In cerca di successo: 10 corridori che inseguono la prima vittoria da professionista

La stagione sta per iniziare, non pare vero. Il tempo vola se ci riferiamo a un arco ristretto, ma accade lo stesso e ci guardiamo indietro: “sembra ieri” diciamo il più delle volte. E allora facciamo un gioco, direbbe "L’Enigmista" (non Bartezzaghi anche se pure stamattina gli saranno fischiate le orecchie, lo si ama e lo si odia).

Tuttavia, non sbrodoliamoci e veniamo al dunque: sembra ieri che alcuni corridori, che qui elencheremo, sono passati professionisti, invece è già qualche anno, e alcuni di questi non hanno ancora assaporato il gusto della vittoria. C’è stato chi, come Pastonesi in passato, ne fece un vero e proprio cavallo di battaglia, oggi, noi, almeno chi scrive, non persegue lo stesso lato romantico della faccenda, ma vuole far conoscere 10 corridori (ce ne sono di più, logico, alcuni interessanti sono rimasti fuori) che non hanno ancora vinto e che inseguiranno il primo successo da professionista in questo 2024.

Una sola regola: non si è tenuto conto di chi è passato professionista nel 2023.

TIM DECLERCQ

Tim Declercq (BEL) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2023

Il trattore ha cambiato squadra, dalla Quick Step alla Lidl-Trek. Fa quasi rima. Ha cambiato squadra, ma non attitudine, con gli americani lo troveremo a tirare, tirare, tirare, tirare, tirare, eccetera. Qualche anno fa, quando ritirò il premio del miglior gregario dell’anno, indetto da non ricordo bene quale rivista, sito o cose simili, usò una delle frasi fatte più note che accomunano corridori lenti come la melassa (cit.): “in una volata a tre, io arrivo quarto". Tra l’altro pare sia successo davvero. Si sbloccherà?

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 0%

FREDERIK FRISON

Frederik Frison (BEL - Lotto Dstny) - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Un vecchio adagio del ciclismo afferma come i corridori in scadenza di contratto all’improvviso inizino ad andare più forte. In particolare questa sindrome - lo racconta, se non sbaglio, De Gendt nel suo libro - colpisce duramente i belgi. Forse è qualcosa nell’aria, nell’acqua, nella birra o nel cioccolato. O forse è colpa degli abitanti di Namur e della loro invenzione (le patatine fritte!). Insomma, Frison, dopo anni di anonimato lo scorso anno volava al Nord, fino a ottenere il rinnov… no, non è vero Lotto non l’ha rinnovato ma lui è andato in una squadra ambiziosa, simpatica e che al posto di un nome ha una sigla strana. Avrà il suo spazio per provarci.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 5%

JUANPE LOPEZ

Juan Pedro López (ESP - Lidl - Trek) - Foto Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Non lo sapevo e ci sono rimasto male, ero convinto che al Giro avesse vinto una tappa, poi sono andato a riprendere l’arrivo sull’Etna - ero lì, ma faceva freddo e c’era vento e stavamo mangiando cannoli e arancini (sì, arancini e non arancine) - e ho visto che vinse Kämna, mentre Lopez prese la maglia rosa che gli stava pure bene. Ho come un sogno su di lui, un articolo che non ho mai più ritrovato e che raccontava un fatto curioso: prima di correre o forse nel tempo libero, faceva il panettiere o pasticcere, se trovate qualche informazione aiutatemi. Ah, per vincere deve arrivare tutto solo soletto e in una tappa di montagna. Difficilissimo, ma non del tutto impossibile.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 10%

HAROLD TEJADA

Harold Tejada (COL - Astana Qazaqstan Team) - Foto Tommaso Pelagalli/SprintCyclingAgency©2023

Ci sono corridori e corridori. Ci sono quelli che vincono e scompaiono per mesi e anni, altri che diventano corridori di livello assoluto e ci rimangono, che sanno vincere e sanno essere pure continui. Ci sono quelli che sembrano persino crescere stagione dopo stagione! E li si può anche aspettare con calma. Com’è possibile? Ci sono quelli regolari su cui puoi contare, e Tejada è uno di questi. Ha l’età giusta pure per vincere una tappa al Giro d’Italia, però prima c’è da chiedere il permesso a Pogačar.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 15%

MATTEO FABBRO

 

Matteo Fabbro (ITA - Bora - hansgrohe) - foto Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Segna per noi, Matteo Fabbro, segna per noi Matteo Fabbro oooh-oooh ecc ecc. Il friulano sarà la punta di diamante della scintillante nuova squadra di Bassoeccontador, il team Polti. Peccato solo non aver scelto una maglia con il design che richiami quella degli anni ‘90 (ma secondo me hanno in serbo qualche sorpresa, una maglia speciale per il Giro pronta a sbancare il botteghino), altro discorso. Insomma, Matteo Fabbro, come dobbiamo fare per vincere? Per me si può fare, ma la strada è solo una e si chiama F-U-G-A. Se vogliamo vincere una robetta di peso, una tappa al Giro, alla Tirreno cose così. Se invece vogliamo iniziare, com’è giusto anche che sia da qualcosa di piccolo, allora fatti portare in Spagna, dove si sta bene e c'è il terreno adatto e cerchiamo di rosso un bell’arrivo in salita, possibilmente in una gara con una concorrenza non elevatissima e sprigioniamo i cavalli friulani, quelli che da Under facevano presagire un buon futuro. Per me, ripeto, si può fare.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 25%

MAX KANTER

Max Kanter (GER - Movistar Team) - Foto Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2023 

Ha un nome a metà tra un filosofo e un pornostar, se lo guardi in faccia sembra appartenere alla gioventù kitteliana, è un velocista di buon livello, tiene pure bene se il finale è tortuoso. Ha già 27 anni, e tra una cosa e l’altra questa è l’ottava stagione tra i professionisti. Insomma: cos’è andato storto? Non si sa, pare un giorno abbia comprato uno strano oggetto al mercato e abbia scoperto che strofinandolo (non sappiamo cos’era quell’oggetto, e non ci teniamo a scoprirlo, ne sappiamo cosa si intenda per "strofinandolo" né dove, né come) avrebbe dovuto rispondere alla domanda: preferisci arrivare 50 volte secondo o vincere una corsa? Ha scelto la prima perché la domanda gli era stata posta in kazako e lui la lingua non la conosce, andando in confusione.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 40%

 

ANDREA PICCOLO

Andrea Piccolo (ITA - EF Education - EasyPost) - Foto Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Andrea, piccolo grande uomo. A sprazzi ci fai godere, ad altri ci fai arrabbiare (si fa per dire, ti si vuole un mondo di bene), abbiamo un desiderio (magari proviamo a strofinare anche noi l’oggetto di Kanter, anche se in effetti non funzionava proprio così…) ovvero quello di vederti vincere una corsa, anzi adesso barattiamo noi, fateci parlare con chi ha inventato quella cosa che al mercato Maxkanter comprò. Insomma, in cambio di una carriera opaca o di alti e bassi ti vogliamo one-season-wonder e quest’anno vinci tutto il possibile. Affare fatto?

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 50%

LEWIS ASKEY

Lewis Askey (GBR - Groupama - FDJ) - Foto Jan De Meuleneir/PN/SprintCyclingAgency©2023 

L'ho visto salire sull’Alpe d’Huez zaino in spalla, divisa della FDJ, sorridente. Era il 14 luglio e c'era una festa assurda su quella salita tanto mitica quanto brutta. Tutti aspettavano Pinot, lui era un ragazzo in gita, anche se ben tirato. Askey fa così perché ama l’aria aperta e il ciclismo, il ciclismo per il momento non sembra amare lui, se è vero che alla Roubaix ha chiuso con un ginocchio aperto in diversi punti, e se è vero anche che, non ce lo siamo immaginati, lo scorso anno ha perso la Paris-Tours da favorito, almeno in quel gruppetto, la volata con uno stagista americano di età non ben definita e che sinceramente non avevo mai sentito nominare. Gli do buone chance, però deve essere più cattivo e iniziare a odiare questo sport di merda.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 75%

ANDERS HALLAND JOHANNESSEN

Anders Halland Johannessen (NOR - Uno-X Pro Cycling Team) - Foto ReneÕ Oehlgen/HRSprintCyclingAgency©2023

 

Ci sono gemelli e gemelli, ecco lui è il gemello meno forte, ma non per qualcosa, perché Tobias non è solo quello forte dei due, ma perché Tobias lo è proprio a livello assoluto. Anders è un po’ la sua stessa versione con qualche watt in meno, ma si può lavorare per limare alcuni aspetti. Nel caso non dovesse riuscire a sbloccarsi entro fine stagione pare abbiano già fatto il patto che l’uno prenderà i panni dell’altro per andare a vincere. Poi come succede in questi casi capaci che a parti invertite finisca per vincere Anders nei panni di Tobias, e che Tobias nei panni di Anders finisca secondo. Chiaro il concetto, no?

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 90%

NICOLA CONCI

 

Un altro che mi ha lasciato senza parole alla scoperta delle zero vittorie in carriera, anche perché questo da Under 23 andava fortissimo, vinceva, scattava, era esplosivo, eccetera, eccetera. Io faccio una scommessa, con chi se la sente, per me quest’anno si sblocca e vince una corsa importante.

% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 100%

 


Le cose del cuore

Succede sempre così nel ciclismo. C’è l’attesa che per un attimo trasforma tutto in silenzio: lo conosciamo quel momento. Accade quando ti guardi dentro e cerchi una risposta. Che tu sia su una bici a patire il piacere del dolore, oppure a bordo strada ad aspettare i corridori appagati dalla sofferenza altrui: non è una forma di sadismo ma di empatia.
C’è il silenzio collettivo, di massa. Silenzio che ti tormenta e diventa bisbiglio, quasi un ronzio, prima di mutare, in un attimo, in quella sensazione che provano a descrivere nei film con una particolare tecnica legata al sonoro: è un frastuono, silenzioso tormento che si trasforma estasi. Non è ipercomunicazione che snatura il modo di essere, ma è il silenzio che ora si rumore assordante, è la festa che si riappropria di tutto, degli spazi e del tempo.

