condizioni poi. Però gli insegnanti mi hanno aiutato, devo dirlo».

Tour of Guangxi Women's 2024 - Nadia Quagliotto (ITA - Laboral Kutxa - Fundacion Euskadi) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2024

In Cofidis ha ritrovato Martina Alzini, si conoscono da molti anni, da quando Quagliotto si cimentava con la pista, nel quartetto: quel periodo le ha cambiato il fisico perché spingere rapporti così duri ha certamente influito sul fisico. Ora probabilmente gli effetti non si sentono più, ma all'inizio riconosce siano stati importanti: «Ho smesso quando sono approdata in Fassa Bortolo nel 2016 ed era ovvio che accadesse così. Facevamo il Fiandre, sono cresciuta bene con loro, Lucio Rigato mi ha insegnato molto e, a dire la verità, credo di aver sbagliato ad andare via, avrei dovuto fare un altro anno lì e crescere con più calma. Ma non avevo molto la testa, non ero molto in bolla, così ho scelto frettolosamente. Del resto, fuori dalle gare sono un poco un disastro, è la mia indole». Alle gare ritrova la concentrazione ma il mondo professionistico diventa pesante ed ora della fine dell'anno si sente la necessità di staccare: «Di fatto siamo intrappolate nella solita routine: allenamento, rulli, massaggi, camera, cena, sonno e si ricomincia. Vero che giriamo molto, ma non esistono visite alle città, al massimo una pausa caffè al bar. Anche gli argomenti di dialogo sono più o meno sempre quelli. Non c'è altro, viviamo per il ciclismo. Sento la necessità di tornare a casa, fosse pure una toccata e fuga». Nata e cresciuta a Maser, da qualche mese si è trasferita a Bergamo, per stare accanto al suo compagno. Segue molti sport, in particolare documentari su Formula1, atletica, nuoto e tennis. Nel gruppo del ciclismo si dice ammirata dalla bellezza stilistica di Van der Poel in sella, ma ha imparato a mettere tutto al giusto posto ed a vivere di conseguenza, così è possibile soffrire meno, pur impiegando la stessa passione. Se deve buttarsi in volata, il pensiero di quel giorno del 2019 non c'è più e lei è libera.
Ogni tanto si ferma a pensare, perché sa che, per quanto sia giovane, la carriera da atleta prima o poi finirà: non sa cosa potrà fare quando scenderà di sella e la cosa la preoccupa. Poi scherza, sorride, ride forte e chiosa: «Finirà che arriverà il momento e ci penserò, altre soluzioni non ne ho. Sono fatta così».


Il Prete Bello

La scena di ciclismo più bella nella storia del cinema italiano (per me, s’intende) è questa qui. Due ragazzi spingono a mano una bicicletta su per un sentiero, dentro a un bosco. Stanno andando a vedere passare una corsa ciclistica. Arrivano a un tornante e dietro a un cespuglio, seduto per terra, con la bicicletta da corsa stesa di fianco, c’è un corridore. Ha la maglia rosso-verde e il volto quasi nascosto da due grandi occhialoni anti-polvere.

Due ragazzi, due amici, Sergio, il piccoletto, e Cena, sono i protagonisti dei film di Carlo Mazzacurati, Il prete bello (1989), tratto dall’omonimo romanzo di Goffredo Parise, il suo più bello (sempre secondo me). I due ragazzi si sono “guadagnati” furbescamente una bicicletta alle spalle della signorina Immacolata che smania per le bellurie del vanesio don Gastone, il prete del quartiere, il “prete bello”, appunto, nella Vicenza degli anni Trenta del secolo scorso. La bicicletta è una Bianchi, ma è una sola, e Sergio e Cena sono due: per non stare l’uno a guardare l’altro che la usa, escogitano il sistema. Così lo descrive Parise nella pagine del suo romanzo:

"Nelle ore meno fredde del pomeriggio ci si allenava sul viale della Stazione: scoprimmo così che nessuno dei due arrivava con le proprie gambe dalla sella ai pedali; allora si risolse il problema infilando una gamba nel telaio, appesi al manubrio da un lato, ma successero litigi, malcontenti e risse perché il turno di uno veniva a risultare sempre più breve di quello dell’altro. Escogitammo allora un altro sistema; quello di far girare un pedale a testa, entrambi appesi ai due lati della bicicletta".

Ma torniamo alla scena del film. Il corridore si accorge dei due ragazzi, si alza e, sfregandosi le mani, dice: "Ehi, voi due, c’ho fame. Non è che avete qualcosa da mangiare?". Sergio stringe tra le mani un sacchetto di carta. Guarda Cena e, implorante, gli chiede: "Posso dargli il mio panino?". Cena scrolla le spalle. Sergio infila una mano nel cassetto, passa il panino al ciclista, ma prima che gli venga in mente di dargli anche l’altro Cena gli strappa dalle mani il sacchetto, agguanta il panino che resta e inizia a mangiare. "È già passato il gruppo?" chiede Sergio al ciclista rossoverde che mastica voracemente quell’insperato rifornimento e dice no con la testa e la bocca piena. Cena invece ha un’altra curiosità: "È difficile diventare ciclista? Pagano bene?". Sergio gli dà di gomito, perché sono domande che non si fanno. "Ma tu sei in fuga?" chiede Sergio. "Cinque minuti" risponde il ciclista, con le dita della mano bene aperte. Ma intanto in lontananza si sente arrivare un’automobile dalla strada. È la macchina del seguito: stanno cercando il corridore: "Dai, dai, rimonta in sella, che il gruppo sta arrivando". Il corridore inforca la bici e si butta giù per la discesa. "Oh, hai capito?" chiede Sergio esterrefatto a Cena. "Cosa?". "Quello era Bartali!". "Ma va!". "Sì, l’ha chiamato Gino!". Passa dopo un po’ il gruppo degli inseguitori, e Cena e Sergio si affacciano dal ciglio della strada sui tornanti sottostanti, dove vedono allontanarsi giù di sotto il corridore solitario in fuga. A gran voce, chiamano: "Ginoooo!", sbracciandosi per un saluto. Gino li sente, si volta e li saluta da lontano.

