Un fattore esaltante, catalizzante
Lo conosciamo così e in nessun altro modo. Quando sta bene, in bicicletta vuole solo andarsene. Il gusto dell’avventura solitaria è il motore che lo spinge, le sue azioni sono paragonabili alla sete di conoscenza. Conosce e ama questo sport, Tadej Pogačar, assorbe e ogni anno si rimette in gioco. Ogni anno e in ogni corsa. Conosce il piacere che provocano le sue azioni, anche qualche prurito, si sa; è ben cosciente di come lui e pochissimi altri abbiano in questo momento in mano il potere di trasformare l'idea in forza catalizzatrice per rimettere il ciclismo al centro del discorso. In Italia è complicato, se non impossibile, ci si può provare, ma i risultati sono scarsi: sono ormai più di vent’anni e non sono bastati un paio di ottimi corridori come Nibali e Ganna a rilanciare, il dopo Pantani è questo. Noi Pogačar, dalle nostri parti, lo abbiamo visto - Strade Bianche - lo vedremo fra qualche giorno - Milano-Sanremo - e poi ce lo godremo tutto al Giro d’Italia, dove, imprese come quelle di settimana scorsa alla Strade Bianche saranno gioia e dolore della Corsa Rosa. Rischierà di ammazzarla, ma allo stesso tempo sarà un fattore esaltante, catalizzante, sarà un gesto di spessore vedere il suo atto carnale in sella alla bicicletta. Il suo sorriso, anche, come successo verso Siena, anche perché la sua sofferenza l’abbiamo già percepita al Tour contro Jonas Vingegaard Hansen: avrà pensato come sia meglio prendersi tutto il prendibile da subito, poi al resto ci penserà, ci penseremo. Lui, van der Poel, Evenepoel, van Aert, nessun altro (non ce ne vogliano il pur fortissimo Pedersen, il ritornante Bernal), sono loro che bramiamo vedere correre, sono loro che hanno spinto il ciclismo di nuovo in alto, che ci fanno maledire le dirette che partono alle 14 invece che tre ore prima. Abbiamo pensato: vi sareste immaginati se il gruppo fosse andato un po’ più forte alla Strade Bianche prima di imboccare Sante Marie? Ci saremmo persi l’attacco di Pogačar, per l’anno prossimo bisogna porre rimedio in qualche modo. Tuttavia, Pogačar. Uno che ama e rispetta il ciclismo, che a volte sembra prenderci per i fondelli, che scherza così tanto da sembrarci quasi costruito, ma in realtà lui è questo. Uno che fra qualche giorno, alla Milano-Sanremo, potrebbe pure inventarsi qualche diavoleria atta a negare il canovaccio. Uno come Pogačar. Unico. Come quando prende e parte, se ne va.
Štybar bedankt
L’ultima pietra, quella della Roubaix, Zdeněk Štybar non è riuscito a portarla a casa. Una carriera, su strada, con un chiodo fisso: vincere L'Inferno del Nord. Lo spazio, in bacheca, l’avrebbe trovato: quello spazio sembrava pronto per essere riempito già nel 2013, 6° dopo essere stato in lotta con i migliori. «Ero davanti con Cancellara e Vanmarcke, avevo le mie chance, sono veloce e ho pensato di farcela. Ho urtato uno spettatore, o era un fotografo, poco cambia, se non che ho perso l’attimo giusto. Cinque secondi, forse dieci…» ed ecco che il treno buono se ne va. Arriva sesto ma con in testa il pensiero di tornare a vincere. Nella stagione dopo, ormai una vita fa, Zdeněk Štybar c'arriva fresco del suo terzo titolo mondiale nel ciclocross a Hoogerheide, il primo lo aveva conquistato proprio a Tabor nel 2010, a Tabor dove, pochi giorni fa, ha certificato il suo addio al ciclismo. In quella Roubaix vinse Terpstra («ho vinto, come compagno di squadra, la Sanremo di Alaphilippe, la Roubaix con Terpstra e Gilbert, il Fiandre con Gilbert, mi ritengo soddisfatto da questo punto di vista») e Štybar chiuse 5°, dopo avere difeso in tutti i modi l’allungo del corridore olandese; fu 2° la stagione successiva, forse il miglior Štybar mai visto su quelle strade, dove riuscì a portare ai massimi la sua attitudine cresciuta a pane e fuoristrada: venne battuto in volata soltanto da un John Degenkolb in stato di grazia, che poche settimane prima aveva trionfato alla Milano-Sanremo. Nel 2016 la Roubaix la disputò nonostante fosse ammalato, durante la gara gli sembrò di essere uno di quei marinai imbarcati senza una data di ritorno: sconfortato e pieno di nostalgia di casa. Roubaix non fu mai così lontana, così dura, travolgente come un destino infame che ancora una volta gli volse le spalle. E nel 2017, ancora 2°, arrivò per l’ultima volta così vicino (fu 9° nel 2018 e poi 8° nel 2019, sempre però a distanza dai primi) a portarsi a casa quel pezzo da museo, battuto allo sprint da Greg Van Avermaet, precedendo Langeveld, Moscon e Stuyven quest’ultimi due piombati sul terzetto davanti soltanto una volta entrati nel velodromo. Ha vinto una Strade Bianche, la corsa che più si avvicina a quello che è sempre stata la sua predilezione, amava il Fiandre per la sua atmosfera, ma sui muri fiamminghi non è mai riuscito a esprimersi come voleva: tre volte nei dieci con il miglior risultato l’8° posto del 2016.
Per l’addio alle corse, Zdeněk Štybar, elegante in bici come ai microfoni, ha scelto proprio il suo primo amore, il ciclocross, ha scelto proprio la corsa di casa, Tabor, ha scelto quel tipo di competizione, il Mondiale, vinto tre volte, che lo ha consacrato, nei primi anni del 2010, come uno dei più forti interpreti della disciplina. Ha chiuso in lacrime, con gli occhi gonfi così, prendendosi la giusta ovazione del pubblico, dicendosi dispiaciuto per non aver trovato un contratto per questa stagione su strada: «Ma tra un’operazione al cuore, una all'arteria iliaca, il Covid avuto quattro volte, capisco sia andata così. Peccato, perché ho sempre lavorato duro per tornare ai miei livelli e non ero pronto per chiudere già quest’anno». Avrà tempo, però, per dedicarsi ad altro. «Prenderò uno zaino e partirò sei mesi in solitaria in India dove cercherò delle risposte che probabilmente non avrò, ma di sicuro troverò la pace. Poi mi dedicherò interamente alla mia famiglia prima di prendere una decisione sul mio futuro. Gli ultimi anni sono stati duri, non solo per me, ma anche per casa, e ora è tempo di dedicarmi completamente a loro. Mia moglie ha avuto problemi di salute, ha abortito due volte e pochi mesi fa ha subito un intervento chirurgico. Per diversi motivi la nostra relazione ha sofferto seriamente, ma stiamo insieme da vent’anni e abbiamo deciso di andare avanti: sarebbe un peccato se dicessimo: “ora basta”». E poi c’è anche il loro figlio a cui è stato diagnosticato l’autismo e che lo ha seguito proprio a Hoogerheide qualche settimana fa, nella sua penultima uscita nel ciclocross a livello internazionale. «È stato un momento magico, quando inizialmente gli ho chiesto di venire mi ha risposto fermamente di no, credo che tutto ciò abbia a che fare con la folla e con il fatto che tante persone si fermano a parlare. Poi ha deciso di venire ed era felicissimo». Ci mancherà la sua classe, grazie Štybi, ma come pare, stando ai si dice, ci vedremo presto in ammiraglia.
Angelo Furlan: un ex non convenzionale
Era un giorno come un altro, uno di quei giorni in cui i velocisti fanno "la rete", ovvero si ritrovano nel gruppetto che resta in fondo al plotone e arriva al traguardo con minuti e minuti, talvolta mezz'ore, di ritardo. Angelo Furlan era nella rete e, tra gli altri, assieme a lui c'era Mark Cavendish, Campione del Mondo in carica. Proprio "Cannonball" lo affianca ed inizia a parlare:
«Angelo, vorrei proprio essere come te!»
«Ma stai scherzando, Mark?»
