La fantasia di Tadej

Tadej Pogačar lo aveva detto venerdì sera: «Ho sbagliato a non cogliere l'attimo quando è andata via la fuga». La sua squadra era stata isolata, la fatica raddoppiata e lui ha ammesso l'errore. Poteva essere pericoloso, un segnale di debolezza dato agli avversari, alla vigilia di due tappe alpine, con tutte le possibilità per attaccare e lasciarlo a inseguire. Non gliene è importato.

Ieri mattina, la squadra sapeva che avrebbe attaccato, il presentimento lo avevamo tutti, a dire il vero. Ha anticipato lo scatto e lo hanno visto andare via ai meno trenta, sotto il diluvio. La saggezza avrebbe consigliato di aspettare, di piazzare lo scatto secco nel finale, perché azioni del genere non sono meno pericolose di quella spietata sincerità. Invece no, Pogačar ha dato retta alla fantasia, anche se poteva costare cara, perché, perdere minuti a fiotti, mentre provi a guadagnarli, non è così raro. Ha messo alle corde gli avversari, è arrivato stremato, si è liberato dal casco e si è disteso sulla bici a riprendere fiato.

Oggi, Pogačar ripartirà sapendo di essere controllato a vista. «Ora ci attaccheranno tutti- ha detto ieri Formolo- siamo la squadra da tenere d’occhio. Ma abbiamo la maglia gialla, finalmente». La gente, di nuovo sui tornanti, si è entusiasmata e non aspetta altro che la tappa di oggi, perché vuole vedere come va a finire e immagina i finali più inconsueti, utopici, devastanti. Perché, per quello che sta mostrando questo Tour, possono manifestarsi.

Accade quando usi la fantasia e ti butti come l’acrobata senza rete. Come Pogačar meno di ventiquattro ore fa. Non sai come va a finire, ma, come scriveva qualcuno, non serve saperlo. Certe volte, nella vita, bisogna dare retta alle sensazioni. Il fine non è essere impeccabili. Certo, può capitare di sbagliare: in quel momento, starai in silenzio e pagherai l’errore, la crisi e i minuti che se ne vanno. Solo in quel momento.

Tutti aspettiamo Pogačar, van der Poel o van Aert non solo perché fanno questo come ciclisti. Li aspettiamo perché rappresentano un modo di fare e di essere anche nelle piccole cose della vita quotidiana di ognuno. Un modo a cui, spesso, non ci si affida per paura. Così, quando abbiamo visto Pogačar, abbiamo pensato a cosa può accadere se solo si coglie il coraggio di buttarsi. Oggi è domenica. Domani riprenderemo la settimana con una consapevolezza in più.