È una scena tenerissima. L’incontro inatteso e ravvicinato col campione dei loro sogni. L’emozione di avergli dato da mangiare, forse di averlo aiutato a vincere la corsa. E quel saluto di lontano, amichevole e anche grato. È una scena che si è inventato il regista, Carlo Mazzacurati, perché nel romanzo di Parise non c’è. Nel testo i riferimenti, nei giochi e nelle fantasie ciclistiche di Sergio e Cena, sono tutti ad Alfredo Binda e a Learco Guerra, i campioni della prima parte del decennio anni Trenta. La trama del romanzo si colloca sicuramente dopo il 1936, perché si fanno espliciti riferimenti alla guerra di Etiopia, che inizia nel 1935, e soprattutto a quella di Spagna, che comincia nel luglio del 1936, in cui addirittura ha partecipato don Gastone, come cappellano militare. A rigore, sarebbe stato possibile che Bartali ci entrasse nel romanzo, dal momento che fin dal 1935 aveva già corso il suo primo Giro d’Italia, vincendo anche una tappa per poi aggiudicarsi la corsa sia nel 1936 sia nel 1937. Ma Parise non ce lo mette. Mazzacurati invece “forza la mano” e fa comparire Bartali, in maglia Legnano, in una corsa, magari la Vittorio Veneto-Merano, una sua vittoriosa tappa del Giro del 1937. Del resto, a Carlo Mazzacurati piacevano le bici e le metteva volentieri nei suoi film. Nella scena iniziale di Notte italiana, del 1987, si vede una bimba che pedala su un argine del Delta, mangiando un gelato.

Ne La lingua del Santo (2000), Antonio Albanese e Fabrizio Bentivoglio sono due improbabili e coloratissimi mountain-bikers. E se non mi ricordo male, anche nei soliti paesaggi di provincia de La giusta distanza, a contorno di una meravigliosa Valentina Lodovini, girano delle biciclette. Insomma, per farla breve, il Bartali del Prete bello di Mazzacurati è un Ginettaccio apocrifo. Ma forse sarebbe piaciuto anche a Parise.

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Voce del verbo ripartire: intervista a Martina Alzini

Non appena, dall'altro capo del telefono, giunge la voce, le prime parole ci spiazzano e per qualche istante rimaniamo in silenzio: «Diversi giornalisti mi hanno scritto e intervistato nell'ultimo periodo e, se vuoi che ti dica la verità, resto sempre abbastanza sorpresa, non ne capisco il motivo. Di solito le interviste si fanno a chi vince, a chi ha tanto da raccontare. Nell'ultimo anno, io non ho vinto nulla, anzi, ne sono uscita esausta e posso assicurare che non sto esagerando: è la realtà. Mi sembra di non avere nulla da dire, oppure, forse, ben poco. Talvolta ho la sensazione di ripetere le solite cose, altro non posso raccontare perchè io ho vissuto questo». A parlare è Martina Alzini, ventisette anni, di Legnano, casacca Cofidis Women Team: in una pausa, interveniamo, le spieghiamo perché l'abbiamo cercata, le diciamo che, alla fine, sono le persone a contare e nulla può sostituirle. Probabilmente non la convinciamo del tutto e lo capiamo bene, perché chissà quante volte l'avrà sentita questa storia. Ad una conclusione arriviamo solo mentre scriviamo questo pezzo, riascoltando la registrazione dell'intervista e anche questa non è particolarmente originale ma tant'è: chi crede di aver meno da dire, chi parla poco, di solito è proprio chi avrebbe più da condividere. «Di non voler a tutti i costi tirarsi fuori da soli dalle risacche in cui, qualche volta, ci costringe la vita: penso sia questa la cosa più importante da raccontare. Io sono caduta in quest'errore, quasi chiedere aiuto ci faccia apparire deboli. Lo dico a voce alta: chi ha la forza di farsi aiutare è forte, molto forte. Anzi, la dimostrazione della forza di carattere è proprio in questo. Dovremmo imparare a non aspettare di soffrire per chiedere una mano. Sono affiancata da uno psicologo, perché a fine stagione ero mentalmente svuotata. Non c'era più luce, dentro e fuori».
La motivazione è andata calando nel 2024 e ad un certo punto Alzini si è confrontata con la difficile condizione di non trovare un motivo per continuare a fare quel che, comunque, continuava a fare, fedele alla professionalità richiesta ad una ciclista: «Non provavo più alcuna emozione e non c'è nessun responsabile, non c'è una colpa di qualcuno, era uno status mio. Forse ho gestito male le mie energie: dapprima il pensiero fisso rivolto a Parigi, all'Olimpiade, successivamente la forte motivazione legata al Mondiale su pista, poi mi sono fermata, la mia mente ne ha risentito». Martina Alzini sottolinea più volte quel "non è colpa di nessuno" e spiega che, probabilmente, si è ingenerato un equivoco che vorrebbe chiarire: «Può essere che la mia reazione a caldo non sia stata la migliore. Sbagliamo tutti, sbaglio anche io. Non so se mi sono spiegata male, oppure non sono stata compresa, ma non è questo il punto. Il fatto è che, spesso, è passata l'idea che avessi qualcosa contro qualcuno. Non è così. Anzi, voglio ringraziare Marco Villa per avermi messa alla prova e perché se, fra tutto ciò che non ha funzionato quest'anno, posso sentirmi fiera di "essere uscita dal nido" l'opportunità è venuta da lui. Mi spiego meglio: è normale che le cose negative facciano più notizia di quelle positive, però nel 2024 non c'è stata solo l'esclusione dall'Olimpiade di cui tutti mi chiedono. Ho corso in Australia, ho corso la Coppa del Mondo in Canada e siamo arrivate seconde dietro la Gran Bretagna, ed al Mondiale, oltre alla conquista del bronzo nel quartetto, ho sperimentato la Corsa a punti, una specialità differente in cui vorrei fare bene. Volevo di più, certo, volevo un'altra medaglia e quel "no" all'Olimpiade sto imparando ora ad accettarlo e metabolizzarlo, lo ammetto, ma sento che diventerà un punto di forza. Non sono più una ragazzina, atleticamente non sono così giovane e "uscire dal nido" a ventisette anni non è scontato. A me è capitato». A Parigi, non appena seppe che sarebbe stata riserva, scrisse qualche riga e, al fondo di questa riflessione, aggiunse un pensiero per tutte le atlete e gli atleti nella sua stessa condizione.