«No, no, sono sincero, io vorrei assomigliare a Furlan»
«Sì, dai, piantala! Guarda che maglia hai addosso. Io non l'avrò mai, perché dici queste cose?»
«Vorrei essere allegro e spensierato come te, con la tua stessa grinta»
Di storie simili, in realtà, Angelo Furlan potrebbe raccontarne molte, perché nel gruppetto sono sempre accadute e lui le ha vissute, «dalle strade del Guggenheim Museum di Bilbao, all'arrivo a Parigi, sotto la Tour Eiffel, fino ai confini della Serbia, passando per i rubinetti dorati del Qatar, sino agli anfratti più remoti delle terre in cui pedala il plotone». La bicicletta è diventata il suo punto di vista sul mondo, dagli otto ai sedici anni su una BMX, dai sedici ai trentasei su una bicicletta da corsa: uno sguardo che Furlan assimila ad una forma di arte e che non ha mai voluto perdere, smarrire, in ruoli che non gli corrispondevano. Sarà per questo che si è sempre definito "ciclista non convenzionale", di quel "non convenzionale" convinto, ma educato, come dice lui, lontano da ogni lamentela: «Nel 2005 ho percorso lo Zoncolan con le ruote alte, mi guardavano tutti e dicevano: "Guarda che stupido!". Era una scelta che veniva dal mio passato in BMX, legata alla multidisciplinarietà, quella che piace tanto, anche a me, in Peter Sagan, in Wout van Aert ed in Mathieu van der Poel. Loro arrivano fra i primi, io fra gli ultimi, questa è la differenza sostanziale, per questo la mia pareva una sciocchezza. Non mi sono conformato, ho continuato ad usare quelle ruote, convinto che fosse bello e giusto così, ma non ho nemmeno protestato per il fatto di non essere capito. Ero convinto, ho proseguito in quella strada. Mi piace dirlo ai più giovani, questo è l'essere non convenzionali di cui credo si abbia bisogno. Nel ciclismo e non solo». Un modo di essere in cui ci sono tutte le cicatrici del suo lavoro, «di un potenziale ottimo centometrista che si mette a correre la maratona, non avendone gli strumenti» come ci confessa, e la serenità, la spensieratezza, almeno apparente, che, quel giorno, nel gruppetto gli ha invidiato Cavendish. Entrambe caratteristiche che vengono dalla prima infanzia: i giorni di Natale trascorsi con la famiglia, «tra cugini e parenti vari eravamo più di cinquanta, parlavamo di ciclismo», e la scuola che non gli piaceva, dove i risultati non arrivavano, fino al giorno in cui i suoi genitori l'hanno preso da parte. «La scuola non va, abbiamo capito. Scegli cosa vuoi fare della vita. Il ciclista? E ciclista sia. Ma lì devi andare fino in fondo».
«Se sei velocista sai che il gruppo lo vedrai spesso dalle retrovie. Hai qualche minuto di gloria nelle volate: se vinci, hai fatto il tuo dovere, se non vinci, è perché non ti alleni abbastanza. Trecento giorni di allenamenti per quel minuto e per provare a salvarsi in salita. La cicatrice è quella. La cicatrice è quel morire ogni volta in salita e tirare fuori quel 10% in più per arrivare lo stesso. Un dolore diverso da quello di uno scalatore che non tiene le ruote. Qualcosa che fa parte del tuo destino e che non ti togli più. In gruppo sei quello simpatico, che fa ridere, che tiene compagnia mentre si combatte con il tempo massimo. Ai miei tempi, era così, ora, per fortuna le cose stanno cambiando. La leggerezza è, invece, in quei pranzi e in quelle cene a casa, in quello che hai capito in quei momenti». Allora Furlan si è detto che tutte queste esperienze, queste riflessioni, avrebbero dovuto servire a qualcosa: è nato così "Angelo Furlan 360". Un insieme di attività legate al ciclismo e fuori dagli schemi classici: iniziando dal Lounge a cui si accede attraverso parola chiave e si chiacchiera di ciclismo, passando per la Bike Academy per i più giovani o per la "Danza sui pedali".
Si parte dall'Academy in cui si prova a giocare con la bicicletta in maniera strutturata, creando un patrimonio motorio, imparando le caratteristiche aeree del salto, la capacità di pedalare su un terreno difficile in salita, la coordinazione su pista, la curva su terreno sconnesso, il modo di guidare la bici su ghiaia e così via: «L'idea è di accendere scintille in bambini dai sette ai dodici anni e chissà che qualcuna non possa diventare fuoco e divampare. Quando parlo di multidisciplina, intendo un fatto che vada ad agire sull'aspetto coordinativo, su un patrimonio che resta al ragazzo, non solo su un fatto prestazionale. Tenere i giovani a tutta tutto l'anno, facendo solo cambiare disciplina, guardando solo le prestazioni, rischia, al contrario, di allontanarli definitivamente dallo sport». L'esperienza più comune è quella di una pedalata nel bosco, per riscoprire colori, profumi, odori, sensazioni e riappropriarsene. In una passeggiata simile, suo figlio, post lockdown, gli disse: "Che bel quadro", mentre lui e la madre raccontavano che quella era la realtà: «Fondamentale, necessario, è tornare alla base, alla radice, ed i bambini, anche se la società tende ad allontanarli, riescono a mettere molto bene a fuoco le cose che sorprendono, per poi trasmetterle anche a noi che, spesso, come adulti siamo impegnati in mille faccende e rischiamo di svegliarci una mattina scoprendo che i nostri figli sono cresciuti. La strada è a duecento metri, ma i più piccoli non lo sanno e devono trovare una via per tornare a casa, per andare all'arrivo. La prima fase è il capriccio, poi la disperazione, la rassegnazione e, a quel punto, la fase di crescita. Si affronta il problema, tutti assieme, su una bicicletta». Sempre partendo dall'esempio, dal modo di agire di fronte alla fatica ed alla difficoltà.
Questo è il principio guida nel lavorare con i giovani: un percorso complesso, per cui bisogna prestare ancora più attenzioni: «I volontari servono, sono indispensabili, altrettanto però sono necessari lo studio e la preparazione, perché in quegli istanti si stanno trasmettendo anche importanti basi tecniche, pur nella leggerezza che permette ai ragazzi di assimilare quel che si spiega». Si comprendono così le cicatrici e si affrontano, restano nei ricordi e non vanno sprecate. Angelo Furlan ricorda bene una tappa di una corsa francese, quando l'asma lo colpì in corsa, per la prima volta: iniziava a nevicare, faceva freddo, gli pareva impossibile continuare, il medico gli si stava avvicinando. «Al limite, anche oltre il limite, il cervello innesca le reazioni più strane: la musica, ad esempio. Una musica a caso che ti arriva in testa, una sorta di analgesico naturale, per darti il ritmo che ti manca. Non credo di essere unico, è una reazione che può capitare». Qualche minuto, una mano davanti alla bocca, qualche colpo di tosse e, piano piano, la tosse se ne va. Mezz'ora dopo si lancia in volata: quarto. Ancora una volta salvo da quelle cicatrici. Nella "danza sui pedali" c'è tutto questo.
La musica, inizialmente, è un metodo per fare i rulli, il momento più difficile per un ciclista, quello più noioso, successivamente, Furlan associa alla musica i suoi istanti in sella: la concitazione di una volata, la fatica di una salita, l'adrenalina di una discesa e sui pedali cerca di trasmetterli a chi pedala con lui, in presenza o in collegamento. «La bicicletta è ritmo, il ciclismo è ritmo. All'esterno pare che si stia solo ascoltando musica e pedalando seguendo i miei incitamenti, in realtà è una trasmissione di vissuto, è un lasciapassare delle sensazioni che fa bene alla quotidianità di tutti i giorni. La profondità di certi istanti in sella, a mio avviso, deve servire a traghettare e a tradurre emozioni, di cui conosciamo bene l'intensità. Lì c'è l'arte, dobbiamo provarci almeno».
