Aiutarsi a vivere e magari a vincere

Quando Diego Ulissi è salito sul terzo gradino del podio al Giro dell'Emilia, il 18 agosto, l'amarezza del suo sguardo offuscava parte della soddisfazione per i risultati, comunque soddisfacenti, che il corridore toscano stava ottenendo. Sempre lì, secondo, terzo, quarto, quasi il primo posto fosse maledetto. I ciclisti lo spiegano bene: quando manca sempre meno a raggiungere un risultato e non ci riesci, quella volontà, tendenzialmente, diventa una sorta di ossessione, accresciuta dal fatto che manchi poco. E, quando "un'ossessione" ti tormenta, diventa tutto più difficile, dentro e fuori. Dentro perché tutto ti ricorda che sei lì ma non sei primo, perché inizi a pensare a tutto ciò che avresti potuto fare diversamente (e sai bene quanto è inutile ma la tua testa è fatta così e devi conviverci), perché vorresti un pizzico di quel sollievo che viene dal vincere, magari vorresti dedicarla alle tue figlie quella vittoria, a tua moglie che è a casa ad aspettarti, di certo le tue braccia fremono per la voglia di essere gettate all'aria. Così quando vinci, come ieri, le lanci all'aria con tale forza che ti chiedi come facciano a non farti male. Ma è così, quando sei felice non fa male. Accade anche con gli abbracci. Fuori, invece è più difficile perché la gente non sa, festeggia, ride, ti ferma, ti chiede, ti cerca e tu vorresti stare un attimo da solo, per ripensare a dove hai sbagliato. Non puoi perché sei un uomo conosciuto, perché il ciclismo è una festa, perché loro, le persone, non hanno alcuna colpa dei tuoi malesseri.

Diego Ulissi era sul podio e nella testa, probabilmente, aveva questo quando una giovane mamma con una bambina in braccio lo ha chiamato: «Diego, Diego lanciaci il cappellino». Ulissi si è voltato di scatto, inizialmente serioso, ha guardato la mamma, ha guardato la bimba e ha sorriso: «Non posso, mi spiace». La giovane donna ha capito e: «Non preoccuparti, sarà per un'altra volta». Si è voltato e ha iniziato a scendere gli scalini del podio. Ha sorriso pur non avendone alcuna voglia, ha sorriso per chi lo cercava. Capite l'importanza di questo dettaglio? Creare un sorriso per non deludere, perché sai che gli altri vorrebbero questo da te, perché sai che gli altri possono essere felici anche solo per questo. Perché «quel ciclista, quella ciclista, mi ha sorriso, mi ha salutato». Non è poco. Non è nemmeno scontato. Si tratta di una capacità profonda e difficile da acquisire; la capacità di accantonare il tuo "malessere" per qualcuno che ti cerca e ti vorrebbe felice. Per qualcuno che è nel mezzo di una festa e tu non vuoi rovinare la festa di nessuno. Ti ricordi come facevano i tuoi genitori da ragazzino, quando, negli attimi di gioia, ti omettevano le brutte notizie per permetterti di ridere senza ombre. Un poco ti arrabbiavi perché volevi sincerità ma oggi li ringrazi perché risate del genere non sai quando le farai più. E vorresti tanto qualcuno a coprirti le spalle.

E non conta nulla il fatto che il cappellino non sia stato regalato. Non conta assolutamente nulla. Ci sono delle cose che non possiamo fare e di fronte a queste poche parole possono valere. Alle regole non si sfugge, per dignità personale prima che per timore della punizione. Anche di fronte a queste, però, possiamo scegliere il modo di porci con chi ce le chiede. Per una bambina rinunciare al cappellino del proprio idolo è un sacrificio pesante e i grandi dicano ciò che vogliono ma tengano fede a un dovere. Quello di scivolare sulle vite degli altri lasciando il minor peso possibile perché quelle vite hanno già le loro complessità e le loro pesantezze. Cose che non possiamo sapere, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare e per questo non dovremmo giudicare. Una cosa però la sappiamo: per andare avanti gli uomini si aggrappano a tutto, ad ogni segnale impercettibile, anche a quelli a cui dicono di non credere. Ecco, abbiamo il dovere di dare qualche segnale di questi. Sempre. Anche e soprattutto quando non ne avremmo voglia e questo segnale servirebbe a noi. Non c'è altra possibilità per aiutarsi, a vivere e a magari a vincere.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Tornerai, Miguel

Per Miguel Ángel López è crollato tutto dopo 9'38'' dall'inizio del Giro d'Italia. Lo ha spiegato lui stesso, ieri sera, in albergo, parlando con i suoi compagni: «Mentre appoggiavo le mani sulla protesi, ho sentito la bici scivolarmi via. Era impossibile trattenerla: si è ribaltata sotto di me. Qualcosa di incredibile». Il referto medico ha escluso fratture evidenziando solo una profonda ferita nei pressi dall'arteria iliaca, recupererà nelle prossime settimane, insomma. L'uomo è un impasto più complesso, l'uomo non può fermarsi al dato di fatto degli esami clinici, la sua mente non glielo permette. Come quando la scienza sentenzia: «Lei sta bene. Non ha nulla». E tu non riesci a spiegarti come sia possibile, tanto fa male. Forse il viso di Lopez, appoggiato alla testata del letto, con gli occhi rivolti verso l'alto, vuole dire proprio questo. Cenghialta, suo direttore sportivo, lo ha detto mentre lo attendeva in ospedale: «Ora si è tranquillizzato, ora è più calmo. Dobbiamo solo aspettare». Quel sorriso dissimulato, rivolto ai compagni, sottintendeva questo: «Sono più tranquillo, va tutto bene. Se non c'è niente di rotto va bene, come dire il contrario?». In realtà non va bene niente e, prima di tutto, non va bene aspettare. Aspettare ancora. L’attesa ha senso quando c’è la possibilità di riempirla di significato con ciò che verrà. Quando ti strappano via da ciò che hai atteso, come non fosse ancora il tuo turno, come non fosse lì per te, come tu non fossi la persona giusta, dell’attesa proprio non vuoi sentire parlare.