Foto: ASO


Godersi ogni momento

Il Tour oggi spiega come si vive ogni momento. Lo spiega a noi, eterni "homo ludens", che godiamo nel vedere loro, fachiri attrezzati a rendere perfetto ogni spettacolo. Ce lo insegna subito, dal via, quando piove, quando le montagne sono nascoste dalla nebbia in lontananza e si fanno spettri monchi man mano che ti avvicini.
E si parte in salita e c'è subito battaglia, e sappiamo noi, spettatori, omologati nel provare certe sensazioni, che sarà una giornata tremenda, e lo capiscono loro, corridori, che quelle quattro ore devono passarle in bicicletta.
E pare ironico pensare che staccandoti subito potrai goderti anche un solo momento. Succede che Primož Roglič, oggi, forse si è tolto un peso. Ha arrancato per i dolori, si è come scrollato di dosso un senso di colpa nel gesto di levarsi e poi scuotere gli occhiali bagnati da una pioggia che oggi per lui aveva il sapore della resa. All'improvviso sì è sbloccato.
I suoi occhi sembravano trattenere le lacrime, e poi, ecco l'incanto: qualche chilometro dopo lo inquadrano sorridente. Per la concentrazione del gesto, per la corsa al successo, il limare, non lo avevamo mai visto così.
Si è goduto ogni momento, un paradosso, come per quello che andava in guerra con il simbolo della pace sul caschetto. Perché quando ti ritrovi davanti per vincere non c'è nulla da godere, lo fai solo all'arrivo, c'è la nobilitazione della fatica, il sapore ferroso del sudore, le urla inconcepibili della radiolina che butteresti via.
Sì, forse quando te lo chiedono nelle interviste improvvisi un po' e racconti di aver visto tanta gente, ma in realtà era solo calore che serviva a scaldare la tua anima e ad alleviare la sofferenza. Oggi Roglič invece, si è goduto davvero ogni momento.
La goduria del momento per Pogačar è durata un'ora, un'ora e mezza. È stata portare in là i suoi limiti, partire e andare vestito di bianco, tornare in giallo, soffrire e immedesimare la sua esistenza come lungo un fiume. Superare, stantuffare, mulinare: i momenti di Pogačar sono stati (quasi) perfetti.
Oggi il momento è stato tutto un paradosso: mentre dietro saltavano vecchie glorie (Froome), feriti (Thomas), delusioni di giornata (Latour), davanti attaccava un (quasi) velocista (Colbrelli).
E c'è stato il primo momento in cui abbiam visto van der Poel fare qualche calcolo non abboccando alle schermaglie, staccandosi sulla penultima salita e passando il gran premio della montagna da solo, quasi tranquillo, che sembrava dire: "perdo la maglia, oggi, ma chissà, un giorno, in futuro...".
C'è stato un momento in cui ci siamo spaventati quando è caduto De Bod e con lui Vingegaard che va talmente forte che è arrivato con migliori e con una spalla scorticata. Il dolore lo sentirà in un altro momento.
E poi c'è stato un momento in cui van Aert ha provato a resistere e in effetti ha resistito. Ha fiutato l'odore della maglia gialla, ma poi quell'odore è stato ricoperto da Pogačar. E poi il momento finale tutto per Teuns, vincere al Tour anche per chi ci ha già vinto, resta sempre un momento, anzi il Momento.

 


Lucida Follia

Chissà cosa si saranno detti per guardarsi e ridere così davanti alle telecamere. Forse avranno scherzato su quell'ossimoro che è la loro lucida follia, su come dietro non sarà andata giù la loro pazza idea di provare a far saltare il Tour in una giornata che anticipa le montagne (a proposito: oggi antipasto alpino, ma non di quelli con formaggio col miele, frittatina di erbe e tagliere di salumi, ma con Romme e Colombière) e dove, di solito, è scritto a caratteri cubitali che va via una fuga di quelle che non provocano timori né scossoni.

Ma è proprio questo il nodo: a loro di quello che sta scritto non importa nulla. Sono il punto di rottura con quello a cui eravamo abituati in questi anni.

Viene spontaneo chiederci: cosa sarebbe oggi il ciclismo senza di loro? Soprattutto: chissà cosa sarebbe stato il pomeriggio di ieri al Tour senza il loro attacco, senza le loro storie alle spalle, la loro rivalità che parte da lontanissimo - intesa negli anni. Che si sposta dal fango, alle pietre e oggi arriva fino al Tour de France. Trasformando una tappa simile a una classica in una grande classica. Certo, il ciclismo è esistito prima di loro ed esisterà anche dopo, per fortuna, ma ce li godiamo il più possibile. Finché sarà possibile.

Viene spontaneo chiederci anche: chissà cosa avranno in mente di fare nei prossimi giorni, chissà quanto in su riusciranno a spostare l'asticella.
Van der Poel che proverà a tenere la maglia gialla finché si può, altra pazza idea, van Aert che magari sarà all'improvviso l'uomo di classifica della sua squadra visti i guai di Roglič. Domani sera a Tignes avremo un quadro più chiaro della situazione.