Per questo, Angelo Furlan confessa che, negli ultimi anni di professionismo non vedeva l'ora di smettere, per confrontarsi con altre realtà, per crescere e conoscere ancora e, magari, mettere a disposizione di chi avesse avuto voglia di ascoltare e pedalare quel che aveva visto in giro per il mondo. Angelo Furlan, sì, quel ciclista non convenzionale
Un negozio di bici, montagne, le strade di casa: intervista a Francesca Barale
L'ultima lunga chiacchierata con Francesca Barale era stata più di due anni fa, così, quando ci si ritrova, nelle interviste, come in qualunque altra circostanza di vita, accade di fare il punto su quel che, nel frattempo, è successo: ciò che è cambiato e ciò che è rimasto uguale. Nel 2021, era un giorno d'estate, "appiccicoso" di caucciù, come avrebbe cantato Paolo Conte, poco dopo la cronometro dei Campionati Italiani junior, a Faenza, con una maglia tricolore appena indossata. I primi cambiamenti, a dire il vero, non serve nemmeno raccontarli, sono evidenti: in quei giorni Barale faceva parte del VO2 Team Pink, ora, veste da due stagioni la maglia del Team dsm-firmenich PostNL e, soprattutto, corre con le élite. Le prime cose di cui parla Francesca Barale sono consapevolezze: racconta di essere certa di sapere, adesso, cosa voglia dire essere atlete professioniste e di aver capito, sempre di più, cosa sia necessario per arrivare dove certi atleti arrivano. Ammette anche di essere un poco cambiata, ma non tornerebbe indietro, ed il passaggio in una squadra straniera l'ha aiutata ad aprirsi, a capire meglio il suo sport. «Se devo essere sincera, a grandi linee, questi aspetti li ho sempre conosciuti, ma, nella teoria, non consideravo molte sfaccettature. Ero convinta che, in fondo, il passaggio da junior ad élite sarebbe stato sì difficile, ma accettabile. Invece è cambiato tutto, ogni dettaglio è divenuto essenziale. Forse perché sono sempre stata forte mentalmente, ma io ero davvero una di quelle atlete convinte che la testa non contasse e che servissero solo le gambe. In Italia siamo ad un ottimo livello, però su questi aspetti dobbiamo ancora crescere ed il mio era un pensiero di molti. Credo che i problemi che ci sono da noi, l'assenza di squadre World Tour, ad esempio, derivino anche da una concezione dell'atleta incompleta. Fino a quando le cose vanno bene la si pensa così, quando, invece, ti stacchi, non tieni le ruote e non ti riconosci più, sei costretto a cambiare idea, a capire che se non ci credi, se non hai fiducia in te stessa, non ci sono gambe che tengano». Le parole chiave di una atleta sono, quindi, fra le altre: sacrificio, dedizione, allenamenti e fiducia. Nel caso di Barale, poi, ce n'è anche un'altra che le permette di affrontare tutto questo: cinismo. Quello buono.
Spiega Francesca che spesso si ritiene il cinismo solo e soltanto un aspetto negativo, invece c'è una componente utile. Si tratta del riuscire a fare quel che è necessario fare, al momento giusto, concentrandosi solo sulla propria persona, senza molti altri dubbi e nel ciclismo è fondamentale. Barale vive a Domodossola, nel Verbano Cusio Ossola, circondata dalle montagne, dice che gli abitanti di quelle zone sono tutti abbastanza "montagnini", e l'essere "montagnini" vuol dire, talvolta, vedere il bianco e il nero, senza troppe sfumature. «A casa non torno spesso, purtroppo, ma sono molto fiera del luogo dove sono nata e cresciuta, della valle e del lago. Lì ci sono le salite che ho sempre fatto in allenamento: capisco esattamente come sto, dalle strade che faccio. Mi piace la valle, mi piace il lago». Le salite di cui parla la ventenne sono quella di Trontano, «ma più per divertimento che per vero e proprio allenamento», piuttosto che quella verso il Boden, a Ornavasso, o quella di Miazzina, verso Verbania. Salite dure, toste, su cui si possono fare molti lavori. Le stesse salite di Elisa Longo Borghini e Filippo Ganna, ragazzi della sua terra che ce l'hanno fatta, sono campioni. «Longo Borghini è da sempre stata la mia ispirazione, quando penso a casa, tuttavia, non avverto paragoni o confronti. Mi viene in mente il negozio di biciclette di papà Florido, in cui sono letteralmente cresciuta». Florido Barale è stato ciclista professionista e, dopo aver smesso, ha ricostruito la sua quotidianità in quel locale. All'inizio c'erano anche molti consigli per la figlia, ora il suo appoggio è più a livello emotivo perché Francesca è arrivata ad uno step importante, in cui anche un padre ex ciclista può fare poco.
E quella figlia divenuta ciclista professionista viaggia sempre di più, sempre più lontano. Al Santos Tour Down Under, a inizio stagione, ha messo su strada una buona prestazione, in cui sperava, ma in cui, forse, non credeva fino in fondo. In particolare sono state la prima e la seconda tappa a dare segnali positivi: un quarto e un sesto posto, su terreni mossi, adatti alla potenza e all'inventiva e lei quello spunto lo ha, sebbene tutti la definiscano scalatrice. A Willunga Hill, nell'ultima tappa, forse, si è trovata meno a suo agio di quanto potesse pensare: «In ricognizione mi sembrava nulla di che, certo, intensa, ma sono tre chilometri, dieci minuti di sforzo, complicati dal vento. Penso sempre più che debba scoprire che tipo di ciclista sono, le mie vere caratteristiche, sono giovane, in fondo. Vado bene un poco ovunque ma non spicco in nulla. Non è un male, ma fare chiarezza è necessario, soprattutto diventando grande». Quest'anno vorrebbe testarsi sui percorsi delle classiche: sente un feeling particolare per le Ardenne, il Fiandre è un pensiero, ma con le pietre deve ancora prendere la necessaria confidenza. In ogni caso vuole percorsi tosti per esprimersi. «Ho scelto di indirizzarmi verso le corse di un giorno, ma anche nelle corse a tappe farò le mie verifiche. Fino ad ora sono sempre stata in appoggio di qualche compagna e lo sarò anche quest'anno: anche questo va considerato quando si parla di potenziale. Non so correndo come leader cosa potrei fare». Per diventare leader crede di dover, in primis, smussare alcuni lati del suo carattere, l'essere lunatica, ad esempio: «Quando le cose vanno male, sono intrattabile, non mi può parlare nessuno e una capitana non può e non deve fare così». I ruoli nel Team dsm-firmenich PostNL sono stabiliti all'inizio e sono rigidi, chiunque li rispetta: «I risultati che otteniamo derivano anche dal fatto che ciascuno sa quello che deve fare e lo fa. Alla partenza so esattamente che nessuno cambierà idea ed i dettami resteranno quelli iniziali. Questa certezza fa la differenza, perché il ciclismo è uno sport di squadra e in dsm-firmenich PostNL l'ho capito sempre più». Una squadra giovane, in cui anche le pressioni si sentono meno, grazie alla leggerezza dell'età.
Al Down Under la maglia bianca di miglior giovane è sfuggita all'ultimo, proprio a Willunga Hill, a vestirla Vinke Nienke, diciannove anni, seconda di quella frazione, sua compagna di squadra: «Si impegna molto ed è giovanissima. Tra l'altro, riesce a essere sempre calma, razionale, è l'opposto di me. La stanno facendo crescere piano piano e sono convinta che, fra qualche anno, la troveremo a giocarsi le grandi corse a tappe». Tempo fa, Barale pensava che, una volta smesso, avrebbe cambiato totalmente campo e avrebbe cercato un lavoro fuori dal ciclismo, oggi, invece, pensa che resterà nel suo ambito, perché tutt'ora, nonostante la fatica non le sembra di lavorare, perché si sente fortunata e perché grazie alla bicicletta ha vissuto e sta vivendo cose che non avrebbe mai pensato di vivere.
Le cose del cuore
Succede sempre così nel ciclismo. C’è l’attesa che per un attimo trasforma tutto in silenzio: lo conosciamo quel momento. Accade quando ti guardi dentro e cerchi una risposta. Che tu sia su una bici a patire il piacere del dolore, oppure a bordo strada ad aspettare i corridori appagati dalla sofferenza altrui: non è una forma di sadismo ma di empatia.