Non abbiamo mai corso un Giro d’Italia in bicicletta ma lo abbiamo percorso in auto, per raccontarvelo. Sappiamo cosa significhi l'attesa di un evento del genere che è poi simile ad ogni altra attesa cercata, voluta. Abbiamo vissuto l'immaginazione che ti traghetta lì, al tuo primo Giro d'Italia o al ventesimo ma poco cambia o dovrebbe cambiare. Se smetti di aspettare ciò che vuoi vivere che senso dai al tuo essere qui? Quando aspetti ciò che vuoi, le ore che si dilatano sono direttamente proporzionali alle paure che ti assalgono. Vuoi essere parte di questo qualcosa in maniera così forte che vedi tutti gli ostacoli che potrebbero impedirtelo e speri solo non si manifestino. Non è tanto questione di ottimismo e pessimismo, accade quando ci tieni. Come quando hai un appuntamento per una sgambata e dieci minuti prima squilla il telefono, la mente corre: «Dimmi che non rimandiamo». Come quando aspettate la vostra gara per tanto tempo. Accade come è accaduto per i tanti eventi in bilico in questo periodo di norme anticovid. Come è accaduto anche per questo Giro d'Italia, ad ogni risalita dei numeri dei contagi. Per gli appassionati, per noi che lo raccontiamo e gli vogliamo bene, e per tutti gli atleti che, su questo Giro, hanno scommesso mesi. Mesi duri, difficili, senza certezze, chiusi in casa, in un vortice di dubbi. Poi i giorni si avvicinano e il Giro parte. Tu sei lì e te lo dici: «Ci siamo. Ho immaginato bene, sono qui. Ora si va, via». E magari sei come Miguel Ángel López ieri e non lo sai. Non sai che dovrai gustarti quella manciata di chilometri e basta. Perché la "bicicletta ti si ribalterà sotto" e non potrai fare nulla. Ti caricheranno su una barella, ti porteranno in ospedale e, fatti tutti gli esami, ti indicheranno una prognosi. Un numero che ti dirà fino a quando dovrai aspettare per poterci nuovamente sperare.

Ma qui le ore saranno ancora più lunghe, i mesi più difficili, le stagioni interminabili. Sì, perché quando ti strappano via dal tuo momento poi sembra impossibile un ritorno. E se torni e poi succede ancora? Se torni e non accade nulla di quello che desideri? In certi momenti ti dici anche che è inutile tornare, ti chiedi il senso del ritorno. Di lavorare tutti quei mesi e poi chissà. Quanto può essere cattiva la vita? Non serve chiederselo. Serve riprendere in mano quella bici e andare. Tirando qualche pugno sul manubrio, imprecando, magari anche sbattendola contro qualche muro in qualche momento no: ma poi riprendendola in mano e controllando che sia a posto. E, magari, quella stessa vita ti farà trovare sul cammino qualcosa di così inatteso, ma bello questa volta, per cui valga la pena. Più verosimilmente non sarà qualcuno a darti una ragione per aspettare e tenere duro ma sarai tu stesso a doverla cercare. Perché lo sai bene ormai: chi aspetta può essere deluso ma chi smette di aspettare è disilluso. E questo è ben più grave. Un ciclista non può permetterselo, un uomo non può permetterselo. Ricordiamocelo quando aspettare stanca.

Foto: Bettini


Paolo Bettini racconta quel 28 settembre 2008

Paolo Bettini racconta in un video che cos'è per lui il 28 settembre. Oggi sua figlia Veronica compie diciassette anni e per lui diventa l'occasione per rievocare corsi e ricorsi. Perché quel 28 settembre 2008 ha significato la sua ultima gara, una scelta (quasi? forse?) doverosa dopo aver legato in maniera indissolubile la propria carriera alla maglia iridata.

Perché dopo averla inseguita per un decennio arriva, ma la vita gli porta via suo fratello. Nel 2006 a Salisburgo Bettini vince il Mondiale, dieci giorni dopo suo fratello muore in un incidente stradale e passano pochi giorni perché Bettini domini il Giro di Lombardia, in maglia iridata, appesantito dal dolore e dalle lacrime. Sauro, il fratello, come narra chi li conosceva da vicino, era una parte di lui. E Paolo, cresciuto nel mito di quel ragazzo che in bicicletta da giovane vinceva praticamente sempre, era straziato.

Paolo Bettini racconta di quando durante la Vuelta del 2008 aprì la valigia e trovò un biglietto scritto da sua figlia. Uno di quei disegni fatti a mano da un bambino che sembrano tutti uguali ma che per ogni genitore ha un significato unico e difficile da spiegare. Su quel biglietto c'è un disegno, il papà di Veronica con i colori iridati – che poi non sono altro che quelli dell'arcobaleno, avrà pensato lei – sopra la testa, e poi un messaggio scritto a penna: “non andare più in bici”.

Paolo Bettini quella decisione l'aveva già presa o forse no. Lui dice che la scelta era già stata fatta, ma pensare che quello sia stato il momento decisivo sembra appartenere a ciò che ci piace raccontare. E il 28 settembre del 2008, Veronica compiva cinque anni, e per Bettini sarà l'ultima corsa. E il 28 settembre 2008 sarà l'ultimo Mondiale vinto da un italiano. “Ballaaaan! Ballaaaan!” lo abbiamo ripetuto tante volte quell'urlo nella nostra testa, mentre Ballan, in maglia azzurra, dilaniava il centro di Varese.

Bettini restava dietro in gruppo mentre altri erano a lottare per le medaglie, come tante volte aveva fatto lui. Si prenderà il giusto tributo dai colleghi che lo scortarono fino al traguardo, mentre noi ci domandavamo perché uno così forte doveva abbandonare il ciclismo a soli trentaquattro anni e poche settimane dopo aver vinto due tappe alla Vuelta con la maglia iridata.