Succede così per ogni vittoria di Tadej Pogačar che, per un appassionato, è un piacere, una cosa-del-cuore. Ogni suo scatto supera la normale sofferenza, squarcia l’oblio, distrugge quell’attimo. Appaga. Probabilmente c’è una particolare parola in tedesco per spiegare tutto questo, beati loro che hanno la capacità di riassumere tutto in un termine. Forse ci sarà anche in sloveno, ma non la conosciamo: ci accontentiamo di vedere Tadej Pogačar attaccare, che sia sulle pietre del Fiandre, sul Poggio di Sanremo, sulle lunghe salite francesi o sui colli lombardi, non importa.
A ogni corsa ci sono le braccia dei tifosi che cercano di agguantarlo, quasi di strapparlo via dal suo cavallo-mezzo. Telefonini che volano in aria sbattuti lì in faccia ai corridori come innaturale prolunga del corpo umano. Bottiglie di vino, cappellini, maglie, bandiere. C’è chi ti domanda se corre ancora Battaglin o se Carapaz passerà in maglia rosa. C’è quella sua bici: Pogačar addomestica il mezzo per farne una parte di sé, pur nel suo essere gioviale sceso di sella, è un combattente delle due ruote, ve lo riuscireste a immaginare in un’altra maniera se non vincente, scattante in sella alla sua Colnago? Nato e cresciuto per fare questa cosa qua. Nulla di più.

Il cielo di questo ottobre 2023 è un giallastro paglierino e solo quando il gruppo ha superato il Passo di Ganda si inizia a fare più blu. In mezzo al bosco si fa il ritmo, si scandisce come un tam-tatum-tam-tatum. Il gruppo sembra una nave che risale l'Amazonas e in testa risuona la musica lirica di Enrico Caruso. C’è il sibilo delle catene ben oliate, c’è il ronzio delle radioline, lo stridere dei freni lo lasciamo alla temibile discesa giù dal Selvino dove sbagliare significa rischiare di fare un brutto volo. I rami degli alberi inneggiano all’arrivo di un autunno ancora leggermente sbiadito, a volte coprono gli sguardi dei corridori, altre sono una perfetta cornice a dei bizzarri e inquietanti quadri contemporanei creati dall’intelligenza artificiale. La stringa dice: “ciclista che scatta in salita e tutto intorno alberi, pittura contemporanea”. Le maglie UAE si nascondono come una tribù che ti osserva dietro le fronde, e poi come d’incanto attaccano. Davanti al gruppo, Quick Step e Jumbo Visma: fino a poche ora prima sembravano sul procinto di diventare una cosa sola, ma ora, in provincia di Bergamo, non fanno più prove generali sul futuro, piuttosto gettano in concreto sulla strada tutto quello che hanno. Da una parte si pensa di lottare per Evenepoel, Alaphilippe, perché no Van Wilder, ma d’improvviso è il momento di Bagioli. Dall’altra tutti uniti per Primoz Roglic alla sua ultima gara in giallonero, promesso sposo alla BORA-hansgrohe.
Ci prova Adam Yates su questo Passo di Ganda, il gemello allunga ed è solo l’anteprima sui nostri schermi. Un trailer dove si vede un uomo UAE fare l’andatura davanti. Quando si stacca Pogačar pensi: sogno o bluff? Non si capisce in verità: poiché rientra con un balzo non c’è tempo di perdersi in elucubrazioni. E quando riparte, ormai il gruppo si è già accartocciato su se stesso come una lattina piegata con la sola forza della telecinesi. Restano in pochi. Con loro Pogačar, oppure Tadej, oppure Pogi, ormai è diventata consuetudine chiamarlo con diversi nomi: a furia di vederlo entrare nelle nostre case tramite quelle sue azioni e la sua maglia bianca al Tour (che dall’anno prossimo non vestirà per sopraggiunti limiti di età, come vola il tempo!). Spinge forte con ogni parte del suo corpo, mentre chi gli sta dietro arranca, si attacca con ogni mezzo lecito alla sua bici. C’è di nuovo quell’attimo di calma su in cima. Lo riprendono. Sono ancora meno di quei pochi. Ci si guarda, di nuovo, ci si avvicina e ci si annusa come segugi che fanno tra di loro conoscenza. Uno sguardo tira l’altro, uno scatto, tira tu, sembrano dire i superstiti in testa. Poi parte di nuovo Pogačar. Dove non possono gambe che non sono certo le migliori della stagione, può l’astuzia.
Tadej Pogačar nel 2023 ha conquistato, giova ricordarlo: Giro delle Fiandre, Parigi Nizza, Amstel Gold Race, Freccia Vallone, podio al Tour e al Mondiale, soltanto due settimane dopo, eppure è arrivato a Il Lombardia con l’idea di vincere ancora. Nonostante il dolore che provoca la stanchezza.
Non è al meglio, non puoi umanamente essere al 100% dopo una stagione così, arrivato alla prima settimana di ottobre. Nemmeno al 90%, forse sarai intorno all’80%, ma giusto perché sei Pogačar. Non è al meglio, ma tra Passo di Ganda e Bergamo vola, squarcia quell’attesa sull’ultima salitella prima del traguardo.
Le braccia dei tifosi, quando la strada ricomincia a salire e allo striscione d’arrivo manca sempre di meno, non cercano più di strapparlo via, ma sono tese, il palmo spalancato per dare un cinque, una spinta, se possibile, dopo aver sofferto insieme a lui: pochi minuti prima di affrontare il Largo di Colle Aperto, infatti, a Pogačar vengono i crampi e alla corsa un sussulto, ai suoi tifosi algofobici, smarrimento.
Per un attimo le carte paiono potersi mescolare ridando un senso di incertezza a una gara che pareva già segnata soltanto pochi chilometri prima. Quel dolore passa. Quel silenzio si fa rumore. Pogačar gestisce. Citando Byung-Chul Han: «Non glorifico il dolore, tuttavia senza di esso la nostra esistenza sarebbe incompleta». Pogačar spezza quella gabbia, verso la libertà e oltre, verso il traguardo di Bergamo, verso il terzo Lombardia. Il primo accoppiato con il Fiandre, come Kuiper e van Looy, come nemmeno Merckx. Succede sempre così nel ciclismo. Ci si sbatte, si supera il dolore, poi quando vince Tadej Pogacar diventa una cosa-del-cuore.


Ma davvero i fenomeni uccidono il piacere dell'incertezza?

Guardavo scendere Marco Odermatt dalla Gran Risa. Era lunedì mattina, era il 18 dicembre. Lo ammiravo mentre lui annichiliva gli avversari. Più lo osservavo e più nella mia testa si faceva spazio una domanda, mi chiedevo fino a quale punto si potesse ritenere spettacolare l’ennesima impresa di uno sciatore che a tutti gli effetti può ritenersi, già oggi, uno dei più grandi di sempre. Il più forte della sua generazione, senza ombra di dubbio.

Pensando a Marco Odermatt, al modo in cui vince e chiude la pratica in (quasi) ogni Slalom Gigante, soprattutto, mi è venuto istintivo il parallelismo con Tadej Pogačar, non fosse altro poi che, proprio qualche ora dopo la vittoria di Odermatt nel Gigante della Val Badia 2023, vittoria in entrambi gli slalom giganti, arrivava la notizia della partecipazione di Pogačar al Giro d’Italia 2024.

L’annuncio della sua presenza ha, prima di tutto, regalato entusiasmo ai tifosi, ma in generale a tutto il mondo che ruota attorno al ciclismo. A coloro i quali a dicembre possono consolarsi solo con il ciclocross o con le prime foto - e giri su strava - dai ritiri. La notizia ha aperto il dibattito, che, personalmente, si è sviluppato in maniera definitiva quando un amico e collega mi ha scritto in privato - mi perdonerà se riporto il suo messaggio, e mi perdonerà, almeno spero, se lo faccio più o meno fedelmente, al netto di qualche omissis:

Pogačar è un bel colpo per il Giro. La mia paura è che venga, schianti tutti subito e il Giro diventi noioso. È già successo? Sì, non sarebbe la prima volta, ma che palle. Speriamo si inventi modi diversi di vincere, se no è veramente un corteo. Io spero di sbagliarmi, ma che Quintana, van Aert e Ciccone, faccio tre nomi a caso, lottino alla pari o anche poco sotto con lui non ci credo nemmeno se lo vedo e non lo dico perché è Pogačar eh, avrei detto uguale se fosse venuto Vingegaard. Pogačar, più un altro big, sarebbe uno spettacolo davvero; Pogačar e basta in questa mediocrità, secondo me, rischia di dar vita allo spettacolo più noioso degli ultimi anni. E tu dirai: ma Merckx è diventato Merckx perché dominava. Sì, infatti a volte doveva essere di una noia mortale.”

Il Lombardia 2023 - 117th Edition - Como - Bergamo 238 km - 07/10/2023 - Tadej Pogacar (SLO - UAE Team Emirates) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Lo trovo un punto di vista necessario, anche se diametralmente opposto al mio. Uno spunto di riflessione da cui partire.

Ma davvero “i grandi campioni ammazzano lo spettacolo”? Sono convinto valga un discorso opposto e non lo dico per il debole nei confronti del corridore sloveno. Il gesto tecnico o, nel caso di un corridore in salita o allo sprint, perlopiù il gesto atletico, agonistico, che i primi della classe sanno imprimere e di conseguenza riescono poi a trasmettere, restano unici. Sono quelli che fanno la differenza e ti fanno innamorare dello sport - a me basta pensare agli anni di formazione da appassionato di sport e tornando a sci e ciclismo, penso a Tomba e Pantani, è vero, due modi diversi di concepire vittorie e domini, quello di Tomba spesso arrivava dopo seconde manche in rimonta, la poetica pantanesca spinge verso tutto un altro tipo di significato. Restano comunque i gesti di atleti, di corridori sopra tutti gli altri. Gesti che catturano, che si infilano direttamente nella testa e restano vivi nella memoria.

