Messico e fango (ma non solo)

Prologo: un ragazzo in divisa nera attraversa un vialetto infangato in sella alla sua bici. È autunno, ormai, ed è da quasi un anno lontano migliaia di chilometri da casa. Lontano per coltivare una passione, la bicicletta; per divertirsi sì, guai altrimenti, ma anche per cercare di farne qualcosa in più che una semplice serie di gare con gli amici con i quali ha attraversato l'oceano, o restare a bocca aperta mentre di fianco passano i migliori corridori del vecchio continente.
Il ragazzo pedala senza infrangere alcuna regola della sua realtà, pur mescolandosi con la fantasia. Guarda verso l'orizzonte e sogna di diventare un professionista.
Attorno a lui è iniziato il fogliaggio. Macchie rosse, gialli e arancioni incorniciano la scena belga, di un belga fiammingo, diremmo per enfatizzare e colorire. Arriva in cima a una breve salitella dopo aver provato e riprovato curve insidiose; dopo aver tentato e ritentato a saltare gli ostacoli, dopo essere scivolato un paio di volte portandosi l'ingombro della bici sulle spalle. Ha guanti pesanti, le labbra gonfie per il freddo, si scrolla di dosso la fatica pensando all'indomani. Tutto è attesa per il giorno della gara.
I fatti: Gli appassionati di ciclocross saranno sicuramente rimasti incuriositi quando, un po' di tempo fa, hanno visto alcuni ragazzi messicani prendere il via a gare internazionali del calendario italiano. Figuratevi averli visti a Tabor, Repubblica Ceca, e poi a Koksijde, Belgio, per la Coppa del Mondo, e a Merksplas, sempre Belgio, quarta prova stagionale del Superprestige.
A Tabor una data simbolo: il 14 novembre infatti è stata la prima volta per un team e per atleti messicani nella storia di questa disciplina.
L'internazionalizzazione del ciclismo appare scontata ormai quando parliamo di strada, e di pista, quella del ciclocross decisamente meno, in un mondo, quello del fango, che attualmente per numeri e qualità è dominato dalla lingua neerlandese con inserimenti britannici, che fanno sistema, mentre la presenza di Blanka Vas ad esempio, ungherese, più che figlia di un movimento in fermento o che investe, è molto più semplicemente talento.
Il progetto della A.R. Monex, la squadra di cui parliamo, che ha avuto per lungo periodo base sul Monte Titano, San Marino, prevedeva esperienza da fare in Europa al cospetto dei più grandi, come ha raccontato il team manager della squadra Alejandro Rodriguez: «I nostri corridori volevano capire a che livello sono e adesso sanno quanta strada c'è da fare, di sicuro si portano dietro un bagaglio di esperienza incredibile». Un'esperienza che è partita già all'inizio del 2021: i ragazzi della A.R. Monex infatti hanno preso parte a diverse prove di mountain bike, con gettoni in Coppa del Mondo, e pure su strada si sono fatti notare e persino con buoni risultati sia tra gli Under 23 che tra gli juniores.
Dunque non è solo folclore, anzi, mentre è forte la curiosità nel vedere el tricolor messicano e quelle maglie nere con le bandine celesti sulle maniche.
Tra questi corridori c'è Isaac Del Toro, che nelle sue esperienze nel CX ha persino vinto a novembre una gara del calendario italiano, il Trofeo Bikeland Ciclocross a Città di Castello. Ha collezionato un 20° posto a Brugherio e un 22° posto al Trofeo Guerciotti: per nulla male considerata anche la giovanissima età: 18 anni compiuti nei giorni scorsi. 37° a Tabor, in Belgio, Isaac, sempre il migliore dei suoi, ha ottenuto un 40° posto nel Superprestige di Merksplas e un 41° a Koksijde in Coppa del mondo, misurandosi nella categoria élite con il meglio in circolazione.
Ora torneranno a casa, «L'obiettivo è crescere - racconta sempre Rodriguez - e chissà, magari un giorno diventare delle star del ciclismo in Messico e motivare così altri giovani a conoscere questa grande, meravigliosa e durissima disciplina».
Hanno un hashtag - #LoVamosALograr - ovvero ce la faremo, banale, volendo, ma così importante per loro. Come primo approccio ce l'hanno fatta, l'obiettivo è quello di diventare sempre più forti, magari trovare un contratto tra i grandi in Europa, e fosse possibile far parlare di sé.
Epilogo: la stagione per loro si chiude. Il ragazzo carica la sua bici nel pulmino e chiude gli occhi mentre rientra a casa ripensando all'autunno belga, al fango che gli ricopriva occhi e bocca. A quei mostri sacri del ciclocross. E in fondo a quel viale un tramestio di biciclette e freni. Il suono del ciclismo.