C’è il silenzio collettivo, di massa. Silenzio che ti tormenta e diventa bisbiglio, quasi un ronzio, prima di mutare, in un attimo, in quella sensazione che provano a descrivere nei film con una particolare tecnica legata al sonoro: è un frastuono, silenzioso tormento che si trasforma estasi. Non è ipercomunicazione che snatura il modo di essere, ma è il silenzio che ora si rumore assordante, è la festa che si riappropria di tutto, degli spazi e del tempo.
Succede così per ogni vittoria di Tadej Pogačar che, per un appassionato, è un piacere, una cosa-del-cuore. Ogni suo scatto supera la normale sofferenza, squarcia l’oblio, distrugge quell’attimo. Appaga. Probabilmente c’è una particolare parola in tedesco per spiegare tutto questo, beati loro che hanno la capacità di riassumere tutto in un termine. Forse ci sarà anche in sloveno, ma non la conosciamo: ci accontentiamo di vedere Tadej Pogačar attaccare, che sia sulle pietre del Fiandre, sul Poggio di Sanremo, sulle lunghe salite francesi o sui colli lombardi, non importa.
A ogni corsa ci sono le braccia dei tifosi che cercano di agguantarlo, quasi di strapparlo via dal suo cavallo-mezzo. Telefonini che volano in aria sbattuti lì in faccia ai corridori come innaturale prolunga del corpo umano. Bottiglie di vino, cappellini, maglie, bandiere. C’è chi ti domanda se corre ancora Battaglin o se Carapaz passerà in maglia rosa. C’è quella sua bici: Pogačar addomestica il mezzo per farne una parte di sé, pur nel suo essere gioviale sceso di sella, è un combattente delle due ruote, ve lo riuscireste a immaginare in un’altra maniera se non vincente, scattante in sella alla sua Colnago? Nato e cresciuto per fare questa cosa qua. Nulla di più.
Il cielo di questo ottobre 2023 è un giallastro paglierino e solo quando il gruppo ha superato il Passo di Ganda si inizia a fare più blu. In mezzo al bosco si fa il ritmo, si scandisce come un tam-tatum-tam-tatum. Il gruppo sembra una nave che risale l'Amazonas e in testa risuona la musica lirica di Enrico Caruso. C’è il sibilo delle catene ben oliate, c’è il ronzio delle radioline, lo stridere dei freni lo lasciamo alla temibile discesa giù dal Selvino dove sbagliare significa rischiare di fare un brutto volo. I rami degli alberi inneggiano all’arrivo di un autunno ancora leggermente sbiadito, a volte coprono gli sguardi dei corridori, altre sono una perfetta cornice a dei bizzarri e inquietanti quadri contemporanei creati dall’intelligenza artificiale. La stringa dice: “ciclista che scatta in salita e tutto intorno alberi, pittura contemporanea”. Le maglie UAE si nascondono come una tribù che ti osserva dietro le fronde, e poi come d’incanto attaccano. Davanti al gruppo, Quick Step e Jumbo Visma: fino a poche ora prima sembravano sul procinto di diventare una cosa sola, ma ora, in provincia di Bergamo, non fanno più prove generali sul futuro, piuttosto gettano in concreto sulla strada tutto quello che hanno. Da una parte si pensa di lottare per Evenepoel, Alaphilippe, perché no Van Wilder, ma d’improvviso è il momento di Bagioli. Dall’altra tutti uniti per Primoz Roglic alla sua ultima gara in giallonero, promesso sposo alla BORA-hansgrohe.
Ci prova Adam Yates su questo Passo di Ganda, il gemello allunga ed è solo l’anteprima sui nostri schermi. Un trailer dove si vede un uomo UAE fare l’andatura davanti. Quando si stacca Pogačar pensi: sogno o bluff? Non si capisce in verità: poiché rientra con un balzo non c’è tempo di perdersi in elucubrazioni. E quando riparte, ormai il gruppo si è già accartocciato su se stesso come una lattina piegata con la sola forza della telecinesi. Restano in pochi. Con loro Pogačar, oppure Tadej, oppure Pogi, ormai è diventata consuetudine chiamarlo con diversi nomi: a furia di vederlo entrare nelle nostre case tramite quelle sue azioni e la sua maglia bianca al Tour (che dall’anno prossimo non vestirà per sopraggiunti limiti di età, come vola il tempo!). Spinge forte con ogni parte del suo corpo, mentre chi gli sta dietro arranca, si attacca con ogni mezzo lecito alla sua bici. C’è di nuovo quell’attimo di calma su in cima. Lo riprendono. Sono ancora meno di quei pochi. Ci si guarda, di nuovo, ci si avvicina e ci si annusa come segugi che fanno tra di loro conoscenza. Uno sguardo tira l’altro, uno scatto, tira tu, sembrano dire i superstiti in testa. Poi parte di nuovo Pogačar. Dove non possono gambe che non sono certo le migliori della stagione, può l’astuzia.
Tadej Pogačar nel 2023 ha conquistato, giova ricordarlo: Giro delle Fiandre, Parigi Nizza, Amstel Gold Race, Freccia Vallone, podio al Tour e al Mondiale, soltanto due settimane dopo, eppure è arrivato a Il Lombardia con l’idea di vincere ancora. Nonostante il dolore che provoca la stanchezza.
Non è al meglio, non puoi umanamente essere al 100% dopo una stagione così, arrivato alla prima settimana di ottobre. Nemmeno al 90%, forse sarai intorno all’80%, ma giusto perché sei Pogačar. Non è al meglio, ma tra Passo di Ganda e Bergamo vola, squarcia quell’attesa sull’ultima salitella prima del traguardo.
Le braccia dei tifosi, quando la strada ricomincia a salire e allo striscione d’arrivo manca sempre di meno, non cercano più di strapparlo via, ma sono tese, il palmo spalancato per dare un cinque, una spinta, se possibile, dopo aver sofferto insieme a lui: pochi minuti prima di affrontare il Largo di Colle Aperto, infatti, a Pogačar vengono i crampi e alla corsa un sussulto, ai suoi tifosi algofobici, smarrimento.
Per un attimo le carte paiono potersi mescolare ridando un senso di incertezza a una gara che pareva già segnata soltanto pochi chilometri prima. Quel dolore passa. Quel silenzio si fa rumore. Pogačar gestisce. Citando Byung-Chul Han: «Non glorifico il dolore, tuttavia senza di esso la nostra esistenza sarebbe incompleta». Pogačar spezza quella gabbia, verso la libertà e oltre, verso il traguardo di Bergamo, verso il terzo Lombardia. Il primo accoppiato con il Fiandre, come Kuiper e van Looy, come nemmeno Merckx. Succede sempre così nel ciclismo. Ci si sbatte, si supera il dolore, poi quando vince Tadej Pogacar diventa una cosa-del-cuore.
L'UCI Track Champions League di Francesca Selva
«Quei cinque anni in giro per i velodromi del mondo sono serviti, ne è valsa la pena». La telefonata era arrivata mentre Francesca Selva stava impacchettando la bicicletta per una gara e, per alcuni istanti, dopo aver chiuso la chiamata, non era riuscita a fare altro che abbracciare ripetutamente sua madre e suo padre, mentre piangeva, forse rideva, senza dire nulla, senza spiegare cosa fosse accaduto. Ora che tutti sappiamo, perché è già successo, perché l'abbiamo vista, che, dall'altra parte del telefono, quel giorno, le avevano annunciato che avrebbe preso parte alla UCI Track Champions League, lei ripete più volte quella stessa frase e prosegue: «Direi che era un sogno, ma, la realtà, è che non poteva neppure essere un sogno, non per me almeno. L'anno scorso ci avevo provato, quest'anno no. Sono disponibili diciotto posti per ogni gara e dodici di questi vengono dai Mondiali, gli altri sono affidati alle wild card. Per chi ha fatto il mio percorso, essere scelta in quel modo ha un'importanza notevole, in grado di dare risposte a molte domande». Da quel giorno, allenamenti su allenamenti, perché, ora che c'era l'opportunità, lei non poteva mancare, lei doveva fare ancora di più, sempre di più. In fondo, è questa la realtà dei ciclisti, non a caso, anche oggi, quando parliamo, al termine dell'allenamento, la prima cosa che ci dice è: «Sono sfinita. Avrò fatto sessantasei volate: durante le ultime due credevo proprio di svenire, invece le ho finite tutte, la stanchezza passerà».