Foto: bettini


Il divenire di Guillaume Martin

Cosa potrà fare Guillaume Martin in questo Tour? Difficile dirlo, anche perché le definizioni non gli sono mai piaciute. Nemmeno le etichette. Sia le une che le altre limitano ciò che è una persona e Guillaume non ci sta. «Si tratta di una semplificazione - spiega nel suo libro “Socrate à Vélo”- perché le persone non sono in questo o in quel modo, cambiano continuamente. Le cose che ci circondano sono in un modo o nell'altro, l'uomo diventa». I più grossi torti che si fanno agli uomini, si fanno proprio perché non si riconosce questa loro caratteristica essenziale. Così si mette un'etichetta, spesso a causa dei primi comportamenti tenuti durante la conoscenza e via.

«Tutti dicono che Alaphilippe metta molta passione in sella, quasi fosse solo istinto, e si dimenticano dei sacrifici che fa, perché solo con la passione, senza impegno e sacrificio, non si va da nessuna parte. Di Froome invece si diceva l'opposto: quasi fosse solo testa senza alcun entusiasmo. Quando, anni fa, attaccò sul Peyresourde non mi sembrò come lo descrivono» raccontava in un'intervista qualche mese fa. Del resto, è stato lui stesso a sperimentare il peso di quelle definizioni nel momento in cui tutti hanno iniziato a dire che era l'intellettuale del gruppo, come facevano con Laurent Fignon, in quel caso solo per un paio di occhiali.

«Mi sono messo a scrivere proprio per spiegare che non sono solo un intellettuale o un ciclista intellettuale. Le persone saranno sempre interessate a questo. Ora lo sopporto meglio, all'inizio facevo fatica. La realtà è che non vorrei essere ricordato solo come un ciclista-filosofo». Guillaume accetta il giudizio, anzi lo ricerca, sia quando scrive che quando pedala, purché le due cose non si confondano e si distingua il ciclista dallo scrittore.
Soprattutto Guillaume Martin non si definisce, non si fa definire e si sente libero di fare ciò che crede. Perché questa, in ogni caso, sarà la sua forza: sfuggire a ciò che il contorno gli imporrebbe per inventare qualcosa di nuovo che nessuno ancora immagina. Sfuggire a ciò che tutti vorrebbero fosse, per diventare.

Foto: Cofidis


Il talento salverà il mondo

Datemi il talento e salverò il mondo. Datemi una tappa così e vi farò divertire. Datemi una maglia gialla e vi assicuro che attacco da lontano. Datemi un gruppo in fuga così ricco di talento da sembrare un festival rock degli anni '70, che vi regalo una giornata da non dimenticare.
Perché va così oggi: apologia del talento. Va in scena la forza, la classe, la fantasia. Nella vittoria di Mohorič ci sono tutte le sfumature che rendono memorabile il ciclismo, prezioso il talento. Quello di Mohorič che si accende a intermittenza come quando si ricorda di essere forte, o un po' di più, e oggi è una di quelle volte che lo rendono speciale. Pazienza se ogni tanto può apparire distratto, se rischia e cade persino. Ci piace così, come quelle lacrime a fine gara, ormai un grande classico al Tour, o come quell'inglese sfoggiato ai microfoni che sembra non abbia mai parlato un’altra lingua in vita sua. E poi 86 km col vento in faccia te li fai solo se hai talento.
Datemi il talento e vi ribalto il mondo: sembra sussurrare van Aert a van der Poel, tra i pedali, quando attaccano, tirano il gruppo in fuga e all'arrivo mancano 200 km. Quando si guardano, si dicono qualcosa e per un attimo sembrano persino ridere, poi si corrono contro, poi collaborano, poi danno spettacolo. Hanno sempre fatto così da quando si conoscono e lo ribadiscono nella corsa più grande del mondo che loro, grandi come sono, contribuiscono a esaltare.
Datemi il tempismo e attacco al momento giusto: è Carapaz, il campione mondiale dell'attacco al momento giusto. Peccato (per non dire altro) che la Movistar col dente avvelenato per storie tese ancora vive tra di loro - e che francamente hanno stufato - lo vada a riprendere sul traguardo. Almeno lui ci dimostra che il Tour è ancora vivo.
Datemi la tranquillità che vi gestisco tutto io, sembra pensare Pogačar che di anni ne ha 22 ma per come corre sembrano almeno il doppio. Oggi non appariva in una giornata da bambino d'oro, ma domani chissà, potrebbe persino chiudere i conti con il Tour negando totalmente quello che abbiamo detto sopra su una corsa ancora aperta.
Ma il talento è anche coraggio, quello di Vincenzo Nibali, a proposito di anni lui ne ha davvero quasi il doppio di Pogačar ed è lì che ci prova, brilla, scatta, risponde. Che Nibali sia un perfetto esemplare di talento, non lo scopriamo certo oggi.
Il talento, già, croce e delizia di chi ne porta troppo appresso. A volte ti distrae o ti affossa, ma è talento anche saper soffrire: come accade a Roglič che oggi segna l'addio alle sue speranze di vincere il Tour. Troppe le ferite sul corpo, da stasera anche nell'anima, ma animo: tornerà anche il tuo momento. Di talento per salvare il mondo ne sei provvisto.