L'impegno per l'ambiente di Michael "Rusty" Woods

Michael Woods da ragazzo correva a piedi, non è nato sportivamente nel ciclismo e forse proprio questo gli ha sempre reso evidenti problemi che a occhi abituati all'ambiente possono sfuggire. Il canadese dell'Israel Start-Up Nation si chiede da tempo se davvero non si possa far nulla per ridurre l'inquinamento che il ciclismo professionistico genera. «Sono sempre stato disilluso su questo tema, sono sincero. Ogni anno riceviamo tanti prodotti dagli sponsor, tutti imballati nella plastica: bisogna cambiare» ha detto a Procycling. Woods ha deciso che si presenterà sul bus della sua squadra con una scodella e una forchetta e i suoi pranzi li farà così. Qualche giovane lo stimerà, altri lo prenderanno in giro, a lui non interessa. Chi vuole cambiare deve avere il coraggio di disinteressarsi di queste cose. La squadra gli ha assicurato che anche i veicoli cambieranno: due saranno elettrici, i restanti ibridi plug-in.
L'idea è quella di ridurre l'impatto che ogni uomo ha sull'ambiente. Woods è un ciclista e può cercare di cambiare il ciclismo, ad altri, ognuno nella propria professione, il tentativo di portare avanti questa idea. Nessuno può cambiare da solo la situazione globale, ognuno, però, può cambiare la propria e non è poco. Secondo il suo calcolo, nel 2019, la sua impronta a livello di carbonio è stata di 60 tonnellate di CO2 , circa tre volte quella di una persona media ad Andorra. «Quando sei completamente concentrato sulla tua attività è difficile rendersene conto, lo capisco bene. Da quando sono diventato padre, però, la mia consapevolezza dell'ambiente è cresciuta. Tutti dovremmo rifletterci perché ridurre il proprio impatto ambientale dovrebbe rientrare nella normalità delle cose, non rappresentare un gesto straordinario».
Con il ciclismo Woods ha ragionato in maniera diversa, rispetto a quanto aveva fatto da ragazzo con la corsa. Da ragazzino si era dedicato anima e corpo al mezzofondo, per migliorare e tentare di entrare nell’Olimpo dei più forti, una ‘ossessione’ che aveva finito per logorarlo fisicamente, procurandogli due fratture da sovraccarico al piede sinistro, che lo avevano costretto a cambiare sport. Col ciclismo ha sempre ragionato diversamente. A trentacinque anni, dopo otto anni di professionismo, si è domandato se nella sua carriera avrebbe potuto ottenere di più; forse sì o forse sarebbe scoppiato e, come con la corsa, avrebbe dovuto abbandonare il ciclismo. «Non siamo tutti Michael Jordan. Lui era il migliore, un fenomeno. Pensava solo al basket, viveva per il basket. C'è chi è capace di vivere così e chi ha bisogno di un altro approccio. Non c'è nulla di male» ha raccontato, più di una volta. Ci saranno un paio di gare in meno nel suo palmarès ma è felice e questo gli basta. Con quella serenità, vorrebbe stare in gruppo almeno altri tre anni. Nel frattempo, la sua famiglia continuerà a viaggiare con lui, a imparare le lingue, a vedere il mondo e quindi a conoscerlo.
In fondo, è sempre questione di conoscenza per la propria carriera come per l'ambiente. Michael Woods stesso non sapeva molte cose, era convinto di avere uno stile di vita buono, si sentiva tranquillo con la sua coscienza. Poi ha capito che si poteva migliorare e che, in fondo, non serviva neanche molto: mangiare meno carne, fare attenzione ai rifiuti, comprare prodotti locali e magari andare ad acquistarli in bicicletta. Perché, tra le tante cose, questa è da conoscere assolutamente: il mondo si cambia solo passo dopo passo.


Natale in casa van Aert-van der Poel

Così come in foto ma nel ciclocross: van Aert contro van der Poel. Qui in azione ad Harelbeke, sull'asfalto, esattamente 8 mesi fa, affiancati: fra un mese li rivedremo (più o meno così) ma in mezzo al fango.
È vero, la stagione del CX ha già ripreso da un po'. C'è stata la trasferta a Fayetteville, Stati Uniti, per un assaggio del circuito che ospiterà i mondiali a fine gennaio; c'è quel folletto di Iserbyt che da settembre a oggi ne ha sbagliata una, massimo due. C'è stato il ritorno al successo dopo oltre un anno di Worst.
Ci sono gli azzurri che crescono bene sotto la nuova guida, ci sono volti nuovi e volti noti, rinascite e cedimenti, ma niente attira di più mediaticamente - ma non solo - dell'esordio stagionale dei due corridori in foto - ma certo non ci dimentichiamo che c'è anche Pidcock!
Così come in foto ma nel ciclocross, allora li aspettiamo, l'uno contro l'altro il giorno dopo Natale: rientreranno a dicembre entrambi, ma a Santo Stefano ci sarà il primo scontro diretto.
Se i loro programmi saranno confermati - e non dovrebbe essere altrimenti - saranno intanto cinque le sfide (le scriviamo per memorizzarle) a partire da Dendermonde (26 dicembre), passando per Diegem (29 dicembre), Loenhout (30 dicembre), Hulst (2 gennaio) ed Herentals, a casa van Aert, il 5 di gennaio.
Altro che Una Poltrona per Due o The Blues Brothers, altro che boxing day, o visite parenti, altro che panettoni e pandori: l'appuntamento per le vacanze di Natale sarà un nuovo capitolo della saga van Aert contro van der Poel.
Seduti sul divano con la pancia piena, oppure appena ritornati da un bel giro in bici per smaltire i bagordi natalizi sintonizziamoci per guardare come sgasano quei due. Jouissance: e chi vincerà poco importa.