Martina Alzini (ITA) - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2022

«Fa parte del mio carattere, anche fuori dallo sport, credo nell'aiutare gli altri perché quando si è in difficoltà è questo che si desidera: qualcuno che porga una mano. E se lo desideriamo per noi stessi, perché non dovrebbe volerlo anche quella persona che, magari, ci è vicina e sta attraversando un brutto periodo? Alla fine siamo tutti esseri umani ed i bisogni, spesso, sono gli stessi. Si chiama empatia ed in questa società può pure sembrare un problema, perché in pochi la vivono. Io sono fatta così e, ora posso dirlo, resterò così anche se può far male. Non cambio questo lato di me. Tra l'altro, nel ciclismo difficilmente si va da qualche parte da soli. In nazionale è accaduto a tutte ed a tutti di essere esclusi in certe occasioni e non c'è nulla per cui protestare. Quando succede, bisogna solo mettersi nella condizione per cui non ricapiti; lavorando ancora di più, impegnandosi, cercando di migliorare». Alzini è una ragazza solare, la battuta e lo scherzo sono parte del suo pane, anche quando si va in profondità, così, d'improvviso ride di gusto, fa ridere anche noi e racconta uno scherzo organizzato dalla sua squadra, la Cofidis, durante il primo ritiro con Julie Bego, appena diciannove anni. A Bego era stato detto che sarebbe stata in camera con "la più "vecchia" e severa del team, un'atleta sempre seriosa, poco incline alla risata o al divertimento": quella ciclista era Martina Alzini che, in accordo con lo staff, nei primi giorni di condivisione della camera ha retto il gioco. Julie Bego era preoccupata, qualcuno dice "terrorizzata". Un giorno parla con Alzini e si confessa entusiasta dell'inizio della stagione del ciclocross: «Ma come? Ti perdi il periodo di off season, forse la parte più bella della stagione e sei così felice?». La risposta di Bego è quella che fa capire a Martina Alzini di trovarsi davanti ad una fuoriclasse: «Io la penso al contrario, senza bici soffro. Tu sei "vecchia", forse per questo la pensi diversamente, magari un domani cambierò idea anche io». Una porta in faccia, un'onestà disarmante, una genuinità che non ammette repliche, nessun timore reverenziale. «Julie è vera e quando si è così viene tutto naturale, mi somiglia: non so fingere. Sono cresciuta insieme a Marta Bastianelli, ascoltando i suoi consigli e provando a farne tesoro, quando vedo una ragazza nuova e giovane in gruppo penso spesso alle sue possibilità, al suo talento, a dove potrà arrivare e se qualcuna viene a bussare in camera mia, alla sera, mi appaga l'idea di poterle essere d'aiuto, in qualche modo».
Al Tour de France Femmes, in realtà, è arrivata una piccola boccata d'ossigeno: una volata in cui si è risentita bene ed una top ten che doveva restituire morale, al termine di un periodo in cui Alzini non riusciva più a dormire e faticava in allenamento. Questo il motivo del pianto liberatorio, appena tagliata la linea del traguardo. Qualcuno non ha compreso quelle lacrime, di più, qualcuno le ha giudicate, criticate, anche con commenti sotto i suoi post social: «Ero estremamente vulnerabile e quelle parole non pensate mi hanno fatto riflettere. Perché si cerca sempre di screditare senza conoscere la storia delle persone? Mi chiedo se le persone sanno cosa si prova a stare in gruppo nel 2024: non devi pensare, perché se pensi tiri i freni e ti fermi. Posso capire che per qualcuno quella top ten non significhi nulla, ma prima di dirlo, prima di scriverlo, perché non si prova a fare uno sforzo di immedesimazione? Se hai un ampio pubblico che ti segue, quella critica può scivolare via in mezzo a tanti commenti, diversamente può davvero fare male. Io credo che, a patto di scegliere di fare attenzione alle parole, si possa davvero dire quasi tutto ed ogni pensiero sia legittimo, ma le parole vanno pesate prima di parlare, altrimenti meglio tacere». Le critiche, spiega Alzini, sono normali nel suo lavoro, con l'esposizione mediatica, certo hanno un peso differente a seconda di chi le fa, perché «dal divano siamo tutti bravi a esprimerci. I pareri vanno bene, i giudizi penso, invece, richiedano una certa conoscenza del mondo di cui si parla».