Lui lo ha raccontato oggi, 28 settembre, mostrando, con orgoglio, un momento intimo, privato. Quel messaggio scritto da una bambina che all'epoca aveva cinque anni e oggi diciassette. Sono passati dodici anni e sembra ieri: la gioia di Ballan, le lacrime di Bettini, il messaggio di sua figlia e Ballerini in ammiraglia. E pensare quanto stride il fatto che nessuno ci ridarà mai indietro il tempo passato.

Foto: Paolo Bettini/Facebook


Guillaume, Benoni e scacciare i cattivi pensieri

4 luglio 2017, Tour de France. Guillaume Van Keirsbulck è appena partito in fuga. Le televisioni gracidano al vento, in modo incomprensibile, il suo nome, mentre lui nella radiolina continua a ripetere: «Ca**o, ma dove vado da solo... non è forse meglio che torni indietro?». L'ammiraglia gli risponde di tirare dritto, che tanto qualcuno prima o poi si sarebbe unito alla danza; è un Tour de France e nessuno si farebbe sfuggire l'occasione. Tutto a un tratto, però, invece che colleghi in bicicletta, arrivano cattivi pensieri.

Il 27 giugno del 2011 Guillaume Van Keirsbulck stava procedendo verso casa di suo nonno per festeggiare, con un barbecue, la firma sul contratto con la Quick Step. Un salto in avanti per quel virtuoso ragazzo che aveva già mostrato tutto il suo potenziale; ora c'è la possibilità di studiare nella migliore scuola per uno cresciuto addentando biscotti e pavé e capace di vincere, da giovanissimo, la versione junior della Paris-Roubaix.

Era solo in macchina, Van Keirsbulck, la sua ragazza, Emilia, lo seguiva su un'altra auto perché l'indomani avrebbe dovuto alzarsi presto per andare a dare un esame all'università. All'improvviso l'auto della ragazza sbandò, probabilmente Emilia stava cercando di afferrare qualcosa sul sedile, tanto da slacciarsi la cintura di sicurezza. Il movimento costrinse l'auto su una pista ciclabile, poi un dosso, una sterzata improvvisa. Emilia, presa dal panico, finì sulla corsia opposta colpendo in pieno un motociclista che arrivava in senso contrario. La tragica corsa si spense contro un albero. Tutto questo Guillaume lo vide dallo specchietto retrovisore. L'auto si ridusse ad un ammasso di lamiere e fu proprio Guillaume che provò a liberarla. «Morì tra le mie braccia» racconta.

Lungo da sembrare infinito, elegante con lineamenti quasi irritanti come fosse un Fonzie belga, Guillaume Van Keirsbulck si porta dietro la tragedia. Poche settimane prima di quell'incidente, al Giro d'Italia si consumò la fine dell'esistenza di Wouter Weylandt, amico di Guillaume. Al funerale del corridore belga c'era anche Van Keirsbulck a portare la bara.

Intanto Guillaume al Tour resta solo e al vento. Nessuno lo ha raggiunto, vestito dei colori blu cenere della Wanty Gobert ha percorso una sessantina di chilometri in solitaria. Più che brezza quella che spira dappertutto è una masnada di pugni in faccia; la fuga solitaria al Tour in una tappa di pianura appare quasi strategia del terrore. Già, quel terrore che attanaglia la sua esistenza e lo butta giù.

Racconta a Cyclingnews: «Subito dopo quell'incidente mi rimisi subito in sella per provare a vincere per lei e ci riuscii», ma la notte doveva ancora arrivare e quei terribili pensieri non andavano via. «A fine stagione finii in un buco nero». Staccò dalla bicicletta, iniziò a uscire tutte le sere, a bere. «Se fossi rimasto a casa sarei impazzito».
Prosegue Van Keirsbulck al Tour sulle strade che portano a Vittel, nei Vosgi. C'è gente ovunque da non capire nulla, la gola secca mentre i rumori si fondono con le immagini e i pensieri continuano a viaggiare ancora più veloci.

Come quelli del nomignolo il “nuovo Boonen”: una condanna. Affascinante come il fuoriclasse a cui è stato paragonato, Van Keirsbulck non è mai riuscito minimamente a sfiorare le imprese del quattro volte vincitore della Parigi-Roubaix. E intanto il tempo passa.
Così come i chilometri in fuga in solitaria. Il suo diesse prova a fargli coraggio, ma ora non serve, i cattivi pensieri sembrano andare via, sono come uno schizofrenico boomerang e quando sono distanti, Guillaume è attraversato da una sorta di aura di tranquillità. «Quasi duecento chilometri in fuga al Tour? Mi sono divertito! Era pazzesco vedere quanta gente mi incitava e per una volta ero da solo a godermi il momento». E poi di nuovo altri pensieri.

Come quelli su suo nonno, Benoni Beheyt. Un reietto per il sacro impero di Van Looy e del ciclismo belga. Siamo ai campionati del mondo di Ronse, Belgio. Come in un viaggio nel tempo all'improvviso è l'11 agosto del 1963. Tutto è apparecchiato per il terzo titolo di uno dei più grandi della storia. Qualcosa però non va come deve andare – ci verrebbe da dire che è il ciclismo, la vita, eccetera. Van Looy vuole a tutti i costi il terzo titolo – che mai conquisterà - come l'altro grande Rik Van belga (Rik Van Steenbergen), e muove la corsa quasi a suo piacimento. Si arriva in volata, Van Looy è davanti, all'improvviso Benoni (quel nome è un omaggio al nonno di origine italiane) Beheyt lo affianca, toglie una mano dal sellino, sposta il suo capitano - lo trattiene o lo spinge non si è mai saputo per certo -, lo brucia sul traguardo: è il tradimento di Ronse. Beheyt da quel momento verrà trattato come homo sacer, diventerà un reietto con Rik Van Looy che passerà le stagioni successive boicottandolo e ostracizzando ogni suo intento. Un infame agli occhi del popolo belga e di un gruppo che subisce il fascino dell'Imperatore di Herentals. A ventisei anni abbandona il ciclismo. Resterà in gruppo come motociclista al seguito delle corse e si racconta (verità o leggenda?) che un giorno, pulendo il fucile in una battuta di caccia, uccise per sbaglio uno dei suoi figli. In una recente intervista rilasciata a Marco Pastonesi, dice che Van Looy non gli ha rivolto la parola per decenni e che solo negli ultimi tempi si sono scambiati qualche buongiorno e buonasera.