Pogačar fa parte proprio di questa categoria: di quelli che trascinano un movimento, che fanno innamorare di uno sport, che fanno parlare di sé, travolgono. Di questi tempi sono pure parte di un meccanismo che sarei ipocrita se definissi deprecabile, per quanto possa essere moralmente discutibile: è una perfetta operazione di marketing. Nei giorni dell'annuncio e di Pogačar al Giro non si è parlato di altro nel mondo del ciclismo, mica male, eh? Altro che Tour con il suo tratto in sterrato, la partenza dall’Italia, il finale a Nizza oppure altro che Vuelta - presentata abbastanza in sordina un paio di giorni dopo, e un paio di giorni dopo si parlava ancora della presenza di Pogačar al Giro. E immagino anche cosa sarà sulle strade il coinvolgimento ancora più emotivo che ci sarà in attesa di veder passare Pogačar anche solo per una frazione di secondo. Ecco, quello per me, che ancora conservo qualche languido atteggiamento non privo di sentimentalismo, è spettacolo.

Importa davvero se Pogačar dovesse ammazzare il Giro il secondo giorno a Oropa? Anzi, tifo per lui, e per la ricerca della storica doppietta - vien da sé nuovamente il paragone Pogačar-Pantani, con il filo conduttore non solo della superiorità in salita, ma anche unito da un luogo, Oropa. Questo per me sarà spettacolo.

Lo scorso anno abbiamo assistito a un Giro noioso, corso col braccino da tutti i pretendenti alla maglia rosa finale, in attesa della penultima tappa. Eppure quei pretendenti erano vicini l’un l’altro. Dove stava lo spettacolo? Meglio quello visto lo scorso anno, giocato sul filo dell’incertezza, ma senza attacchi, senza verve, senza un vero e proprio slancio, senza che qualcuno spiccasse su un altro o un possibile dominio dal secondo all’ultimo giorno dello sloveno? Io non ho dubbi su cosa sceglierei. D’altra parte pure nel Giro 2023, dopo il ritiro di Evenepoel, è un po’ calato l’interesse. Perché, dominatori o meno, abbiamo bisogno di certi grandi nomi.

Del Giro di due anni fa ricordate di una sfida accesa tra i pretendenti alla maglia rosa finale? Ma quando mai. A parte Torino e gli ultimi due chilometri del Fedaia, calma piatta, ciò che resta più impressa è la presenza, ingombrante, di van der Poel, in fuga quasi tutti i giorni - persino nelle tappe di montagna. Lo spettacolo risponde ai nomi di van der Poel, di Pogačar (e al Giro 2024, per fortuna, anche quello di van Aert, mi sento di dire: grazie Vegni); lo spettacolo, concetto forse più soggettivo di quello che pensassi, lo trasmette quel gruppo di corridori che stanno facendo la storia di questo sport; e pazienza se ce ne sarà soltanto uno, forse due, ben venga lo sloveno al Giro, pur con il piglio del cannibale, ben venga a scrivere la storia di questo sport, passando per le strade italiane. Io mi accontento così. Anzi, che dico mi accontento, bramo già quelle tre settimane di Giro.

 


Freddo, fango, oche, corse a piedi: una settimana di ciclismo invernale

Bisognerebbe fare come Andreas Leknessund. Fregarsene. È uscito a -24 gradi, ha fatto un video in cui si mostra sorridente. ha fatto un video per dimostrare di essere uscito davvero a quelle temperature - una volta si diceva: ”se non è scritto su Internet non esiste”, ora è l’epoca in cui se non lo fai vedere sui social, non è mai accaduto. Nel breve tempo in cui si è inquadrato con il telefono si vedono pezzi di ghiaccio formati sulle sopracciglia. Lo scenario, poi, è delizioso: in mezzo alla neve, in Norvegia, ed essendo lui norvegese, pedalare gli pesa molto meno che a noi, o comunque a me. È vero: tutto molto bello, ma se dovesse capitarmi una proposta di uscita a certe temperature probabilmente non accetterei nemmeno a pagamento, sotto tortura, ricatto o minaccia, vi direi: prendete tutto quello che volete ma lasciatemi stare. Il freddo in bicicletta è mio nemico e in questi giorni i miei due compagni di giochi in bicicletta mi stanno chiedendo di uscire, ma non mi avranno mai.

Ma appunto Andreas Leknessund è norvegese e quando era un ragazzo molto più giovane di come appare adesso, oltre a essere uno specialista giocoliere abilissimo nel diablo, era pure un provetto sciatore, sci di fondo per l'esattezza. E quando senti dire che in Norvegia “si nasce con gli sci ai piedi” capisci come non sia un luogo comune certificato, anche se il futuro corridore della Uno X Pro Cycling (dove ritorna dopo esserci cresciuto da giovane e dopo la parentesi agrodolce in DSM) ha sempre sostenuto di non essere così bravo con gli sci ai piedi. Già, meglio affrontarli con il giusto mezzo come si vede nel video: meglio usare una bici. Che pare fatta apposta per ogni situazione.

Leknessund è bravo in bici, ma sugli sci niente a che vedere con i suoi più giovani connazionali: Per Strand Hagenes, lui sì, sciatore provetto nelle categorie giovanili, e soprattutto Nordhagen. Uno che sembra uno sportivo fatto in provetta.

Per Strand Hagenes vince la Ronde van Drenthe 2023 - Foto Dion Kerckhoffs/CV/SprintCyclingAgency©2023

L’anno prossimo Per Strand Hagenes correrà la sua prima stagione da professionista a tempo pieno, in maglia Jumbo Visma, e qualcosa mi fa pensare che al Nord, quando farà freddo, ci sarà pioggia, lui potrebbe essere da subito uno dei protagonisti - trasformazione in gregario da corse a tappe permettendo, ma voglio fidarmi di una certa lungimiranza tra gli olandesi. Quest’anno è già accaduto che in una delle prime gare corse tra i grandi - era la quarta della sua carriera - vincesse. Era una Ronde Van Drenthe fredda e piovosa e dove si arrivò al traguardo stremati battendo i denti. In una corsa così selettiva Hagenes apparve un demonio e vinse in solitaria attaccando nel finale. Pur essendo dotato di un interessante spunto veloce, se ne fregò, meglio non correre rischi, avrà pensato.

Nordhagen, invece, sarà al suo primo anno tra gli Under 23, vestirà la maglia che ha appena mollato Hagenes: quella della Jumbo Visma Team Devo (che si chiamerà Team Visma -Lease a Bike Devo). E lui nel fondo andava forte forte, tanto da piazzarsi anche ai campionati nazionali correndo in mezzo ai senior, battendo pure un certo Sjur Roethe (veterano della nazionale norvegese tra gli sci stretti), impressionando una come Therese Johaug, una delle più grandi fondiste della storia: «Sono sbalordita» - disse quella volta. E immagino anche che faccia abbia fatto dopo aver visto uno junior che va tra i senior e li batte. Chiuse, se la memoria non mi inganna al 6° o al 7° posto. Tempo fa, Nordhagen disse di non aver preso una decisione in merito al suo futuro o meglio, che avrebbe continuato a dare allo sci di fondo la stessa importanza che dà al ciclismo, ma io credo che aver firmato un contratto fino al 2027 con la squadra olandese abbia messo abbastanza in chiaro qual è il suo futuro. Tra gli junior, parlo di ciclismo in questo caso, arriva da due buone annate dove a tratti ha dimostrato di essere tra i più forti 2005 al mondo, ma, nonostante i numeri che hanno fatto innamorare di lui i tecnici della futura Visma-Lease a Bike, l’impressione è che ci siano dei margini, abbastanza ampi, su cui lavorare.

Figlio di uno dei più grandi crossisti di tutti i tempi, Thibau Nys continua la sua crescita sia su strada che nel fuoristrada. Il prossimo passo? Diventare più continuo, non prima di aver risolto i problemi alla schiena che affliggono lui e tanti altri crossisti. - Foto Billy Ceusters/PN/SprintCyclingAgency©2023

Dove non è arrivata la neve c’è il fango, nell’ultimo week end di ciclocross ci sono state anche le oche. Ronhaar per la verità non dà la colpa a Qui, Quo, Qua come li ha definiti, se è scivolato, nella prova di Coppa del mondo a Flamanvile, Francia, dal 1° al 3° posto. «All’improvviso mi sono trovato davanti Huey, Dewey e Louie». In realtà come ha raccontato a fine corsa, era in calo già da prima, venendo rimontato poi da Iserbyt e van der Haar. Nemmeno Nys cerca alibi di nessun genere: dopo aver vinto il Koppenbergcross è entrato in una sorta di spirale negativa che vado qui ad elencare: ritiro al Campionato Europeo, 27° al Superprestige di Niel, 7° e 6° in Coppa del Mondo a Troyes e Dublino, 6° a Boom, 19° a Flamanville. Mal di schiena, stanchezza, vuole vederci chiaro. Sbaglio o anche lo scorso anno, a un certo punto, la sua stagione del cross prese una piega simile, per poi rilanciarla nel finale con tanto di titolo iridato tra gli Under 23? Se tanto mi dà tanto un po’ di risposo e poi si può andare a Tabor a sognare una medaglia tra i grandi, prima di un’intensa stagione su strada dove è atteso a un ulteriore salto di qualità, alla ricerca di quella maturità che significherebbe raggiungere gli obiettivi prefissi con maggiore continuità. Il ragazzo c’è e verrà fuori, non ho dubbi al riguardo.

Dove invece non sono arrivati fango, neve, cross, oche o mal di schiena, è arrivato David Gaudu. Però non in bici, ma a piedi. L’occhialuto ciclista francese che si diletta nel portare avanti carriere nel videogioco Pro Cycling Manager, ha corso la mitica staffetta a coppie di SaintéLyon insieme a un veterano del trail come Alexandre Fine. Gaudu, che da ragazzo andava forte correndo a piedi prima di capire che il ciclismo sarebbe stata la sua naturale vocazione - a̵l̵t̵r̵i̵m̵e̵n̵t̵i̵ ̵n̵o̵n̵ ̵s̵i̵ ̵p̵a̵s̵s̵a̵n̵o̵ ̵o̵r̵e̵ ̵a̵ ̵g̵i̵o̵c̵a̵r̵e̵ ̵a̵ ̵P̵C̵M̵ , altrimenti non si vince un Tour de l'Avenir o si sfiora un podio alla Boucle - prima della partenza si era visto davanti a un bivio: «Vincere o andare in ospedale». La corsa si è disputata in notturna e i due, che si sono conosciuti qualche anno fa proprio durante una corsa invernale a piedi, hanno chiuso la gara, in mezzo al freddo e alla neve, al secondo posto. «Penso che il Trail running sia la cosa che più si avvicini al ciclismo in termine di sforzo. È una lotta contro te stesso, come quando sei in salita, su un passo di montagna. Ci sono i tuoi avversari, ma i limiti che devi superare sono i tuoi e devi fare affidamento solo su te stesso. E poi mi aiuta a staccare dalla bici, fa bene ai muscoli, e mi fa bene alla testa perché io ho sempre amato correre. Ecco, per esempio, Thibaut Pinot praticava sci di fondo in inverno, è la sua passione. La mia è il trail running!»


