La gerarchia prima di tutto: intervista a Fausto Masnada

Il senso di rispetto di Fausto Masnada per i ruoli appare evidente, lapalissiano, quasi eclatante: «Siamo pagati per rispettare i compiti assegnati: uomo squadra, seconda linea, gregario, definitemi come preferite. È vero: è importante avere ambizioni personali, però bisogna essere realisti, sono in un grande team con grandi capitani ed è giusto rispettare ciò che ci viene chiesto».

Corridore sempre a disposizione per la sua squadra «e miei compagni lo sanno. Al termine del Lombardia sono uscite fuori polemiche inesistenti: Alaphilippe e gli altri ragazzi della Quick Step erano felicissimi del mio risultato e per come era maturato. A me non piace fare il furbo e prima di provare in prima persona avevo lavorato come mi era stato richiesto. Poi quel giorno stavo particolarmente bene anche se in partenza le gerarchie erano altre».

Inevitabile partire proprio da quel risultato maturato sul traguardo di Bergamo: 2° posto dietro Pogačar, una delle prove più convincenti della carriera del 28enne che proprio su quelle strade ha vissuto la maggior parte della sua vita, agonistica e non. «Mentirei se dicessi di non essere rimasto un po' deluso. Ma cosa ci vuoi fare: ha vinto uno dei corridori più forti del gruppo, uno che oltre ad avere la gamba ha una testa incredibile». Per Masnada, infatti, quello che caratterizza il 23enne sloveno è l'intelligenza: «Non vinci due volte un Tour se non hai anche la testa per farlo. E nel finale contro di me ha mostrato furbizia e freschezza».

Racconta, Masnada, puntuale e preciso, la preparazione e lo svolgimento dell'ultima Monumento della stagione: «Come ho detto la gerarchia in squadra era stabilita. Tre punte: Remco, Almeida e Alaphilippe e io in seconda battuta. Stavo bene ("benissimo!" gli diciamo noi); il mio compito era stare con le antenne dritte e muovermi dalla media distanza da Dossena in poi. Quando è partito Tadej sulla salita di Orezzo ho avuto il via libera da Bramati per fare la mia corsa».

D'altra parte, aggiunge Masnada, in corsa a volte le strategie prestabilite possono essere rimescolate. «Non tutti possiamo partire con il ruolo del leader, ma capita che uno dei capitani designati non si senta bene, oppure che la corsa prende una certa piega: la nostra forza in squadra è quella di essere un gruppo compatto, affiatato, ci parliamo spesso e se hai la tua opportunità come è successo con me al Lombardia allora devi essere pronto a coglierla». La pazienza come canone, la disciplina per alimentare la forza interiore.

E giù dal Passo Ganda, nella discesa del Selvino, Masnada, bergamasco doc, le sue carte se le è giocate come un abile prestigiatore, tracciando linee, prendendo rischi calcolati e riuscendo a piombare a fine discesa su Pogačar. «Quelle strade le conosco a memoria: capitava, quando mi allenavo da questa parti, di fare anche una cinquantina di volte all'anno il Selvino. Sono sceso con intelligenza, ma fondamentale doveva essere rientrare prima del tratto in pianura, altrimenti avremmo dovuto cambiare spartito».

Ma nel finale non c'è stato nulla da fare, Pogačar si è gestito in pianura, ci racconta ancora Masnada, tirando sempre con un certo margine: «E sulla Boccola ha fatto un'andatura pazzesca: ho raggiunto un wattaggio che non avrei mai creduto dopo sei ore di corsa», ma il segreto dietro quei numeri è stata anche la spinta del pubblico. Bandiere, urla, cappellini, tifosi ovunque. Davanti Pogačar seduto, potente, a scandire il ritmo, con una accenno di bocca aperta, dietro Masnada in piedi sui pedali, i denti di fuori. Si direbbe: a tutta. Forse di più. «Quanta gente che c'era a spingermi per tutto il percorso! Emozioni immense, indescrivibili. I bergamaschi sono tutti grandi appassionati di ciclismo, ma quello che ho visto in gara ha dell'incredibile. Sulla Boccola sono salito grazie al tifo del pubblico che mi ha fatto passare il mal di gambe e mi ha spinto fino in cima».

Una stagione chiusa bene, in crescendo (prima del Lombardia, Masnada volava, letteralmente, anche alla Milano-Torino), ma che lo vede soddisfatto a metà per via dei problemi fisici avuti al Giro, chiuso in anticipo per una tendinite dopo essere partito da Torino con l'influenza, e per una frattura rimediata alla Settimana Ciclistica Italiana in Sardegna che gli ha fatto saltare la Vuelta.
Ma nel 2021 ha potuto approfondire le conoscenze su due compagni di squadra per i quali ha lavorato in più fasi, in modo egregio. «Differenze fra Almeida e Evenepoel? Intanto le similitudini: hanno un talento incredibile e sono così giovani che ancora devono imparare a correre da capitani. Almeida è tranquillo, quasi pacato. Trasmette serenità in corsa. Evenepoel ha una forza devastante in tutti sensi: nervoso, istintivo, a volte non si riesce a farlo ragionare. Testardo, emana cattiveria agonistica e quando corri per lui ti senti ancora più motivato e concentrato perché trasmette professionalità e ti motiva con la sua stessa grinta».