Allenamento su allenamento, ancora, nonostante la Champions League sia finita. Proprio in mattinata, parlando con un amico, spiegava che, quando ci si accorge del tratto di strada che manca per arrivare al traguardo, soprattutto quando la strada è ancora molta, ci sono solo due possibilità: lasciare perdere oppure proseguire. E, se si sceglie di proseguire, nonostante l'obiettivo sia ancora molto distante, bisognerà essere disposti a mettersi in gioco come non mai. Detto-fatto. Che Francesca Selva stia facendo quel che le piace, quel che vuol fare, è quasi ovvio: pedalare è la sua passione, la conoscenza delle persone e del mondo, che ha accumulato negli anni in giro per i velodromi, è il contorno perfetto di quella bicicletta, che affronta le leggi della fisica, ma, quando parla di percorso, Selva aggiunge qualcosa ed è proprio quel qualcosa che l'ha fatta reagire così al telefono, lo stesso qualcosa che le ha fatto parlare così all'amico: «Il mio non è un lavoro: non ho alcun compenso per quel che faccio, non l'ho mai avuto. Per poter correre, ho sempre fatto altri lavori: le risorse che adopero per finanziarmi, sono quelle che ho risparmiato. Forse, un domani, avrei potuto pensare di usare quei risparmi per comprarmi una casa, lo so bene e, ogni tanto, ci penso, mi faccio tante domande. Se nulla cambierà, verrà il giorno in cui quei risparmi non basteranno più e dovrò tornare a lavorare: se accadrà, almeno saprò di non avere rimpianti. La realtà è che non sono mai stata una professionista nel senso classico del termine, rispondo solo a me stessa, da tutti i punti di vista. Avendo lavorato e pedalato contemporaneamente conosco ciò che significa: serve il triplo dell'energia e può non bastare. Non c'è nessuno che ti chieda di allenarti, che controlli i tuoi allenamenti, ma se non li fai, se non li fai al meglio, non vai avanti, sprechi tempo e occasioni, mentre tutti i risparmi se ne vanno e tu resti immobile. Però, nonostante questo, per me il ciclismo non è mai stata un'abitudine, ho sempre voluto salire su quella bicicletta. Dico di più: il giorno in cui non dovessi più volerlo, smetterei». Allora, con queste premesse, possiamo partire anche noi, nel racconto, per la UCI Track Champions League.
Una partenza complessa, perché, ben presto, la felicità di essere stata scelta, non basta più. Il livello è molto alto, il formato di gara differente, come i rapporti che è necessario spingere, rapporti che, solitamente, non spingono nemmeno i colleghi uomini nel quartetto, di conseguenza le velocità aumentano, le gare sono più corte. Selva ha fatto un grosso lavoro a livello fisico e metabolico, si è allenata all'aperto, in quanto il velodromo di Montichiari non era disponibile: «L'asticella era posta molto più in alto. Normalmente giravo a cinquanta chilometri orari e sprintavo a cinquantacinque, lì si girava a sessanta e si sprintava a sessantacinque. In queste condizioni, risulta subito evidente chi corre per vincere e chi, invece, deve accontentarsi di partecipare, facendo un'altra gara. Ho capito subito di non poter competere, di dover solo partecipare e mi ha fatto male perché una atleta vuole almeno provare a conquistare la gara a cui partecipa». Accanto a lei c'è Miriam Vece, si conoscono da tanto, ma il rapporto si stringe in queste settimane, ci si confronta, ascolta i suoi consigli, prova a sdrammatizzare, a non pensarci, non ci riesce. Una sera, inizia a scrivere, per lei è sempre stato così: nella mente è tutto confuso, sul foglio le idee prendono forma, si chiarificano. Questa volta, poi, la scrittura è su un social e chi legge la cerca, le manda un messaggio: «La maggior parte delle persone mi hanno scritto che avrebbero pagato per essere al posto mio, anche solo per poterci essere, a prescindere da tutto il resto. Lì ho capito che stavo sbagliando, che, a parti inverse, avrei detto o pensato lo stesso. Dovevo godermela, apprezzare quel che stava succedendo ed essere paziente oltre che testarda». In corrispondenza delle ultime due prove, a Londra, in effetti, le cose cambiano: torna ad apprezzare le più gare in un giorno, la continua possibilità di sbagliare, ma anche di rifarsi, l'intensità e la velocità di ogni prova, non a caso la sua preferita è la madison, la coniugazione di doti fisiche, tecniche e di intelligenza tattica, la necessità saper correre in tutte le sfaccettature, che trovava anche nel cross, disciplina che tornerebbe a praticare volentieri, non fosse che quel tipo di sforzo non è complementare con quello richiesto dalla pista. Insomma Francesca Selva torna a divertirsi e si vede.
Dirà qualcosa di simile quando, a Champions League terminata, incontrerà le studentesse della Harris Academy Chobham, a Londra. Un altro passo importante, perché sarà il primo speech completamente in lingua inglese e perché proprio non se lo aspettava: «Non credevo di aver nulla di speciale per meritare di tenere un discorso motivazionale a delle ragazze, cinquecento in due turni, per la precisione, spesso delle bambine, tra i dieci e i sedici anni, invece la mia storia interessava. Mi hanno ascoltato, e già questo sarebbe bastato, perché non è scontato essere ascoltati in quel che si dice, ma hanno fatto di più: al termine del discorso c'erano più di quaranta mani alzate. Significa che erano davvero curiose di capire, interessate a conoscermi. Ho detto che la vita merita di essere vissuta facendo quel che ci piace, quel che vogliamo fare: penso sia una sorta di dovere per ciascuno di noi, ognuno nel suo campo, ognuno per quel che desidera. Facile? Per nulla, ma non abbiamo bisogno di cose facili». Le domande sono tante, come i temi, le più frequenti sono sugli infortuni, sul riuscire a ripartire, sul non fermarsi, come se il ripartire fosse il primo pensiero: anche questo è significativo. Nel caso della ventiquattrenne veneta di Marcon, gli infortuni, spesso, sono arrivati nei momenti più difficili del percorso, quando avrebbe anche pensato di lasciare, e sono stati la spinta per tornare.
Selva, intanto, ha ripreso a correre anche su strada, con una squadra continental e spera nel ritorno in nazionale. Il giorno successivo al ritorno a casa, era già in strada ad allenarsi. Sì, la prossima volta, vuole essere lì davanti, a lottare per quella volata che, quest'anno, ha visto da dietro. Lo vuole e farà di tutto per farcela. Per ora, è contenta così.
La nuova strada di Silvia Zanardi
Se Silvia Zanardi potesse tornare indietro nel tempo, tornerebbe a circa cinque anni fa. Non in una data qualsiasi, bensì nei giorni del suo approdo, giovanissima, appena diciotto anni, al team BePink: «Vorrei parlare con la ragazzina che ero, non per rimproverarle qualcosa, le direi semplicemente brava. Brava per tutte le volte che si buttava in volata, anche se finiva più spesso a terra che in top ten. Brava per l'istinto a cui sapeva dare retta, per aver dato tanto, per aver pensato a crescere, senza fretta, per aver creduto a quel che pensava. Era proprio piccola quella ragazza, le sarebbe servito sentirselo dire». Ed è, forse, anche da questo viaggio nel tempo che arrivano delle certezze, da mettere lì, come punti fermi: «Se già faceva risultati quella ragazzina, vuol dire che si può fare, che, oggi, posso fare bene, meglio, no?». La riflessione prende le mosse dall'anno appena trascorso: una stagione in cui Zanardi avrebbe voluto di più, parla di maglie e di medaglie che non ha conquistato e a cui puntava. Sono questi fattori a farle considerare il 2023 come un anno non del tutto positivo, anche se è cresciuta, a livello fisico e soprattutto a livello mentale, con la vittoria al GP Liberazione che, seppur con una startlist ridimensionata, è stata importante. L'amaro peggiore è quello della corsa a punti, al Mondiale su pista: «Non me lo tolgo più quel rammarico e, più ci penso, più rivedo la gara, più vedo gli errori, li capisco e capisco che non dovevo farli».