Avere le idee chiare: intervista a Samuele Privitera

Diciotto anni compiuti da poco, e non lo diresti: avete mai provato a scambiarci due chiacchiere o a leggere (o ad ascoltare) una sua intervista? Determinato, ambizioso, Samuele Privitera ha idee chiare su quello che è il suo futuro e persino su quello che è il sistema del ciclismo italiano Under 23, argomento sempre caldo da diverse stagioni. Idee chiare e pochi fronzoli. Allo stesso tempo piedi saldi per terra.

Classe 2005, da Soldano, in Liguria, paesino nell'entroterra ligure, a pochi chilometri da Bordighera, ed è proprio con la squadra di ciclismo del comune in provincia di Imperia, con quelle montagne a picco sul mare, le viste da lasciarti senza fiato, noto per le sue numerose bellezze architettoniche, che ha mosso i suoi primi passi nel ciclismo.

Salito in bici a sette anni, e da quel momento, ci tiene a specificare, non è più sceso da un mezzo che si caratterizza per essere gioia e dolore di praticanti, professionisti o aspiranti tali, come lo è il giovane corridore passato tra gli juniores con il Team F.lli Giorgi, dove cresce, come persona, come corridore, e di cui avrà sempre un bel ricordo. Salito in bicicletta nel modo più classico: una passione trasmessa dal nonno e dal papà, ciclisti amatori. Ciclistica Bordighera fino agli allievi, Team F.lli Giorgi tra gli juniores prima di cambiare completamente dal prossimo anno: correrà tra gli Under 23 con la Hagens Berman Axeon di Axel Merckx, squadra da cui sono passati diversi talenti che si stanno imponendo nella massima categoria. Volete qualche nome? Eccoli: Philipsen, Almeida, Powless, Geoghegan Hart, Guerreiro, Dunbar, Neilands, i fratelli Oliveira, Narvaez, Bjerg e tanti altri, in attesa dei vari Leo Hayter o Rafferty, di Herzog o Andersen, di Romeo, De Pooter o Shmidt.

La tua presenza nella squadra di Merckx rappresenta una novità assoluta per il ciclismo italiano: insieme a Mattia Sambinello sarete i primi corridori di casa nostra a vestire la maglia del team di affiliazione americana. Perché questa scelta? Da parte loro, da parte tua.

I primi contatti sono avvenuti al termine della scorsa stagione; a febbraio di quest'anno, invece, ho fatto una stage con ritiro e sono rimasti impressionati dalla mia voglia di fare e da quanto andavo forte. E sono rimasto colpito anche io dal loro modo di lavorare. Perché fanno le cose bene, ma senza essere tutto estremizzato. Perché c'è poca pressione, poco stress, ma allo stesso tempo un approccio scientifico, professionale. A metà stagione ero già tentato di firmare con loro, ma altre squadre mi hanno cercato. Poi, però, quando è arrivata la notizia della collaborazione dal 2024, come Team Devo della Jayco AlUla, insieme al mio procuratore, Alessandro Mazzurana, abbiamo pensato fosse la scelta migliore da fare.

Sei rimasto colpito, ma da cosa?

Hanno una filosofia che io reputo quella giusta.  Per come ragionano, come lavorano: pensavo fosse la squadra perfetta per me, e per come stiamo lavorando in questo inizio 2024 sono convinto lo sia. Il fatto, poi, che diventeremo squadra sviluppo della Jayco, andrà a colmare anche alcune lacune che magari poteva avere la squadra in precedenza: per esempio abbiamo iniziato a lavorare con lo staff del team World Tour, nutrizionisti, preparatori, eccetera. Hagens Berman resta la squadra vera e propria, ma in fin dei conti saremo un vero e proprio Team Development. Prima forse mancava qualcosina per essere una squadra di livello top per la categoria, ma ora quello step è stato fatto.

La Flèche Wallonne 2022 - Alejandro Valverde (ESP - Movistar Team) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

Torniamo alle tue origini ciclistiche. Si stato ispirato da tuo padre e tuo nonno, ma di sicuro avrai avuto degli idoli da bambino.

Più che idoli dei punti di riferimento. Ho sempre avuto questa passione per gli scalatori spagnoli: Contador, Purito Rodriguez e Valverde su tutti. Ecco Valverde è il mio riferimento attuale: ha corso tantissimo, per tantissimi anni, ha smesso in là con gli anni, ha vinto un mondiale a quasi 40 anni e ora che ne ha 43 lo vedi ancora che pedala, che fa gare Gravel. Corridore incredibile.

E oltre alla bici?

Poco altro, ma perché non ho tempo di fare altro. La mia vita è scuola e allenamenti. Però ho una grande passione: seguo tantissimo il tennis e in questi giorni è andata bene perché c'è stato anche da festeggiare.

Quali sono le tue caratteristiche?

Scalatore, resistente, con tanta durability. È che non potevo essere altro perché in volata sono piantato, ma per fortuna ho un buon motore.

Margini?

Mentalmente mi manca quella cattiveria per vincere, però ad esempio sono uno che si mette molto a disposizione della squadra.

Scalatore, dotato di fondo: sei il prototipo del corridore da grandi giri.

Esatto, sono sicuro che se in questi anni crescerò anche a livello di cattiveria mentale e a livello di motore continuerò a crescere in questa maniera, posso diventare un corridore un po’ à la Kuss. Un corridore forte, che fa la differenza in salita per i suoi compagni, ma che come abbiamo visto sa ritagliarsi anche il suo spazio.


Quindi, da regolarista, forse ti manca l’esplosività?

In realtà no. O meglio, mi spiego: sono piantato dai cinque ai quindici secondi e quindi in volata non posso fare molto. Ma ora sto lavorando tanto sugli sprint sui trenta secondi e sto migliorando questo aspetto. Su sforzi dai trenta secondi ai due minuti vado forte. Di sicuro mi manca quel picco di watt che nelle categorie giovanili mi sarebbe servito per vincere di più.

Nei due anni da junior, tuttavia, sei andato sempre molto forte, il primo anno tanti piazzamenti, quest'anno un paio di vittorie alla Coppa 1° Maggio e al Memorial Antonio Colo.

Però soprattutto il primo anno avrei potuto vincere diverse gare, ma da una parte ho sbagliato alcune cose dal punto di vista tattico, dall’altra io mi sono sempre messo a disposizione della squadra, senza che questo mi pesasse, chiaramente. Quest’anno, però, nelle gare che contavano ho dimostrato di avere motore. In Italia corriamo tanto, troppo, e le corse che contano veramente saranno un terzo di quelle che facciamo, quindi in tante giornate di gara mi sono messo a disposizione della squadra perché è un aspetto determinante, che ti fa crescere e maturare, impari a conoscere tutte le sfaccettature di questo mestiere. Poi nel resto delle gare magari non ho vinto, ma in tante corse importanti ho fatto bene.

Torniamo alla tua scelta di andare a correre all'estero, per parlare di questa tendenza che coinvolge il ciclismo giovanile italiano. 

Intanto voglio togliermi un sassolino dalla scarpa: leggo commenti, riferiti anche ad alcune altre mie interviste, in cui gente, tifosi, lettori, ci dicono che dobbiamo restare in Italia, che sono andato via dall'Italia perché non volevo studiare o l'ho fatto solo per soldi. Quando ho firmato per la squadra di Merckx non pensavo nemmeno di prendere una lira; io sono voluto andare all’estero perché i numeri parlano chiaro. E per numeri parlo di risultati, crescita; le corse più importanti quest'anno le hanno vinte quasi tutte i corridori delle Devo o comunque di squadre straniere. Il Giro Next Gen: Staune-Mittet (JUmbo Visma Devo) su Rafferty (Hagens) e Wilksch (Tudor U23); il Val d’Aosta? Rafferty; a San Daniele tripletta Jumbo; il Recioto lo ha vinto Graat (sempre Jumbo Devo), il Piccolo Lombardia Lecerf (Soudal Devo) su Ryan (Jumbo Devo). All’estero qualcosa di giusto lo fanno, che dici?

Samuele Privitera al Trofeo Paganessi, una delle corse in linea più importanti e prestigiose del calendario internazionale di categoria, vinta nel 2023 da Jarno Widar. Il portacolori del Team F.lli Giorgi è giunto al traguardo 6°, primo degli italiani, e davanti ad alcuni tra i nomi più importanti della stagione come Leidert, Donie, Gualdi e Negrente. Foto: Rodella, per gentile concessione del team F.lli Giorgi.

E il campione italiano è Busatto, che correva con il team di sviluppo della Intermarché e che l'anno prossimo correrà nel World Tour con la squadra belga.

E la corsa l’hanno fatta lui, Belletta e Mattio (Jumbo). È un dato di fatto che all’estero si corra meglio. La crescita a livello di performance dei ragazzi andati all’estero è palese anche solo alla vista. E poi c’è il calendario. Io senza aver iniziato a correre ho già visto come sarà impostato il mio 2024 ed è totalmente diverso da quello di una Continental italiana. Siamo nel 2024 e bisogna iniziare a ragionare in maniera differente, però attenzione, io non me la prendo con le Continental italiane, ma semmai è colpa del sistema in cui devono correre.

Zeppo di storture.

Ti faccio un esempio: ti pare mai possibile che una squadra un fine settimana si divida per fare tre corse diverse, e tutte e tre gare regionali? Per cosa? Per vincere 40/45 gare all’anno, e finire sul giornale perché hanno vinto 40/45 gare in un anno così lo sponsor è contento. E in Italia i dirigenti lo sanno che per preparare i ragazzi questa non è la via, ma il problema è che lo sponsor vuole visibilità.

Tu hai colto l’occasione, ma perché ti sei cercato questa occasione.

Se io posso finire a correre per una Devo di una squadra World Tour, di avere la possibilità di migliorare come persona, imparare l’inglese, non capisco perché io debba restare in Italia.