Chiediamo a Masnada quale futuro, quali margini, quali obiettivi per lui. Al solito è laconico, essenziale; vola basso, ma più che dimesso appare concreto e ambizioso: «Anno dopo anno sto crescendo: mi pongo obiettivi nuovi che servono per stimolarmi, diventare ancora più forte e tirare fuori il meglio da me stesso. E questi miglioramenti sono la benzina che mi motiva ad andare avanti. È vero: ho fatto 2° al Lombardia e voglio continuare a migliorare, ma niente voli pindarici, preferisco commentare dopo una corsa che fare dei pronostici prima».
Gli piacerebbe fare il Giro nel 2022, anche se i programmi non sono stati stabiliti, la corsa alla quale si sente più legato e che sente più adatta. «Però, se mi dovesse essere chiesto di fare il capitano al Giro, mi farò trovare pronto».


Tour, infortuni e sofferenza: lo stallo alla messicana di Chris Froome

Soffrire, soffrire, soffrire. Scritto tre volte ma forse non basta. Quanta banalità all'apparenza - sembra sempre la solita solfa – dietro questa parola ripetuta come una nenia, ma è da qui, all'occorrenza, che parte ogni corridore.

D'altra parte cos'è il ciclismo se non atletismo, fantasia e sofferenza? Se vi siete mai allenati in bicicletta sapete di cosa parliamo, se avete mai provato a mettere vicino qualche chilometro magari condendolo con qualche salita, magari avete beccato la pioggia, magari vi siete districati su un tratto di lastricato, non potete che immedesimarvi in questo stereotipo.
Il soffrire per un corridore professionista con un passato importante è spesso finalizzato al tornare (o a provare) a essere quello che è stato, riassaporare la vittoria o arrivarci vicino. Soffrire per superare quella soglia, arrivare in cima e dire: ce l'ho fatta. Maledire – a tratti - quei momenti in cui si sale in bici, o si sceglie quel mestiere; ripensare al passato, gettare le basi nel presente per ricostruire il futuro, anche quando ti analizzi e pensi: ho quasi trentasette primavere, dove posso andare in un ciclismo dove si vincono i grandi giri appena superati i vent'anni?
Chris Froome riparte proprio da questi pensieri, si riempie d'orgoglio raccontando la propria sofferenza. Parole sue, testuali. La sofferenza l'ha messa al centro del discorso in una lunga intervista rilasciata a Cyclingnews nei giorni scorsi.

«La sofferenza - racconta Froome che tra 2011 e 2018 ha vinto 4 Tour, 2 Vuelta, 1 Giro - ha dato una nuova prospettiva alla mia carriera e alla mia vita». Dice che soffrire gli ha fatto capire quanto debba essere grato per i privilegi che ha vissuto e vive; che vuole sfruttare questa seconda occasione che ha avuto come ciclista professionista. «So che molti non lo capiscono – aggiunge - e questo mi dà ancora più forza per tornare al mio vecchio livello»
E riparte da una sorta di stallo alla messicana, cliché cinematografico che dagli anni '90 è stato riproposto in maniera assidua da Quentin Tarantino: Froome, infortuni, sofferenza e Tour de France come quattro temerari dal linguaggio un po' sboccato e magari dalla battuta piccante e fuori luogo e che si puntano la pistola addosso, l'uno verso l'altro, e sembra non ci sia modo di uscirne.

Ma ci crede Froome. Ha intenzione di uscirne. Che ce la faccia o no, ha intenzione di fuggire come Mr Pink o Mr Blonde, col bottino in mano o come voleva una certa parte di narrativa messicana: con i soldi o con la vita. «Non c'è alcuna garanzia di poter vincere un altro Tour, dopo quello che è successo e quello che ho passato. Lo so, ma rimane il mio obiettivo. Questo è ciò che mi spinge a dare il 100%» riflette il corridore della Israel.

Da giugno 2019 a giugno 2021, dall'infortunio al Delfinato alla preparazione verso il ritorno al Tour, racconta di aver sentito finalmente la gamba ferita mettersi alla pari con tutto il resto del corpo. «L'incidente nella prima tappa di quest'anno però ha nuovamente ribaltato i miei piani. Non fossimo stati al Tour mi sarei ritirato. Ero ferito dall'anca fino al gluteo, sentivo tanto dolore fino alle costole». E invece ha stretto i denti, fino all'ultimo giorno: «Arrivare a Parigi è stata una vittoria personale fondamentale».