La stagione 2024, a fronte dei risultati che sperava migliori, le ha restituito la capacità di apprezzare le piccole cose, ad esempio il sesto posto colto con Martina Fidanza nella disciplina della madison in Australia. Non tanto per il risultato in quanto tale, quanto, piuttosto, per l'esperienza e per il ricordo che le ha lasciato: non a caso sostiene che, nonostante tutto o forse proprio per questo il 2024 sia l'anno in cui è cresciuta di più ed è cambiata di più, soprattutto in una parte insondabile, l'interiorità. Per il 2025, relativamente alla strada, vorrebbe lavorare sull'aspetto aerobico e migliorare sulle salite, essere più resistente; in pista, invece, il traguardo è quello di affinare la tecnica nelle gare di gruppo, come la Corsa a punti, per essere competitiva. A voce bassa, però, il desiderio più importante: «Vorrei tornare ad alzare le braccia al cielo. Non ho una gara preferita, non ho una corsa che sogno più di altre. Solo non vedo l'ora di riprovare quella sensazione, quella felicità». Cofidis è l'ambiente ideale per inseguire questo traguardo, una squadra storica e «se si resta nel mondo del ciclismo per così tanti anni, un motivo ci sarà: significa che c'è studio, c'è programmazione». Martina Alzini si dice fiera della propria italianità, allo stesso tempo, però, tiene gli occhi ben aperti: «Noi italiani saremo sicuramente più bravi a fare un piatto di pasta, su questo non ho dubbi, su altro, tuttavia, di strada da fare ne abbiamo e sarebbe il caso di guardare all'estero e trarre spunto: per esempio dalla tutela del lavoratore che c'è in Francia, dal modo in cui si cerca di agevolare l'ingresso e la permanenza nel mondo del ciclismo». Il periodo di riposo a fine stagione le ha permesso di trovare tranquillità, il cui sinonimo per una ciclista è organizzazione, ovvero costruire la propria forma fisica senza cambi di programma: «Il ciclismo si è estremizzato molto, ma noi siamo umani e "forte" ovunque non possiamo andare. Serve un compromesso: lavorare molto evitando di "fissarsi" su quel che non va perché è dannoso: svuota, prosciuga».
Martina Alzini non riuscirebbe a sopportare la routine di alcuni lavori, perché è una ciclista e come tale è una viaggiatrice del mondo con la valigia in mano, però di casa sente la mancanza. Non tanto del luogo fisico, nemmeno di un locale o di un oggetto, quanto piuttosto di una situazione: le sere sul divano con il gatto che ha adottato, trovandolo, di fatto, in mezzo ai rifiuti. Proprio il suo lavoro non le consente di tenere un cane, ma, appena può, si reca al canile e ne porta a passeggio qualcuno. Ora che trova conforto e sollievo nei dettagli e nei particolari, tiene fra le cose più care la solitudine di un allenamento, le acque del lago placide ed il sole. «E questo autunno è stato davvero pieno di sole»


IL GRIDO E L'ORGOGLIO: INTERVISTA A GIADA SILO

Giada Silo era, per la prima volta, in sella ad una bicicletta da corsa e stava varcando l'ingresso del velodromo di Sossano, in provincia di Vicenza, non lontano da casa. L'aveva accompagnata suo padre, lei aveva poco più di dieci anni: ricorda perfettamente com'era vestita, ricorda molte altre cose, soprattutto ricorda che quel giorno tornò a casa dal velodromo con un borsone da ciclismo e la sua prima bicicletta. Aveva scelto ed era felice ed arrabbiata, quella rabbia che viene dall'orgoglio e dal sentirsi discriminate. Era l'unica ragazza della categoria giovanissimi e l'allenatore, non appena aveva iniziato a pedalare nel velodromo, si era rivolto ai ragazzi che già si stavano allenando, chiedendo di fermarsi, in quanto per Giada era la prima volta ed aveva bisogno di essere sola per impratichirsi. Una voce come un pugno allo stomaco da parte di uno di quei ragazzini: «Sì, sì fermiamoci, è una femmina. Solo per quello». Giada Silo ha sentito e nella sua mente stava gridando, anche se il velodromo continuava ad essere stranamente silenzioso: «Adesso vi faccio vedere io».