L'altra faccia di Primož Roglič

Come Chris Froome, anche Primož Roglič ha iniziato a suscitare le simpatie dei tifosi quando si è mostrato nel suo lato più vulnerabile, quello più umano che sportivo, quello che, per molto tempo, era quasi rimasto nascosto dietro l'apparenza del campione che, pur arrivando tardi al ciclismo, stravolge ogni pronostico e vince. Non che l'avesse chiesto Roglič, se l'era ritrovato addosso quel pregiudizio, il suo carattere poi, a tratti freddo, imperscrutabile, aveva fatto il resto.

Le persone, però, si scoprono quando le cose vanno male e nel caso degli sportivi questo vale ancora di più. Perché, quando resti lì a osservare qualcuno che non vince, che anzi si stacca, patisce e arriva al traguardo a minuti dai primi, stai cercando qualcosa che va oltre il gesto atletico. Roglič, nel dolore fisico e psicologico delle cadute (lo ricordiamo tutti all'ultimo Tour de France), ha notato come lo guardavano i tifosi, ammirati e stupiti, quasi non si aspettassero questa umiltà della sofferenza. «Non sono un Terminator del ciclismo, non sono così» ha recentemente dichiarato in un'intervista a Cyclingnews.

E noi vogliamo ribadirlo proprio oggi: lo sloveno è un uomo e un ciclista forte, ma non tanto o non solo perché vince. Forte perché in ogni problema che gli si pone davanti cerca l'opportunità o la soluzione, senza lamentele. Se possibile in silenzio perché è da sempre convinto che gli esseri umani abbiano la possibilità di cambiare ciò che li circonda con i fatti; le parole e la visibilità sono invece un di più. Dice che in molti, arrivati al ciclismo da altri sport, hanno dovuto imparare i fondamentali di un nuovo sport, lui ha dovuto imparare a soffrire.

«Tornerò al Tour de France - spiega - per provare a vincerlo, ma non finirà il mondo neppure se lo perderò. Sarò sereno con i risultati che avrò ottenuto». Forse ha sempre pensato così, forse ha imparato a pensare così dopo la pandemia, quella che, a suo avviso, ha ricordato a tutti come si debba provare a vivere e a lui che prima di tutto desidera essere felice.
Dopo la caduta al Tour non poteva fare molto, era evidente a chiunque lo vedesse e a lui in primis. Per questo non trova particolari meriti nell'aver saputo fermarsi e aspettare, perché per un ciclista e forse per un uomo era l'unica cosa da fare, a meno di lasciarsi andare all’auto-commiserazione. Ha ripreso ad allenarsi non molto tempo prima delle Olimpiadi di Tokyo e in ogni viaggio sul pullman della squadra in Giappone ha avuto crampi e dolore al muscolo piriforme, nella zona del plesso sacrale. Dall'hotel alla partenza delle prove, alcune volte, ci sono tre ore di trasferimento, una tortura per Roglič che non riesce nemmeno a pensare a cosa possa essere una prova contro il tempo in quelle condizioni.

Il dolore, quello fisico, però questa volta lo sorprende perché, proprio prima della gara olimpica a cronometro, sta bene, sembra non avere più nulla. Si va a prendere l'oro, poche settimane prima di conquistare la Vuelta a Espana, una gara a lui più che mai congeniale in cui è al terzo successo consecutivo.
In questo percorso di ripresa dall’infortunio un grazie Roglič lo dice anche all’altro grande talento sloveno, Tadej Pogačar, nonostante un certo dualismo, forse più mediatico che reale di cui si parla spesso, perché con i suoi risultati lo spinge ad essere la miglior versione di se stesso e lo convince, ancora di più, a non fermarsi perché in definitiva l’importante nella vita, come nello sport, è continuare a tentare di migliorarsi.


Per essere un velocista: intervista ad Alberto Dainese

Alberto Dainese, 23 anni, nella prossima stagione al terzo anno tra i professionisti, ha un cruccio: quello della vittoria. «Mi do ancora due, tre anni per vincere, poi eventualmente capirò cosa fare, se andare a giocare a bocce oppure tirare le volate agli altri» ci racconta ironizzando su sé stesso, con disarmante sincerità. «Per un velocista conta solo la vittoria. Poco da girarci intorno». Secondo Dainese un velocista «con la v maiuscola è tale quando conquista almeno 6/7 corse all'anno» e lui che le braccia al cielo le ha alzato così poco di recente (ultimo successo a febbraio del 2020) si definisce «un "corridoretto velocino" al momento, nulla di più». Testuale.

Dainese passò professionista nel 2020 in maglia Sunweb (ora DSM) dopo aver conquistato, nel 2018, tra le altre corse, una tappa al Giro Under 23, e una, ottenuta in modo spettacolare, al Giro del Friuli, mentre chiudeva il 2019 conquistando la maglia da campione europeo sulle strade di Alkmaar - quel giorno sfruttò a meraviglia il lavoro di squadra e dimostrò che in quanto a punte di velocità nelle categoria giovanili aveva pochi rivali.