E quei giorni di gara a fine stagione sono diventati 68, mica pochi. Da questi numeri riparte come base per essere al meglio in vista del futuro.
Froome insiste e insisterà per provare a vincere di nuovo il Tour (sic): «Nel 2022, l'anno dopo, o l'anno dopo non importa. Ciò che conta è che continuerò a lavorare fino a quando non mi renderò conto che non sarà più possibile. Questo è ciò che mi fa salire sulla mia bici ogni giorno».

Questo è ciò che intende Froome per uscire dallo stallo in cui si trova. Questo è ciò che lo spinge ogni giorno a superare i limiti imposti dalla sofferenza. Ce la farà?

Foto: A.S.O./Bruno Bade


Bardet alla Roc d'Azur

"È arrivato il momento di staccare", il pensiero di molti vedendo il volto affaticato di Romain Bardet, ottavo sul traguardo di Bergamo al Giro di Lombardia. Una gara selettiva, lui protagonista, sì, ma più di contorno, meno di come si aspettava; sentiva le sue gambe che pulsavano al punto giusto, sì, ma allo stesso tempo non rispondevano fino in fondo ai segnali mandati dal suo cervello, scontrandosi tra realtà, desiderio e ambizione. «Nel momento cruciale della corsa ho sentito le gambe di legno».

Ed è stata la fine della stagione - almeno su strada - perché poi, terminata la corsa è salito in macchina in direzione ovest; verso la Provenza, verso il dipartimento del Var, a Fréjus, dalle parti della meravigliosa Roquebrune-sur-Argens. Eh, ma mica per anticipare le vacanze o che - anche se il posto merita.

In testa e nelle gambe, o in quello che rimaneva nel suo serbatoio di energie psicofisiche, Bardet aveva ancora un'idea che si tramutava nell'ultima corsa da disputare: la Roc d'Azur.
Roc d'Azur, ovvero la mitica gara di mountain bike che si corre dal 1984: quella volta al via ci furono 7 partecipanti, mentre il 10 ottobre 2021 nella sfida clou del week end oltre tremila tra uomini e donne a percorrere un tracciato selettivo di quasi 50 km.

Altamente spettacolare la Roc d'Azur, affascinante, con passaggi suggestivi dal mare alla montagna e i suoi punti focali tra il Col Du Bugnon preso d'assalto dai tifosi, Le Fournel con la sua celebre discesa (su internet esiste persino una guida - scritta tra il serio e il faceto - per affrontarla al meglio), estremamente tecnica, e lo spettacolare Sentier des Douaniers che arriva fino in riva al mare.

Ha vinto, per dovere di cronaca va detto, il giovane svizzero Filippo Colombo, in 2h 03'43'', tra i più forti interpreti della mountain bike (12° a Tokyo, 3°al campionato europeo e 9° al mondiale, nonostante la frattura del bacino a maggio, tanto per dire) davanti a un certo Julien Absalon (non ha bisogno di presentazioni, vero?) che la Roc d'Azur l'ha conquistata tre volte.
Spinto dal tantissimo pubblico (ma davvero tanto) lungo la strada, ecco anche la sagoma dai tratti sinuosi e spigolosi, il naso leggermente aquilino, la divisa della DSM, ecco Romain Bardet che nel 2018 alla Roc d'Azur arrivò 102°, anche quella volta si divertì da matti.

«Sono venuto qui perché amo la mountain bike - ha raccontato sorridente e impolverato a fine corsa, vittima anche di un incidente meccanico e con anche qualche graffio sul corpo che non guasta mai quando corri in bicicletta - sono venuto qui perché volevo divertirmi e senza prendere rischi soprattutto in partenza: mica avevo intenzione di passare l'inverno in barella?!»
Il tempo del corridore francese, che legge libri di politica e filosofia, che ama informarsi su temi come immigrazione ed economia, adora il buon vino e che se non fosse diventato un ciclista professionista sarebbe voluto essere un dj oppure uno scrittore, è stato di circa 6 minuti superiore a quello di Colombo e gli è valso l'11° posto. Ma non era l'unica star dello sport transalpino al via: al 439° posto è infatti arrivato Renaud Lavillenie, medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Londra nel 2012. Nel salto con l'asta.
Ora la stagione per Bardet è davvero chiusa, dopo aver rotto il ghiaccio vincendo per la prima volta in carriera fuori dal patrio suolo: prima con una tappa alla Vuelta a Burgos, poi con un'altra alla Vuelta España.

Nel 2022 lo aspettiamo, magari di nuovo al Giro d'Italia, per provare a rompere il ghiaccio pure da noi; non mancheremo di spingerlo certamente, probabilmente non vestiti da uomo di Cro-Magnon come i ragazzi in foto.