Il 26 settembre 2024, lontano, a Zurigo, in un giorno di pioggia e freddo, quella voce gridava ancora, più forte di prima. Giada Silo era franata a terra, a duecento metri dal traguardo, durante la volata con Célia Gery che avrebbe potuto consegnarle il quinto posto: i crampi l'avevano bloccata e disarcionata. Aveva male alle gambe, un dolore forte che le impediva di muoversi e, mentre piangeva, urlava dal dolore. Lì vicino c'era il medico, a tranquillizzarla e ad accompagnarla accanto alle transenne per consentirle di riprendere fiato. Sotto la pioggia, col volto segnato dall'acqua e dal freddo, Marta Bastianelli porge una mano da quelle transenne, le accarezza il volto, poi indica il traguardo.

«Mi ha detto: Vedi la linea d'arrivo? Là, è là in fondo. Non manca nulla, Giada. Devi arrivare a quella linea. Se non hai troppo male devi andare avanti, mancano duecento metri. Finisci la tua gara, te lo meriti. Al pulmann ho cercato Paolo Sangalli, il C.T. ed ho chiesto scusa perché sapevo quanto ci tenesse a leggere il nome di una ragazza italiana tra le prime. Mi ha risposto che avevo fatto tutto ciò che potevo fare e che quei duecento metri non possono cancellare nulla». Il suo grido d'orgoglio l'ha portata a vincere la gara di San Daniele del Friuli, dopo il Mondiale, nonostante il dolore non fosse ancora passato del tutto e pedalare fosse più difficile.

L'ha fatto perché voleva togliersi qualche sassolino dalla scarpa e perché voleva ribadire un concetto a cui tiene da quel giorno di sette anni fa al velodromo: «Tu sei questo, basta». L'ha fatto anche perché ricorda bene la prima maglia azzurra che ha vestito al Tour d'Occitania: l'ha ritirata in un magazzino della nazionale e, durante il viaggio, non vedeva l'ora di arrivare in Francia per vestirla, per andare davanti ad uno specchio e vedersi vestita così. Pensava fosse una prima volta, in realtà le accade sempre. La prestazione del Campionato del Mondo, in questo senso, l'ha resa più forte: junior primo anno, avendo corso solo un paio di volte, tra cui a Cittiglio, con tutte le atlete più forti, soprattutto con le straniere, non sapeva bene come muoversi e non era neppure certa di riuscire a mettere in pratica le indicazioni di Sangalli. Ci è riuscita, nonostante fossero passati mesi: era alla ruota di Gery e Gery è senza dubbio una delle giovani più quotate a livello internazionale. In questo modo, Silo si è ricreduta sulle proprie potenzialità e, alla fine di tutto, da quel giorno è uscita più forte. «Ho un lato insicuro abbastanza pronunciato, non credo quasi mai ai complimenti che mi vengono fatti, spesso penso mi stiano prendendo in giro, che non sia vero. Mi rivedo in televisione, per capire meglio se e dove sbaglio, ma voglio essere sola, mi infastidisce se altri mi osservano, non mi piace la visibilità. Anche questo rientra nell'insicurezza. I risultati sono l'ancora a cui mi aggrappo per credere in me stessa».

Il padre di Giada Silo è sempre stato un amatore, per questo l'accompagnò al velodromo quel giorno, per questo ha pedalato da casa sino in Piemonte per andare a vederla alle gare. Lei, invece, faceva atletica, le piacevano le campestri, il mezzofondo e ancora oggi, ogni tanto, le telefona il suo allenatore del tempo chiedendole di partecipare a qualche gara, perché se la cavava bene: rinuncia sempre, come ha rinunciato all'atletica da esordiente, quando non riusciva più a coniugare i due sport. Al Mondiale c'erano anche le sue due sorelle, una maggiore ed una minore, «più il ciclismo diventa importante per me, più loro mi sono accanto». Ha sempre avuto un carattere deciso in sella: sin da giovanissima cercava strade con salite per allenarsi perché «senza almeno una salita che senso ha andare in bicicletta?». La fatica è il suo antidoto alla noia, a costo di farne tanta, troppa, e magari non raggiungere il risultato: «Non riesco ad essere attendista, a non fare nulla, anche se questo dovesse portare alla vittoria, devo sentirmi parte della corsa, devo agire». Se il ciclismo l'ha cambiata nel carattere, questo è avvenuto nella vita quotidiana, dove le tante batoste che ha preso l'hanno resa più forte, disposta a non cedere di fronte alle difficoltà, a proseguire per la propria strada. Nel ciclismo ha pensato di smettere solo una volta, da allieva quando, nonostante l'impegno, i risultati non arrivavano ed aveva la sensazione di perdere tempo: il passaggio in Breganze Millenium le ha permesso di valorizzare la propria persona ancor prima che l'atleta: «Davide Casarotto mi aveva cercata già tempo prima. Con lui ho dato solidità ai miei punti forti ed ho potuto lavorare sugli aspetti più fragili. Ho trovato una casa, una famiglia, perché qualunque problema abbia so che Davide c'è, per una parola o un consiglio».