Cosa ti aspetti da questa stagione in arrivo.

Migliorare mentalmente e come motore. Lo dico sempre: uno dei motivi che mi ha spinto ad andare all’estero è la voglia che ho di imparare a fare il corridore, intendo il corridore vero. Voglio fare la vita da atleta e per me l’unico modo per farlo è prendere schiaffi a livello sportivo, fare gare di qualità con gente che ha più motore di me, che in salita mi apra in faccia in modo che io capisca che ho ancora tanto da lavorare.

E a livello di risultati?

Nessun obiettivo vero e proprio, mettiamola così. Fare bene nelle corse in Italia, correre il Giro Next Gen con un ruolo importante all’interno della corsa, per me stesso o per la squadra, così come disputare le internazionali dure, il Val d'Aosta. Però ribadisco: prendere più batoste possibili per imparare a gestirle quando le prenderò più avanti, perché è inevitabile che quelle le prenderai sempre. Poi dal secondo anno, quando avrò imparato a fare il corridore, ci risentiamo e ti dirò quali corse posso provare a vincere. E poi voglio imparare a essere un uomo squadra perché devi sapere anche fare il gregario.

Luca Giami, altro fiore all'occhiello della squadra lombarda, l'anno prossimo dovrebbe passare anche lui in una Devo straniera (UAE?) Foto: per gentile concessione del team F.lli Giorgi.

Andando ancora a scuola come coniughi la tua routine giornaliera tra scuola e allenamento?

La scuola in questo mi sta aiutando parecchio perché due giorni alla settimana esco un’ora prima degli altri e questo mi permette di fare più volume.

Che tipo di allenamento stai facendo ora?

Perlopiù volume. In queste prime quattro settimane ne ho fatte tre di volume/adattamento a circa 24/26 ore a settimana, e poi la settimana appena passata ho fatto i primi quattro giorni di scarico e poi dal giovedì ho ricominciato a fare volume inserendo intensità, facendo blocchi in zona 3, medio lunghi e poi sessioni di sprint. Anche se queste in realtà le ho inserite sin dall’inizio: due sessioni alla settimana circa di sprint, facendo sprint brevi di dieci secondi e soprattutto massimali da trenta secondi. Diciamo che ora le mie sessioni settimanali sono: due di sprint, due, tre di intensità media e treshold e il restante volume in z2. Ora sto girando sempre sulle 24/27 ore a settimana e faccio anche due, tre sessioni di palestra a settimana dove faccio forza massima ed esplosività.

Queste sono tabelle specifiche personalizzate o sono lavori che vi stanno facendo fare a tutti in squadra.

Tabelle personali: noi in squadra possiamo avere il nostro preparatore personale, io sono seguito da Gaffuri e Pinotti, quest'ultimo è comunque uno dei preparatori della squadra World Tour. Però tutte queste tabelle, se arrivano da preparatori esterni, passano tutte sotto gli occhi del nostro Head Coach e vengono approvate da lui. Credo, tuttavia, che i miei compagni lavorino su questa falsariga. Certo, considerando che molti vivono al Nord Europa, non credo riescano a fare il volume che faccio io, ma per dire, anche già solo Sambinello che abita a Varese non riesce a fare lo stesso mio volume. Abitando in Riviera, per dire, oggi sono andato a fare 3 ore, ho scollinato oltre i 1000 e c’erano 14 gradi lassù. 14 gradi al nord Italia se li sognano. Su questo sono avvantaggiato.

Corsa dei sogni?

Sogno di partecipare alla Sanremo, perché la guardo da quando ho 2 anni, ma sogno di vincere il Tour.

Il tuo anno, il 2005, e il 2006, sono annate piene di talento. Tra i corridori contro cui hai corso chi ti ha impressionato maggiormente?

Jarno Widar. Motore pazzesco, corridore esplosivo. Si mette davanti tutta la gara e tira. Ho fatto lo stage con lui in Hagens Berman Axeon, eravamo compagni di stanza, poi lui ha fatto altre scelte (correrà con la Lotto Devo). Per farti capire che tipo è: dopo che ha perso il Lunigiana - in discesa - è tornato a casa, è uscito, ha aperto sulla Redoute e ha preso il KOM a Evenepoel. In Italia mi hanno impressionato Finn e Giaimi. "Lollo Finn" ha gran motore, deve solo migliorare nel correre, ma quest’anno ha scelto la squadra giusta per farlo.

Jarno Widar, qui vincitore di tappa al Lunigiana 2023, è stato uno dei grandi protagonisti dell'ultimo biennio juniores.

All’estero con l’Auto Eder, squadra affiliata alla BORA-hansgrohe.

Lui, lì, può diventare davvero forte.

Al Lunigiana si è fatto sorprendere nelle prime tappe, restando un po’ dietro nelle fasi cruciali.

Sì, esatto, lui ha un po’ questa caratteristica di correre in fondo, e questo lo penalizza, ma quando la strada sale va forte. E poi c’è Giami, io lo definisco "un treno".

Giami, Finn, Privitera, tre liguri: cosa sta succedendo dalle vostre parti?

Solo motori sulla costa! Con Giaimi ci alleniamo assieme ancora adesso quando siamo a casa ed uno spettacolo uscire assieme a lui. Ci mettiamo lì, z2 a 37/38 all’ora e via sulla costa. Il problema è quando dice “facciamo una volata?”. Quasi 1800 watt di picco fanno un po’ paura… gran corridore. Ecco lui anche a correre in gruppo ha qualche problema, ma ha una mentalità che definirei “folle”. Se qualcuno gli dice qualcosa, gli scatta qualcosa in testa e magari il giorno dopo ti fa 80 km di fuga. Un po' altalenante magari a livello mentale, ma il suo motore sui 4 minuti ce l’hanno in pochi, e lo dimostra il record del mondo di categoria nell’inseguimento su pista.

Abbiamo un bel biennio in Italia tra 2005 e 2006.

Ti posso fare altri nomi che quest’anno sono andati veramente forte: Sierra, Gualdi, i Sambinello, Mottes, Negrente, altri. Quello che la gente deve accettare è che noi facciamo la scelta di andare a correre all’estero. Quello che bisogna capire a livello di sistema è che il problema non è tra i giovanissimi, allievi, juniores, ma tutto quello che arriva dopo. Perché non è possibile che si arrivi dagli Under 23 e si inizi a fare fatica a esprimere il talento. Tutti lo devono capire, non solo le squadre, ma tutti i dirigenti. Devono capire che se noi in Italia facciamo in un modo, ma all’estero fanno in un altro bisogna fare anche noi come si fa all’estero. Prima passava un corridore all’anno in squadre straniere, ora sta diventando una tendenza diffusa, due, tre, cinque, sette. Ma in Italia nulla cambia e ci si ostina a fare in un certo modo.

Una mentalità, per i motivi che hai anche spiegato prima, difficile da cambiare.

E io ti faccio un esempio sulla mentalità da grande squadra. Prendi la Tudor, esiste da un paio di anni e guarda che squadra hanno messo su, fanno tanti punti per il ranking e puntano a entrare nel World Tour. Ma al di là dei punti è una squadra che ha dimostrato di lavorare bene, basta guardare anche la campagna acquisti fatta.

Hanno un budget importante, ma lo sanno usare bene. Quando prendi corridori di spicco come Dainese e Trentin, vuol dire che punti in alto.

Esatto, non è solo una questione di budget, ma di come lo si usa. Loro devono essere un esempio. Ci sono riusciti loro, dobbiamo provarci anche noi. E poi potrei fartene altri di esempi, ma ti porto solo quello della Hagens Berman Axeon: in otto anni hanno portato tra i professionisti una cinquantina di corridori, va bene che prendono quasi sempre solo corridori con motore, però se è uscito un numero del genere, vuol dire che almeno più della metà delle cose che fanno, la fanno giusta. Perché non riusciamo a farlo anche in Italia? Se loro corrono poco, ma corrono bene, perché non lo facciamo anche noi? E poi prima dell’arrivo di Jayco non erano di certo la squadra più ricca, ma guarda cosa facevano, mica correvano tutti i week end? Ma un calendario specifico che aiutava a crescere i corridori misurandosi spesso con i professionisti. A fare quello che dicevo prima: prendere schiaffi per crescere. Tornavano dopo aver corso per qualche settimana o per mesi con i professionisti per vincere le gare Under 23. Quello che voglio dire è che i soldi che una squadra spende per fare 6 gare regionali, li spendono in una gara e poi si raccolgono i frutti. Si fa motore, si impara a correre, il ragazzo cresce e diventa corridore. Ma il problema non è chi prende decisioni su come investire il budget, ma è proprio il sistema che è sbagliato. Queste squadre, se l’anno dopo vogliono avere i fondi dagli sponsor, devono vincere la corsetta regionale per avere visibilità.

 Foto in evidenza: Rodella, per gentile concessione del Team F.lli Giorgi


Ricordati di Urán

Ho un ricordo preciso di Rigoberto Urán Urán- l’ho sempre chiamato Urán, nel modo più semplice possibile, mai Rigo. Ricordo preciso, anche se con quella solita demenziale tendenza che ha la memoria di sfocare immagini: fa persino venire in mente cose che non sono accadute veramente. Oppure sbiadisce e confonde, e allora, per non rischiare, sono andato a controllare e sì, l’episodio a cui mi riferisco è esistito davvero.

Era il 2007, Rigoberto Urán correva con la maglia della Unibet e aveva già dimostrato un certo talento. Oggi, in un fastidioso linguaggio terra terra a cui raramente mi sottraggo, lo definiremmo semplicemente pazzesco. Aveva appena vent’anni e la sua stagione era iniziata vincendo una corsa in Colombia, proseguita conquistandone una a inizio estate in Spagna, anzi nei Paesi Baschi, una cronometro di venti chilometri, in una corsa che ora non esiste più, ma dove fece vedere come quel ragazzo, vincitore di corse in pista poco tempo prima, forte in salita e sul passo sin dalle categorie giovanili, era un corridore adatto e molto, alle grandi corse a tappe.