Jaco van Gass, solo un uomo

Jaco van Gass, in realtà, è nato a Middelburg in Sudafrica, nel 1986. Nel 2009 era da più di cinque mesi in Afghanistan, paracadutista delle forze armate britanniche. Non gli era mai successo nulla, mancavano sole due settimane a tornare a casa. Il momento in cui i soldati pensano che, anche questa volta, nonostante la guerra, sono ancora vivi, padri, figli, fratelli. Un'ora di scontro a fuoco con le forze nemiche: ha perso il braccio sinistro, si è ritrovato in ospedale con il polmone sinistro collassato, organi interni perforati, ferite da esplosione e da schegge, fratture ovunque. Lo hanno rimesso insieme con undici operazioni e da quel giorno Jaco è cambiato.
Nel fisico, certo, sarebbe assurdo negarlo, ma non solo. Van Gass è cambiato perché da quel giorno ha iniziato a fare ciò che forse non avrebbe mai fatto. Di più: ciò che forse non avrebbe mai pensato. Sciatore, maratoneta, ha scalato il Monte Denali e, per poco, non arrivava sulla vetta dell'Everest. Non c'è spiegazione, è la mente che reagisce, è la forza dell'essere umano, inspiegabile, assurda, a volte dannata, altre meravigliosa.
La storia di van Gass non è la storia di un eroe o di un superuomo e lui stesso non vorrebbe mai essere chiamato così, tanto è fiero di essere un uomo, solo un uomo. La storia di van Gass è la storia di un paraciclista britannico che a Tokyo ha vinto l'oro nell'inseguimento individuale sui 3.000 metri, battendo in finale il connazionale Fin Graham, trascorsi due giorni ha conquistato il bronzo nella prova a cronometro individuale sui 1.000 metri e per concludere si è aggiudicato lo sprint a squadre misto sui 750 metri insieme ai compagni di squadra Kadeena Cox e Jody Cundy. Il giorno in cui era partito per Tokyo lo aveva detto chiaro e tondo «Non vado per tentare, vado per vincere». Sentiva di doverlo alla sua nazione perché quando corri con i colori della tua nazione addosso ti sembra assurdo anche solo il pensiero di poterti risparmiare. Sentiva di doverlo alla sua famiglia, per tutto il tempo che le aveva sottratto per gli allenamenti, per perfezionare ogni dettaglio.
Ha vinto e potrebbe dire solo questo, perché questo voleva. Invece racconta di quel ciclista colombiano deluso fuori dalla camera d'albergo. Di quando gli si è avvicinato e ha ascoltato tutto ciò che non andava, perché la gente non lo sa, ma anche nell'Olimpo, certe volte, manca l'aria. Di quando lo ha guardato e ha iniziato a parlare: «Sai quante persone vorrebbero essere qui? La medaglia è un riconoscimento, importante, ma già esserci deve renderti orgoglioso, perché in molti vorrebbero essere qui, invece qui ci sei tu».
Jaco van Gass che dalla vita è stato cambiato, Jaco van Gass che, poi, ha cambiato la propria vita per viverla come desiderava ed esserne orgoglioso. Jaco van Gass che, oggi, rende orgogliosi molti uomini che, forse, ascoltandolo avranno ancora più chiaro quanto possa un essere umano, se solo lo vuole.


Alienazione

Venerdì sera, Arena Gigli in piazza Brancondi, centro di Porto Recanati. A due pedalate dal Castello Svevo. Un palco brandizzato Gran Fondo Nibali accoglie l’organizzatore della corsa, Andrea Tonti, lo stesso Vincenzo, due Beppe (Conti e Saronni) e alcuni comici locali. Questi ultimi parlano spesso e volentieri in dialetto, facendo molto ridere i marchigiani, ma rendendosi pressoché incomprensibili a tutti gli altri, che comunque si divertono nel vedere i marchigiani sganasciarsi dalle risate.

È uno dei tanti eventi organizzati a latere delle prove su strada: la rando di venerdì e le due Gran Fondo di domenica. Sono le undici e mezza e fa così freddo che, anziché una birra, al bar ordino un thè caldo. La mia rando è terminata circa cinque ore fa. Più di dieci ore in sella, quasi dodici ore di tempo totale, una settimana di tempo di recupero stimato. Due persone, invece, stanno arrivando adesso, e magari non sono nemmeno le ultime. Ricordo i loro volti alla partenza, ma non so come si chiamino né le loro storie. Hanno una luce sul casco, sono avvolti in mantelline una rossa e una gialla, con un piede staccato dal pedale si stanno dirigendo cadaverici verso lo stand dal quale ritirare un po’ di cibo. Dentro la busta dell’approvvigionamento, uguale per tutti credo: due paninetti, gel, un Kinder Bueno, una banana, una Heineken in lattina.

Un minimo comune denominatore accomuna chi arriva al traguardo dopo oltre duecentocinquanta chilometri e cinquemila metri di dislivello: il volto. Nascosti in casco, occhiali e scaldacollo, certo, senza capello a cilindro nero, tanti 5mila Marche finishers hanno un’espressione che ricorda quella delle persone che camminano sul marciapiede di “Sera sul viale” di Edvard Munch. Il viso è scavato, bianco, privato dei tratti distintivi di ciascuno. Tra le altre cose che il pittore norvegese annotò sul suo diario personale: «Voleva fissare un pensiero ma non gli riusciva, aveva la sensazione che nella sua testa non ci fosse nient’altro che il vuoto… il suo corpo era scosso dal tremito, il sudore lo bagnava».