Studia Biotecnologie Sanitarie, è al quarto anno e da tempo ha smesso di spiegare tutti i sacrifici che comporta la vita da atleta, perché è convinta che non si possa capire senza averla provata: «A volte, alcuni miei coetanei mi chiedono di uscire a pranzo il sabato: se gareggio la domenica, devo rifiutare. Replicano spesso che, se la gara è la domenica, non vedono il problema di un pranzo il sabato. Spiegare tutto non ha senso. Ora che le cose sono diventate più importanti qualcosa è cambiato, all'inizio faticavo anche a spiegare la necessità delle interrogazioni programmate che, per molti, erano una sorta di privilegio. Non sono un favore, è un aiuto agli studenti atleti perché non si può fare altrimenti». Giada Silo non si accontenta della propria esperienza, nonostante sia molto giovane cerca di motivare ogni ragionamento scandagliandolo, studia quel che succede e ne matura una convinzione, su cui, poi, riflette: «Per avere la tessera di studente atleta vengono prefissati dei risultati da raggiungere: per esempio arrivare nelle prime cinque ai Campionati Italiani oppure nelle prime tre ai Campionati Regionali. Da un lato capisco la ratio, dall'altro se una ragazza non raggiungesse questi risultati? L'impegno sarebbe uguale, in ogni caso. Non si può badare solo al risultato perché non racconta lo sforzo di chi sceglie questa strada. A me è capitato e capita tuttora: quando hai tre verifiche da svolgere in poche settimane e ti dicono che non puoi saltarle e farle successivamente, ma devi comunque farle, piuttosto prendere un brutto voto e poi recuperare in un secondo momento. Ci rendiamo conto che il peso a livello di studio è completamente differente? Questo non considerando il fatto psicologico del dover rimediare ad una situazione negativa».

Si ispira ad Elisa Longo Borghini e a Tadej Pogačar, perchè «è il re delle salite», mantiene i piedi per terra e pensa spesso alle difficoltà del ciclismo femminile, pur se negli ultimi anni le cose sono migliorate: «Il ciclismo femminile in generale ma, a mio avviso, soprattutto quello italiano: a me sembra che non siamo prese molto in considerazione e si vede, ad esempio, dai passaggi nello World Tour delle atlete azzurre: una o due all'anno, talvolta nessuna. Io credo che il ciclismo italiano femminile valga e valga molto: servono più possibilità per dimostrarlo». Vorrebbe migliorare nelle volate e, un domani, sogna il Fiandre visto che per vincerlo bisogna essere dei fuoriclasse. Soprattutto vorrebbe che la prossima stagione fosse bellissima perché quella trascorsa è stata così: «Però non amo fare confronti, raffronti, perché ogni stagione è diversa ed è un conto a parte. Non lo voglio per non subirne la pressione, per continuare a lavorare senza sedermi o senza illudermi. Non lo voglio perché la stagione passata è, per l'appunto, passato, ora si ricomincia daccapo».


Lottare per un sogno: intervista a Negasi Haylu Abreha

Il 14 di ottobre, con le ultime gare della stagione oramai andate o in procinto di concludersi a diverse latitudini più ad est, su X (quello che una volta si chiamava Twitter) è piuttosto facile imbattersi in messaggi di ciclisti e cicliste alle prese con il tirare le somme di tutto l’asfalto passato sotto le proprie ruote nei molti mesi precedenti. Invece, quel giorno, assieme ad altre circa 432mila persone nel corso del tempo, mi sono imbattuta in una richiesta di aiuto. A scriverla era l’attuale campione nazionale etiope, Negasi Haylu Abreha. Specificava, subito dalle prime righe, che in realtà sarebbe anche un corridore per la Q36.5 pro team ma solo fino alla fine dell’anno, almeno così gli era stato comunicato. Un agente non lo ha mai avuto e nel frattempo molte squadre avevano finito di stilare il roster per la prossima stagione. Così ha deciso di optare per un messaggio in una bottiglia virtuale, lui naufrago con il sogno di poter regalare all’Etiopia quello che Biniam Girmay è riuscito a regalare all’Eritrea, scrivendo la storia del ciclismo africano. Sottolineava anche il quarto posto agli appena disputati campionati continentali africani, consapevole che sarebbe potuta andare meglio, ma che a lui bastava. Finiva il thread con un account di posta elettronica a cui scrivere oppure il consiglio di infilarsi nei suoi DM su Instagram, come direbbero quelli più giovani di me. Nessuna implorazione, ma un’implicita speranza che nel mucchio di persone annoiate alle prese con lo scrollare ci fosse quella disposta a dargli una seconda chance.