Fisico compatto, a metà tra le misure di Ewan (piccoletto) e quelle di Merlier (ben più alto) Dainese sin dagli esordi in bicicletta si era distinto per la capacità di andare a segno come un bomber di razza, diremmo, se fosse un calciatore. «Ma un conto è vincere nelle categorie giovanili un altro è fare il salto e confermarti da subito tra i professionisti. Il nostro sport è pieno di ragazzi che si perdono e la differenza tra le altre categorie è abissale. Personalmente sento di migliorare stagione dopo stagione, è vero, ma nel 2022 devo iniziare a raccogliere qualcosa».

Le prime due stagioni da professionista sono state complicate, lo scorso anno partì forte, vittoria in Australia all'Herald Sun Tour, podio alla Race Torquay, dietro Bennett e Nizzolo, poi vari intoppi tra cadute, corse cancellate per il Covid e via discorrendo.

Quest'anno la sua stagione è stata a due facce a tratti quasi paradossale con punte di accanimento. «La prima parte tutta a inseguire: le corse che dovevo fare da capitano sono saltate, quelle dove ero a disposizione del treno di Bol sono filate lisce e a giudicare da fuori pareva che fossi diventato l'ultimo o il penultimo uomo del velocista di punta. Poi, certo, non mi considero mica un fenomeno che non si mette a disposizione degli altri: per crescere, per essere un velocista serve fare anche quello». Ma lui giustamente si sente finalizzatore. È come, tornando alla metafora calcistica, se all'attaccante gli strappassimo dai piedi il pallone o gli vietassimo di calciare in porta.

Da agosto in poi le sue carte se l'è giocate (quasi) alla grande. «Dalla Vuelta tutta un'altra musica. È vero non ho vinto, ma per quello conta anche un po' di fortuna». Ha iniziato a prendere le misure e a battagliare con i migliori velocisti del World Tour. «Philipsen e Jakobsen sono fortissimi, difficili da superare ma anche solo da affiancare, ma quello che è veramente impressionante secondo me è Merlier. Mi ricorda il miglior Petacchi, ha una potenza e una rapidità senza eguali. Al momento lui è il velocista più forte del mondo, superiore anche a Ewan».

Dainese studia gli avversari, ma per essere un velocista sempre più forte quest'anno ha cambiato un po' il metodo di lavoro: «La prima stagione abbiamo puntato tutto sulle volate e sull'esplosività, ma poi si finiva di arrivare allo sprint senza energie. Quest'anno invece abbiamo impostato un lavoro più sulla resistenza e si sono visti i primi frutti». Fondamentale, dice, arrivare freschi al traguardo anche a costo di perdere il picco massimo di velocità: «D'altra parte la coperta per noi velocisti è sempre un po' corta»

Dainese ci spiega come ci si muove in gruppo a quelle velocità, con tutti quei rischi tra gomitate e spallate, ruote sfiorate e rischi assurdi, ci indica qualche trucco del mestiere, per essere un velocista, e che da fuori è impossibile conoscere. «Sì è vero, bisogna essere un po' matti, ma è anche divertente. Io gara dopo gara a furia di prendere bastonate nei denti sto imparando come ci si muove, sto acquisendo abilità e consapevolezza, ma anche guadagnando il rispetto dai miei avversari. Capita di trovarti a ruota di Ewan o Philipsen e se non sei nessuno magari ti becchi anche la spallata che ti sposta, ma se inizi a farti conoscere a suon di risultati allora ti lasciano lì a giocare le tue carte».

A chiudere Dainese, un po' Cavendish e un po' McEwen per il modo di stare in bici nelle volate, ci parla di un rammarico e di una speranza. Il dispiacere è legato al Giro del Veneto dove andò forte dimostrando di non essere solo quel velocista puro che credeva, ma di poter tenere duro anche su percorsi impegnativi. «È vero, ma ci sono anche un insieme di cose: intanto disputare un Grande Giro ti cambia il motore, ti dà brillantezza, ti permette di pedalare a certi ritmi e io aveva appena corso la Vuelta. Poi al Giro del Veneto il livello era alto sì, ma non certo quello del mondiale». Quel giorno tanto fecero le motivazioni. «Si arrivava letteralmente davanti a casa dei miei e c'erano anche gli amici a tifarmi. È stata una giornata indimenticabile. Peccato essere arrivati terzi».

Mentre la speranza appare scontata: «Ritornare a vincere, altrimenti che velocista sarei?».

 

 

 


Team Novo Nordisk, un esempio per cambiare le cose

Le persone che attendono la discesa dal bus dei corridori del Team Novo Nordisk hanno un motivo in più per aspettare. Un padre, in attesa degli atleti con suo figlio Marco, ragazzo diabetico appassionato di ciclismo, ce lo disse qualche tempo fa: «Ai figli puoi dire di tutto e possono anche crederti, penso, però, che solo dimostrare faccia la differenza. Qualunque genitore direbbe al proprio figlio che, nonostante il diabete, può fare tutto ciò che vuole nella vita. I genitori lo dicono spesso, per questo accade che i figli non ci credano più e pensino sia una consolazione. Marco deve crederci perché ha visto in prima persona, non perché glielo ha detto papà». Il bus era lì, a pochi metri.