La 5mila Marche ha chiesto tanto a coloro che l’hanno percorsa. Ha chiesto tutto, anzi: una persona che era con me negli ultimi venti chilometri non è stata in grado di parlare. Il percorso è così bello e la voglia di metterci meno di dieci ore, oppure la speranza di arrivare entro mezzanotte, così forti da prenderti totalmente. Tutti coloro che sono partiti all’alba da Porto Recanati e sono tornati sul lungomare di notte hanno dato tutto a questa rando. E la 5mile Marche, in cambio, ha dato qualcosa che capiremo appieno solo tra diverso tempo.


Il divertimento per De Marchi

Che a De Marchi venga bene vincere con la pioggia è un dato di fatto. Pioveva (anche) qualche anno fa al Giro dell'Emilia. Pioveva a dirotto ieri sul traguardo - e per la verità su tutto il tracciato - della Tre Valli Varesine quando nella volata a due con Formolo («Beh volata è un parolone. Più che altro una moviola degli ultimi 200m» ci dirà scherzosamente) l'ha spuntata lui, il "Rosso di Buja", il "Capitano" come lo chiamano orgogliosi i ragazzi del Cycling Team Friuli, la squadra che lo ha lanciato, la squadra dove De Marchi resta simbolo e punto di riferimento, per carisma e dedizione, trasparenza e sensibilità, per il suo spirito di appartenenza.
Ha vinto poco in carriera (6 successi da professionista), ma benissimo: tappa al Delfinato, 3 tappe alla Vuelta e poi, per l'appunto, Giro dell'Emilia (era il 2018) e Tre Valli Varesine, ieri. Sta vivendo un finale di stagione dove, nonostante il brutto incidente al Giro d'Italia, sta correndo come meglio sa fare: da protagonista. Con la sua squadra di club e con la nazionale. Serio e affidabile, come direbbe lui: un agonista.
Su #Alvento16 lo avevamo intervistato. Un'intervista densa e ricca di spunti che ci ha dato la possibilità di far conoscere l'umanità di questo ragazzo classe '86 che raccoglie risultati importanti quando corre, ma che una volta sceso dalla bici ha tante, tantissime cose da raccontare, arguto e mai banale. E questa che riportiamo è davvero soltanto una minima parte:
«Ci si diverte di meno nel ciclismo? Dipende. Uno può continuare a divertirsi anche se le regole cambiano. Forse abbiamo perso la capacità di essere liberi nel modo di interpretare una corsa. Quando le tappe sono noiose, la responsabilità è nostra: siamo noi corridori a renderle così. I tempi sono cambiati, mi sta bene, ma dovremmo arrivare al punto in cui siamo noi a dirci chi se ne frega oggi corro anche per fare terzo. Quest'anno al Tour of the Alps mi sono trovato in fuga con Nicolas Roche: mancava talmente poco che avremmo potuto tranquillamente mollare, alla fine un secondo o un terzo posto a me e a lui cambia assolutamente niente, però abbiamo deciso di farci inseguire dal gruppo e divertirci, e credo che abbiamo anche fatto divertire. Siamo arrivati che eravamo emozionati come se avessimo vinto».