Un gesso e una lavagna

Una lavagna in pietra ardesia nera, un gessetto bianco e qualche numero. In fondo è tutto quello che serve a un ardoisier, termine quasi onomatopeico, come il sibilio del gesso sulla lavagna, che racconta un mestiere del vecchio ciclismo che è sopravvissuto al tempo. Così, ancora oggi, in corsa vedete la moto ardoisier che fa la spola tra il gruppo e i fuggitivi per indicare i distacchi e la composizione della fuga. Il tutto così, facendo uso dei due strumenti più semplici che ci siano, quelli che conosciamo la prima volta che entriamo in un'aula scolastica. Per il resto bastano un casco e una divisa gialli, come la maglia gialla.

Eppure non è scontato, come tante altre cose. Pensate a un insegnante di educazione fisica in Burkina Faso, a Ouagadougou, che ogni tanto, quando passa il Tour del Burkina Faso, può uscire dalle aule di scuola e mettersi sulle strade con i suoi ragazzi a vedere i ciclisti. Si chiama Michel Bationo e la prima lavagna e il primo gessetto li ha tenuti in mano proprio sulle strade polverose della sua città. Bationo è uno di quegli uomini che ha sogni grandi e che non ha paura di raccontarli, anche se qualcuno potrebbe prenderlo per matto. «Se un giorno potessi, mi piacerebbe andare a lavorare al Tour de France, essere l'ardoisier del Tour».

Qualche mese dopo, il Tour chiama e lui risponde. È il 2002 quando parte per la Francia come racconta ai quotidiani locali: «Non ero mai stato in un aeroporto prima di quel giorno, non avevo mai visto le scale mobili, soprattutto non avevo mai visto la neve sui monti mentre si vola. Ho scattato delle foto». Michel sorride sempre e fino al 2007 resta l'ardoisier del Tour. «Jalabert una volta mi ha detto: “facciamo cambio; io salgo in moto e tu vai in bici”. Mi sembrava incredibile che un ciclista mi chiamasse per nome e mi parlasse». La stessa sorpresa l'ha provata quando qualche corridore ha accettato di farsi fotografare con lui: «Cosa gliene fregherà mai di un ardoisier, mi dicevo, e invece...».

Così un centometrista burkinabè è arrivato al Tour e vi è restato come chi, in fondo, vi era sempre stato anche se materialmente era molto lontano. Già, perché forse i sogni si vedono meglio da lontano. Forse dovremmo imparare anche noi.

Foto: Bettini


L'estate di Cavendish

In quelle ultime pedalate potenti, un po' sporche, in quelle mani sul caschetto, per una scena simile, già vista, o meglio, praticamente identica a quella di tredici anni fa su questo stesso traguardo a Châteauroux, c'è tutta l'estate di Mark Cavendish.