Poche settimane dopo il suo talento emerse in maniera imperiosa al Giro di Svizzera, nella tappa con arrivo a Schwarzsee, penultima giornata della celebre breve corsa a tappe - piccola nota curiosa, sia alla Euskal Bizikleta, a cui mi riferivo prima, sia al Tour de Suisse, Urán vinse la penultima tappa, entrambe le volte a fine giornata il leader era uno dei due gemelli Efimkin, Vladimir, entrambe le volte Efimkin perse la maglia di leader e la classifica generale, il giorno successivo. Urán vinse attaccando nel finale e alcuni giornali e siti, persino quelli specializzati, si chiesero da dove fosse sbucato quel semisconosciuto colombiano - in realtà, in Urán, la Colombia poneva grosse speranze e su di lui, come si vedrà le maglia che andrà vestire poco dopo, erano puntati gli occhi delle squadre più forti del ciclismo mondiale, anzi, la più forte in quegli anni, il team Sky.

Ma torniamo al primo ricordo, a quel ragazzo nato vent’anni prima in Colombia e apparso da poco sulla scena europea. In una discesa durante il Giro di Germania del 2007 finisce dritto in un fosso, spaccandosi tutto lo spaccabile. Rottura di due gomiti su due disponibili e di un polso su due. Poteva andare peggio. Attimi di paura che fecero temere quel peggio, poi Urán si alzò, prima di accasciarsi nuovamente a terra iniziando a contorcersi dal dolore, e io ho questo ricordo vivissimo di lui davanti, in fuga, nell’azione buona per vincere la tappa. Quella caduta servì, se ce ne fosse ancora bisogno, anche a convincere i suoi tecnici a fargli prendere confidenza con il mezzo, allenandolo, dove e come possibile, anche nella tecnica di guida.

Peripezie di vita, nel passato di Urán, che tutti più o meno conosciamo, il padre ucciso in un agguato, l’adolescenza passata a vendere biglietti della lotteria fondamentale per portare il pane a tavola, e una domanda che si faceva spesso: farò questo per tutta la vita o riuscirò a diventare un corridore professionista? E corridore lo è diventato con risultati importanti: vice campione olimpico a Londra nel 2012, battuto sul traguardo in volata da Vinokourov, uno sprint da perderci il sonno, ma una medaglia che non si cancella, anzi lo rende orgoglioso, e proprio a Parigi 2024 ha deciso di chiudere la sua carriera. Un cerchio che si chiude e sullo sfondo i cerchi olimpici - una banalità, ma pare servita su un piatto d'argento.

Poche vittorie in carriera rispetto a quello che è riuscito a trasmettere: uno dei più amati in patria, uno dei miei rispettati in gruppo. Per tutti gli altri colombiani una specie di punto d’arrivo, di ispirazione, un padre come esempio da seguire, amare e rispettare. Avete mai chiesto a un colombiano quale sia il suo punto di riferimento? Non serve, vi risponderebbe sempre e solo Urán. Urán che spesso si è messo a disposizione dei suoi connazionali anche quando questi correvano in altre squadre.

Due podi al Giro e uno al Tour, una maglia bianca sulle strade della Corsa Rosa nel 2012 anno in cui, alla Volta Catalunya, tornò al successo cinque anni dopo le braccia alzate al Tour de Suisse, quando fu dipinto come uno uscito da chissà dove. Una miriade di piazzamenti nelle grandi corse di tre settimane, vittorie di tappa in tutti e tre i grandi giri - l’ultima, alla Vuelta Espana 2022, quando ormai pensavamo non fosse più competitivo ad alti livelli. Due podi al Giro di Lombardia, il primo nel 2008, giovanissimo.

Lascerà il ciclismo come quello che ricorda vagamente Mick Jagger, come quello che ha sempre una parola di conforto per tutti in gruppo e alcune frasi del suo repertorio, “tranquilo papito”, sono diventati un tormentone. Lascerà il gruppo come uno di quelli che ha sempre qualcosa di intelligente ai microfoni, che non si sottrae mai dal dire quello che pensa. Lascerà il gruppo Rigoberto Urán, e questo ci rende più tristi, ma probabilmente anche più saggi.


Voglio essere il migliore

Lo sguardo è come un marchio di fabbrica che ci identifica, caratterizza, lo portiamo avanti sin dal primo sviluppo. Se vediamo una foto che ci ritrae, magari di quando eravamo bambini, faremmo fatica a riconoscerci, se non per lo sguardo. Il suo sguardo resta sempre quello: ti scruta come se la tua anima fosse una porta accessibile a tutti e lui cercasse di entrarci educatamente, bussando e chiedendo permesso. Occhi grandi, la voce bassa, ma chiara. Tono deciso. I risultati, contassero qualcosa in questa vicenda, non sono più gli stessi. Il tempo è passato e non ha cancellato niente, semmai ha amplificato. Potrebbe essere una questione di numeri, date e dati: sono passati oltre seicento giorni da quell’incidente, qualcosa che chiunque fatica a cancellare dalla propria mente, tifosi, semplici osservatori, qualcosa che a Eganito ha scosso l’anima, rischiato di menomare il fisico, gli ha lasciato cicatrici indelebili, ha diviso la sua carriera in due - per il momento, diviso, capiremo se è stata definitivamente spezzata quel giorno lì, quando Bernal è finito contro un pullman mentre si allenava e ha rischiato di morire. Ne sono passati quasi un migliaio da quel 30 maggio 2021, quando salì in maglia rosa sul podio finale a Milano.

Giro d'Italia 2021 - Egan Bernal (COL - Ineos Grenadiers) - Foto Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021

Prese il simbolo del primato a Campo Felice, con un’accelerazione nel finale che sarebbe potuta essere un’arma da mostrare in quelle sfide che ci siamo immaginati chiudendo gli occhi, contro Roglič o Pogačar, o gente di quel livello. Prese la maglia Rosa e la portò fino all’ultimo giorno. Rischiò, ma si salvò, Martinez fu il suo compagno più fedele, Caruso e Simon Yates i nemici più temibili. Due stagioni prima vinse il Tour de France e ci si chiedeva quella volta se la sua sarebbe stata la prima di una lunga serie di vittorie in terra di Francia. Conoscevamo già le qualità dei suoi avversari e già si pregustava una serie di sfide che avrebbero visto coinvolto anche lo scalatore colombiano.

La sua storia è nota ed è così classica, intrisa di quel realismo magico che solo la Colombia può e affascina senza diventare (troppo) retorico, è una storia di famiglia umile, anzi povera, di una nascita turbolenta, di un’adolescenza passata a lavorare, di un talento in bicicletta che gli permette il salto in Europa. Di un talento in bicicletta che gli permette di passare in poco tempo in una delle squadre più forti al mondo. Di un talento in bicicletta che gli permette di vincere il Tour e il Giro in un paio di anni. Poi quel maledetto gennaio 2022 che un anno dopo diventa una ricorrenza: «Ho ricevuto gli auguri come fosse stato il mio secondo compleanno», raccontava a Tuttobici tempo fa, «ma d’altra parte è una data importante per me: sarei potuto morire oppure restare per sempre su una sedia a rotelle». E quindi non ci stupiamo se quel corridore che in salita andava così forte abbia iniziato a far fatica a tenere le ruote dei migliori in un ciclismo che corre alla velocità della luce; in un ciclismo che è saltato su un piano temporale differente come fosse sceneggiato da Nolan, ma trasmesso sullo schermo senza quell’audio fastidioso tipico dei suoi film: c’è la vita di Bernal in bicicletta che ha iniziato a scorrere lenta, c’è quella del professionismo che viaggia a una velocità interstellare. «Dal 2005 a oggi», racconta per esempio Pozzovivo, «sembrano passati 40 anni».

Bernal è riuscito a risalire in sella in una situazione in cui «i medici mi dicevano che difficilmente avrei potuto di nuovo riprendere in mano la mia vita da corridore». Ha corso un Tour e una Vuelta nelle retrovie, salvandosi, cercando di incrementare un tanto alla volta, giorno per giorno, le sue prestazioni. L’idea, però, su cui si basa la sua storia, è che il peggio sia alle spalle, non solo quello fisico, ma quello emotivo. Un’idea maturata pensando agli insegnamenti dei giorni della convalescenza: «Potrà sembrare strano, ma il 2022 è forse stato uno dei migliori anni della mia vita».

Tour de France Saitama Criterium 2023 Fan Event - Egan Bernal (COL - INEOS Grenadiers) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2023

Non importa se il sogno di una tripla corona: («Dopo il Tour e il Giro vorrei vincere la Vuelta») si sia infranto, e chi scrive pensa che mai più potrà realizzarsi. «Penso che vincere una tripla corona sia più importante che vincere di nuovo il Tour» - diceva poco dopo la vittoria al Giro. E oggi, dopo aver provato sulla sua pelle, nel vero senso della parola, un momento di crisi quasi definitiva, senza margini, Egan Bernal la pensa diversamente. L’incidente ha messo in prospettiva le cose: «Ha annullato tut­to, mi ha costretto ad aver pazienza, mi ha insegnato che la famiglia è ciò che conta di più in assoluto. Siamo tutti umani, ci può succedere qualunque co­sa», raccontava, sempre in esclusiva a Tuttobici. «Ormai non mi chiederò più se riuscirò a vincere ancora un altro Tour de France» la chiave di tutto, ma, come vedremo in seguito, con un asterisco.

Poche settimane fa, Bernal ha partecipato a un criterium in Giappone, ha raccontato di quanto fosse stanco dalla stagione, ha ricordato i giorni dell’incidente, spiegando di sentirsi un miracolato: «Sono felice di essere vivo: il modo in cui sono sopravvissuto non è normale. Nel ciclismo pensiamo sempre a essere i numeri uno e a vincere il Tour de France, ma è chiacchiericcio. Quando ti rendi conto che sei, come dire, una persona normale e puoi morire, e ti trovi a letto incapace di muoverti, e tutte queste cose... beh, sì, sono stato fortunato». Ha ricordato quei brutti momenti, come riportato da Sophie Smith su Cyclignews. Il risveglio: «Non pensavo più a essere un ciclista, ma a muovermi, a essere una persona normale», ribaltando il punto di vista: «Credo sia uno dei motivi per cui dopo quell’incidente non ho mai avuto brutti momenti: so quanto sono stato fortunato a sopravvivere».