Ma quale inferno

Sono passati due giorni dalla fine della Paris-Roubaix e ancora quando ci svegliamo, ci pensiamo. Andiamo su internet e leggiamo testimonianze, vediamo foto di facce che sono croste di melma, oppure quella del manubrio di Lizzie Deignan imbrattato dal sangue delle sue mani: la prima vincitrice della Roubaix infatti, non indossava guantini, come fanno alcuni tra i più quotati colleghi, vedi Haussler o Gaviria.
Questo fine settimana, nel nord della Francia non si riusciva nemmeno a guidare la bici: basta vedere la difficoltà di Politt, che due anni fa arrivò secondo e che domenica sembrava uno messo la prima volta su un paio di pattini. L'hanno conclusa in 105, 11 di loro fuori tempo massimo, pur di onorarla, ma ci ritorneremo a breve. Non cadevano solo i ciclisti, ma anche le moto, mentre le ammiraglie finivano lunghe nei fossi.
Ma qual è il fascino di una corsa del genere? Beh, per chi la guarda da casa è facile: corridori infangati, la sfida tra i grandi nomi, l'epica delle facce da Roubaix, la fatica disumana, il corpo a corpo, la selezione, gli attacchi partiti dal km 0 quando ancora i settori di pavé distavano due ore. Oppure i tifosi «eccitati in maniera febbrile al nostro passaggio» come mi racconta Luca Mozzato, all'esordio in questa corsa e tra i protagonisti assoluti. In fuga prima, 20° al traguardo nel velodromo di Roubaix «dove ho cercato di stare più tempo possibile per godermi ogni attimo, guardarmi intorno e portare il ricordo con me».
La pioggia ha trasformato tutto in un affare brutale, ma terribilmente affascinante; il fango ha reso i corridori maschere e noi godevamo di quello spettacolo, con messaggi che arrivavano da spettatori ancora meno che improbabili e che si sono avvicinati al ciclismo grazie a una giornata del genere.
Perché il ciclismo ha bisogno di queste prove per uscire dalla sua nicchia; chiede fango e sterrati, pietre, sentieri, sfide differenti, testa a testa, come tutte quelle corse che ogni anno prendono piede e diventano sempre più conosciute: dal Tro-bro Léon in Bretagna, fino a diverse corse in Belgio, o persino quella disputata sempre domenica in Norvegia, la Gylne Gutuer: la Strade Bianche dei fiordi. L'hanno conclusa in dieci: andate a vedere i video per capire di cosa stiamo parlando. Pioggia, sterrato, salitelle, brutale selezione.
E i corridori, che sono poi gli attori principali dello spettacolo, anzi gli unici protagonisti, raccontano le diverse sensazioni: sempre Luca Mozzato afferma di aver vissuto due chilometri d'inferno dentro Arenberg dove ha forato, poi è caduto, ma dice di essersi sentito gasato ed emozionato ad averla corsa e conclusa. Gasato: «perché passavano i chilometri e ti giravi e vedevi intorno a te van Aert, Van Avermaet, Kristoff, Laporte. Perché passavano i chilometri e prendevi dimestichezza. Sul primo tratto ero in coda, irrigidito, su quel tipo di pavé non sapevi fin dove potevi spingere: la bici andava dove voleva lei, sbandava, dovevi assecondarla. Poi man mano che andavo avanti la confidenza aumentava, sapevi come muoverti e chilometro dopo chilometro gli altri saltavano e tu eri sempre davanti». Emozionato da tutta quella gente: «E pensare che nemmeno avevo capito di avere così pochi corridori che mi precedevano. E gli ultimi 30 chilometri sono stati, seppur nella fatica, una goduria».
Mozzato mi spiega poi come, alla vigilia, quasi per gioco, insieme ai suoi compagni di squadra si era messo a guardare i video dell'ultima Roubaix bagnata: «All'inizio, guardando i filmati scherzavamo, poi è salita un po' di ansia che diventava palpabile al via della corsa: tutti i migliori stavano davanti dal primo metro di gara. Si era capito che sarebbe stata una giornata diversa dalle altre».
Poi c'è chi come Niki Terpstra ha impiegato un'ora e mezza in più del vincitore, ma ha voluto onorare la corsa portandola a termine ugualmente - fuori tempo massimo. Niki Terpstra che nel 2014 vinse la Roubaix.
Per Fred Wright, anche lui nella fuga che ha visto dentro Mozzato, Moscon, Vermeersch e altri, è stata: «La corsa più bella, migliore, peggiore, più dura e brutale che abbia mai fatto: tutto in uno». Ed è da leggere quello che scrive Davide Martinelli, arrivato anche lui fuori tempo massimo. Un messaggio che si conclude con un attestato d'amore:
"Comunque sia volevo arrivare a Roubaix a tutti i costi e ce l’ho fatta, il boato della gente all’entrata del velodromo ha ripagato tutti gli sforzi! Se penso che tra qualche mese saremo di nuovo su quelle pietre mi viene un po’ il ribrezzo, ma per ora non ci voglio pensare, ora come ora odio il pavé, ma sicuramente tra qualche giorno tornerò alla mia idea iniziale: cioè che la Parigi-Roubaix è un amore puro, la follia incarnata in una corsa su due ruote".
Verrebbe da dire: meraviglioso inferno.

Foto: ASO/Pauline Ballet


Il viaggio di Gianni Moscon

Alcuni personaggi, decisamente più importanti di chi scrive, hanno provato a spiegare come, rispetto alla conclusione di un'avventura, sia più importante lo svolgimento della storia. Ad esempio, per Thomas Eliot: "quello che conta è il viaggio e non la destinazione", e persino Einstein sosteneva come amasse viaggiare, quanto odiasse arrivare.

Cerchiamo parole di consolazione un po' per noi, per la verità ampiamente ripagati da quel finale di Sonny Colbrelli che ancora ci pensiamo e non ci rendiamo conto, ma soprattutto per Gianni Moscon e quell'impresa sfiorata e accarezzata come i capelli profumati di un amore adolescenziale.

Usare una metafora parlando di amore e profumi dopo la gara di ieri appare un po' azzardato, prendete Matteo Jorgenson - in fuga, poi a lungo col gruppetto di van Aert e poi immortalato in un fosso a espletare i suoi bisogni; parla di «Sei ore a mangiare fango e merda di vacca che mi hanno ribaltato lo stomaco. A volte la natura chiama e non si può fare altro che rispondere». Ma per un attimo abbiamo provato a uscire dal contesto.