Fino a quel momento di Negasi non sapevo nulla, come succede alle storie che finiscono in fondo al peloton e alle classifiche delle gare, e anche quando ho finito di leggere quel thread continuavo a saperne veramente poco. Qualche minuto dopo potevo raccontare ad uno sconosciuto, grazie ad una ricerca su internet, che è nato il 9 maggio del 2000 a Mek’ele, una città a 2.250 metri di altitudine che fa da capitale alla regione etiope del Tigray; che parla il Tigrinya e l’Amharic ma anche un po’ di inglese e italiano, grazie agli anni con base a Lucca; e che tra il 2020 e il 2023 ha forse vissuto uno dei momenti peggiori della sua vita, quando è scoppiata una guerra civile tra il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF) e il governo federale etiope, appoggiato dall'Eritrea e dai militanti della regione confinante dell'Amhara. Negasi sarebbe dovuto tornare a casa alla fine del 2020, invece per cinque mesi da casa non ha ricevuto notizie. L’unica cosa che sapeva è che migliaia di persone continuavano a morire e a lui, distante ed impotente, non restava altro che aspettare un messaggio o una telefonata, facendo la cosa che conosceva meglio, forse quella che l’ha salvato più di tutte: pedalare. Fino al 2022 lo ha fatto prima per il NTT Continental Cycling Team, poi per il team Qhubeka. Ha corso in diverse gare U23 come il Tour de l’Avenir e quello che oggi conosciamo come Giro Next Gen, ma anche il Giro di Sicilia e il Tour of Britain. Ci sono voluti tre anni prima che riuscisse a riabbracciare sua madre e i suoi fratelli.

Ho provato per giorni a non pensare a quel tweet: era tra le cose più umane e più vere sul ciclismo in cui mi fossi imbattuta sui social da quando ho cominciato a seguire questo sport. Così ho aperto Instagram, ho cercato il profilo di Negasi e gli ho chiesto se aveva voglia di raccontarmi cosa stesse succedendo nella sua vita.

Avrei voluto chiedertelo come ultima cosa, ma penso che forse sia giusto aprire così quest’intervista, piuttosto che cominciare, come farei di solito, dal passato: hai qualche novità sul tuo futuro? Sei stato contattato da qualche agente o da qualche squadra per il prossimo anno?

Qualcuno mi ha contattato per chiedermi cosa potesse fare per aiutarmi, ma senza risultati. Il primo giorno, ad esempio, un agente, che solitamente si occupa di calcio, mi ha scritto dicendomi che avrebbe voluto cominciare a rappresentare anche ciclisti e che aveva già cominciato a farlo per un corridore, dunque avrebbe provato a fare lo stesso anche per me. Mi ha fatto alcune domande e chiesto dei documenti come il mio CV ma non credo che riuscirà ad aiutarmi.

Cerco di riportarti allora - spero! - verso momenti più felici: ti ricordi quale è stata la prima volta che sei salito in sella ad una bici?

Solitamente in Etiopia, nella mia regione, c’è una gara ogni domenica. Si corre vicino casa mia, perciò è stato facile innamorarmi di questo sport. Ho chiesto ai miei genitori di poter comprare una mountain bike: mio padre era d’accordo, mia madre lo era decisamente meno (ride). Era spaventata dal fatto che spesso vedeva i partecipanti alle gare vicino casa nostra cadere e farsi male. Alla fine mio padre mi ha dato i soldi per poterla acquistare e ho cominciato a pedalare. Inizialmente l’ho fatto per un team locale che mi forniva vitto, alloggio e anche una bici, ma non poteva pagarmi. Ero troppo giovane per loro, ma dopo circa tre mesi di allenamento hanno cambiato idea e hanno cominciato a farlo. La mia prima gara in Africa è stata in Algeria con il team nazionale etiope, quando avevo 19 anni. Poco dopo, nel 2019, sono stato per tre mesi in un training camp presso il centro dell’UCI in Sudafrica, a Città del Capo. Nel luglio dello stesso anno sono tornato a casa, in Etiopia, per i campionati nazionali e sono riuscito a diventare campione nazionale del mio Paese. Quella vittoria mi ha permesso di ottenere un contratto per venire finalmente in Europa. Sono arrivato a Lucca alla fine di luglio del 2020. A novembre, il giorno prima che partissi per tornare a casa, è scoppiata una guerra civile nel mio Paese. Per tre anni e mezzo non sono riuscito a rimettere piede in Etiopia.

Hai ancora in Etiopia quella prima mountain bike?

Certo! Ha cominciato a muovere i primi passi nel ciclismo anche mio fratello e si è allenato con quella bicicletta, nonostante fosse un pochino grande per lui. Ne ha acquistata una nuova, anche se nel frattempo è entrato a far parte di un team. Mia madre, in compenso, non è più spaventata come una volta, anzi mi supporta seppur non comprenda molto del mondo del ciclismo: era a dir poco scettica quando le raccontavo che volevo correre fuori dall’Etiopia e venire in Europa a farlo, credeva non fosse possibile.

Ci sono ciclisti dal passato o che appartengono al presente che ti ispirano?

Molti ciclisti che correvano con me in Etiopia, quando è scoppiata la guerra, si sono uniti ai combattimenti e, ora che è finita, hanno ricominciato a pedalare nonostante il ritorno alla normalità sia piuttosto lontano. Alcuni, invece, nella guerra hanno perso la vita.

Quanto è stato importante il ciclismo per te quando è scoppiata la guerra nel tuo Paese e non avevi modo né di farvi ritorno, né di sapere come stesse la tua famiglia?