Ma è ancora fuga al Tour: Van Keirsbulck porta avanti la sua personale sfida col gruppo che inizia ad organizzarsi per la volata, pianura ce n'è ma anche un paio di salitelle sulle quali Van Keirsbulck prova a forzare. Le gambe, atrofizzate, spingono, dalla radiolina arrivano urla di sostegno, ancora una volta il suo sforzo è mirato ad annebbiare i pensieri.
Come quelli che lo rimandano all'incidente stradale di un anno prima. Usciva da una stagione difficile per problemi fisici e da un fastidio alla schiena. Usciva ubriaco da una discoteca. Si schiantò contro un albero «ma ne uscì illeso. Di ferito ci fu solo la sua reputazione» riportano i media tempo dopo. Quegli stessi media che lo crocifissero sulle prime pagine trattandolo come un cattivo ragazzo.
Ora al Tour lo riprendono. Siamo in vista del traguardo. Quasi duecento chilometri di fuga. Si arriva in volata e mentre lui si fa sfilare, esausto, ma felice - «Per una volta tanto meglio che starsene in gruppo a saltellare su una ruota oppure bello tranquillo in scia ad una moto» - Démare vince e Sagan viene squalificato per una scorrettezza nei confronti di Cavendish.

Oggi Van Keirsbulck corre ancora, è un ragazzo giovane - ha ventinove anni – ma sembra abbia bruciato tutto con la velocità di una felce secca intorno al fuoco e la felicità per lui resta un fatto relativo. Fatica in mezzo al gruppo, ma non lascia il segno. Non sarà al via del Mondiale di Imola, non sarebbe potuto essere altrimenti. Nelle prossime settimane ci sarà modo di correre vicino casa e l'anno prossimo persino il Mondiale in Belgio: chissà che non ci stia pensando. Chissà che ne abbia ritrovato il tempo. Chissà che sia riuscito a scacciare i cattivi pensieri. Anche solo questo sarebbe una grande vittoria.

Foto: Van Keirsbulck/Twitter


Raccontami del Ballero

Questa storia trova casa ai Mondiali di ciclismo di Varese 2008. Proprio in quella prova in linea vinta da Alessandro Ballan, domenica 28 settembre. L’ultima volta in cui la maglia iridata in linea è stata vestita da un italiano. Questa storia, però, non parla di quel giorno. Fa un salto indietro, ai giorni prima. Vorremmo dire che questa storia parla di visioni e capacità di trasmetterle. Di tutto ciò che ha a che vedere con la probabilità che, quando si comunica agli altri, diventa possibilità. Diciamo che questa storia parla di Franco, di Franco Ballerini, il “Ballero”. Ed è una storia ambientata in un aeroporto nelle Fiandre, nella primavera di qualche anno fa. Con un sottofondo di voci e rumori che, miracolosamente, non ci hanno fatto perdere un briciolo di senso del nostro chiacchierare. Questa storia racconta di quella volta che contattammo Alessandro Ballan per parlare di “Giro delle Fiandre” e finimmo a ricordare Franco, il commissario tecnico.
«Ti racconto questo, per dire di chi era Franco Ballerini. Pensa te, raccontare Franco...»

Alessandro Ballan riprende così il discorso che si era interrotto, a causa della partenza di un aereo, mentre parlavamo di pietre e io gli chiedevo: «Parlami del Ballero». Ballan non sa da dove iniziare o, forse, lo sa anche sin troppo bene ma tentenna qualche secondo. Raccontare Franco sembra impossibile perché Franco poteva essere qui e, chi era Franco, avremmo tutti preferito sentirlo dalle sue parole. Ma, certe volte, siamo vicari delle storie di altri e ci tocca raccontarle anche se fanno male. E fanno male perché ci è rimasta la storia ma manca tutto il resto. Così Alessandro torna a parlare, abbassando la voce, quasi per custodire quel ricordo.

«Al Mondiale di Varese era tutto pensato per Paolo Bettini. Sarebbe stato il suo terzo mondiale consecutivo, dopo Salisburgo 2006 e Stoccarda 2007. Franco era eccezionale nel fare gruppo. Creava un’amalgama tale per cui avresti fatto di tutto per quella squadra e non importava nulla il tuo ruolo. Avresti messo l’anima perché sapevi di essere parte del tutto, di essere una parte importante del tutto, fondamentale. Ognuno di noi si sentiva fondamentale. Ti assicuro che non è facile restituire questa sensazione ai propri collaboratori. In pochi ci riescono, Franco era uno di quelli. Mancavano pochi giorni alla domenica e avevamo già visionato il percorso. Mi sentii chiamare: «Ale, vieni qui!» Era Franco Ballerini.

Mi prese da parte come un padre: «Ascolta Ale, vi sto guardando bene. Ho una convinzione e voglio dirtela. Sai la parte finale del percorso? Quella che tocca il centro di Varese. Io sono sicuro sia adatta a te. Ti dico di più: se parti lì, se piazzi uno scatto secco lì, vinci. Vinci tu, Ale. Credimi». Questa cosa me la ha ripetuta fino al sabato prima. Sappiamo tutti come è andata. L’ho ascoltato e sono partito proprio lì dove mi aveva detto lui. Poi mi chiedi di raccontarti Franco. Come faccio a raccontartelo?»