E così che un pensiero Moscon lo merita. Se non altro perché è proprio questo il caso in cui vale più il viaggio (che poi un 4° posto alla Roubaix buttalo via) della destinazione. Più che l'emozione finale, uno dei punti è il crescendo e il misto di emozioni che abbiamo vissuto durante la sua prova.

Moscon che (forse) non ha espresso ancora del tutto il suo (enorme) potenziale: chissà che aver sfiorato la leggenda - perché di questo si sarebbe trattato - non gli dia nuova carica per una seconda parte di carriera che inizierà dal 1° gennaio 2022 in maglia Astana.

Ieri Moscon stava per realizzare qualcosa di enorme, e forse lo ha fatto. Partito lontanissimo dal traguardo con altri corridori, poi sempre attento a domare quelle pietre che su di lui, nonostante sin troppo leggero rispetto ad altri bestioni da pavé, sembrano cucite su misura. A poco più di 50 dall'arrivo, quando è rimasto solo dopo aver accelerato, abbiamo sognato e avremmo voluto fermare il tempo come un'istantanea.

E poi la foratura e la caduta: stamane sul giornale belga Het Nieuwsblad hanno scritto che la preparazione della bici di riserva non era l'ideale per guidare sulle pietre finali: sembrava che la pressione delle ruote fosse troppo alta. Il suo DS Knaven ha subito risposto: «Ma quale pressione errata: la bici di scorta era uguale a quell'altra. Semplicemente Gianni, dopo la foratura, era stanco morto. È un peccato perché oggi aveva dimostrato di essere il più forte in gara».

L'altalena di emozioni ci ha trascinato ribaltandoci lo stomaco come al povero Jorgenson e ci ha coinvolto nel vedere il distacco di Moscon scendere all'improvviso, poi di nuovo crescere per un attimo: mera illusione. Una volta dentro Carrefour de l'Arbre per lui ormai era finita.

Avrebbe vinto senza quei due problemi? Chi lo sa. Ci verrebbe da dire di sì perché il vantaggio era sostanzioso e stabile, ma mancavano ancora dei tratti a 5 stelle di difficoltà. E di bastarda come la Roubaix non c'è corsa. «Dopo la foratura e il cambio bici mi sono trovato a guidare oltre il limite e sono caduto. Sono stato un po' sfortunato perché se non vinci con queste gambe... certo magari non avrei vinto lo stesso, ma già essere protagonisti nella corsa più bella del mondo è qualcosa di unico». Ieri, come hanno spiegato diversi saggi, è contato più il viaggio che la destinazione. Più il come (ha corso) che il cosa (ha vinto). Ieri Moscon ha mostrato che credendoci e correndo in questa maniera, all'attacco come vuole il ciclismo degli anni 2020, e da leader, può sognare qualcosa di grande. E ovviamente noi con lui.


Genuino come Biniyam Ghirmay

Il padre di Biniyam Ghirmay non ha avuto dubbi su cosa dire al figlio, quando gli ha telefonato giovedì sera, prima della prova in linea Under23 al Campionato del Mondo di Leuven. «Ricorda di quando eri bambino», così ha iniziato a parlare il signor Ghirmay. Biniyam ha subito pensato ad Asmara, la sua città natale in Eritrea, quella in cui ogni domenica c'è una gara, quella in cui i bambini si sfidano a chi arriva prima a un punto prefissato. Come in tutte le città del mondo, in fondo, ma ognuno ricorda la propria.

E chiunque lo abbia visto venerdì pomeriggio, partire da una posizione arretrata in gruppo e recuperare uno a uno tutti coloro che si alzavano sui pedali davanti a lui, ha pensato alla leggerezza della bicicletta in uno di quei pomeriggi. Tutti ripresi e sorpassati, tranne Filippo Baroncini. Qualcuno dice che Ghirmay ha ancora il vizio di correre in fondo al gruppo e per questo talvolta perde l'attimo giusto, altrimenti chissà, forse poteva essere lì a giocarsela con l'azzurro. I suoi genitori gli hanno detto anche questo la sera prima: «Noi sappiamo che tu puoi conquistare una medaglia».

Argento. Primo ciclista eritreo a conquistare una medaglia ai Campionati del Mondo. Da non crederci, lo testimonia la testa di Ghirmay, scossa dopo il traguardo. Qualcuno ha pensato fosse un segno di risentimento per aver mancato il primo posto, lui ha spiegato che in realtà era un segno di felicità per il secondo posto conquistato. Un altro modo di leggere ciò che accade, forse un modo di mettere ogni cosa al proprio posto restituendole la giusta importanza. Come quando gli hanno chiesto se Peter Sagan fosse il suo eroe. «Non si può parlare di eroe, certamente però mi piace come ciclista e vorrei assomigliargli». Gli eroi sono altri e Biniyam lo sa.