Dopo 47 giorni da quel grave incidente, Egan ha ripreso - lentamente - ad andare in bici, ha bruciato le tappe schierandosi al via tra agosto e settembre del 2022. Poi la stagione 2023 non è ripresa su passi decisi, bloccato da piccoli malanni fisici, un ginocchio che lo tormenta, i problemi alla schiena che ne hanno sempre limitato le prestazioni. Corre il Tour - dove si vede poco e nulla, perché «andavano tutti a tutta dal primo giorno, me compreso, e dopo una settimana non avevo più un briciolo di energia. Non me la sono goduta». Aggiungendo come non sia certo la miglior gara dove andare a soffrire per ottenere qualcosa. Chiude 36° senza farsi vedere praticamente mai, mentre alla vuelta, schierato qualche settimana dopo, fa 55° ma le cose vanno diversamente: «Ho anche attaccato, non mi sentivo così lontano dai primi».

Col microfono in mano davanti alla platea, Egan Bernal, scruta e ritroviamo il suo sguardo che lo caratterizza, gentile, ma fermo. Non si ferma a dare un'occhiata, ma ci sono anche le parole: dice che fino a quando il suo pensiero sarà quello di sentirsi pronto a tornare al suo livello, continuerà a correre, altrimenti penserà al ritiro. Sono pensieri fatti con la leggerezza che ne contraddistingue(va) la pedalata in salita. Quel pensiero resta, ma non è così fondamentale: vincere la Vuelta e chiudere il cerchio. Perché, nonostante tutto, nonostante abbia smesso di chiedersi se mai vincerà un Tour, «prima voglio dimostrare di poter tornare a essere uno dei migliori al mondo». Altrimenti non importa, lo pensa, lo fa capire con uno sguardo, lo dice: conta esserci ancora dopo quello che è successo.

Foto in evidenza: ASO/Pauline Ballet


Nairoman - Il ritorno

22 anni compiuti da meno di un mese: poco più che teenager. Preparato mentalmente sin dalla vigilia a quel finale di gara: «Sapevo di dover dare tutto in discesa». Uno scalatore così convinto dei propri mezzi, da sembrare spavaldo, temerario. Generoso. Convinto di ciò che c’è da sapere per emergere, corridore che da lì in poi avrebbe lasciato una traccia importante “quando la strada s’impenna”, verrebbe da dire. Vinse la tappa con arrivo sulla Sierra de Espuña, Vuelta a Murcia: era il suo primo successo da professionista. Staccò Tiernan-Locke (lo ricordate?) in salita, si difese in discesa, precedette sul traguardo Wouter Poels di una manciata di secondi, vinse poi anche la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola. Da lì in poi avrebbe ottenuto tanti successi, non troppo diversi tra loro: il filo conduttore sarebbe stata la salita come mezzo per arrivare anche alle classifiche generali; salita, ma non per forza altissima montagna - chiuse proprio quel 2012 vincendo al Giro dell’Emilia, un traguardo durissimo per pendenze ma non di certo altitudine in stile Everest, dimostrando al mondo come uno scalatore colombiano avrebbe potuto fare altro, non solo vincere lì, dove osano le aquile.

Proseguì facendo incetta di traguardi di un certo peso: prima del Giro dell'Emilia, siamo sempre nel 2012, si sbloccò nel circuito World Tour: tappa al Delfinato. Uno stile che ancora doveva affinarsi, rapporto duro come piace ai puristi, seduto a macinare dopo essersi alzato per un attimo sulla sella, leggermente barcollante di spalle e con le ginocchia larghe, quel giovane colombiano iniziò a fare breccia nel cuore dei tifosi e in quello dei suoi dirigenti. La maglia della Movistar, così diversa da un punto di vista cromatico da quella che vediamo oggi, portata quasi svolazzante sulla schiena magra, di quella magrezza non malata, leggermente tisico, sì, ma come chi ancora doveva formarsi del tutto fisicamente. Unzue, storico team manager della squadra spagnola, dopo quel successo, ai microfoni non nascondeva come l’obiettivo dell’imperscrutabile giovane scalatore fosse già la Vuelta, nonostante la poca esperienza maturata tra i professionisti. Andò bene, non in maniera eccezionale in realtà, alla fine si tenne a galla per Valverde, alla fine chiuse 36° in classifica generale facendo 6° nella tappa di Cuitu Negro, manifesto al ciclogaragismo spagnolo. Una rampa con punte al 24% ottenuta asfaltando una vecchia pista da sci. Doveva essere una sfida Contador contro Purito Rodriguez, ma Valverde riuscì a tenere duro perdendo pochissimo dai due grandi favoriti di quella Vuelta, grazie soprattutto all’aiuto «di un giovane e promettente colombiano che gli pedalò di fianco per quasi tutta la giornata».

Nel 2013 la prima promessa fatta al Tour de France venne mantenuta e si racconta come quella prestazione «fece addolcire il tono di voce di Eusebio Unzue»; la promessa venne mantenuta salendo verso Annecy: vittoria di tappa al Tour de France e su di lui Unzue si sbilanciò: «La cosa che mi colpisce di più di questo corridore è la capacità di leggere la corsa. In questo mi ricorda Indurain. Ha carattere anche se a vederlo potrebbe non sembrare. Non teme nemmeno i belgi di due metri che gli corrono di fianco. Una volta ha tirato una borraccia in testa a uno perché questo rischiò di prenderlo in pieno, c’è anche un episodio in cui è andato a parlare a quattrocchi fino al pullman con un altro corridore». In quel Tour, oltre alla tappa vinta sull’inedito arrivo di Semnoz, Quintana vestirà la maglia bianca e quella a pois, salendo sul podio finale dietro a Chris Froome, al suo primo dei quattro Tour vinti, davanti a Purito Rodriguez e Contador. A soli 23 anni. Si sciolse, lui che a dispetto del suo sguardo impenetrabile è sempre stato definito uno dei più scherzosi in squadra. Pianse a fine tappa dedicando la vittoria all’ultimo colombiano a pois prima di lui: Mauricio Soler. « Ho al collo una medaglia che mi ha regalato come portafortuna», le sue parole.

Vinse il Giro d’Italia nel 2014, la Vuelta nel 2016, salì ancora sul podio al Tour de France, vestendo anche la maglia bianca di miglior giovane che appariva, addosso a quel colombiano con la faccia da vecchio, quasi un ossimoro ciclistico. Podi, tappe, maglie bianche oppure a pois, ma spesso sacrificato dalla sua squadra, la Movistar, in nome di quel Totem che portava il nome di Alejandro Valverde. Ogni qualvolta si muoveva divideva, e per anni la sua carriera è stata tutta un’etichetta. Se per Unzue era “come Indurain”, per Greg Lemond era “il nuovo Merckx”; “un incompiuto” da una parte i detrattori, i traditi, quelli che pensavano che Nairo Quintana potesse diventare il primo colombiano a vincere il Tour de France, dopo essere stato il primo a vincere il Giro, il secondo a vincere la Vuelta. Come se poi arrivarci così vicino fosse un’onta.

Il peso delle etichette difficilmente hanno scalfito il corridore. Nomignoli come “la sfinge” non gli sono mai dispiaciuti, come il tentativo di vedere in lui un supereroe costruito e poi destrutturato come in una sceneggiatura di Alan Moore: “Nairoman” lo chiamano ancora anche in Colombia dove resta un’autentica superstar.

“Il più forte colombiano della storia”: tifosi, ma non solo, tutto sommato numeri alla mano non ci siamo andati troppo lontano. Passato professionista nel 2012, due anni dopo aver portato la Colombia, a distanza di 25 anni dall’ultimo successo, al primo posto del Tour de l’Avenir, fino al 2022 ha vinto 51 volte: che dite? mica male per uno scalatore? Certo, ma bisognerebbe forse sottolinearlo di più. Lui che semplice scalatore non è mai stato. Vincere un grande giro è roba per corridori completi: lui nelle corse a tappe ha sempre dimostrato di essere attento anche quando davanti si battagliava tra i ventagli o si attaccava in discesa. Al suo apice è stato capace anche di difendersi a cronometro. Fino al 2022, dicevamo, perché poi all’improvviso la sua storia ha una brusca frenata. Si torna nel campo della controversia quando al Tour del 2022 viene trovato positivo al tramadolo e quel suo sesto posto finale viene cancellato. Licenziato dalla squadra, ha subito un anno di stop forzato, un ban silente, si direbbe. Fra pochi mesi lo rivedremo in azione, di nuovo in maglia Movistar «principalmente per aiutare Mas nei Grandi Giri» afferma sempre Unzue. Lui intanto appare in forma, si è allenato come non mai, dice, e in un ciclismo sempre più fatto da giovinastri esplosivi, non dispiace rivedere di nuovo il suo nome al via, che giovinastro che marcava differenza in salita lo è stato e forse lo vuole essere ancora. Anche a voi è mancato?

Foto in evidenza: ASO/PAuline Ballet


Milan Vader: quando tutto è possibile

Non doveva nemmeno esserci eppure c’era. Nessuno voleva andare, tranne lui. Chi conosce le dinamiche del gruppo poi, lo sa: per finire a correre in Cina a fine stagione o hai una voglia matta di farlo, o la squadra ti manda in punizione, oppure servono punti da fare per il ranking UCI e allora via si vola a sgomitare tra gli sprint del Gree Tour Guangxi, Cina. Ovviamente esageriamo: non è sempre così. Anche perché è un posto pazzesco la Cina, come quasi tutti i posti del mondo, in realtà, come tutti quei luoghi talmente lontani dal centro del ciclismo da definirli esotici per chi abitualmente corre, segue, gira intorno al mondo di quelle ruote che vanno a velocità sempre più assurde. Poi in realtà, se ci pensate, qualsiasi posto è bello quando c’è una gara di ciclismo, ma questo è un altro discorso.

Non doveva esserci eppure c'è stato, Milan Vader. Nel momento in cui avrebbero dovuto prendere una decisione in Jumbo Visma - “che si fa, si va in Cina oppure no?” lui si è fatto avanti con la sua idea. Pare avessero preso inizialmente la domanda con una boutade, ma Vader faceva sul serio. Pare avesse studiato per bene la tappa numero quattro, l’unica che avrebbe interrotto la routine del finale convulso, quello preso per mano dal treno dei velocisti e dai folli sprinter; era quel tipo di arrivo che avrebbe poi disegnato la classifica finale. L’unico. Lui l’ha controllato, visto e rivisto, si è studiato la salita su veloviewer e ha notato da subito come facesse al caso proprio. Milan Vader, che arriva dalle ruote grasse e quindi biker per vocazione, presente a Tokyo nella prova olimpica di Cross Country dove la nazionale arancione puntava tutto su van der Poel, ma ricordiamo come andò. Vader dal canto suo non sfigurò per nulla, anzi, chiudendo in top ten. Su strada? Uno con mezzi interessanti quando la salita è breve e secca, esplosivo: pienamente a suo agio in un arrivo come quello di Nongla.