Alessandro Ballan ha vinto il Mondiale di Varese 2008, per capacità, per caparbietà, per forma fisica invidiabile, per una tattica studiata in maniera certosina e aggiungete voi tutto il resto. Ma Alessandro Ballan, secondo noi, ha vinto il Mondiale di Varese anche per quella visione comunicata. Per quella probabilità fatta possibilità. Franco Ballerini avrebbe potuto tenersi stretta quella visione e comunicarla solo in corsa, dando l’input a Ballan nei chilometri finali. Come C.T. sarebbe stato ugualmente impeccabile. Non lo ha fatto. Lo ha cercato, gli ha parlato, gli ha detto prima quanto credesse in lui. Quanta certezza avesse che quella possibilità fosse simile alla realtà. Lo ha fatto perché sapeva. Sapeva che Ballan aveva tutte le carte per vincere, anche agevolmente, ma sapeva ancora meglio che in un Mondiale può succedere di tutto e, se hai chi crede in te, scatti pure senza un briciolo di forza. Glielo devi. A chi crede in te, devi questo e tanto altro.

Foto: Bettini


Landismo o del vagare senza meta

Abbiamo percorso gli oltre dieci chilometri della Sella Chianzutan. Salita non troppo ripida, né lunga, non così dura se la fai con una bici di adesso. A piedi, invece, non è il massimo, soprattutto quando hai scarso feeling con questo esercizio. Oltre due ore di camminata con scarpe poco adatte, lo zaino che oltre a pesare ti lascia chiazze di sudore sulla schiena che provocano brividi ogni volta che ti infili sotto l'ombra, ma hai almeno qualche birra sul groppone, trangugiata in un paese lungo la strada, e che fa sempre il suo effetto. Euforia che prova a farti dimenticare le vesciche che vengono a formarsi man mano che si sale. E poi il gran caldo, quello non te lo levi mai. Passano le prime macchine, ma non sono quelle della carovana e infatti hanno un rombo particolare.

L'indomani si correrà la tradizionale Verzegnis-Sella Chianzutan, corsa in montagna per auto di ogni genere e anno e quelle che vediamo stanno testando il percorso e studiando le frenate. Passa un ragazzo a torso nudo e con la maglia avvolta sulla testa, pedala su una graziella grigia, ci supera e si ferma lungo un tornante in attesa del passaggio dei ciclisti. La corsa vera e propria, o per meglio dire quella che ci interessa, è il Giro d'Italia 2017, ma è ancora lontana. È partita da poco da San Candido anche se, tra Passo Monte Croce Comelico e Sappada, leggo sul telefono che qualcuno ha provato ad attaccare, ma la squadra di Dumoulin, che vincerà quel Giro, ha gli occhi vigili e chiude in discesa. Dopo Tolmezzo, per noi, e più tardi anche per loro, si sale verso questa salita che è meta succulenta per gli amatori locali. Non troppo dura abbiamo detto, una bella strada ampia, qualche tornante che ti permette di rifiatare sia a salire che a scendere. Arriviamo in cima, si pranza e iniziano ad arrivare le auto delle squadre con i massaggiatori che attendono il gruppo per distribuire bevande e panini e i tifosi sempre più numerosi. Se la maggior parte è lì per Nibali, c'è anche chi aspetta - parola chiave - un altro corridore.

Mikel Landa ha spesso gli occhi nascosti da un paio di lenti riflettenti. Mai capito se lo fa per vezzo, marketing, comodità, fatto sta che nasconde due palle rotonde leggermente solcate da un accenno di rughe che gli danno uno sguardo perennemente in sospeso. Quello è lo sguardo del Landismo.
Lo avevamo lasciato due stagioni prima scattare sul Colle delle Finestre: oggi sembra un'epoca mica un lustro. Mikel Landa non aveva ancora conosciuto la pressione né tantomeno la delusione. Il Landismo era ancora in divenire e assomigliava più a un nietzschiano slancio vitale.

Mani basse sul manubrio, schiena perfettamente arcuata, il corridore basco provava da subito a fecondare l'idea che un ciclismo nuovo sarebbe arrivato: niente più attendismo, andiamo allo sbaraglio.
Ritorniamo sulla Sella Chianzutan. Mi avvicino a un massaggiatore dell'Astana e gli domando: «Chi vince oggi?».
«Quello che aspettiamo sempre, mi pare ovvio». Ci penso un attimo. «Mikel Landa?» gli faccio. «Chi sennò?» mi risponde. «Ma non corre più con voi!» ribatto. «Sì ma noi gli vogliamo tutti bene». La tappa quel giorno, con arrivo a Piancavallo e un vento in faccia che pareva il Palio degli schiaffi, la vincerà Landa – e sarà anche la sua ultima in un grande giro.

In pochi anni la storia di Landa si trasforma in mito. Il Landismo diverrà un cul-de-sac ciclistico. Lo aspetti e lui si ritira per un virus gastrointestinale dopo essersi fatto fotografare nel giorno di riposo davanti a una grigliata organizzata dalla sua squadra.
Arriva quarto al Tour facendosi battere per un secondo da Bardet (che lo passa nella cronometro) dopo aver infiammato la salita, ma con moderazione, correndo sempre con un filo di gas, come si direbbe, per non dar troppo fastidio al capitano Froome. Arriva quarto al Giro dopo essersi fatto scavalcare nella cronometro finale da Roglič. Arriva di nuovo quarto al Tour pochi giorni fa, dopo aver dato un saggio completo del Landismo. Fa tirare i suoi tutto il giorno e poi si stacca nel momento clou come uno qualunque – quale non è - con gli occhi che non sono più in sospeso come un ciclista in difficoltà, ma sgranati come dopo aver letto una cattiva notizia. Il giorno successivo uno scatto con il rapporto duro, le mani basse, eccetera... un vantaggio che mai si dilaterà venendo risucchiato vilmente dal gruppo mentre chissà quali pensieri torbidi gli saranno passati per la mente. L'ennesimo piazzamento al di fuori del podio: si diceva che avrebbe dovuto avere la squadra per sé, che uno così era sprecato per fare il gregario. Il risultato non cambia, è Landismo.