Certo. il dispiacere si sente, ma non la blocca. A Silvia Zanardi stare comoda non piace, avverte il bisogno di mettersi continuamente in discussione, la scomodità è un pungolo, e, se per altri discorsi pondera ogni ragionamento, qui le sue parole sono dritte, secche: «Le cose non vengono calate dal cielo: ci si arriva dandosi da fare, faticando, hanno valore proprio per questo, gli uomini e le donne devono impegnarsi e contare solo sulle proprie forze. Ho fatto io questa scelta, quindi mi rimbocco le maniche e pedalo. Ho firmato per un solo anno, per essere sempre spronata, per non avere certezze su cui sedermi». Sì, dall'anno prossimo, le pedalate saranno nel World Tour, perché è ormai ufficiale il suo passaggio al team Human Powered Health. Una scelta che in molti le chiedevano da tempo e lei avrebbe anche potuto prenderla tempo fa, perché diverse squadre l'hanno cercata. Zanardi ha sempre aspettato e, nel frattempo, attorno, le voci dicevano che era un peccato, che sbagliava, si chiedevano cosa stesse attendendo. Lo spiega con decisione: «Di essere pronta e di poter rispondere a quello che un cambiamento simile richiede. Bisogna investire sulla propria persona, migliorare negli allenamenti, capire che il ciclismo sta diventando un lavoro. A diciotto anni non puoi saperlo fino in fondo, non sei ancora abbastanza consapevole di determinate cose. Le persone più vicine a me hanno sempre cercato di guidarmi a fare quel che sentivo, che volevo, a valutare le situazioni, a prendere la decisione migliore, anche se si trattava di aspettare. Si può aspettare e, nel frattempo, continuare a correre».
In questo, quella ragazzina a cui Silvia Zanardi parlerebbe e Zanardi di oggi, colei che ha scelto di fare il passo verso il World Tour, non sono per nulla diverse ed il tempo non ha cambiato nulla. Nemmeno il tono di voce con cui torna a dirci: «A me piace correre».
Confessa che trae sempre le stesse sensazioni dall'andare in gara, che allenarsi le piace, ma non riuscirebbe ad allenarsi e basta, per lei la bicicletta è anche il momento della competizione, della verifica, quello in cui ci si confronta con le altre atlete e si capisce quanto si va, cosa c'è da migliorare, un momento in cui ci si ritrova e si sta in compagnia. Gli insegnamenti di Walter Zini sono chiari: fino a quest'anno un direttore sportivo, dall'anno prossimo, comunque, il preparatore, ma non solo. Silvia Zanardi dapprima scherza: «Diciamo che non riusciamo a separarci, nonostante ci sia un rapporto di amore e odio. Walter sa quanto lo stimi e gli sia riconoscente, ma pure quanto, certe volte, riesca a farsi detestare». Poi torna seria: «Non è stato solo un direttore sportivo, è un fratello, un padre, un amico, anche. Mi conosce bene, per questo ho voluto ancora lui come preparatore». In Human Powered Health troverà, anzi, ritroverà Giorgia Bronzini, che ha scelto di scommettere su di lei, con cui c'è una vicinanza geografica ed anche di vissuto, che permette di comprendersi, soprattutto su un fatto: la pista.
Con la stessa sincerità, Zanardi ammette che avrebbe fatto davvero fatica a pensare di rinunciare alla pista, non ci sarebbe riuscita, probabilmente, quindi si è sentita sollevata quando è arrivata la certezza della possibilità di far coesistere le due discipline. Racconta di essere stata inserita nel gruppo olimpico della nazionale: un punto di partenza, alla vigilia di Parigi 2024, dove è difficile andare, tuttavia non si tirerà indietro, fino all'ultimo. Pensa ai Mondiali, agli Europei. «Giorgia ha lo stesso vissuto, può capire. Siamo vicine, possiamo incontrarci in ogni momento, mi permetterà di dare ancora di più. Del resto, se ho scelto Human Powered Health è perché investe sulla mia crescita, fa tante gare e lotta gara su gara per ogni posizione, cercando di essere sempre al centro dell'azione». Lucida, realista, quando spiega che sa che il primo anno è l'anno in cui bisogna mettersi a disposizione, fare "gavetta", non risparmiarsi, senza badare troppo a risultati o ambizioni personali, bensì facendo il bene della squadra: «Stiamo ancora lavorando sul calendario e sui traguardi da raggiungere: vorrei migliorare sulle salite più lunghe ma pedalabili, vorrei essere in grado di arrivare nel gruppetto che se la gioca alla fine e riuscire a sprintare. Non sono una velocista vera e propria, però ho un buono spunto veloce ed in gare vallonate posso dire la mia». In questo senso, lavora sull'alimentazione e sul raggiungimento del giusto peso forma che, quest'anno, è arrivato a fine stagione.
Nei desideri, fare bene in qualche tappa alla Vuelta a Espana, ma, ancor prima, essere all'altezza dell'opportunità che le è stata offerta: «Non so se l'anno prossimo mi rinnoveranno la fiducia. Starà a me e solo a me dimostrare di meritarlo. L'ho detto: è l'unico modo per raggiungere traguardi, per farcela». Insomma Silvia Zanardi è pronta, i passi importanti le piacciono: sta anche pensando a una casettina, indipendente, si sta guardando in giro, la immagina come un luogo di pace in cui continuare a fare le cose bene, in tranquillità. Sempre con in testa la passione di zio Alberto, che è cresciuto con il ciclismo ed in questa passione l'ha sempre sostenuta, come fosse il primo giorno, anche quando non è potuto andare alle corse, e le parole di Stefano Solari, in Vo2: figure di riferimento, quando le cose cambiano. Sempre ben salda in quel che è stato, ma proiettata in quel che sarà.
Foto: Sprint Cycling Agency
Ricordati di Urán
Ho un ricordo preciso di Rigoberto Urán Urán- l’ho sempre chiamato Urán, nel modo più semplice possibile, mai Rigo. Ricordo preciso, anche se con quella solita demenziale tendenza che ha la memoria di sfocare immagini: fa persino venire in mente cose che non sono accadute veramente. Oppure sbiadisce e confonde, e allora, per non rischiare, sono andato a controllare e sì, l’episodio a cui mi riferisco è esistito davvero.
Era il 2007, Rigoberto Urán correva con la maglia della Unibet e aveva già dimostrato un certo talento. Oggi, in un fastidioso linguaggio terra terra a cui raramente mi sottraggo, lo definiremmo semplicemente pazzesco. Aveva appena vent’anni e la sua stagione era iniziata vincendo una corsa in Colombia, proseguita conquistandone una a inizio estate in Spagna, anzi nei Paesi Baschi, una cronometro di venti chilometri, in una corsa che ora non esiste più, ma dove fece vedere come quel ragazzo, vincitore di corse in pista poco tempo prima, forte in salita e sul passo sin dalle categorie giovanili, era un corridore adatto e molto, alle grandi corse a tappe.
Poche settimane dopo il suo talento emerse in maniera imperiosa al Giro di Svizzera, nella tappa con arrivo a Schwarzsee, penultima giornata della celebre breve corsa a tappe - piccola nota curiosa, sia alla Euskal Bizikleta, a cui mi riferivo prima, sia al Tour de Suisse, Urán vinse la penultima tappa, entrambe le volte a fine giornata il leader era uno dei due gemelli Efimkin, Vladimir, entrambe le volte Efimkin perse la maglia di leader e la classifica generale, il giorno successivo. Urán vinse attaccando nel finale e alcuni giornali e siti, persino quelli specializzati, si chiesero da dove fosse sbucato quel semisconosciuto colombiano - in realtà, in Urán, la Colombia poneva grosse speranze e su di lui, come si vedrà le maglia che andrà vestire poco dopo, erano puntati gli occhi delle squadre più forti del ciclismo mondiale, anzi, la più forte in quegli anni, il team Sky.