Quando è scoppiata la guerra in Etiopia, è stato chiuso tutto e non potevo contattare la mia famiglia. Per riuscire a mandarmi un messaggio, mio fratello era costretto a recarsi in un’altra regione da cui poteva finalmente inviarmi un vocale di pochissimi secondi, che doveva comunque pagare. Cercava di dirmi che stavano bene e che non dovevo preoccuparmi per loro. Ero nervoso perché volevo aiutare loro e altri che mi avevano chiesto aiuto, ma non era facile mandare soldi: se provavo ad inviare alla mia famiglia circa 2.500 euro, dovevo mandarli per prima cosa nella capitale dell’Etiopia e da lì dovevano compiere un viaggio da regione a regione prima di arrivare alla mia; alla fine la mia famiglia, viste le commissioni che ogni regione richiedeva, riceveva non più di 350 euro. Mentre ero a Lucca e mi allenavo, mi sono cominciato a chiedere per cosa lo stessi facendo. Non sapevo nulla della mia famiglia, vedevo solo notizie di persone che avevano perso la vita, scrollando su Facebook e temevo che un giorno potesse comparire il nome di qualche mio caro.

Immagino che le differenze tra il ciclismo in Etiopia e quello in Europa siano tante, ma c’è qualcosa che ti ha impressionato più di altre quando sei arrivato a pedalare qui?

Ce ne sono veramente tante! (ride)
La prima volta che sono arrivato qui, nel 2020, facevo fatica con tutto: non conoscevo l’inglese o l’italiano, non capivo molto di quello che mi veniva detto e mi capitava spesso di fare errori all’interno del team perché non conoscevo le regole. Tutto è stato uno shock per me il primo anno. In Etiopia, ad esempio, così come in Africa, le gare e i loro percorsi non sono così duri come qui in Europa.

Qual è il tuo ricordo più felice fino ad ora?

Nel 2019, quando ho vinto il titolo di campione nazionale etiope. Mi ha cambiato la vita. Prima di andare, ero nel centro UCI in Sudafrica, avrei dovuto continuare per un altro mese e uno dei manager mi aveva sconsigliato di partecipare perché mancavano veramente pochi giorni alla gara e non riteneva che ce l’avrei mai fatta a vincere: la gara era troppo dura e per giunta in altitudine. Secondo lui, avrei solo perso i soldi di un viaggio a vuoto. Ho chiamato il mio coach in Etiopia e gli ho detto che volevo partecipare ai campionati nazionali. Anche lui era piuttosto sorpreso e credeva fosse una follia. Avevo 19 anni, mi sono detto che non mi importava nulla dei soldi, volevo e dovevo provare. Quando ho raggiunto il mio team in Etiopia, il mio coach era così arrabbiato che si rifiutava di parlare con me. L’unica cosa che è riuscito a chiedermi, urlando, è perché fossi andato. La prima gara è stata la cronometro individuale, alla quale non ero particolarmente interessato, sapevo che la mia occasione era la prova in linea. A cinque chilometri dalla partenza, in discesa, sono caduto. Erano tutti ancora più convinti che avessi sprecato dei soldi. Avevamo un giorno di pausa e quello dopo la gara che stavo aspettando: quando ho tagliato il traguardo per primo, non potevo crederci; perfino il mio coach non riusciva a dire nulla. Quest’anno, dopo cinque anni, sono riuscito nuovamente a riprendermi quel titolo, speravo che mi avrebbe aiutato a rinnovare il mio contratto con il mio team qui in Europa.

Secondo te cos’è che non vediamo e non capiamo noi spettatori di cosa significhi essere un ciclista oggi?

Senza un agente è veramente difficile trovare una squadra. Ho lavorato per il mio team in ogni gara a cui ho preso parte: non ho lottato per me stesso o per un risultato, non mi è mai stata data la possibilità di mostrare cosa le mie gambe potessero fare perché ad ogni competizione il mio compito era quello di supportare il team. Ero felice di farlo, ma quando ora le squadre mi chiedono dove siano i miei risultati, non ho prove tangibili da dargli riguardo il mio valore e le mie capacità da ciclista. Mi sarebbe bastata anche solo un’opportunità. Qualcuno ha provato a tirarmi su il morale dicendomi che se non dovessi trovare una squadra, potrei sempre cercare un nuovo lavoro in Europa. Ma non ho bisogno di nessun lavoro, voglio solo continuare a lottare per il mio sogno, essere un ciclista professionista, per salvare la mia vita e la mia famiglia. Per giunta non è così facile per me trovare un altro lavoro come può esserlo per chi è europeo, basti pensare alla fatica con cui riuscirei ad ottenere un visto.

Se potessi continuare a pedalare, a quale gara ti piacerebbe partecipare?

In queste due stagioni ho imparato moltissimo e vorrei applicarlo. Vorrei mostrare agli altri cosa riescono a fare le mie gambe in salita, vorrei che le persone cominciassero a conoscermi, a vedermi. Mi piacerebbe poterlo fare al Tour de France.

Riesci ad immaginare un futuro senza ciclismo?

Sarebbe veramente difficile vivere una vita senza ciclismo.

Sono passate alcune settimane dalle parole che state leggendo. In questo momento Negasi è a casa in Tigray, assieme alla sua famiglia. Alla fine dell’anno, non avendo al momento una squadra, il suo visto scadrà e verrà espulso dall’Italia. Lui continua a sognare, sperando che quel messaggio lasciato in una bottiglia virtuale, alla quale spero di dare una spinta nella giusta direzione, raggiunga le rive di una nuova squadra che lo possa accogliere.

Foto: Sprint Cycling Agency