Il Landismo diventa così il vagare senza meta di Andreas Kartak per Parigi, i suoi piazzamenti sono un dono, il talento è un po' sprecato. Il Landismo si tramuta nell'attesa sul Col de la Loze e quando gli altri scattano lui si stacca. Il Landismo è vederlo arrivare di nuovo quarto dopo aver guadagnato una posizione in classifica a cronometro più per demeriti altrui che per meriti propri. Il Landismo è, come ci spiega bene Remo Gandolfi, «esempio inequivocabile di cosa rappresenta il ciclismo rispetto ad altri sport. È emozione che spesso non coincide con vittoria. Il Landismo è dove nella sconfitta questo sentimento si rafforza, si auto alimenta e rinasce con vigore nella tappa successiva. Nel ciclismo è facile innamorarsi di chi perde, perché è cuore, prima che cervello. È passione prima che calcolo. Landa è tutto questo: è attesa dell'emozione che diventa illusione o persino delusione. Ma allo stesso tempo è talento: perché sai che può arrivare. Ad ogni tappa, a ogni salita, al prossimo tornante».

Il Landismo è fregarsene che poi in carriera non abbia mai vinto un Giro, un Tour o una Vuelta (e probabilmente mai ci riuscirà) perché tanto a lui sta bene così. Ci basta vederlo ancora scattare mani basse sul manubrio, schiena arcuata, perfetto stile e farci aspettare, aspettare, aspettare e poi dire: eccolo lì, quello è il Landismo. E non c'è modo di spiegarlo se non leggendolo nei suoi occhi.

Foto: Bettini


La gentilezza è un atto rivoluzionario

Piccolo antefatto: ieri mattina, scendendo da una scala, a Castelnuovo della Daunia, sono caduto. Niente di particolare, solo una brutta storta alla caviglia. All’inizio, a dire il vero, neanche particolarmente dolorosa. Ma le botte, i colpi, si sa, fanno più male con il passare del tempo. E non parlo solo delle problematiche fisiche. Vale lo stesso anche per quelle dell’anima. All’inizio non hai quasi mai la percezione di ciò che ti accade o che ti è accaduto. Stai lì frastornato. Non senti male. Sei spaesato, il male arriva dopo. Arriva quando passano le ore, i giorni, i mesi e capisci che quel qualcosa ti è successo veramente. A quella storia del tempo che cancella il dolore non ho mai creduto. Se fosse così, dopo ogni grande sofferenza torneremmo come prima. Non succede così, mai. Te lo dicono tutti perché se non lo facessero dovrebbero prendersi la briga di fare qualcosa per quel dolore e, diciamocelo, spesso non ne hanno alcuna intenzione. Forse ci sono anche persone che fanno del menefreghismo per cattiveria. Più spesso, però, le persone sono menefreghiste perché già stanche dei loro problemi, perché già piene di problemi, senza voglia e quindi senza tempo. Ti affidano al tempo che loro non hanno e non considerano nemmeno per un secondo che quando soffri la cosa peggiore che ti si possa parare davanti è il tempo. Certe volte un lungo tempo. Ma ritorniamo alla mia caviglia.
Tutto questo per dire che nel corso della giornata il male alla caviglia è cresciuto e come sono tornato in hotel e mi sono steso sul letto ha toccato l’apice. Niente da fare, la soluzione è un antidolorifico. La farmacia, devo andare in farmacia. Scendo le scale, zoppicando, e chiedo alla reception dove sia la farmacia. Sono fortunato, è nel parcheggio. Sto proprio salutando l’addetto dell’hotel quando mi ferma un attimo e mi chiede: «Sai cosa? Perché oggi che hai finito prima di lavorare non ne approfitti per un giro in città? Lucera è molto carina». Ho risposto «sì, molto volentieri», solo per chiudere prima la conversazione e andare a prendere l’antidolorifico. Meglio ancora: «Vado subito».
«Ti accompagno io»
«Ma si figuri, mi ha detto che sono 400 metri, giusto? Vado a piedi»
«Non se ne parla, ho finito qui. Le chiavi della macchina? Ah eccole. Andiamo»
Diamine. Non ho preso l’antidolorifico, la caviglia fa male e non so neppure quando tornerò in hotel. Approfittando di un attimo di quiete dal male, dato dalla posizione in auto, cerco di fare conversazione. La mia domanda è semplice, sin troppo forse: «Dove andiamo?» La risposta no, la risposta vale la gita: «Ti racconto una storia. Lavoro in hotel ma per me è un passatempo, in realtà sono operaio in una ditta di Lucera. Quando arriva qualcuno in hotel chiedo sempre dove sta andando e perché. Non sono curioso, non nel senso comune del termine. A me interessano le persone che passano dalla reception dell’hotel in cui lavoro. Per questo faccio domande, per questo quando mi dicono che non conoscono la mia città le consiglio. Magari le accompagno per le vie del centro. Mi fa piacere. È una specie di piccola missione. Alla fine mi sembra che le persone siano contente. Magari tornano in albergo a distanza di qualche anno o segnalano l’hotel a parenti perché «Lucera è bella». È una piccola cosa: accompagno solo qualcuno per le vie della città e mostro qualche monumento. Mezz’ora, certe volte anche meno, ma mi sembra un modo di restituire un qualcosa. Credo che quando ci succede qualcosa di bello abbiamo il dovere di trasmetterlo, di lasciarlo per gli altri, di fare in modo che anche gli altri possano provare quella sensazione come noi. Io ricordo che, nei miei viaggi in camper, quando qualcuno mi accompagnava in posti nuovi provavo una sensazione fantastica. Cerco solo di restituire ciò che è capitato a me e se gli altri sono felici lo sono anche io».
E come potrei raccontarvi qualcosa in più, qualcosa di meglio? Come potrei aggiungere un qualcosa che non sia assolutamente inutile. In quella risposta c’è tutto. Vi dico solo che con Gianni, così si chiama questo signore, abbiamo girato Lucera per circa quaranta minuti e siamo tornati in hotel che erano quasi le sette di sera. Che ho trovato la farmacia in chiusura ed è solo grazie alla gentilezza della proprietaria se ho recuperato il mio antidolorifico. Che, in fondo, anche avessi trovato la farmacia già chiusa sarebbe andata bene lo stesso. Sì perché un modo per sentire meno male c’è ed è a portata di mano di chiunque. Il segreto è restare una porta spalancata sul mondo anche quando sembra inutile. Non sempre riuscirete a restare così, di quella porta, talvolta, il mondo lascerà solo una piccola fessura aperta. Non prendetevela troppo, avvicinate gli occhi e guardate. Guardate attraverso quella minuscola fessura e vedrete che un millimetro di bellezza passerà. Dovete solo guardare.