Nella faccia incredula, nella maglia verde, nella seconda vittoria in questo Tour, la trentaduesima in totale nella corsa più famosa del mondo, c'è tutta la sua essenza.

In quello che ieri era un pianto e che oggi diventa riso, in quella faccia rossa dalla fatica, nel gesticolare spiegando ai giornalisti la volata a fine tappa, in quegli occhi pieni di emozione, c'è tutta la classe del Missile di Man.

In quell'abbraccio con i compagni di squadra a fine corsa, in quell'urlo unanime e soddisfatto, in Alaphilippe in maglia iridata che tira il gruppo, in Ballerini che pilota Mørkøv e sembra fare a gara con van der Poel che tira il gruppo dall'altra parte, c'è tutta la fedeltà del ciclismo.

Nella battaglia per prendere il treno giusto, c'è il gusto del rischio.
Nelle sbandate e nella velocità, nelle rotonde e nella noia di una tappa di trasferimento, c'è tutto il sapore di una volata al Tour de France.

In quegli ultimi metri, in quell'accelerazione esplosiva, nel viaggiare da una ruota all'altra, nell'abbassarsi schiacciato sul manubrio, ci sono le trentasei primavere di Mark Cavendish, che sembra non sentirne mezza. E oggi è la sua estate, calda, quella del ritorno.

Foto: Bettini


(Quasi) mille chilometri per una maglia

Forse a molti, anzi, alla maggior parte di voi, il nome di Meindert Klem dice poco, a meno che non siate seri appassionati di canottaggio. Ancora di meno vi dirà quello di Mark Putter, proprietario di un hotel per cicloturisti sui Pirenei, a meno che non vi sia capitato di pernottare da quelle parti e di aver trovato un'accoglienza talmente indimenticabile da ricordare a memoria il suo nome.

Qualcosa in più, invece, vi dirà quello di Cameron Wurf, veterano di lungo corso, si sarebbe detto una volta, attualmente sotto contratto con la INEOS Grenadiers.

E cosa collega Klem, Putter e Wurf, oltre a sembrare un trio di musica folk americana? Ma soprattutto: cosa c'entra con la nostra storia, con il Tour de France e con Mathieu van der Poel?

Beh, ieri l'olandese, storia nota a tutti questa, ha mantenuto la maglia gialla per otto secondi rispondendo all'impatto devastante che Pogačar ha avuto sulla crono. Qualcuno malignamente ha ipotizzato che lo sloveno abbia tirato un po' i freni per lasciare l'incombenza della difesa della maglia alla Alpecin Fenix, per elargire favori come fosse un novello Indurain.

Ma al di là della dietrologia, c'è da sottolineare, sì, la grande prestazione del ragazzone olandese che una crono così, a tutta, non l'aveva mai fatta né mai preparata, ma c'è anche da mettere in evidenza un particolare che spiega bene la ricerca del successo e dell'abbattimento dei margini.
Avete notato, vero, le ruote montate sulla Canyon di van der Poel? Beh pare che la storia sia andata più o meno così: il direttore sportivo della Alpecin Fenix ha contattato Klem, che da vogatore è diventato rappresentate di un'azienda che produce ruote in carbonio (le stesse che usa, ad esempio, proprio la INEOS), chiedendo la disponibilità di un paio di ruote per il suo corridore.

Klem ha risposto che in così poche ore le uniche disponibili le possedeva Wurf, ma che queste ruote si trovavano in un hotel-rifugio sui Pirenei. Il proprietario di quell'hotel, Mark Putter, ha ricevuto una chiamata, senza pensarci un secondo le ha caricate nel bagagliaio e si è diretto verso Rennes.