I ciclisti del team Novo Nordisk, all'apparenza, hanno solo una caratteristica in comune: sono affetti da diabete. In realtà, c'è più di qualcosa ad accomunarli. Per esempio, tutti respingono un certo modo di approcciarsi alla malattia, al diabete, ma in realtà a qualunque malattia. Andrea Peron, diabetico dall'età di sedici anni, lo ha ripetuto più volte. «Non mi è mai piaciuto piangermi addosso. Perché non è bello e soprattutto perché non serve a nulla. La realtà del diabete non si cambia così». Non lo dice per dire Peron. Ha fatto fatica a passare professionista perché alcune squadre gli hanno chiuso la porta in faccia, senza apparente motivo, a parte il fatto di essere diabetico. Ci è stato male ma ha sempre detto che quella è una forma di ignoranza. Non puoi farci molto, però, puoi lavorare per smentirla. Anche qui: è questione di fatti, perché alle parole si può non credere, però, se una cosa succede, non puoi negarla. Quel giorno, ai bus, il papà di Marco voleva dirci proprio questo. Chi ha a che fare con una qualunque malattia ne è consapevole.

Sulle maglie dei ragazzi c'è scritto “changing diabetes” che è un invito, una speranza e una possibilità. Perché gli incontri fuori dai bus fanno la differenza anche per i corridori. Diversi fra loro lo testimoniano: «Un conto è sentirsi incitare, applaudire, magari firmare un cappellino o una maglietta. Vedere che qualcuno viene a chiederti consiglio sul diabete, a dirti le proprie difficoltà e a chiederti come fai, è diverso. È molto di più». Con gli anni, la tecnologia ha cambiato quasi tutto, gli atleti possono avere dati sulla loro glicemia anche in corsa, più spesso è una sensazione ad aiutarli, capiscono quando qualcosa non va, anche senza controllare un numero.

L'annata appena trascorsa non è stata una delle più facili per il Team Novo Nordisk. Il leader della squadra americana, Charles Planet, ha preso ben due volte il Covid, sviluppando un problema ai polmoni che lo ha tenuto lontano dalle gare per metà stagione. La differenza, invece, nell'anno nuovo, potrebbe farla il talento di Matyáš Kopecký: diciottesimo al Campionato del Mondo juniores, il ragazzo della Repubblica Ceca promette davvero bene.

A Velonews il co-fondatore del team Phil Southerland ha raccontanto il senso dell’aver creato un team di atleti affetti da diabete di tipo 1: «Vogliamo rappresentare un esempio concreto per i bambini affetti da diabete, vogliamo che guardino i nostri ragazzi correre e sappiano che possono ottenere tutto ciò che sognano. Voglio che i miei ragazzi si divertano perché quando si divertono corrono bene e, quando corrono bene, cambiano il mondo, una persona alla volta». Così che ci siano sempre meno porte chiuse in faccia, perché le persone credano a questa possibilità. Ma soprattutto affinché ci creda chiunque sia affetto da diabete. Perché, se ne sei consapevole tu, le barriere dell'ignoranza le abbatti giorno dopo giorno.


Tim Declercq, studente fuori corso

Le ultime settimane di Tim Declercq potrebbero far venire in mente la storia di Enrico Fiabeschi, personaggio creato da Andrea Pazienza, o di qualsiasi altro (celebre) studente fuori corso. Poche giorni fa infatti Tim, che noi abbiamo imparato ad apprezzare per essere "El Tractor" colui che prende in mano il gruppo e pare non mollarlo mai, si è laureato dopo «14 anni. Sia io che i miei genitori pensavamo potesse rimanere soltanto un sogno». Laurea con un master in educazione fisica, training option e coaching. «Era arrivato il tempo che mi muovessi un po' per farlo: ho iniziato questo corso prima ancora di sapere se mai sarei diventato un corridore professionista».

E fa sorridere pensare a De Clercq magari un po' impigrito e ingobbito sui libri dopo aver tirato il gruppo 200 km a corsa: perché quante volte lo abbiamo raccontato? Accendi la tv e l'unica sicurezza che c'è al mondo è quella di vedere prima o poi la sua sagoma, infinita come quella di una cisterna di birra nei sogni di un assetato, davanti a tirare. E quando lo fa non smette mai.
«La mia fortuna - racconta il 32enne belga di Leuven, campione nazionale tra gli Under 23 nel 2011 ma che in carriera deve ancora vincere la sua prima corsa tra i professionisti - è stata quella di aver presentato la parte pratica degli esami lavorando su uno studio fatto sui diversi ruoli e sulle diverse prestazioni dei miei compagni di squadra». Viene spontaneo chiedersi quanto i rapporti prestazionali studiati siano stati influenzati dalle menate di cui si rende protagonista in testa al gruppo. O chissà magari facevano proprio parte dei suoi test.