Una maglia rosa per un anziano capitano

Quando arrivi in sala stampa e hai dei comunicati da preparare, non vorresti altro che silenzio. Così, quando ieri, nella sala stampa di Terracina, è arrivato l’ex capitano della Guardia di Finanza a salutare i giornalisti presenti, per qualche momento ho sperato fosse solo un saluto fugace. Ho ben presto capito che non sarebbe stato così. Parliamo di un signore di ottant’anni spaccati, elegantemente vestito in divisa, con voce bassa e capelli bianchi, sotto il cappello della divisa. Un signore con tanta voglia di raccontare, uno di quelli legati ad ogni singolo oggetto della propria esistenza, ai propri nipoti, di cui tiene i disegni in ufficio e alle piccole abitudine “il caffè dopo pranzo ci vuole”. E il caffè te lo porta dalla sua moka, con tanto di biscotto. Uno di quei signori che sanno di tempi andati e che ti fanno pensare ai tuoi nonni, quelli che magari non hai più la fortuna di avere qui. Quelli che ti fanno ricordare un divano fiorato e le braccia del bisnonno che ti stringevano durante il Giro d’Italia. Le carezze sulle guance, tutto il resto e il momento in cui ti sei reso conto di averli persi per sempre. Uno di quei signori che, appena ti vedono con lo sguardo perso nel vuoto, si avvicinano e «hai bisogno di qualcosa?». Magari sì, magari no, ma è bello che qualcuno ci pensi. E poi, in fondo, abbiamo sempre bisogno di qualcosa, siamo sempre monchi e una sola domanda può salvarci. Sì, perché anche un’unica persona che si interessa a te, diventa il motivo per andare avanti. Ma deve essere un interesse vero, uno di quelli che sanno delle mani calde dei nonni sul viso, quando torni da scuola in inverno e fuori fa freddo.
Già, adesso dico così. Ieri lo ho ascoltato per una buona mezz’ora. Io vivo grazie alla condivisione delle storie, delle parole, del sentire delle persone che incrocio. Ho scelto questo lavoro per questo. Avessi fatto altro, con il carattere che mi ritrovo, troppo timido, introverso, sarei rimasto in un angolo, da solo. Avrei dato il massimo ma non avrebbe avuto senso. Con questo lavoro ho liberato quella parte di me che premeva da dentro e faceva male. Ho potuto fare tutto ciò che avrei sempre voluto fare e di questo conservo una felicità bambina. Attimi, frazioni di secondo, in cui mi dico che, sí, è tutto così bello. Fuori non si capisce nulla ma dentro sì, dentro sono felice. Questo non lo cancello, non potrei mai. Ma la fretta è cattiva consigliera di parole e gesti, così nella mia mente, per qualche istante, si è affacciato il nervosismo. Sulla punta della lingua avevo uno «scusi, può lasciarmi lavorare un attimo in silenzio?». Adesso mi si rivolta lo stomaco solo a pensarlo ma ieri stavo per dirlo. Ed è grave, contraddice buona parte di ciò che racconto a tutti quelli che mi chiedono il motivo della scelta di questo lavoro. Per l'ascolto, dico. Non ho detto nulla perché so cosa significa essere zittiti, anche se elegantemente, anche se con correttezza. Le parole ti si bloccano da qualche parte nelle viscere e poi smetti di parlare. Stai in silenzio anche quando non vorresti, temendo che qualcuno ti ributti ancora giù tutta la voglia di parlare. E di parlare abbiamo tutti una gran voglia. Ho pensato che se quel signore era arrivato a ottanta anni così affamato di racconto, non avrei dovuto essere io a spegnergliela per una stupida fretta. Così è passata un'ora.
A fine tappa gli abbiamo consegnato una maglia rosa in ricordo di quel giorno. Probabilmente nei prossimi giorni la farà vedere a tutte le persone che passeranno dal suo studio e racconterà di questa giornata e di altri ricordi sciolti dentro. Ha chiesto una foto e poi ha guardato meglio la maglia. Si è commosso, gli sono venuti gli occhi lucidi, ha appoggiato la maglia sul tavolo e, indicandola: ''Troppo bello, troppo bello''. Piangeva il capitano della Guardia di Finanza. Così forte che una ragazza dell'organizzazione, vedendolo, è scoppiata in lacrime. E piangeva più forte ancora. Questo era davvero bello, troppo bello. Loro sono bellissimi. Io così sciocco che, per la fretta di finire un pezzo, non ho avuto il tempo di alzarmi e avvicinarmi a loro. Magari solo per una carezza sulla spalla, come faccio sempre quando vorrei abbracciare ma non oso. Forse dovrei essere ancora lì ad ascoltarlo quel signore. Forse un giorno ci tornerò e lontano da ogni fretta gli dirò quello che penso. Che senza uomini così non avrebbe senso.

Foto: Tornanti.cc


Badlands, quando l'utopia diventa realtà

«Amavamo la gravel, le montagne, i deserti, la neve e il mare. Amavamo la bicicletta, il bikepacking e l’autosufficienza che regalano. Avevamo una sola domanda: è possibile mettere tutto questo assieme in un unico evento? Abbiamo cercato, esplorato, ribaltato ogni angolo di mondo e trovato la risposta. L’abbiamo messa in pratica, le abbiamo dato un nome evocativo ed oggi Badlands è realtà». Sono dei visionari con il futuro in una mano ed il presente davanti agli occhi gli organizzatori di Badlands 2020, evento organizzato da Transibērica Ultracycling. I partecipanti sono partiti questa mattina alle otto da Granada, in Spagna.