Ma torniamo al primo ricordo, a quel ragazzo nato vent’anni prima in Colombia e apparso da poco sulla scena europea. In una discesa durante il Giro di Germania del 2007 finisce dritto in un fosso, spaccandosi tutto lo spaccabile. Rottura di due gomiti su due disponibili e di un polso su due. Poteva andare peggio. Attimi di paura che fecero temere quel peggio, poi Urán si alzò, prima di accasciarsi nuovamente a terra iniziando a contorcersi dal dolore, e io ho questo ricordo vivissimo di lui davanti, in fuga, nell’azione buona per vincere la tappa. Quella caduta servì, se ce ne fosse ancora bisogno, anche a convincere i suoi tecnici a fargli prendere confidenza con il mezzo, allenandolo, dove e come possibile, anche nella tecnica di guida.
Peripezie di vita, nel passato di Urán, che tutti più o meno conosciamo, il padre ucciso in un agguato, l’adolescenza passata a vendere biglietti della lotteria fondamentale per portare il pane a tavola, e una domanda che si faceva spesso: farò questo per tutta la vita o riuscirò a diventare un corridore professionista? E corridore lo è diventato con risultati importanti: vice campione olimpico a Londra nel 2012, battuto sul traguardo in volata da Vinokourov, uno sprint da perderci il sonno, ma una medaglia che non si cancella, anzi lo rende orgoglioso, e proprio a Parigi 2024 ha deciso di chiudere la sua carriera. Un cerchio che si chiude e sullo sfondo i cerchi olimpici - una banalità, ma pare servita su un piatto d'argento.
Poche vittorie in carriera rispetto a quello che è riuscito a trasmettere: uno dei più amati in patria, uno dei miei rispettati in gruppo. Per tutti gli altri colombiani una specie di punto d’arrivo, di ispirazione, un padre come esempio da seguire, amare e rispettare. Avete mai chiesto a un colombiano quale sia il suo punto di riferimento? Non serve, vi risponderebbe sempre e solo Urán. Urán che spesso si è messo a disposizione dei suoi connazionali anche quando questi correvano in altre squadre.
Due podi al Giro e uno al Tour, una maglia bianca sulle strade della Corsa Rosa nel 2012 anno in cui, alla Volta Catalunya, tornò al successo cinque anni dopo le braccia alzate al Tour de Suisse, quando fu dipinto come uno uscito da chissà dove. Una miriade di piazzamenti nelle grandi corse di tre settimane, vittorie di tappa in tutti e tre i grandi giri - l’ultima, alla Vuelta Espana 2022, quando ormai pensavamo non fosse più competitivo ad alti livelli. Due podi al Giro di Lombardia, il primo nel 2008, giovanissimo.
Lascerà il ciclismo come quello che ricorda vagamente Mick Jagger, come quello che ha sempre una parola di conforto per tutti in gruppo e alcune frasi del suo repertorio, “tranquilo papito”, sono diventati un tormentone. Lascerà il gruppo come uno di quelli che ha sempre qualcosa di intelligente ai microfoni, che non si sottrae mai dal dire quello che pensa. Lascerà il gruppo Rigoberto Urán, e questo ci rende più tristi, ma probabilmente anche più saggi.
Voglio essere il migliore
Lo sguardo è come un marchio di fabbrica che ci identifica, caratterizza, lo portiamo avanti sin dal primo sviluppo. Se vediamo una foto che ci ritrae, magari di quando eravamo bambini, faremmo fatica a riconoscerci, se non per lo sguardo. Il suo sguardo resta sempre quello: ti scruta come se la tua anima fosse una porta accessibile a tutti e lui cercasse di entrarci educatamente, bussando e chiedendo permesso. Occhi grandi, la voce bassa, ma chiara. Tono deciso. I risultati, contassero qualcosa in questa vicenda, non sono più gli stessi. Il tempo è passato e non ha cancellato niente, semmai ha amplificato. Potrebbe essere una questione di numeri, date e dati: sono passati oltre seicento giorni da quell’incidente, qualcosa che chiunque fatica a cancellare dalla propria mente, tifosi, semplici osservatori, qualcosa che a Eganito ha scosso l’anima, rischiato di menomare il fisico, gli ha lasciato cicatrici indelebili, ha diviso la sua carriera in due - per il momento, diviso, capiremo se è stata definitivamente spezzata quel giorno lì, quando Bernal è finito contro un pullman mentre si allenava e ha rischiato di morire. Ne sono passati quasi un migliaio da quel 30 maggio 2021, quando salì in maglia rosa sul podio finale a Milano.
Prese il simbolo del primato a Campo Felice, con un’accelerazione nel finale che sarebbe potuta essere un’arma da mostrare in quelle sfide che ci siamo immaginati chiudendo gli occhi, contro Roglič o Pogačar, o gente di quel livello. Prese la maglia Rosa e la portò fino all’ultimo giorno. Rischiò, ma si salvò, Martinez fu il suo compagno più fedele, Caruso e Simon Yates i nemici più temibili. Due stagioni prima vinse il Tour de France e ci si chiedeva quella volta se la sua sarebbe stata la prima di una lunga serie di vittorie in terra di Francia. Conoscevamo già le qualità dei suoi avversari e già si pregustava una serie di sfide che avrebbero visto coinvolto anche lo scalatore colombiano.
La sua storia è nota ed è così classica, intrisa di quel realismo magico che solo la Colombia può e affascina senza diventare (troppo) retorico, è una storia di famiglia umile, anzi povera, di una nascita turbolenta, di un’adolescenza passata a lavorare, di un talento in bicicletta che gli permette il salto in Europa. Di un talento in bicicletta che gli permette di passare in poco tempo in una delle squadre più forti al mondo. Di un talento in bicicletta che gli permette di vincere il Tour e il Giro in un paio di anni. Poi quel maledetto gennaio 2022 che un anno dopo diventa una ricorrenza: «Ho ricevuto gli auguri come fosse stato il mio secondo compleanno», raccontava a Tuttobici tempo fa, «ma d’altra parte è una data importante per me: sarei potuto morire oppure restare per sempre su una sedia a rotelle». E quindi non ci stupiamo se quel corridore che in salita andava così forte abbia iniziato a far fatica a tenere le ruote dei migliori in un ciclismo che corre alla velocità della luce; in un ciclismo che è saltato su un piano temporale differente come fosse sceneggiato da Nolan, ma trasmesso sullo schermo senza quell’audio fastidioso tipico dei suoi film: c’è la vita di Bernal in bicicletta che ha iniziato a scorrere lenta, c’è quella del professionismo che viaggia a una velocità interstellare. «Dal 2005 a oggi», racconta per esempio Pozzovivo, «sembrano passati 40 anni».
Bernal è riuscito a risalire in sella in una situazione in cui «i medici mi dicevano che difficilmente avrei potuto di nuovo riprendere in mano la mia vita da corridore». Ha corso un Tour e una Vuelta nelle retrovie, salvandosi, cercando di incrementare un tanto alla volta, giorno per giorno, le sue prestazioni. L’idea, però, su cui si basa la sua storia, è che il peggio sia alle spalle, non solo quello fisico, ma quello emotivo. Un’idea maturata pensando agli insegnamenti dei giorni della convalescenza: «Potrà sembrare strano, ma il 2022 è forse stato uno dei migliori anni della mia vita».
Non importa se il sogno di una tripla corona: («Dopo il Tour e il Giro vorrei vincere la Vuelta») si sia infranto, e chi scrive pensa che mai più potrà realizzarsi. «Penso che vincere una tripla corona sia più importante che vincere di nuovo il Tour» - diceva poco dopo la vittoria al Giro. E oggi, dopo aver provato sulla sua pelle, nel vero senso della parola, un momento di crisi quasi definitiva, senza margini, Egan Bernal la pensa diversamente. L’incidente ha messo in prospettiva le cose: «Ha annullato tutto, mi ha costretto ad aver pazienza, mi ha insegnato che la famiglia è ciò che conta di più in assoluto. Siamo tutti umani, ci può succedere qualunque cosa», raccontava, sempre in esclusiva a Tuttobici. «Ormai non mi chiederò più se riuscirò a vincere ancora un altro Tour de France» la chiave di tutto, ma, come vedremo in seguito, con un asterisco.