Di sicuro, al ventunenne eritreo lo spunto veloce non manca e se la cava egregiamente anche su percorsi vallonati. Chiedete a Evenepoel che ha qualcosa da raccontare in proposito. Ghirmay ha affinato tattica e tecnica del suo correre in bicicletta al suo arrivo in Europa nel 2018. Come per molti ragazzi che condividono con lui le origini, per Ghirmay l'Africa non è solo una terra ma è senso di appartenenza.

«Sono felice per l'Eritrea e per l'Africa». Anche i suoi compagni sono felici per lui e quella soddisfazione è la soddisfazione di un popolo che continua ad aver fame di rivincita, di voglia di dimostrare, ma anche di musica, ballo e voci che si levano nelle piazze. È accaduto qualche sera fa a Leuven, con Biniyam, lì, sulle loro spalle. Ma Ghirmay non si è fermato qui. Ha detto un’altra cosa alle giovani ragazze e ai giovani ragazzi eritrei che vanno in bici: «La prossima medaglia sarà d’oro». Proprio nei giorni in cui è stato ufficializzato il mondiale in Rwanda nel 2025, perché l'Africa è sempre più una realtà. Dopo Kudus, Berhane, Gebreigzabhier, Teklehaimanot e Dlamini, dopo le prime gare e il Tour del Rwanda con tutte le persone riversate in strada, sempre come fosse la prima volta.

James Walsh, regista di “The King of the mountains”, che proprio su Daniel Teklehaimanot e sul ciclismo eritreo ha girato un film, ha raccontato a Cyclingtips: «Tutti noi giudichiamo un Paese in cui non siamo mai stati, per me questo documentario è stato un modo per andare in questo posto, provare a raccontarlo attraverso il ciclismo e lasciare che il mondo lo vedesse e scoprisse questa passione, questo talento genuino. Spero che sia solo un punto di partenza per le persone per saperne di più». Perché in Africa non si aspetta una medaglia per festeggiare, ma la festa è parte della libertà di ogni giorno, parte del poter andare ovunque in sella a una bicicletta.


Spingere Wout van Aert

Secondo, secondo, secondo, secondo, secondo. No, non ci si è incriccato il cervello e nemmeno incantata la tastiera. Se ci pensate bene il ritornello assomiglia al ruolino di marcia di Wout van Aert tra prove olimpiche e mondiali, appuntamenti iridati nel ciclocross e su strada: parliamo più o meno degli ultimi 12 mesi.
Due volte secondo nel 2020 ai Mondiali di Imola: prima nella crono dietro Ganna, poi pochi giorni dopo nella prova in linea, dietro Alaphilippe.
Secondo poi al mondiale di Ciclocross a Ostenda dietro van der Poel; secondo qualche mese fa a Tokyo dietro Carapaz, secondo domenica dietro Ganna. E più che un ritornello sembra diventata una sorta di maledizione per lui che in carriera, almeno quando si infangava con regolarità, le sue maglie iridate le ha vinte.
Ma quella di questa domenica è la medaglia d'argento che fa più male, perché spinto dal suo pubblico che a un certo punto goliardicamente faceva persino segno a Ganna di rallentare all'imbocco di una strettoia.
Spinto dall'idea di consacrarsi numero uno del ciclismo mondiale dopo aver vinto quest'anno 13 corse tra cui Gand-Wevelgem, Amstel, campionato nazionale in linea, 3 tappe al Tour e 2 alla Tirreno Adriatico.
Spinto da un motore che è un tutt'uno con la testa: chi la conosce la descrive come senza eguali. Un motore che gli permette di andare forte in salita, in pianura, in volata. Una testa che lo ha fatto ripartire dopo un incidente drammatico al Tour di un paio di anni fa. Che lo fa spingere oltre ogni limite, perché a trovarne di corridori che ieri lottano con Ganna, domani con Pogačar e Alaphilippe, dopodomani con van der Poel.
Alla fine della prova di domenica ha abbracciato Ganna, nonostante tutto, a dimostrazione dello spirito e del rispetto che trasmette il ragazzo di Herentals.
Si è dichiarato deluso, non poteva essere altrimenti, e ha aggiunto che da un punto di vista razionale perdere una crono per 5 secondi da un "super specialista", così lo ha definito, come Ganna, normalmente sarebbe una gran cosa, ma resta un argento che brucia, perché arrivato in casa e dopo essere stato in testa per due terzi di gara.
Dice, poi, van Aert che analizzerà la gara con calma da lunedì, ma che in realtà un'idea su dove ha perso la corsa ce l'ha: in un punto ha rischiato di cadere, e poi nel finale, tra Damme e Bruges, Ganna ha spinto nettamente più forte.
Domenica, tra i tanti corridori al via, abbiamo già trovato per chi simpatizzare: nessuno ce ne vorrà. Abbiamo trovato chi spingere con forza verso il traguardo per vederlo a braccia alzate - se proprio non dovesse essere qualcuno in maglia azzurra.
Siamo schietti, un Wout van Aert iridato non ci dispiacerebbe. O almeno che non arrivi di nuovo secondo, ecco.