Ha avuto tempo, De Clercq, di raccontare una stagione che lo ha visto protagonista in prima persona dei maggiori successi di squadra. «Il momento più bello è stato il Fiandre: non c'è migliore soddisfazione di vedere i tuoi compagni che vincono e poi ti ringraziano per quello che hai fatto». Al Tour Declercq è stato vittima di una brutta caduta; ha sofferto come soffre solo chi cade e si fa male e poi è costretto a rialzarsi e continuare, e non c'è sole a picco, pioggia, montagna che possa mandarti a casa, «ma l'obiettivo di aiutare Cav a chiudere a Parigi in maglia verde lo abbiamo portato a casa». Mentre per l'anno prossimo, dopo aver appena disputato «e sofferto come una bestia, non riuscivo nemmeno stare seduto in sella» una Parigi Roubaix sotto la pioggia, spera che l'Inferno del Nord si possa di nuovo correre in primavera «e che gli dei del tempo siano clementi».

Di lui un giornalista belga scrisse anni fa: "Quando Declercq accelera, pare una vecchia lumaca". Lui che c'ha messo 14 anni per laurearsi, non si scompone e rilancia. «Una vittoria personale sarebbe bella, ma se c'è una volata di sette corridori arrivo ottavo: il mio obiettivo principale resta quello di lavorare per la mia squadra». Un lavoro sporco che da oggi farà come laureato.


Il mestiere di pedalare

Il 6 ottobre del 2021 William Bonnet ha smesso di pedalare in gruppo. «Non del tutto però: prima di finire la stagione sarò impegnato ancora in due gare di ciclocross, una per fare un favore al mio amico Minard, una in memoria di Coyot (ex professionista francese morto in un incidente stradale nel 2013 NdA)» aggiunge, poi, in un'intervista rilasciata sul sito ufficiale della sua squadra, la Groupama-FDJ, di fare schifo con la bici fuoristrada e che una volta appesa davvero la bici al chiodo, la userà solo per farsi ogni tanto un giro con gli amici.

Non ha rimpianti William Bonnet, 39 anni, 17 anni da professionista, poche vittorie ma niente male: l'ultima della sua carriera alla Parigi-Nizza, 11 anni fa che è un'epoca fa, e Bonnet, fisico da granatiere, spunto veloce, superò sul traguardo un ventenne Peter Sagan. Erano esattamente i giorni in cui Sagan si rivelò al mondo - e difatti Sagan vinse due delle tre tappe successive e furono le prime due vittorie da professionista. Ma quelli erano anche i giorni in cui Bonnet iniziava a trasformarsi: da uomo veloce a uomo squadra, affidabile regista in corsa a cui gli affideresti persino il tuo cuore. Cosa che nella sua squadra faranno.

Il tempo corre via veloce e non ha rimpianti, Bonnet, anche perché di recente non si sentiva più competitivo: «Alla fine della scorsa stagione mi sentivo ancora in grado di dare ancora il mio contributo, ma adesso no e va bene così. Ho dato tutto, ho 39 anni e il mio fisico non risponde più come vorrei». Non ha paura del vuoto, di quello che sarà, e anzi subito dopo il traguardo della sua ultima corsa si è come liberato di un macigno iniziando a restituire le sue cose alla squadra. «Mi concentrerò più sul futuro che sul passato».

William Bonnet ha sempre avuto l'inflessione da poliglotta della bici, la mania del tuttofare: non potrebbe mai aver rimpianti uno che è stato capitano prima, dove poteva, e poi gregario, ovunque: in volata, in salita, nelle classiche del nord, nei grandi giri; uno che sostiene di come, la più grande soddisfazione della sua carriera sia stata quella di sapersi rinnovare, di volta in volta, di stagione in stagione, persino di corsa in corsa. «Ho partecipato a eventi che non pensavo di disputare: tutti i grandi giri, tutte le monumento; sono passato da essere uomo da treno del velocista, a corridore da pavé, da corridore da Ardenne, a scalatore. Ogni volta una nuova sfida e ciò che mi aiutava di più a crescere era la fiducia che sentivo intorno».

Ecco, fiducia forse è la parola che identifica meglio quello a cui Bonnet è andato incontro per il suo mestiere di pedalare. E poi c'è la fortuna che gli ha fatto incontrare sul suo cammino Pinot come se il cammino di ognuno fosse fatto esattamente per incrociare quello della persona giusta. «Perché ci siamo trovati così bene assieme? Ci sono cose che non si possono spiegare. Pinot è una bella persona, matura, spontanea, ti dà molto in cambio. Assieme abbiamo vissuto emozioni folli in bici, ma soprattutto momenti di vita al di fuori delle gare che mi sono rimasti impressi. Lui sa quanto lo apprezzo, sa quanto ho sempre voluto aiutarlo e sacrificarmi per lui l'ho sempre ritenuto giusto. Perché non è solo come corridore che ti spinge a fare ciò. È l'uomo Pinot che ti segna, che ti ispira, che ispira tutti»

E il 6 ottobre è la data scelta per l'ultima corsa - la Milano-Torino, per farlo proprio di fianco a Pinot. Di quel giorno Bonnet descrive la mattina, uno striscione con dedica in suo onore, le ultime chiacchiere in gruppo alla partenza, persino i genitori per strada e poi l'ultimo posto: 109° su 109 al traguardo. «Era fuori discussione non la concludessi la gara. Mi sono voluto godere ogni attimo, ho visto i miei genitori a bordo strada, ho scambiato qualche parola con chi incrociavo per strada. Alla sera mi sono concesso qualche drink prima di ringraziare la squadra».