Non doveva andarci Milan Vader, in Cina, ma se andiamo a scavare più in fondo ha rischiato di non esserci più su una bicicletta, andando a smuovere ancora più a fondo nella storia, sappiamo come l’8 aprile del 2022 rischiò di morire. Giro dei Paesi Baschi, tappa numero 5. Vader è professionista da pochi mesi, ha preso le misure correndo la Volta Valenciana, chiudendo 13° nella terza tappa con arrivo in salita ad Antenas del Maigmo a 1’18’’ dal vincitore Vlasov, precedendo Geoghegan Hart, Soler, Ben Hermans, Nibali. Quel risultato resterà il migliore in stagione. 50° alla Strade Bianche pochi giorni prima, corsa che, per via del suo profilo - biker ed crossista - è fra quelle che più gli si addicono. Qualche settimana dopo: Giro dei paesi Baschi. Quinta tappa, profilo mosso, basco per l’appunto, si affronta una discesa dopo circa una sessantina di chilometri. C’è una curva, passa il gruppo. C’è una bici ferma contro il guardrail. Poi immagini che non vorremmo vedere. Il corridore è per terra in un campo al di là della carreggiata, accasciato a terra, prono. Viene trasportato d’urgenza in ospedale a Bilbao dove rimarrà per diverso tempo. Frattura della colonna vertebrale in undici parti, e come contorno, se vogliamo, anche della clavicola, della scapola, un polmone perforato, frattura anche all’orbita oculare e allo zigomo. ma soprattutto a causa dell’incidente: “Ha dovuto anche subire un intervento chirurgico d'urgenza alla carotide per inserire uno stent, per aumentare il flusso di sangue al cervello”. Dodici giorni di coma farmacologico, una lunga riabilitazione, ma a fine stagione torna in sella, e, come scrisse cycling weekly: il suo fu un autentico “risveglio della forza”, giocando su quel cognome che ricorda il cattivo dei cattivi nella saga di Guerre Stellari. Perse peso: da 63 a 52 chilogrammi: «inizialmente - racconta il corridore - facevo fatica anche a stare in piedi per più di 30 secondi, facevo fatica a mangiare e a fare colazione». Poi la riabilitazione e quel miracoloso rientro in gara alla CRO Race, appena 6 mesi dopo l’incidente. Avvicinandosi a quella corsa non sentiva lo stress, fino al giorno prima quando la sera, sistemando le scarpe e pensando a quello che sarebbe stato il giorno successivo: «un misto di sensazioni mi stavano attanagliando». Riuscirò a correre in gruppo? Come sarà questa nuova prima volta? Furono alcune delle domande che gli balenavano in testa. Andò bene: Vingegaard, suo compagno di squadra, vinse la classifica generale, lui diede il giusto supporto. Un anno dopo o poco più, Milan Vader scatta quando al traguardo di Nongla manca poco più di un chilometro. Approfitta di un momento di pace apparente in gruppo, scatta e va a cogliere il primo successo in carriera. Mezz’ora dopo, raccontano i presenti, è ancora totalmente incredulo di quello che gli è successo. «Dopo tutto quello che ho vissuto l'anno scorso con l'incidente e tutta l'insicurezza che ne è derivata, non sapevo nemmeno se avrei potuto correre di nuovo o anche solo salire su una bicicletta». Ma come gli ha detto qualcuno in quegli interminabili giorni in cui da una parte voleva riprendere a correre, dall’altra continuava a sentirsi stanco e chiedeva pietà facendosi domande: “Finché sei motivato, il corpo è capace di fare un sacco di cose pazze. Finché sei motivato: tutto è possibile."


Piccolo tramonto interiore

"...Da godersi in riva al lago con il calare del sole", cantavano, anzi, cantano ancora i Vintage Violence. Passato, imperfetto, oppure così presente e vivido il ricordo di una stagione appena terminata. Così in fretta, troppo in fretta. E non facciamo nemmeno in tempo a raccogliere i cocci, che un’altra sta per partire.

Ci rimane nel cuore uno strappo, è un magone. Una ferita che mai si potrà rimarginare. Negli occhi le lacrime, un nodo in gola che non va giù a pensare a quel giugno del 2023 e a Gino Mäder. Ogni volta che parliamo di ciclismo pensiamo a lui, inutile nasconderlo, ma mi fermo qui perché è difficile scriverne.

Ci rimangono negli occhi le grandi classiche e i grandi nomi. Persino le tante storture e ci scuserete se dimenticheremo qualcuno o qualcosa. Ci rimangono negli occhi anche quelle piccole cose. Intanto ci sono quelle piccole corse che si fregiano del nome “Classic” e sono alla loro prima edizione, qualcosa di buffo quando pensiamo alla Muscat Classic - Oman. Prima edizione della corsa, ma che è servita a capire chi è Franceso Busatto, 4° in volata alla sua prima con i professionisti, e che avrebbe poi sfornato una stagione eccellente. Su di lui tenderemo a riporre diverse speranze in un futuro che dal 2024 sarà già a tinte World Tour: non è un caso se è il primo corridore italiano che nominiamo qui, ora. Esplosivo, potente, resistente, ricorda per certi versi il Grillo Bettini e in tempi di magra ci faremmo andare bene anche solo un terzo di quello che fece il corridore toscano.

Ma parlavamo di grandi classiche: presa una per una una stagione dove vincono solo i grandi nomi è qualcosa che di rado accade e allora archiviamo il 2023 così: Strade Bianche (Pidcock), Milano Sanremo (van der Poel), Omloop Het Niewsblaad (van Baarle), Kuurne Bruxelles Kuurne (Benoot), E3 Harelbeke (van Aert), Gent-Wevelgem (Laporte), Giro delle Fiandre (Pogačar), Amstel (Pogačar), Freccia Vallone (Pogačar), Liegi (Pog… ah no, Evenepoel, una caduta a inizio gara ci toglie la possibilità di uno scontro frontale tra i due); e poi ancora, nella seconda metà di stagione: San Sebastian (Evenepoel), Mondiale (van der Poel), Plouay (Madouas), Quebec (De Lie), Montreal (A.Yates), Giro dell’Emilia (Roglič), Lombardia (Pogačar) e l’eccezione che ha chiuso la stagione: Riley Sheehan che l’otto ottobre conquista la Paris Tours correndo da stagista, da (quasi) perfetto sconosciuto ed è vero che ne abbiamo già parlato, ma è qualcosa da ripetere fino a memorizzare.

Da raccontare - lo abbiamo fatto, ma la citiamo - anche l’ultima tappa del Giro, la crono del Lussari, in contrapposizione a un Giro piuttosto bruttino e caratterizzato dal vento contro alle intenzioni di rendere la corsa più interessante e briosa rispetto a quel poco che si è visto, ma per fortuna di quel Giro restano anche i fuggitivi, le fughe e le loro vittorie conquistate o le imprese sfiorate: le storie di Healy e Gee, di Frigo e Pinot, i successi di Dainese, Zana e Milan che, in una stagione così così per il ciclismo italiano, restano fra i ricordi migliori della stagione.

Poi c'è Ganna, il miglior Ganna di sempre che fa brillare diverse cose appena le sfiora solo con lo spostamento dell'aria: podio alla Sanremo, top ten ad Harelbeke e alla Roubaix (sesto nella regina delle classiche), tappa alla Vuelta e alla Tirreno, campione italiano a cronometro, argento mondiale a cronometro, e due ori e un argento in pista tra mondiale ed europeo. 6 vittorie in stagione, miglior italiano nel ranking mondiale: annata da 10 (per la lode attendiamo ancora un po') o, come si direbbe, da incorniciare. A 27 anni è un punto di partenza per quello che potrà essere in un 2024 cruciale: classiche, Giro (parrebbe) e poi dritti verso Parigi a provare a riscrivere qualcosa di importante sul parquet di Saint Quentin en Yvelines, ma lo diciamo subito: non sarà facile. Danesi, inglesi, eccetera, spingono forte.

Osservando l’orizzonte e il sole del 2023 che cala e si tuffa direttamente nel lago vengono in mente la crisi di Tadej Pogačar a Courchevel, il suo team radio, “I’m gone, I’m dead”, l’azione di Mathieu van der Poel a Glasgow, la stagione di Mads Pedersen, tutta, l’inizio 2023 e poi la fine di quella di De Lie, due momenti caldi da cui ripartire per poi pensare nel 2024 di limare dove possibile e pensare a sfidare i più grandi nelle grandi corse. Confermarsi è la parte più difficile, si afferma, ma intanto: il Toro sono due anni che va forte e migliora e se c'è uno che sembra abbia tutto per consolidarsi e proprio lui.

Quello spicchio, ormai, di stella che brucia mentre colora di rosso l’orizzonte ci fa pensare alla Jumbo Visma che a tratti ha imbarazzato nel suo dominio - come non dimenticare quello che abbiamo visto alla Vuelta? I risultati di van Aert,  un corridore che non ci saremmo mai aspettati di commentare come un eterno piazzato: alla Roubaix poteva cambiare la sua stagione, mentre alla Gent-Welegem si è tirato addosso karma negativo. L’attesa in Belgio intorno a tutto quello che può fare Remco Evenepoel, le vittoria di Bilbao e Mohorič, piene di tante cose, le volate (im)perfette di Philipsen, le vicende di Miguel Angel Lopez, le cadute, le ferite. E altro che dimentichiamo, di cui abbiamo parlato e di cui ancora parleremo.

Il sole è scomparso, ora, mentre stiamo scrivendo. La stagione è finita. Il sole, nemmeno messa giù l’ultima parola, è già pronto ad alzarsi fra pochi mesi. Dall'altra parte del mondo, Australia per ricominciare.

Foto: Sprint Cycling Agency