Quasi mille chilometri in auto, da Biert a Rennes, dieci ore di viaggio. «Mentre ero in macchina mi dicevo: "ci pensi, Mark, che follia avere con te nel bagagliaio le ruote che potrebbero aiutare van der Poel a difendere la maglia gialla?" - racconta. «Io vado matto per il ciclismo e quello che van der Poel ha fatto in questi giorni è incredibile. Se posso dargli una mano fornendogli ruote più veloci, ben venga. Anche solo bastasse un secondo a difendere la maglia gialla». In realtà non è stato un secondo, ma otto. Quando la cura dei dettagli fa la differenza.


Biglie in frantumi

C'era la luce lacrimante degli ultimi pomeriggi di giugno, mentre Primož Roglič camminava a fatica verso l'ammiraglia, stanco, medicato ovunque, fra la pelle che brucia, grattata a terra come in una grattugia, e i cerotti e le bende che sfregano ad ogni movimento. Lo sloveno, da tutti immaginato inscalfibile, quasi insensibile, ha poche parole, pronunciate a fatica ai giornalisti de “L'Equipe” in un silenzio assordante, fra gli ultimi rumori della sera di Pontivy: «Non ho niente di rotto, ho ferite e tagli ovunque. È un giorno nero, schifoso: per la fatica che facciamo, nessun ciclista merita questo. Proverò a lasciar passare i prossimi giorni, fino a quando sarò in corsa mi batterò perché tutto è ancora possibile».

Sotto quelle medicazioni c'è un dolore particolare. Non solo quello fisico della carne che grida vendetta ogni volta in cui il medico disinfetta la ferita o delle notti sudate, in piedi o su una sedia perché, appena ti muovi, il lenzuolo sembra accoltellarti. È il dolore della sfortuna che ritorna, delle troppe cose che hai già visto e che temi di dover vedere ancora. Roglič è arrivato a chiedersi se al male debba abituarsi, perché sembra non riuscire più a scrollarselo di dosso. «Non sono fatto per questo, non sono nato per tutta questa sofferenza» disse alla Vuelta del 2019, mentre Lora, la sua compagna, gli gridava contro dalla rabbia, perché quella è la frase di chi sta iniziando ad arrendersi, a mollare la presa. «Deve ricordare ciò che ha già fatto e che credeva impossibile. È il solo a poter realizzare cose come quelle che fa ogni giorno, il suo lavoro non è stato vano, deve comprenderlo». Quella Vuelta, poi, la vinse.

Primož Roglič ci ha pensato spesso, per esempio ad agosto 2020, su una terrazza di uno chalet, dopo la terribile caduta sulle strade dell'Alta Savoia. «Ero in silenzio, da solo. Pensavo a tutto il tempo che avevo passato lontano dai miei familiari, ad allenarmi duramente, poi vedevo gli orribili ematomi che avevo sul corpo e che non mi permettevano di pedalare».

Ma arrivi a un certo punto in cui non ti può bastare la capacità di soffrire e reagire. Non vuoi essere un eroe che si rialza sempre. Vuoi poterti concederti il lusso di restare a terra qualche minuto di più, di rialzarti se e quando vorrai, di essere sereno e senza male ovunque. Per questo la tentazione del rifiuto, perché tutti ti chiedono di resistere, ma resistere fa male.

Ma quella è vita. Quelle sono le biglie andate in frantumi di cui parlava Baricco, gli errori e le delusioni che si appiccicano ovunque mentre la gente ti addossa ciò che non sei, senza nemmeno conoscerti. Poi arriva un giorno in cui, anche sotto il cielo ingrato di Bretagna, senti che non ti interessa più, perché, mezzo disfatto, provi sollievo al solo pensiero di andare avanti. «Quando sono in momenti come questi mi dico sempre che sono stufo e non ce la faccio più. La realtà è che esistono e vanno vissuti, non messi da parte. Nessuna recriminazione li cambierà. Poi passano e ogni volta che sono alle spalle trovo i motivi per ricominciare e faccio un elenco di quelli per cui amo il ciclismo». È forse quello il giorno in cui ti salvi: quello in cui sai che, nonostante tutto, passerà.