Soprattutto Pinot, con il quale in carriera ha corso assieme 268 volte. I due hanno diviso momenti di gioia, come momenti drammatici che sono quelli poi che nella vita tendono a cementificare di più i rapporti. Le lacrime di Pinot verso Tignes al Tour del 2019 o la caduta tremenda di Bonnet al Tour nel 2015 sono un esempio concreto. E Pinot ha scritto una lettera nei giorni scorsi per ringraziare quello che è un amico prima ancora che un compagno fedele, con la solita sensibilità che fa di Pinot una delle persone più interessanti del gruppo. Chiudiamo proprio con un omaggio di Pinot al suo ex capitano: «Sarebbe riduttivo parlare di Bonnet solo come corridore. Era ed è per me tuttora un fratello maggiore, una fonte di ispirazione. Sapeva come trasmettere un messaggio in poche parole e io ne ho sempre cercato di seguire l'esempio. Non dimenticherò mai tutto quello che ha fatto per me. I leader, in un gruppo, non sono sempre coloro a cui pensi guardando i successi, i risultati. William era un leader vero e volevo che tutti lo sapessero». William conosceva davvero il mestiere di pedalare.


Mungere le vacche

Arnaud de Lie deve ancora farsi conoscere dalla più vasta platea dei ciclofili - non potrebbe essere altrimenti: esordirà tra i professionisti nella prossima stagione con la maglia della Lotto Soudal e presumibilmente lo farà prima di compiere 20 anni (è nato nel marzo del 2002).
Di recente, nell'intervista che ha rilasciato a DirectVelo, ci ha colpito qualche passaggio da cui emerge un personaggio che, con ogni probabilità, sarà tutto da seguire.

MUCCHE - De Lie vive a Vaux-sur-Sûre un piccolo villaggio della Vallonia. Suo padre ha una fattoria e Arnaud, sin da quando ha 4 anni, la mattina si sveglia presto per dare una mano con le bestie. Lo ha fatto anche prima di conquistare la sua più prestigiosa vittoria sin qui: la Omloop Het Nieuwsblad Under 23. «La mattina della gara, prima di viaggiare per Grotenberge mi sono svegliato presto e sono andato a mungere le vacche». Quel giorno De Lie vinse la volata del gruppo pur sentendosi particolarmente stanco durante la gara. Chissà perché.
Racconta, de Lie, di farlo praticamente tutti i giorni, si sveglia all'alba, munge, torna a casa e poi è pronto di nuovo per uscire, ma dall'anno prossimo sarà più complicato visto l'impegno nel World Tour. «Il problema sarà doverlo dire a mio padre. Con il mio DS della Lotto ne abbiamo già parlato in passato e abbiamo ridotto il carico di lavoro: solo che io lo faccio volentieri, perché, quando hai un padre che ti dà tutto, è giusto ricambiare».

VITTORIE - Ha vinto moltissimo in stagione, anche se avrebbe preferito persino di più viste le caratteristiche da velocista resistente. 10 vittorie in tutto e qualche rammarico. «Al mondiale nelle Fiandre è stata la più grande delusione della mia vita». Cadde, sprecò energie per rientrare e non poté essere d'aiuto nemmeno per la squadra.

AMBIZIONI - Dall'anno prossimo sarà il secondo velocista della Lotto, il leader sarà un certo Caleb Ewan. Alla domanda sul come farà a gestire le volate visto che il treno sarà in blocco per il corridore australiano, sentenzia: «Meglio così. Preferisco gestirmi la volata da solo: non ho bisogno di compagni che mi aiutano nell'ultimo chilometro. Forse qualcuno che mi aiuta in gara a non prendere buchi quello sì».

LEFEVERE - Infine il suo temperamento sfocia raccontando un aneddoto su Lefevere: «La Quick Step mi ha cercato, ma io ho scritto su Instagram un messaggio privato a Lefevere dicendo di smetterla di perdere tempo che tanto avrei firmato con la Lotto». Così.