Poche settimane fa, Bernal ha partecipato a un criterium in Giappone, ha raccontato di quanto fosse stanco dalla stagione, ha ricordato i giorni dell’incidente, spiegando di sentirsi un miracolato: «Sono felice di essere vivo: il modo in cui sono sopravvissuto non è normale. Nel ciclismo pensiamo sempre a essere i numeri uno e a vincere il Tour de France, ma è chiacchiericcio. Quando ti rendi conto che sei, come dire, una persona normale e puoi morire, e ti trovi a letto incapace di muoverti, e tutte queste cose... beh, sì, sono stato fortunato». Ha ricordato quei brutti momenti, come riportato da Sophie Smith su Cyclignews. Il risveglio: «Non pensavo più a essere un ciclista, ma a muovermi, a essere una persona normale», ribaltando il punto di vista: «Credo sia uno dei motivi per cui dopo quell’incidente non ho mai avuto brutti momenti: so quanto sono stato fortunato a sopravvivere».
Dopo 47 giorni da quel grave incidente, Egan ha ripreso - lentamente - ad andare in bici, ha bruciato le tappe schierandosi al via tra agosto e settembre del 2022. Poi la stagione 2023 non è ripresa su passi decisi, bloccato da piccoli malanni fisici, un ginocchio che lo tormenta, i problemi alla schiena che ne hanno sempre limitato le prestazioni. Corre il Tour - dove si vede poco e nulla, perché «andavano tutti a tutta dal primo giorno, me compreso, e dopo una settimana non avevo più un briciolo di energia. Non me la sono goduta». Aggiungendo come non sia certo la miglior gara dove andare a soffrire per ottenere qualcosa. Chiude 36° senza farsi vedere praticamente mai, mentre alla vuelta, schierato qualche settimana dopo, fa 55° ma le cose vanno diversamente: «Ho anche attaccato, non mi sentivo così lontano dai primi».
Col microfono in mano davanti alla platea, Egan Bernal, scruta e ritroviamo il suo sguardo che lo caratterizza, gentile, ma fermo. Non si ferma a dare un'occhiata, ma ci sono anche le parole: dice che fino a quando il suo pensiero sarà quello di sentirsi pronto a tornare al suo livello, continuerà a correre, altrimenti penserà al ritiro. Sono pensieri fatti con la leggerezza che ne contraddistingue(va) la pedalata in salita. Quel pensiero resta, ma non è così fondamentale: vincere la Vuelta e chiudere il cerchio. Perché, nonostante tutto, nonostante abbia smesso di chiedersi se mai vincerà un Tour, «prima voglio dimostrare di poter tornare a essere uno dei migliori al mondo». Altrimenti non importa, lo pensa, lo fa capire con uno sguardo, lo dice: conta esserci ancora dopo quello che è successo.
Foto in evidenza: ASO/Pauline Ballet
Milan Vader: quando tutto è possibile
Non doveva nemmeno esserci eppure c’era. Nessuno voleva andare, tranne lui. Chi conosce le dinamiche del gruppo poi, lo sa: per finire a correre in Cina a fine stagione o hai una voglia matta di farlo, o la squadra ti manda in punizione, oppure servono punti da fare per il ranking UCI e allora via si vola a sgomitare tra gli sprint del Gree Tour Guangxi, Cina. Ovviamente esageriamo: non è sempre così. Anche perché è un posto pazzesco la Cina, come quasi tutti i posti del mondo, in realtà, come tutti quei luoghi talmente lontani dal centro del ciclismo da definirli esotici per chi abitualmente corre, segue, gira intorno al mondo di quelle ruote che vanno a velocità sempre più assurde. Poi in realtà, se ci pensate, qualsiasi posto è bello quando c’è una gara di ciclismo, ma questo è un altro discorso.
Non doveva esserci eppure c'è stato, Milan Vader. Nel momento in cui avrebbero dovuto prendere una decisione in Jumbo Visma - “che si fa, si va in Cina oppure no?” lui si è fatto avanti con la sua idea. Pare avessero preso inizialmente la domanda con una boutade, ma Vader faceva sul serio. Pare avesse studiato per bene la tappa numero quattro, l’unica che avrebbe interrotto la routine del finale convulso, quello preso per mano dal treno dei velocisti e dai folli sprinter; era quel tipo di arrivo che avrebbe poi disegnato la classifica finale. L’unico. Lui l’ha controllato, visto e rivisto, si è studiato la salita su veloviewer e ha notato da subito come facesse al caso proprio. Milan Vader, che arriva dalle ruote grasse e quindi biker per vocazione, presente a Tokyo nella prova olimpica di Cross Country dove la nazionale arancione puntava tutto su van der Poel, ma ricordiamo come andò. Vader dal canto suo non sfigurò per nulla, anzi, chiudendo in top ten. Su strada? Uno con mezzi interessanti quando la salita è breve e secca, esplosivo: pienamente a suo agio in un arrivo come quello di Nongla.
Non doveva andarci Milan Vader, in Cina, ma se andiamo a scavare più in fondo ha rischiato di non esserci più su una bicicletta, andando a smuovere ancora più a fondo nella storia, sappiamo come l’8 aprile del 2022 rischiò di morire. Giro dei Paesi Baschi, tappa numero 5. Vader è professionista da pochi mesi, ha preso le misure correndo la Volta Valenciana, chiudendo 13° nella terza tappa con arrivo in salita ad Antenas del Maigmo a 1’18’’ dal vincitore Vlasov, precedendo Geoghegan Hart, Soler, Ben Hermans, Nibali. Quel risultato resterà il migliore in stagione. 50° alla Strade Bianche pochi giorni prima, corsa che, per via del suo profilo - biker ed crossista - è fra quelle che più gli si addicono. Qualche settimana dopo: Giro dei paesi Baschi. Quinta tappa, profilo mosso, basco per l’appunto, si affronta una discesa dopo circa una sessantina di chilometri. C’è una curva, passa il gruppo. C’è una bici ferma contro il guardrail. Poi immagini che non vorremmo vedere. Il corridore è per terra in un campo al di là della carreggiata, accasciato a terra, prono. Viene trasportato d’urgenza in ospedale a Bilbao dove rimarrà per diverso tempo. Frattura della colonna vertebrale in undici parti, e come contorno, se vogliamo, anche della clavicola, della scapola, un polmone perforato, frattura anche all’orbita oculare e allo zigomo. ma soprattutto a causa dell’incidente: “Ha dovuto anche subire un intervento chirurgico d'urgenza alla carotide per inserire uno stent, per aumentare il flusso di sangue al cervello”. Dodici giorni di coma farmacologico, una lunga riabilitazione, ma a fine stagione torna in sella, e, come scrisse cycling weekly: il suo fu un autentico “risveglio della forza”, giocando su quel cognome che ricorda il cattivo dei cattivi nella saga di Guerre Stellari. Perse peso: da 63 a 52 chilogrammi: «inizialmente - racconta il corridore - facevo fatica anche a stare in piedi per più di 30 secondi, facevo fatica a mangiare e a fare colazione». Poi la riabilitazione e quel miracoloso rientro in gara alla CRO Race, appena 6 mesi dopo l’incidente. Avvicinandosi a quella corsa non sentiva lo stress, fino al giorno prima quando la sera, sistemando le scarpe e pensando a quello che sarebbe stato il giorno successivo: «un misto di sensazioni mi stavano attanagliando». Riuscirò a correre in gruppo? Come sarà questa nuova prima volta? Furono alcune delle domande che gli balenavano in testa. Andò bene: Vingegaard, suo compagno di squadra, vinse la classifica generale, lui diede il giusto supporto. Un anno dopo o poco più, Milan Vader scatta quando al traguardo di Nongla manca poco più di un chilometro. Approfitta di un momento di pace apparente in gruppo, scatta e va a cogliere il primo successo in carriera. Mezz’ora dopo, raccontano i presenti, è ancora totalmente incredulo di quello che gli è successo. «Dopo tutto quello che ho vissuto l'anno scorso con l'incidente e tutta l'insicurezza che ne è derivata, non sapevo nemmeno se avrei potuto correre di nuovo o anche solo salire su una bicicletta». Ma come gli ha detto qualcuno in quegli interminabili giorni in cui da una parte voleva riprendere a correre, dall’altra continuava a sentirsi stanco e chiedeva pietà facendosi domande: “Finché sei motivato, il corpo è capace di fare un sacco di cose pazze. Finché sei motivato: tutto è possibile."