Foto: Bettini


I margini del progresso

Il progresso, nell'oscura visione nichilista di J.G. Ballard, assume i contorni di un futuro distopico, ma quanto mai reale. Va tutto troppo veloce, una società che sa quanto corre, ma non sa dove andrà a finire. Come un'auto lanciata a tutta, lamiere che si contorcono, frenate, botti, scintille. È un condominio che più è alto e più trovi personaggi di un tale squallore. È noia che diventa violenza, omologazione e consumismo. È voyeurismo.

Nella visione ciclocentrica del mondo, il progresso non è altro che biciclette sempre più leggere e veloci, che appena sfiori i freni rischi di assaggiare l'asfalto, di scorticarti, di lasciarci i connotati. Sono "marginal gains", diete ferree, azzardi di ogni genere. Chiedete a van Aert che in una crono al Tour due anni fa, rischiando, finì contro le transenne e sembrò lasciarci una carriera. L'asfalto ribolliva, il sole martellava sulla testa del belga la sua angosciante cantilena, pareva davvero finita. Si lacerò una gamba, si rialzò in tutti i sensi e si ricostruì. Il pubblico invece incuriosito restava a guardare.

Nei secoli il progresso ha portato la bicicletta a essere un mezzo sostenibile. O almeno a tentare di farlo, se solo l'uomo avesse fatto "in tempo a capire quale prodigio è la bicicletta" scriveva Ormezzano in "Apologia della Bicicletta". Al centro, da sempre, c'è l'uomo. Vittima, sperimentatore, carnefice, protagonista assoluto. Al centro del discorso, ecco l'uomo-bici, il corridore, animale contemporaneo per antonomasia. L'arena del nostro svago è la cronometro di Laval, Tour de France. Dove l'uomo-bici si esibisce in quello che è il ciclismo per lo spettatore: un progressista atto d'amore.

E provate a guardare le biciclette da crono oggi per capire a che punto sta il progresso. Pesano pochi chili che verrebbero da quantificare in grammi, fanno un rumore che definiresti strano, quasi impercettibile. Un mezzo lo è, ma non c'entra nulla la mobilità, è per correre sempre più veloce. Al massimo puoi strabuzzare gli occhi nel constatarne le curve da polluzioni, la livrea da non dormirci la notte. Lo scopo non è spostarsi, ma arrivare prima degli altri, portarti verso la maglia gialla, verso la vittoria di tappa, infrangere record - quello dell'ora, ad esempio: che incredibile inno al progresso è?

Trascina il corridore sull'asfalto proprio come l'auto lanciata a tutta velocità. Fa scintille anch'essa, è nuova carne meccanizzata fatta a carbonio, con un tubo centrale, grasso e catene, cambi sofisticati, ruote di una tale leggerezza che sorrideresti se non fossero così variabilmente pericolose.

Il progresso è il tempo che passa tra il pensiero e l'atto. Tra il passaggio di un corridore e l'altro all'intertempo, tra due pedalate. Una posizione aerodinamica è progresso; body e casco sono progresso, un corridore che spinge a tutta "rapporti impossibili" è progresso. Come Tadej Pogačar: prototipo moderno del corridore. Forse un tipo che si è visto raramente, forse elemento ultimo di quello che stiamo cercando. Fisici scolpiti nel marmo, privazioni, lacrime, sangue, fragole, champagne. È la violenza in mondovisione di un gesto quanto mai elementare.

La bici da cronometro è il sunto del progresso: appare perfetta, ma solo all'apparenza. È il gusto sadico di chi osserva cadute che fanno accapponare la pelle, ma ti inchiodano ugualmente al televisore.

Così come ti inchioda la sinfonia di Pogačar che imprime musica al suo progredire in bicicletta. Così come ti esalta l'azione di van der Poel che resiste, illumina, rilancia. Se il futuro nella mente di Ballard era oscuro e nichilista, forse è perché ancora non aveva visto ciò che stiamo vedendo noi oggi.