Foto: Gregory Van Gansen/PN/BettiniPhoto©2021


Il record dell'ora per Alex Dowsett

Alex Dowsett dice: «Sì, sono pronto per la sfida». Prendete nota: domani sera, quando da noi saranno circa le 23, proverà ad agguantare quel record dell'ora che fu suo per un regno più breve di quello di Pipino IV: era il 2 maggio del 2015, quando Dowsett firmò, nel velodromo di Manchester, 52,937 km.
Migliorò di quasi mezzo chilometro la prestazione che Rohan Dennis stabilì nel febbraio di quell'anno - che fermento il 2015 per il record dell'ora! Ma il primato di Alex Dowsett durò il tempo di qualche intervista, servizio speciale, un po' di fama, un battito di ciglia; durò un mese e qualche giorno, per la precisione un mese e un po'.
A Londra, infatti, il 7 giugno del 2015, (Sir) Bradley Wiggins migliorò quel risultato. Nettamente: 54,526 km. «Quando ho fatto il record nel 2015 sono andato abbastanza forte, ma sapevo di averne ancora alla fine» raccontò Dowsett qualche tempo dopo in risposta alla prestazione di Wiggins; un po' amareggiato, più o meno avrà detto così: “I am a little bit disappointed”. «La cosa è stata frustrante perché tutti abbiamo lavorato per fare il meglio possibile» riportano più precisamente i giornali.
Disse però che ci avrebbe riprovato, così come dirà spesso di sentirsi un privilegiato per avere la possibilità di farlo, e domani ci proverà con a fianco sua moglie Chanel che lo sta aiutando in tutto per tutto nella preparazione dell'impresa, e con il suo coach Michael Hutchinson: calzoni corti, capello biondo lungo che corre appiccicato alla faccia, sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole e che a ogni giro gli darà un feedback sulla prestazione: «Lui starà lì a darmi indicazioni: finché mi atterrò alla tabella di marcia potrò stabilire il nuovo record».
Come voleva riprendersi quel record il 12 dicembre del 2020, pungolato, poiché Campenaerts si era permesso di spostare ulteriormente l'asticella verso l'alto. Ma il Covid lo fermò: «È un tipo di gara che amo e ci riproverò ancora» dirà all'indomani di quella rinuncia.
33 anni - compiuti da poco - Dowsett, attualmente corridore della Israel StartUp Nation, combatte con l'usura di una lunga carriera su strada che gli ha visto anche vincere due tappe al Giro e spesso lottare per trovare un contratto da una stagione all'altra. «Decisiva la vittoria di tappa nella Corsa Rosa del 2020: è stata dura perché nostra figlia stava per nascere e pensavo che la mia carriera ciclistica stesse finendo. Il problema è che dal ciclismo arriva l'unico reddito che abbiamo mia moglie e io» ha raccontato nelle scorse ore al The Guardian.
La sfida domani per Alex Dowsett sarà riprendersi quel record che, dopo Wiggins nel 2015, passò, come detto e come noto, sulle spalle larghe e l'andamento un po' bizzarro di Campenaerts nel 2019. Il belga lo stabilì ad Aguascalientes, Messico, proprio dove Alex si sta preparando in questi giorni; si sta adattando all'altura ed è pronto a scrivere per la seconda volta il suo nome in quel lungo elenco di “detentori del record dell'ora”. Campenaerts, per dovere di informazione, prese a picconate il muro dei 55 km firmando un incredibile 55,089 km.
La sfida per Alex Dowsett parte da lontanissimo prima di arrivare “laggiù”, il termine che userebbe Truman Capote, come fece in uno degli incipit più belli della storia della letteratura moderna.
Alex quando aveva un anno e mezzo di vita cadde, si ruppe un labbro, iniziò a sanguinare. Il problema è che quell'emorragia sembrava non arrestarsi mai. «Ha una grave forma di emofilia» dissero i medici ai suoi genitori e Alex crebbe così velocemente che all'età di nove anni imparò a farsi la così detta auto-infusione, da solo. «A volte quando sanguinava, perlopiù accadeva dal gomito sinistro o dalle caviglie, faceva di tutto per nasconderlo» raccontano mamma e papà Dowsett.
Lo sport lo ha aiutato in ogni modo, ed è incredibile pensare a dove è riuscito ad arrivare con questo tipo di malattia. Papà Phil, grande appassionato di motori ed ex pilota di British Touring Car lo ha spinto a essere competitivo, trasmettendogli la passione per velocità, competizione, numeri. Ha praticato nuoto, tennis, ma è stato nel ciclismo che Dowsett ha trovato il suo progresso: «Non ho mai conosciuto la vita senza emofilia, quindi non posso confrontare la mia esistenza con le esperienze di qualcun altro. Quello che posso dire è che una vita in cui ti viene detto cosa non puoi fare ti fa venir voglia di andare là fuori e mostrare al mondo cosa invece puoi fare, e il ciclismo è diventato un'ancora di salvezza, un modo per dimostrare che si può. Tutto».
E attraverso il ciclismo che ha portato in giro il suo messaggio: «Grazie ai miei risultati spero di ispirare le altre persone affette da emofilia» resta uno dei suoi refrain e uno degli obiettivi dietro l'organizzazione di questo evento, non solo sportivo. Perché grazie a quello che ottiene in bicicletta riesce a far conoscere in giro il suo progetto di beneficenza (https://www.littlebleeders.com/) e il lavoro fatto per The Haemophilia Society.
E tutto passerà da domani sera in Messico: con il suo nuovo tentativo di battere il record dell'ora, un hashtag, #hourofbloodswettandtears, da far girare; una prova che spinge in là il limite del ciclista, affascinante quanto basta, a tratti drammatica nella sua durezza incomprensibile.
È arrivato il momento di riprendere quel lavoro interrotto sei anni fa: e se ci fosse di nuovo il suo nome di fianco a quello di detentore del record, a noi non dispiacerebbe affatto, anzi.
Forza Alex, c'mon Alex: harder, better, faster, stronger.
Se volete seguire in diretta il tentativo di Alex Dowsett potete farlo dalle 22.35 di domani sera sul suo canale YouTube https://www.youtube.com/alexdowsettofficial