Ad attenderli 700 chilometri e 15000 metri di dislivello, attraversando luoghi remoti e sperduti ai confini del continente: Hoya de Guadix, deserto Gorafe, deserto Tabernas, Cabo de Gata, sino a 3212 metri del Passo della Veleta. Percorsi caratterizzati all’85% da fuoristrada, è consigliata una bicicletta gravel ma l’avvertimento è chiaro: «tu e la tua bici siete i benvenuti, sempre». Un percorso da attraversare da soli od in coppia, immergendosi nella natura. Con poche e semplici regole: «Passerete in ecosistemi delicati, rispettateli. Non lasciate traccia del vostro transito. Studiate prima il percorso, preparatevi. Viaggiate leggeri, tralasciate il superfluo e ricordate l’essenziale. Ricordatevi di usare gentilezza e comprensione per tutti coloro che collaborano all’organizzazione dell’evento. È importante».

La libertà è il sapore di tutto: «Potete abbandonare il tracciato predeterminato, liberamente. Ma dovete ritornarci, se volete restare in gara. Il tempo scorre e non si ferma mai: quando mangiate, quando bevete, quando dormite o quando vi fermate a prenotare un posto dove trascorrere la notte. Non sempre lo troverete e le condizioni meteorologiche potrebbero essere complesse. Passerete dai quaranta gradi a temperature inferiori allo zero. Portate una borsa da bivacco e avrete tutto ciò che vi servirà».

Non chiedetevi se è una gara. Dipenderà da voi. Se vorrete correre per vincere o per arrivare in fondo. Ci sarà una classifica finale ma nessun premio per il vincitore. Sarà bello, soprattutto se ci avrete creduto in ogni singolo momento. Ed arrivare alla fine, forse, non vi sembrerà neanche vero. Al via anche due italiani: Bruno Ferraro e Alessandro Pace.

Un’esperienza inimmaginabile solo fino a qualche anno fa. Almeno per i più. Non per gli organizzatori. Badlands, letteralmente terre cattive, sarà una perfetta miscellanea di desiderio di competere, di migliorarsi, di sfidare l’impossibile e di sogno di tranquillità, di visione incantata su altri mondi, di terra, acqua, sabbia, ghiaccio e neve. Dell’uomo e della natura. Ecco perché Badlands è Alvento. Ci riguarda e vi riguarda.


Ricominciare a scrivere

A chi, in questi tempi di cinismo e sfiducia, si fosse disamorato di qualcuno o di qualcosa consigliamo solo di dare un’occhiata qui sotto. Guardate la foto, sì, quella di Thomas Pidcock che firma la maglia rosa all’arrivo di tappa di ieri, nella splendida Colico, al Giro Under23. Voi guardate, il resto ve lo raccontiamo. Vi raccontiamo della delicatezza con cui Piddock, o Pidders come lo chiamano, ha preso in mano le maglie, dopo essersi passato le mani sudate nei pantaloncini. Per non sporcarle. Vi raccontiamo della sicurezza con cui ha afferrato il pennarello e si è chinato sulla prima maglietta per autografarla. Come a dire “sei mia, sei ancora mia”. Vi raccontiamo della sua reazione quando, nell’autografare, le magliette si sono scostate e la sua scritta ha traballato. Le lettere del suo nome hanno traballato e quella firma è diventata sbiadita, storta, poco decifrabile.

Tom Pidcock se ne è accorto subito. Ha messo una mano sotto le magliette e con l’altra ha provato ad allungarle, a stirarle, per meglio vedere. La vista lo ha deluso. Aveva firmato male, quella scritta non era più un decoro, quella scritta stava male lì. Messa così era quasi meglio non ci fosse. Cosa fare adesso? Tom Pidcock ha avvicinato il viso alla maglia, ha guardato meglio e ha deciso. E dovevate vederlo. Dovevate vedere l’attenzione con cui ha riavvicinato il pennarello alla maglia. Non è facile avvicinarsi a qualcosa di rovinato o di sgualcito. Non è facile avvicinarsi al dolore, alla malinconia, alla tristezza. Puoi avere la migliore delle attenzioni e peggiorare la situazione. Come quando pensi di pulire una piccola macchia su un divano ed in realtà sbagli prodotto, sbagli modo di strofinare, sbagli tutto e la macchia si ingrandisce.
Dovevate vedere la leggerezza con cui ha iniziato a ripassare con il pennarello le lettere scritte male, nel tentativo di renderle migliori. Scriveva e allontanava la testa per vedere l’effetto che avrebbe fatto quella firma così corretta. Lo ha fatto per una, due, tre volte. Poi ha guardato un’ultima volta ed è passato alla maglia successiva. Con una cura raddoppiata, triplicata, quadruplicata, se possibile. Era soddisfatto. E pensare che non ci eravamo mai soffermati con tanta attenzione sugli atleti alla firma delle maglie, dietro il podio. Pensare che lo ritenevano un gesto quasi scontato, ripetitivo. Uno di quei gesti ufficiali che poi contano fino ad un certo punto. Ci eravamo sbagliati. Di grosso.

Ogni tanto, nella vita, qualcosa sbiadisce, scolora, traballa. Qualche volta, purtroppo, è qualcuno a perdere salde radici, ad abbandonarci, a cambiare così velocemente da non lasciarci tempo di capire. Nella peggiore delle ipotesi è la vita stessa ad apparirci così, a perdere bellezza e meraviglia. Noi vi auguriamo una cosa: trovate il coraggio di Thomas Pidcock. Non rinunciate per paura di peggiorare la situazione o per la certezza che la situazione non cambierà. Non potete saperlo. Tornate ad avvicinarvi. Riaprite quel pennarello. Ricominciate a scrivere. Fate qualcosa, qualunque cosa. Non trovate scuse, non cercatele, non le avete. Poi riguardatela, la vita. Riguardatela bene. Vi piacerà. Più di prima.

Foto: Claudio Bergamaschi